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Trump: “Vicini come non mai alla fine della guerra tra Russia e Ucraina”
“Siamo più vicini che mai” alla fine della guerra in Ucraina. Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, nello Studio Ovale alla Casa Bianca, dopo il nuovo round di trattative e dopo aver parlato con il suo omologo ucraino Volodymyr Zelensky e con una serie di leader europei. “Stiamo ricevendo un enorme sostegno dai leader europei. Vogliono che finisca”, ha detto Trump sottolineando che gli Usa hanno avuto numerose conversazioni con il presidente russo Vladimir Putin. “Dobbiamo mettere tutti sulla stessa pagina”, ha aggiunto il presidente americano ribadendo di voler mettere fine alle morti causate dalla guerra. L'articolo Trump: “Vicini come non mai alla fine della guerra tra Russia e Ucraina” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Attacchi cinetici Usa contro presunti narcos: colpite altre 3 barche nel Pacifico orientale, 8 morti
Atre otto persone sono morte nella guerra che gli Usa hanno dichiarato al narcotraffico. Il fatto è accaduto il 15 dicembre nell’Oceano Pacifico orientale, dove già a fine ottobre erano stati effettuati dei raid dal Pentagono. Stavolta l’operazione è stata condotta dalla Joint task force southern spear e diretta dal segretario del Dipartimento della guerra, Pete Hegseth. Degli attacchi cinetici hanno affondato tre imbarcazioni in acque internazionali, uccidendo otto presunti narcotrafficanti: tre sulla prima imbarcazione, due sulla seconda e altri tre sulla terza. “L’intelligence ha confermato che le imbarcazioni stavano transitando lungo note rotte del narcotraffico nel Pacifico orientale ed erano coinvolte in attività di narcotraffico”, scrive l’Us Southern Command sulla piattaforma social X. Giovedì Pete Hegseth, il segretario di Stato Marco Rubio e alti ufficiali dell’esercito sono attesi a Washington per un aggiornamento a porte chiuse ai membri del Congresso sulla campagna di questa amministrazione contro il traffico di stupefacenti dall’America Latina. Il presidente Donald Trump ha più volte giustificato e rivendicato politicamente queste operazioni militari contro i cartelli della droga, che da settembre hanno ucciso almeno 95 persone nei 25 attacchi noti al pubblico. Secondo alcuni avvocati ed esperti di diritto, gli attacchi ai presunti narcotrafficanti sono delle esecuzioni extragiudiziali illegali. A queste accuse, il portavoce del Pentagono Kingsley Wilson aveva risposto così: “Le nostre operazioni nella regione di Southcom (il Comando Sud dell’esercito statunitense, che ha come aree di competenza l’America centrale, il Sud America, i Caraibi e le acque adiacenti della regione, ndr) sono legali sia secondo il diritto statunitense che secondo quello internazionale e tutte le azioni sono conformi al diritto dei conflitti armati”. L'articolo Attacchi cinetici Usa contro presunti narcos: colpite altre 3 barche nel Pacifico orientale, 8 morti proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Dall’Australia alla Siria, l’Isis colpisce ancora. Trump: “Ci saranno gravi ritorsioni”
Le autorità australiane stanno rivelando altre notizie inquietanti sui due uomini, padre e figlio, responsabili della strage di Bondi Beach, a Sydney, in Australia, in cui sono rimasti uccisi 16 cittadini di religione ebraica mentre festeggiavano la ricorrenza di Hanukkah. Il 50enne, rimasto ucciso nell’attacco, Sajid Akram, era arrivato la prima volta in Australia nel 1998 con un visto studenti, mentre il figlio 24enne Naveed, ferito e ricoverato in ospedale, è cittadino australiano di nascita. Da quanto sta emergendo, i due erano simpatizzanti se non, addirittura affiliati all’Isis. Nel 2019 l’intelligence australiana aveva tenuto sotto controllo il più giovane per circa 6 mesi. Una circostanza confermata oggi dal premier Anthony Albanese che ha spiegato come “l’indagine venne chiusa perchè non vi erano indicazioni di una minaccia in corso o la minaccia di una sua azione violenta” pur precisando che le due persone con cui aveva questi contatti erano state in seguito arrestate. Secondo Abcnews, invece il ragazzo aveva allacciato veri e propri