Via libera alla decisione del Texas di ridisegnare la propria mappa elettorale,
nonostante le accuse di profilazione razziale. Disponibilità a considerare la
costituzionalità dell’ordine esecutivo di Donald Trump, che limita il diritto di
cittadinanza per nascita. Nel giro di poche ore, la Corte Suprema degli Stati
Uniti ha preso un paio di decisioni che confermano la decisa svolta
conservatrice di questi anni e il sostegno alle politiche di Trump, che ha
nominato tre dei nove giudici del massimo organo giudiziario americano. Di più:
la Corte pare ormai ribaltare uno dei principi che hanno guidato per decenni la
dottrina legale statunitense, lo stare decisis, il rispetto che, a meno di
clamorosi errori, le corti devono alle decisioni del passato.
I distretti elettorali in vista del midterm – Nel caso del Texas, la Corte
acconsente al ridisegno dei distretti elettorali votato dai repubblicani dello
Stato e all’utilizzo della nuova mappa sin dalle elezioni di midterm del 2026.
Il redistricting, in Texas come in altri Stati a maggioranza repubblicana, era
stato chiesto direttamente da Trump, che teme di perdere la maggioranza alla
Camera nel voto di medio termine. Il governatore del Texas Greg Abbott e i
legislatori G.O.P. avevano così approvato una legge che modifica i confini della
mappa elettorale, disperdendo il voto afroamericano e ispanico e consegnando ai
repubblicani la vittoria in cinque collegi ora controllati dai democratici. Era
subito scattata l’accusa di gerrymandering, di manipolazione dei confini dei
distretti in modo da favorire un partito, e di violazione del “Voting Rights
Act” del 1965, che proibisce la discriminazione razziale nei processi
elettorali. Accogliendo le accuse, una corte distrettuale di El Paso aveva
vietato l’utilizzo della nuova mappa.
Il caso è dunque arrivato alla Corte Suprema, che però sentenzia contro i
giudici di El Paso, che non avrebbero rispettato “la presunzione di buona fede
del legislatore […] intromettendosi nella campagna elettorale e causando molta
confusione”. Sostanzialmente, la maggioranza della Corte dice di “credere” ai
repubblicani dello Stato, che spiegano che la decisione di modificare la mappa
elettorale è motivata “dall’obiettivo di mantenere la maggioranza dei seggi
della Camera” e ha quindi “ragioni puramente politiche, non razziali”. Scrivono
i tre giudici più conservatori della Corte, Samuel Alito, Neil Gorsuch e
Clarence Thomas: la legge del Texas “è stata motivata da una pura e semplice
ragione di vantaggio di parte”. Non avendo le corti alcun diritto di
intromettersi nelle questioni politiche o di parte, ma solo in casi che
riguardano la violazione della Costituzione, la mappa elettorale può entrare
tranquillamente in vigore.
È una decisione sorprendente sotto molti punti di vista. Anzitutto, il
“vantaggio di parte” di cui i giudici conservatori parlano, è indubitabilmente
ottenuto indebolendo il voto delle minoranze. Basta dare un’occhiata a come
vengono ridisegnati i distretti elettorali di Houston – ad esempio il nono e il
ventinovesimo – che perdono la loro connotazione decisamente urbana, quindi a
maggioranza democratica, per allargarsi sino a comprendere aree rurali, dove il
voto bianco e repubblicano è maggioritario. Esiste poi un’altra considerazione
importante, che ha a che fare con lo stare decisis, quindi con le decisioni
delle Corti Supreme del passato. Ancora in una sentenza del 2004, la “Vieth v.
Jubelirer”, tutti i nove giudici della Corte si trovarono d’accordo sul fatto
che l’estremo gerrymandering, quindi l’intervento sui processi elettorali per
ragioni politiche, fosse incostituzionale. I giudici avevano opinioni diverse su
come limitare il gerrymandering e su quanto gerrymandering fosse comunque
inevitabile in democrazia. Su una cosa si mostravano però d’accordo. Usare il
controllo degli organi di governo per stravolgere la realtà del voto era
illegale. Ventun anni dopo, la maggioranza della Corte Suprema non ha invece
alcun problema a sostenere lo sforzo volto a mantenere il controllo repubblicano
della Camera, quindi del potere – anche se ciò comporta la manipolazione del
voto, quindi del principio basilare della democrazia.
