Quando Alessandro ha lasciato l’Italia, nel 2013, lo ha fatto per due ragioni:
la necessità economica, in primis, e il desiderio di vivere una vita diversa, in
cui “poter esprimermi e fare qualcosa di bello”. Dopo i primi mesi in
Inghilterra, arriva la decisione di partire per gli Stati Uniti, dove viene
pagato per studiare (“piuttosto incredibile”), impara l’inglese, ottiene un
dottorato e diventa insegnante. “In Italia si tende a pensare che il lavoro sia
una via crucis giornaliera da sopportare fino alla pensione. Qui ho un impiego
entusiasmante. E sto bene”.
Nato a Galatina, in Salento, orgogliosamente meridionale, Alessandro Martina, 44
anni, si è trasferito a Bologna quando ne aveva 14. Frequenta il liceo, si
laurea in Filosofia e ottiene una certificazione come insegnante di lingua
italiana all’Università per Stranieri di Siena. Eppure, ricorda, “non trovavo un
lavoro che non fosse nella ristorazione o nei supermercati”. Dai 30 ai 33 anni,
l’unico lavoro stabile per Alessandro è in un McDonald’s a San Lazzaro, Bologna.
“Facevo lezioni private la mattina e andavo a lavorare il pomeriggio o la sera.
Lo stipendio non mi permetteva neppure di affittare un monolocale, dovevo
condividere la casa con giovani matricole”, racconta nella sua intervista al
fatto.it. Da questa situazione e con questo stato d’animo matura la decisione di
partire, cambiare aria, provare una possibilità all’estero. “Famiglia e amici
credo non abbiano capito la mia scelta”.
Il giorno di partire Alessandro prova un misto di inquietudine e speranza. Dopo
un primo periodo in Inghilterra, a Manchester, prende un volo per New York e si
stabilisce a Morgantown, nella Virginia occidentale. Gli Stati Uniti sono una
terra ancora da esplorare: per molti versi l’idea romantica del sogno americano,
spiega Alessandro, rimane viva in lui. La diversità culturale e geografica, la
capacità di aprirsi e dare opportunità è “incredibile”, aggiunge. In Italia,
ricorda, ha provato ad ottenere un prestito in banca per aprire una libreria:
dopo mille fideiussioni era risultato impossibile accedere al credito. Ecco, in
America è “l’esatto opposto”.
D’altronde, molti tra parenti e amici si staranno ancora chiedendo perché uno
come lui non si sia adattato, accettando un lavoro non soddisfacente, rimanendo
precario per dieci anni nella scuola, aspettando un posto fisso che prima o poi
arriverà. Oggi, al contrario, l’audacia di Alessandro, i sacrifici, le borse di
studio messe a disposizione dagli atenei Usa e il dottorato conseguito, lo hanno
portato a diventare insegnante di italiano all’Università dell’Alabama.
Insomma, negli Stati Uniti investire su se stessi è possibile e auspicabile. “Si
dice che si lavora tanto in negli Usa?” “Sciocchezze”, risponde lui. “In Italia
si lavorano sette o otto ore con l’ansia e la frenesia di finire il proprio
turno e fuggire verso casa. Si è completamente nevrotici riguardo al lavoro.
Negli Stati Uniti che conosco io, si mangia una buona colazione e si va al
lavoro contenti di incontrare i propri colleghi, ci si prende alcune pause
durante il giorno perché le aziende vogliono che ci sia un buon clima. È alla
base del loro successo”.
Più che gli affetti, che non mancano davvero (“forse sono io ad essere un po’
strano”), ad Alessandro manca il suo mare (Santa Maria al Bagno, Santa Caterina,
Otranto), così come la terra rossa, gli ulivi. Per uno come lui, riflessivo, che
rimugina continuamente come il Dedalus di Joyce, può arrivare addirittura il
pentimento per “aver lasciato la mia prima fidanzatina delle medie”, sorride. Ma
pentirsi di essere andato via, quello mai. “Fossi rimasto in Italia – risponde
sinceramente – non so cosa avrei fatto”.
Il discorso vira poi su una questione molto spinosa. All’estero Alessandro ha
capito che “i meridionali in Italia sono fortemente discriminati e che esiste
una questione meridionale irrisolta”. La rappresentazione dei meridionali nei
media e nella cultura è, continua, “incredibilmente discriminatoria”. “In Italia
– aggiunge – mi vergognavo del Sud, della nostra mancanza di infrastrutture e
della mafia. Qui ho visto gli italoamericani del Sud e ne sono stato orgoglioso:
ricchi, intelligenti, di successo. Come mai, mi chiedevo, questi meridionali
riescono, come comunità e non solo come individui, ad avere successo?”
In Italia Alessandro confessa di aver trovato “discriminazione” a Nord verso i
meridionali. “Quando ero ragazzo, trasferito a Bologna per fare il liceo
classico al seguito di mia madre, non capivo perché il mio accento e la mia
cultura fossero da ridicolizzare, mentre l’accento di un torinese o di un veneto
e la loro cultura fossero comunque rispettabili. Sono cose che influenzano
fortemente la tua vita”, chiarisce. “Nessuno mi ha spiegato che la questione
fosse non culturale, ma storica e politica. Gramsci l’aveva capito”.
Al di là delle questioni economiche, tornare in Italia oggi probabilmente
provocherebbe un disagio linguistico e culturale. Se negli Usa Alessandro ha una
lingua e una cultura riconosciuta, seppur di transizione, “chi sono io – si
chiede – nell’Italia del Nord con la mia lingua e cultura italiana?”. Stesso
discorso se dovesse tornare a vivere al Sud, dove sarebbe solo memoria, non
riuscirebbe, a detta sua, ad integrarsi. D’altronde, sono passati più di 30
anni: “Sarei un animale quasi esotico – conclude –. Se mai ci tornassi sarebbe
per provare a spiegare la diaspora e la Questione meridionale. Ma, questa, è
un’altra storia”.
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L'articolo “Negli Usa sono un insegnante felice. In Italia il lavoro è una via
crucis da sopportare fino alla pensione” proviene da Il Fatto Quotidiano.