contatti con una cellula terroristica dello Stato Islamico con base a Sydney. Nell’auto dei due attentatori sono state trovate anche due bandiere dello Stato Islamico, hanno fatto sapere ai media fonti investigative convinte che padre e figlio avessero addirittura giurato la propria fedeltà all’Isis. Se i due Akram forse erano “solo” dei sostenitori di quella che fu l’organizzazione terroristica islamica fondata undici anni fa dal defunto Califfo Nero al-Baghdadi, che riuscì a conquistare un’enorme fetta di territorio tra l’Iraq e la Siria, all’Isis apparteneva l’attentatore che sabato ha teso un’imboscata fatale a due soldati americani e al loro interprete civile nel centro della Siria. L’inviato speciale degli Stati Uniti in Siria, Tom Barrack, ha dichiarato che l’agguato terroristico sottolinea la persistente minaccia dell’Isis per la Siria e per la stabilità del mondo intero, compresa la sicurezza del territorio nazionale degli Stati Uniti. La strategia statunitense si concentra sul sostegno ai partner siriani ma con un supporto operativo statunitense limitato visto che le truppe americane rimaste in Siria ormai ammontano solo a 900 unità. Barrack ha quindi sottolineato che i terroristi colpiscono perché sono sottoposti a continue pressioni da parte dei partner siriani, tra cui l’esercito siriano sotto il comando del presidente al-Sharaa (che fu a lungo un esponente della versione siriana di al Qaeda, rivale dell’Isis). A quanto pare però l’osmosi tra gli eserciti ricreatisi dopo i conflitti e i tagliagole dell’Isis prosegue: iniziata con la caduta di Saddam Hussein in Iraq prosegue oggi, anche se in misura inferiore, in Siria. Una fonte a conoscenza della sparatoria ha affermato che l’attentatore era stato affiliato alle forze di sicurezza siriane, ma che al momento non era in servizio. In un post su X, il Comando Centrale degli Stati Uniti ha descritto l’attentatore come un “un lupo solitario dell’Isis”, senza tuttavia menzionare il fatto che fosse probabilmente anche un soldato dell’esercito siriano del dopo caduta di Assad, avvenuta l’8 dicembre dello scorso anno con l’entrata Damasco di al Sharaa a capo della sua milizia jihadista. Sabato il presidente Trump si era rivolto ai social media per esprimere le proprie condoglianze per i soldati caduti e condannare l’attacco. “Il presidente della Siria, Ahmed al-Sharaa, è estremamente arrabbiato e turbato da questo attacco. Ci saranno ritorsioni molto gravi. Grazie per l’attenzione!”, ha scritto nel post. L'articolo Dall’Australia alla Siria, l’Isis colpisce ancora. Trump: “Ci saranno gravi ritorsioni” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Trump attacca il regista Rob Reiner dopo che è stato trovato morto: “È mancato a causa della rabbia che ha causato agli altri con la sua ossessione per me”
Trump sbarella sulla morte di Rob Reiner. In un post pubblicato su Truth, il presidente degli Stati Uniti ha come perso la bussola ed è sembrato come vendicarsi del cadavere ancora caldo del regista di Harry ti presento Sally e Misery non deve morire. “Una cosa molto triste è accaduta ieri sera a Hollywood”, inizia così il post del presidente. “Rob Reiner, un regista e comico tormentato e in difficoltà, ma un tempo di grande talento, è mancato insieme alla moglie Michele, a quanto pare a causa della rabbia che ha causato agli altri attraverso la sua grave, inflessibile e incurabile malattia, una malattia che debilita la mente nota come “Trump derangement syndrome”, a volte chiamata anche TDS”. Trump, o chi ne segue i social, continua: “Era noto (Reiner ndr) per aver fatto IMPAZZIRE la gente con la sua furiosa ossessione per il presidente Donald J. Trump, con la sua evidente paranoia che ha raggiunto nuove vette mentre l’amministrazione Trump superava ogni obiettivo e aspettativa di grandezza, e con l’età d’oro dell’America alle porte, forse come mai prima”. Dopo il delirio la chiosa affettuosa: “Che Rob e Michele riposino in pace!”