Fuga dall’Italia. Sono 630mila i giovani tra i 18 e i 34 anni che hanno lasciato
il nostro Paese tra il 2011 e il 2024. Se si restringe il periodo di riferimento
solo al 2024, si contano 78mila partenze. A raccontarlo è il Rapporto Cnel 2025
“L’attrattività dell’Italia per i giovani dei Paesi avanzati”, presentato oggi a
Villa Lubin, a Roma, dal presidente del Cnel, Renato Brunetta, e curato da
Valentina Ferraris e Luca Paolazzi (Ref).
Il rapporto mette il relazione le variabili socio demografiche con il valore
economico del capitale umano della fascia under 35. Seguendo questa logica, la
ricerca stabiliscono che il valore del capitale umano espatriato dal 2011 al
2024 ammonta a circa 159 miliardi di euro. Una stima in cui rientrano gli
ostacoli alle pari opportunità, così come le disuguaglianze sociali nel nostro
Paese. Innanzitutto, di genere: la quota femminile delle persone espatriate nel
2024 è il 48,1%, in aumento rispetto al 46,6% medio dell’intero periodo.
Le destinazioni dei giovani emigranti sono soprattutto altre nazioni europee.
Prima destinazione dei giovani italiani è il Regno Unito, con una quota pari al
26,5%. La seconda è la Germania e a seguire Svizzera, Francia e Spagna. E chi
viene in Italia invece? Pochissime persone, soltanto l’1,9% di chi arriva
dall’estero. Come destinazione, il nostro Paese è preceduto da Danimarca e
Svezia, che sono però molto più piccole per popolazione ed economia.
Alti anche i dati della migrazione interna: nel periodo 2011-24 si sono
trasferiti dal Mezzogiorno al Centro-Nord, al netto di quelli che sono arrivati,
484mila giovani italiani. 240mila sono andati nel Nord-Ovest dal resto d’Italia,
163mila nel Nord-Est e 80mila nel Centro. Il deflusso record è quello della
Campania, pari a 158mila, poi Sicilia con 116mila e Puglia con 103mila.
L’afflusso più alto è stato in Lombardia, con 192mila, seguito
dall’Emilia-Romagna (106mila) e Piemonte (41mila).
Il giovane capitale umano trasferito nel 2011-24 dal Mezzogiorno al Nord
corrisponde a un valore di 147 miliardi di euro, di cui 79 miliardi relativo al
trasferimento dei giovani laureati, 55 a quello dei diplomati e 14 a quello dei
non diplomati. La Lombardia è la regione che ha ricevuto più capitale umano
giovane dai movimenti interni, pari a 76 miliardi, seguita dall’Emilia-Romagna
con 41 miliardi, dal Lazio con 17 e dal Piemonte con 15. La Campania è la
regione che ha perso più capitale umano giovane dai movimenti interni: 59
miliardi. Poi viene la Sicilia con 44 miliardi, la Puglia con 40 e la Calabria
con 24.
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2011 al 2024 proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“L’Italia è il paese più bello del mondo. L’obiettivo di ritornare c’è, ma credo
che all’inizio della carriera sia più facile crescere all’estero”. Eugenio
Serafino ha lasciato Roma subito dopo il diploma per andare a studiare al
Politecnico di Milano, ma finita la triennale il suo sguardo si è spostato più
su, fino all’università di Losanna. Prima la magistrale, poi il lavoro a Zurigo,
e in fondo al cuore il sogno di tornare in patria una volta cresciuto ancora un
po’.
“Durante la triennale in ingegneria gestionale ho fatto uno stage in una piccola
azienda. Non è stato un brutto periodo, non era retribuito ma ho imparato molto.