L’ordine di Trump sulla cittadinanza all’esame della Corte – Significativa è
anche la decisione di considerare l’ordine esecutivo di Trump sulla
cittadinanza, firmato dal presidente il 20 gennaio, primo giorno della sua
amministrazione, secondo cui a chi nasce negli Stati Uniti da migranti illegali,
o che si trovano nel Paese solo temporaneamente, non può essere concessa la
cittadinanza. L’ordine di Trump aveva ribaltato l’interpretazione che per più di
125 anni è stata data del 14° Emendamento, che conferisce la cittadinanza a
chiunque nasca sul suolo americano, con l’eccezione dei figli di diplomatici e
di coloro che sono nati da una forza di occupazione straniera. L’amministrazione
ora sostiene che il 14° Emendamento fu adottato “per concedere la cittadinanza
agli schiavi appena liberati e ai loro figli, non […] ai figli degli stranieri
che si trovano illegalmente o temporaneamente negli Stati Uniti” come ha scritto
l’avvocato del governo D. John Sauer. Di opinione diametralmente opposta sono
decine di organizzazioni per i diritti civili e gli Stati a guida democratica,
che si sono rivolti in questi mesi ai tribunali di mezza America ottenendo una
serie di risonanti vittorie legali. Le corti inferiori, sulla base del testo del
14° Emendamento – “Tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e
sottoposte alla relativa giurisdizione sono cittadine degli Stati Uniti e dello
Stato in cui risiedono” – hanno riaffermato la cittadinanza per nascita e dato
torto all’amministrazione Trump. Il primo giudice a farlo, nominato da Ronald
Reagan, è stato John Coughenour, che a proposito della sua decisione a favore
della cittadinanza per nascita ha scritto: “Sono su questo scranno da oltre
quarant’anni. Non penso ci sia mai stata questione per me più chiara”. Ora il
caso arriva alla Corte Suprema e quella “chiarezza” potrebbe risultare meno
chiara. I giudici conservatori potrebbero infatti appellarsi a tre parole del
14° Emendamento, under the jurisdiction, per sostenere che i figli degli
illegali non sono soggetti alla “giurisdizione degli Stati Uniti”, ma a quella
dei Paesi di origine dei genitori, e quindi non hanno diritto alla cittadinanza.
La Corte ascolterà il caso in primavera ed emetterà la sentenza in estate.
C’è, ovviamente, molta attesa per quanto uscirà da questa Corte, che sta appunto
ribaltando una serie di precedenti che, per decenni, hanno governato la politica
e la società americane. La decisione di cancellare la Roe v. Wade, la decisione
del 1973 che legalizzava l’aborto, è il caso più clamoroso, ma sono innumerevoli
le sentenze che la Corte ha preso, che stravolgono la giurisdizione passata e
che sembrano giustificate solo ed esclusivamente dalle richieste dei
conservatori. Ne sono un esempio tutte le sentenze che in questi mesi hanno
allargato a dismisura i poteri del presidente Usa, rendendolo una sorta di
“sovrano” immune da ogni controllo e limite. I sei giudici conservatori della
Corte – cui non riescono a fare argine le tre “liberal”, Elena Kagan, Sonia
Sonia Sotomayor e Ketanji Brown Jackson – hanno spesso detto di ispirarsi alla
teoria dell’originalismo, che punta a interpretare la Costituzione sulla base
del suo “ragionevole significato originario”, quindi sulle intenzioni presunte
dei Padri Fondatori, e non come documento vivente che cambia con i tempi e il
cui significato deve essere aggiornato. È un’azione che sprofonda l’America in
un passato che viene assolutizzato, reso univoco e apparentemente eterno, e che
nei fatti sta dando mano libera alla svolta reazionaria impressa
dall’amministrazione Trump.
(nella foto: Trump insieme ai giudici della Corte Suprema)
L'articolo La Corte Suprema spinge sempre più a destra: via libera ai nuovi
distretti del Texas e all’ordine di Trump sulla cittadinanza proviene da Il
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