. Nel recente passato Reiner era stato uno dei più accesi e feroci nemici di Trump, della sua candidatura e della sua elezione a presidente. Come riporta Newsweek, Reiner in un’intervista rilasciata al Guardian nel 2024 aveva definito Trump un “criminale che mente ogni minuto della sua vita”, una figura “mentalmente inadatta a ricoprire il ruolo di presidente” e in un altro passaggio aveva dichiarato che suo padre Carl, veterano della tv, morto nel 2020 a 98 anni, non “avrebbe mai creduto che Trump si sarebbe ripresentato come candidato presidente dopo il 2016 come fosse uno zombie o uno scarafaggio”. Recentemente, intervistato da Piers Morgan a poche ore dall’omicidio di Charlie Kirk, Reiner si era detto affranto dell’uccisione del giovane pensatore conservatore e aveva sostenuto di trovarsi di fronte “all’orrore” di un brutale omicidio: “Questo non dovrebbe mai accadere a nessuno. Non mi interessa quali siano le tue convinzioni politiche, non è accettabile e non è una soluzione”. Anche per questo il post di Trump su Truth sembra davvero qualcosa di una delirante macabra ironia. Proprio in queste ore, del resto, anche un grande sostenitore del presidente in carica, l’attore James Woods aveva scritto su X parole di affetto e rispetto per il povero Reiner: “Rob ed io siamo rimasti buoni amici fin da quando abbiamo girato I fantasmi del Mississippi. Lo studio non pensava che fossi abbastanza adatto per la parte, ma Rob si è battuto per me. Le divergenze politiche non hanno mai ostacolato il nostro amore e rispetto reciproco. Sono devastato da questo terribile evento”. Reiner e la moglie Michele Singer sono stati trovati morti sgozzati nella loro villa di Brentwood a Los Angeles da una delle loro figlie. Nelle ultime ore è stato arrestato uno dei quattro figli di Reiner, Nick, con l’accusa di aver ucciso i genitori. L'articolo Trump attacca il regista Rob Reiner dopo che è stato trovato morto: “È mancato a causa della rabbia che ha causato agli altri con la sua ossessione per me” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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On Ukraine, everyone’s trying to stay in Trump’s good books
Jamie Dettmer is opinion editor and a foreign affairs columnist at POLITICO Europe. Over the past few days, Ukraine has been hitting Russia back as hard as it can with long-range drone strikes, and it has three objectives in mind: lifting Ukrainian spirits as the country suffers blackouts from Russia’s relentless air attacks; demonstrating to Western allies that it has plenty of fight left; and, finally, cajoling Moscow into being serious about peace negotiations and offering concessions. However, the latter is likely to be a forlorn endeavor. And at any rate, amid the ongoing diplomatic chaos, which negotiations are they aiming for? U.S. President Donald Trump’s negotiators have been talking up the prospects of a peace deal — or at least being closer to one than at any time since Russia’s invasion began nearly four years ago. But few in either Kyiv or Europe’s other capitals are persuaded the Kremlin is negotiating in good faith and wants a peace deal that will stick. German Chancellor Friedrich Merz certainly doesn’t think so. Last week, he argued that Russian President Vladimir Putin is just spinning things out, “clearly playing for time.” Many Ukrainian politicians are also of a similar mind, including Yehor Cherniev, deputy chairman of the Committee on National Security, Defense and Intelligence of Ukraine’s Rada: “We see all the signals they’re preparing to continue the war, increasing arms production, intensifying their strikes on our energy infrastructure,” he told POLITICO.  “When it comes to the talks, I think the Russians are doing as much as they can to avoid irritating Donald Trump, so he won’t impose more sanctions on them,” he added. Indeed, according to fresh calculations by the German Institute for International and Security Affairs’ Janis Kluge, Russia has increased its military spending by another 30 percent year-on-year, reaching a record $149 billion in the first nine months of 2025. The war effort is now eating up about 44 percent of all Russian federal tax revenue — a record high. And as social programs are gutted to keep up, some Western optimists believe that Russia’s anemic growing economy and the staggering cost of war mean Putin soon won’t have any realistic option