Però la sensazione era che una volta finiti gli studi in Italia avrei dovuto
lottare per trovare un mio posto”, quasi non potesse esistere un percorso
lineare tra la fine degli studi e la ricerca del lavoro. Un’esperienza che,
unita alla voglia di provare ad arricchire le sue competenze, lo ha portato a
cercare un’università straniera dove proseguire con la magistrale, nonostante la
prima scelta fosse sempre stata quella di rimanere in Italia. “Volevo vedere,
esplorare qualcosa di nuovo. Le mie tre opzioni erano Inghilterra, Olanda e
Svizzera, paesi con ottimi politecnici. Alla fine ho scelto la Svizzera, anche
per una questione di vicinanza”. In effetti Losanna-Milano è una distanza
addirittura inferiore a quella che c’è tra Milano e Roma, la città natale di
Eugenio. Ma quello che ha trovato una volta varcato il confine è stato un mondo
universitario con caratteri molto differenti.
“Se sulla mole di studio siamo più o meno sui livelli italiani – spiega Eugenio
– la differenza più significativa riguarda la parte pratica. Ti buttano, ti
fanno fare esperienze in azienda e progetti tecnici con le aziende stesse”, un
sistema che parte dall’alto, da uno Stato che investe nelle università e nelle
possibilità di far ricerca al loro interno. “Ci sono risorse economiche per fare
ricerca, disponibili sia per i dottorandi che per gli studenti magistrali. A
questo però, rispetto all’esperienza italiana, si affianca una minore formazione
tecnica”, commenta mettendo a confronto i due Paesi, quasi mancasse il
bilanciamento giusto tra competenze acquisite in aula e opportunità di portarle
fuori prima della laurea.
Ciò che però distingue l’esperienza italiana da quella svizzera è il modo in cui
viene visto il lavoro dei giovani. “Da una parte c’è un grande aiuto per
l’imprenditoria, è facile ricevere finanziamenti tra i 10 e i 25mila franchi per
avviare una start up”, spiega Eugenio ripercorrendo la sua esperienza,
“dall’altra un eventuale fallimento iniziale non è una nota negativa sul
curriculum. Aver avuto un progetto imprenditoriale andato male non è indice di
fallimento, anzi. Meglio averci provato che esser stati fermi”, una mentalità
diversa rispetto alla necessità di far bene tutto al primo colpo, più tipica del
pensiero italiano.
Segno di un sistema, quello svizzero, in cui per i giovani diviene più facile
fare il salto dal mondo dello studio a quello del lavoro. “Se in Italia il
tirocinio è stata un’opportunità, in Svizzera si trattava di un obbligo, tanto
che non puoi laurearti senza averlo fatto. E c’è un semestre dedicato
esclusivamente a tesi e tirocinio”, senza l’aggiunta di esami o lezioni. La
conseguenza è che si arriva al mondo del lavoro con una formazione pratica, a
cui si aggiunge un sistema di leggi volto a stabilizzare i ragazzi quanto prima.
“In Svizzera è difficile che un contratto a tempo determinato superi l’anno,
perché si cerca di tutelare quanto più possibile i neoassunti e i giovani che si
affacciano al mondo del lavoro”. E lo stesso sembra valere per gli stage,
occasioni create per chi ancora deve ultimare gli studi. “Io adesso farei fatica
a trovare uno stage” spiega ancora Eugenio, “e non perché non ci sia offerta ma
perché ho una laurea. Finiti gli studi è molto più facile trovare un lavoro a
tempo indeterminato”.
Eppure per Eugenio l’esperienza italiana non è stata un errore. “Penso che il
nostro sia un sistema che funziona”, rimarca più volte, sottolineando come sia
stata la formazione ricevuta durante la triennale a Milano ad avergli permesso
di accedere alla magistrale in Svizzera. “Quella che ho frequentato dopo è
un’università che prende i cosiddetti top talents, e tra loro ci sono molti
italiani, alcuni in grado poi di distinguersi come migliori studenti a fine
corso”. Una preparazione universitaria solida a cui però manca un ponte vero e
proprio con la vita lavorativa. “Adesso le cose stanno iniziando a cambiare,
grazie agli stage e ai career service, ma per iniziare una carriera guardare
all’estero sembra più facile”. Come se ci fosse un muro tra la fine degli studi
e un lavoro stabile, un muro aggirabile solo lasciando l’Italia per un po’ e poi
tornando quando si è approdati con esperienza dall’altro lato.