but to strike an agreement. But predictions of economic ruin forcing Putin’s hand have been made before. And arguably, Russia’s war economy abruptly unwinding may pose greater political and social risks to his regime than continuing his war of attrition, as Russian beneficiaries — including major business groups, security services and military combatants — would suffer a serious loss of income while seeking to adapt to a postwar economy. The war also has the added bonus of justifying domestic political repression. War isn’t only a means but an end in itself for Putin, and patriotism can be a helpful tool in undermining dissent. Nonetheless, the introduction of Trump’s son-in-law Jared Kushner as a key negotiator is significant — he is “Trump’s closer” after all, and his full engagement suggests Washington does think it can clinch a deal with one last heave. Earlier this month, U.S. Special Envoy Gen. Keith Kellogg had indicated a deal was “really close,” with a final resolution hanging on just two key issues: the future of the Donbas and the Zaporizhzhia nuclear power plant. The negotiations are in the “last 10 meters,” he said. But again, which negotiations? Those between Washington and Moscow? Or those between Washington and Kyiv and the leaders of Europe’s coalition of the willing? Either way, both have work to do if there is to be an end to the war. Putin has refused to negotiate with Kyiv and Europe directly, in effect dispatching Trump to wring out concessions from them. And no movement Trump’s negotiators secure seems to satisfy a Kremlin that’s adept at dangling the carrot — namely, a possible deal to burnish the U.S. president’s self-cherished reputation as a great dealmaker, getting him ever closer to that coveted Nobel Peace Prize. Of course, for Putin, it all has the added benefit of straining the Western alliance, exploiting the rifts between Washington and Europe and widening them. All the frenzied diplomacy underway now seems more about appeasing Trump and avoiding the blame for failed negotiations or for striking a deal that doesn’t stick — like the Minsk agreements. For example, longtime Putin opponent Mikhail Khodorkovsky’s New Eurasian Strategies Center believes the Russian president remains “convinced that Russia retains an advantage on the battlefield,” and therefore “sees no need to offer concessions.” “He prefers a combination of military action and diplomatic pressure — a tactic that, in the Kremlin’s view, the West is no longer able to resist. At the same time, any peace agreement that meets Russia’s conditions would set the stage for a renewed conflict. Ukraine’s ability to defend itself would be weakened as a result of the inevitable political crisis triggered by territorial concessions, and the transatlantic security system would be undermined. This would create an environment that is less predictable and more conducive to further Russian pressure,” they conclude. Indeed, the only deal that might satisfy Putin would be one that, in effect, represents Ukrainian capitulation — no NATO membership, a cap on the size of Ukraine’s postwar armed forces, the loss of all of the Donbas, recognition of Russia’s annexation of Crimea, and no binding security guarantees. But this isn’t a deal Ukrainian President Volodymyr Zelenskyy can ink — or if he did, it would throw Ukraine into existential political turmoil. “I don’t see the Parliament ever passing anything like that,” opposition lawmaker Oleksandra Ustinova told POLITICO. And if it did, “it might lead to a civil war” with many patriots who have fought, seeing it as a great betrayal, she added. “Everybody understands, and everybody supports Zelenskyy in doing what he’s doing in these negotiations because we understand if he gives up, we’re done for.” Not that she thinks he will. So, don’t expect any breakthroughs in the so-called peace talks this week. Putin will maintain his maximalist demands while sorrowfully suggesting a deal could be struck if only Zelenskyy would be realistic, while the Ukrainian leader and his European backers will do their best to counter. And they will all be performing to try and stay in Trump’s good books.  
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Mattarella contro gli attacchi di Trump: “Disordinata e ingiustificata aggressione all’Ue. La Russia vuole ridefinire in confini europei con la forza”
L’Ue resista ai tentativi di ingerenze internazionali, non ceda alla criminalizzazione del diritto internazionale e, allo stesso tempo, rimanga in guardia rispetto al tentativo russo di “ridefinire con la forza i confini in Europa”. Il lungo intervento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Conferenza degli ambasciatori alla Farnesina contiene un appello alla classe diplomatica italiana, quello di continuare nello sforzo del dialogo in un mondo che sta andando verso una sempre maggiore tensione internazionale, col rischio, ha aggiunto, di “un generale arretramento della civiltà”. Sotto accusa, seppur in maniera implicita, sono le strategie messe in campo dal presidente americano, Donald Trump, che sul dossier ucraino, e non solo, sta continuando a prendere di mira l’Unione europea, arrivando a prevederne la disgregazione nel caso in cui non “torni alla salvaguardia dei valori tradizionali” e a una maggiore “libertà di stampa”. Parole che le istituzioni di Bruxelles hanno già bollato come ingerenza. Adesso anche il capo dello Stato le condanna: “Appare a dir poco singolare che, mentre si affacciano in ambito internazionale esperienze dirette a unire Stati e a coordinarne le aspirazioni e le attività, si assista a una disordinata e ingiustificata aggressione nei confronti della Unione europea, alterando la verità e presentandola anziché come una delle esperienze storiche di successo per la democrazia e i diritti dei popoli, sviluppatasi anche con la condivisione e l’apprezzamento dell’intero Occidente, come una organizzazione oppressiva se non addirittura nemica della libertà”. Articolo in aggiornamento L'articolo Mattarella contro gli attacchi di Trump: “Disordinata e ingiustificata aggressione all’Ue. La Russia vuole ridefinire in confini europei con la forza” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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For most of the world, the U.S. is now a malign actor
Laura Thornton is the senior director for democracy programs at the McCain Institute. She spent more than two decades in Asia and the former Soviet Union with the National Democratic Institute. Earlier this month, I spoke at a conference in Bucharest for Eastern Europe’s democracy activists and leaders. I was discussing foreign malign influence operations, particularly around elections, highlighting Russia’s hybrid war in Moldova, when a Hungarian participant pointed out that U.S. President Donald Trump had offered Hungary’s illiberal strongman Viktor Orbán a one-year reprieve for complying with U.S. sanctions for using Russian oil and gas. With Hungarian elections around the corner and this respite being a direct relief to Orbán’s economy, “Is that not election interference?” she asked. The next day, while at the Moldova Security Forum in Chișinău, a Polish government official expressed his deep concern about sharing intelligence with the current U.S. administration. While he had great respect for the embassy in Warsaw, he noted a lack of trust in some leaders in Washington and his worry that intelligence would get leaked, in the worst case to Russia — as had happened during Trump’s first term. My week came to an end at a two-day workshop for democracy activists, all who described the catastrophic impact that the U.S. Agency for International Development’s (USAID) elimination had on their work, whether that be protecting free and fair elections, combating disinformation campaigns or supporting independent media. “It’s not just about the money. It’s the loss of the U.S. as a democratic partner,” said one Georgian participant. Others then described how this withdrawal had been an extraordinary gift to Russia, China and other autocratic regimes, becoming a main focus of their disinformation campaigns. According to one Moldovan participant, “The U.S. has abandoned Moldova” was now a common Russian narrative, while Chinese messaging in the global south was also capitalizing on the end of USAID to paint Washington as an unreliable ally. Having spent a good deal of my career tracking malign foreign actors who undermine democracy around the world and coming up with strategies to defend against them, this was a rude reality check. I had to ask myself: “Wait, are we the bad guys?” It would be naive to suggest that the U.S. has always been a good faith actor, defending global democracy throughout its history. After all, America has meddled in many countries’ internal struggles, supporting leaders who didn’t have their people’s well-being or freedom in mind. But while it has fallen short in the past, there was always broad bipartisan agreement over what the U.S. should be: a reliable ally; a country that supports those less fortunate, stands up against tyranny worldwide and is a beacon of freedom for human rights defenders. America’s values and interests were viewed as intertwined — particularly the belief that a world with more free and open democracies would benefit the U.S. As the late Senator John McCain famously said: “Our interests are our values, and our values are our interests.” At the Moldova Security Forum in Chișinău, a Polish government official expressed his deep concern about sharing intelligence with the current U.S. administration. | Artur Widak/Getty Images I have proudly seen this born out in my work. I’ve lived in several countries that have had little to offer the U.S. with regards to trade, extractive industries or influence, and yet we supported their health, education and agriculture programs. We also stood up for defenders of democracy and freedom fighters around the world, with little material benefit to ourselves. I’ve worked with hundreds of foreign aid and NGO workers in my life, and I can say not one of them was in it for a “good trade deal” or to colonize resources. But today’s U.S. foreign policy has broken from this approach. It has abandoned the post-World War II consensus on allies and the value of defending freedom, instead revolving around transactions and deal-making, wielding tariffs to punish or reward, and defining allies based on financial benefit rather than shared democratic values. There are new ideological connections taking place as well — they’re just not the democratic alliances of the past. At the Munich Security Forum earlier this year, U.S. Vice President JD Vance chose to meet with the far-right Alternative for Germany party rather than then-Chancellor Olaf Scholz. The Conservative Political Action Committee has also served as a transatlantic bridge to connect far-right movements in Europe to those in the U.S., providing a platform to strongmen like Orbán. The recently released U.S. National Security Strategy explicitly embraces this pivot away from values toward more transactional alliances, as well as a fondness for “patriotic European parties” and a call to “resist” the region’s “current trajectory” — a clear reference to the illiberal, far-right movements in Europe. Meanwhile, according to Harvard University’s school of public health, USAID’s closure has tragically caused hundreds of thousands of deaths, while simultaneously kneecapping the work of those fighting for freedom, human rights and democracy. And according to Moldovan organizations I’ve spoken with, while the EU and others continue to assist them in their fight against Russia’s hybrid attacks ahead of this year’s September elections, the American withdrawal is de facto helping the Kremlin’s efforts. It should have come as no surprise to me that our partners are worried and wondering whose side the U.S. is really on. But I also believe that while a country’s foreign policy often reflects the priorities and values of that nation as a whole, Americans can still find a way to shift this perception. Alliances aren’t only built nation-to-nation — they can take place at the subnational level, creating bonds between democratic cities or states in the U.S. with like-minded local governments elsewhere. Just like Budapest doesn’t reflect its anti-democratic national leadership, we can find connections and share lessons learned. Moreover, partnerships can be forged at the civil society level too. Many American democracy and civic organizations, journalists and foundations firmly believe in a pro-democracy U.S. foreign policy, and they want to build communities with democratic actors globally. At a meeting in Prague last month, a former German government official banged their hand on the table, emphatically stating: “The transatlantic relationship is dead!” And I get it. I understand that the democratic world may well be tempted to cut the U.S. off as an ally and partner. But to them I’d like to say that it’s not our democracy organizations, funding organizations and broader government that abandoned them when national leadership changed. Relationships can take on many shapes, layers and connections, and on both sides of the Atlantic, those in support of democracy must now find new creative avenues of cooperation and support. I hope our friends don’t give up on us so easily.
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L’Europa vassalla degli Usa ora non sa cosa fare: la tragedia non è il disprezzo di Trump, ma l’incapacità d’azione
Il nuovo documento di Strategia di Sicurezza Nazionale di Donald Trump non è una semplice critica all’Europa. È la prova tangibile di una verità geopolitica fondamentale: quando si è vassalli di una superpotenza, in questo esempio gli Usa, quando cambia il vento a Washington deve cambiare tutto anche da noi. Ma questa volta, il cambiamento non è una semplice sterzata di politica estera. È un terremoto epocale, una trasformazione a 360 gradi che lascia l’Europa, abituata a ricevere ordini, nella posizione tragicomica di non sapere cosa fare quando l’ordine è: “Pensate con la vostra testa.” Il disorientamento europeo, oggi palese, è la diretta conseguenza di un fallimento strategico di proporzioni storiche. Come è stato notato, l’Europa, Italia in prima fila, “ha fallito puntando sulla scommessa militare della vittoria dell’Ucraina sulla Russia a colpi di invii di armi e di spese militari”. Abbiamo confuso la solidarietà con una strategia, trasformando il sostegno a Kiev in una gigantesca scommessa bellica senza via d’uscita, svuotando arsenali e bilanci senza un piano politico. In questo quadro, la dichiarazione di Giuseppe Conte – “lasciamo che a condurre il negoziato siano gli Stati Uniti” – assume un significato rivelatore. Non è solo un’ammissione di fallimento strategico europeo; è un atto di resa politica. Conte, nel constatare il disorientamento europeo, non propone un risveglio della sovranità continentale, ma si schiera di fatto dalla parte dell’America trumpiana. La sua posizione certifica che, per ampi settori della politica europea, l’unica alternativa al fallimento dell’atlantismo interventista di stampo Biden non è l’autonomia, ma un diverso tipo di vassallaggio: quello realista e isolazionista di Trump. È la logica del vassallo che, tradito dal proprio signore in una guerra, si affretta a giurare fedeltà al signore rivale, pur di non dover reggere da solo il peso della propria difesa. La diagnosi di Conte sul vicolo cieco europeo resta perfetta: “L’Europa è completamente disorientata, avevano solo una linea, la vittoria militare sulla Russia, hanno scommesso su questo e adesso non hanno nessuna alternativa.” È questo il cuore della crisi. Per tre anni, Bruxelles e le capitali europee hanno rinunciato a qualsiasi pensiero strategico autonomo, affidandosi alla narrazione semplicistica di una vittoria militare come unica opzione. Hanno dato carta bianca a una logica di escalation, senza mai porsi la domanda fondamentale: e se non vincessimo? Ora, con Trump alla Casa Bianca che smantella quella stessa strategia, l’Europa si ritrova come un pilota che ha bruciato tutto il carburante seguendo le indicazioni di una torre di controllo che ora gli dice: “Trovati un altro aeroporto, noi chiudiamo.” Il governo italiano, come molti suoi omologhi, è emblematico di questo cortocircuito: dopo aver puntato tutto su un cavallo, ora attende passivamente di vedere su quale podio salire, pur di non ammettere la sconfitta della propria visione. La reazione dell’establishment atlantista alle critiche è stata istruttiva. Invece di un esame di coscienza, abbiamo assistito a una recita difensiva che bolla come “inaccettabili e irresponsabili” le affermazioni che mettono in discussione la strategia militare, ribadendo il mantra che “non si tratta di una scommessa… ma di sostenere la resistenza”. Peccato che sia proprio questa distinzione semantica a essere crollata sotto il peso dei fatti. Sostenere la resistenza, senza un obiettivo politico chiaro e realistico, diventa una scommessa. Una scommessa costosissima, pagata con risorse sottratte alle vere emergenze nazionali: il crollo della produzione industriale, gli stipendi erosi, le tasse in aumento, le liste d’attesa sanitarie, l’insicurezza delle strade. La proposta di risposta – più integrazione europea, più difesa comune – suona come la richiesta di avere più dosi della stessa medicina che ci ha portato allo stallo attuale. È l’illusione che il problema sia la quantità di Europa, non la sua qualità strategica. Il vero “cortocircuito” è quello di chi vede la debolezza europea e propone come soluzione di cedere ancora più sovranità a un’entità che ha appena dimostrato un fallimento strategico monumentale. Le dichiarazioni di Trump e le reazioni scomposte rivelano uno spartiacque. Da una parte c’è chi riconosce l’impossibilità di una vittoria militare e invoca una posizione europea “più negoziale” e un’autonomia reale. Dall’altra, c’è chi rimane aggrappato al dogma interventista, anche di fronte all’evidenza del suo fallimento e al tradimento del proprio protettore d’oltreoceano. Trump ha lanciato una sfida letale all’Europa: indebolirla economicamente e umiliarla politicamente, mentre le intima di diventare autonoma. La trasformazione è a 360 gradi perché smaschera tutte le ipocrisie su cui si è retta l’alleanza atlantista post-1989: l’Europa non è un alleato alla pari, ma un vassallo; la sua sicurezza non è un interesse vitale americano, ma un costo da ridurre. L’Europa non sa come gestire questa trasformazione perché per decenni ha disimparato a pensare in termini di interessi nazionali e realpolitik. Ha scambiato l’obbedienza per strategia. La data del 2027 fissata dal Pentagono per la nostra “autonomia” suona ora come una condanna. Siamo come vassalli a cui il signore feudale, dopo averli impoveriti con tasse per una guerra inutile, restituisce un feudo devastato dicendo: “Ora arrangiatevi.” La tragedia non è il disprezzo di Trump, ma la nostra incapacità di raccogliere la sfida. Dobbiamo scegliere: continuare a essere vassalli di un impero che ci disprezza, o diventare finalmente architetti del nostro destino, cominciando dal riconoscere che la pace in Ucraina non è una sconfitta, ma l’unico interesse razionale per un continente che ha smarrito la bussola e sta bruciando le proprie risorse in una scommessa già persa. L'articolo L’Europa vassalla degli Usa ora non sa cosa fare: la tragedia non è il disprezzo di Trump, ma l’incapacità d’azione proviene da Il Fatto Quotidiano.
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