L'articolo Ingegnere gestionale in Svizzera. “In Svizzera non offrono stage ai
laureati, ma contratti stabili” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quando inizi a correre senza averlo mai fatto prima la sensazione è che il fiato
si spezzi. I polmoni ti abbandonano, la bocca si spalanca in uno spasimo che
asciuga le fauci, il sudore imperlina la fronte. All’inizio è così, solo
all’inizio. Poi c’è chi desiste e c’è chi prosegue. Chi non smette, giorno dopo
giorno impara a respirare e smette di soffrire. Damiano Lupi ha deciso di
resistere ed è partito. Secondo lui, emigrare e correre hanno in comune una
postura esistenziale: a Londra, dove abita da più di dieci anni e “sembra che
tutti corrano”, la definirebbero “embrace the pain”. Abbraccia il dolore e
migliorerai.
La prima corsa Damiano la fa da Roma a Leeds, mentre è iscritto a Matematica
alla Sapienza, per l’Erasmus. È una 400 metri: pochi mesi, velocità di
esecuzione, un giro completo della pista. Al suo ritorno prosegue gli studi, ma
ora sa che il suo futuro è in Inghilterra. All’Università di Warwick, a
Coventry, ci arriva che ha già imparato la resistenza: ritmo moderato, grandi
percorrenze, routine ferrea. È il suo dottorato: quattro anni dopo è pronto a
entrare nel mondo della finanza.
Londra va veloce e spesso lascia indietro. Damiano ci arriva per caso e per caso
trova il suo primo lavoro. È il momento della staffetta: la programmazione
prestata ai portafogli di banche di investimento e hedge funds. Poi c’è il boom
del data science, il testimone del codice passa all’antiriciclaggio e alla fraud
detection. Ancora oggi il suo principale impegno riguarda l’individuazione di
frodi finanziarie, soprattutto a bassa latenza, in tempo reale. Attualmente
lavora per un operatore leader nelle carte di credito, dove svolge la stessa
mansione, ma sui pagamenti da banca a banca.
Il segreto è la tenuta: gestire l’energia, affrontare la fatica, accettare il
ritmo imposto dalla città. Intorno a lui, atleti visibili e invisibili: colleghi
di ogni luogo, allenati a cercare il senso della vita nella disciplina: “Qui –
racconta – corrono tutti. È una forma di meditazione collettiva. Si sceglie un
obiettivo, ci si allena, si soffre, non ci si lamenta”. È questa la lezione
inglese che Damiano ha imparato: la serenità nello sforzo. Un’idea di felicità
che passa dalla consapevolezza dei propri limiti, non dalla loro negazione.
Il suo quartiere, Greenwich, è un insieme di vie in cui le famiglie si
somigliano: coppie di expat, lingue diverse che si incontrano, bambini che
crescono poliglotti, pendolari che prendono lo stesso treno verso il centro. A
casa, l’allenamento continua. La moglie, anche lei professionista nella finanza,
un figlio piccolo che parla tre lingue, una seconda bimba in arrivo: “Siamo
entrambi expat, quindi nessuno dei due è a casa, e forse per questo stiamo
bene”. Come se l’estraneità condivisa fosse un senso di appartenenza: “Mia
moglie è turca, io sono italiano, essere entrambi altrove ci permette di essere
entrambi a casa: la nostra”.
Damiano del resto è sempre “più inglese”. Lo racconta ridendo, e mentre ride un
po’ di accento romano riaffiora. Ricostruire la propria identità è la corsa
ostacoli che non finisce mai: lo scatto di entusiasmo, il salto fuori dalla
propria comfort zone, la depressione del rettilineo, la felicità alla prima
svolta, la malinconia di non avere prospettive di rientro. Formare una famiglia
a Londra ha contribuito a fargli sentire la città come la sua vera “casa”, ma la
prima non si dimentica: “Non so dire come sarebbe vivere in Italia da adulto, i
miei ricordi sono adolescenziali, e forse per questo condizionati. Ciò che mi
manca di più sono le persone della mia vecchia vita”.
Lupi non ha intenzione di rientrare in Italia: “L’ho realizzato dopo un po’. Ho
pensato: ‘Ah, ok, ma adesso sto qui, lavoro qui, che faccio? Non ho più
prospettive di rientrare'”. Ciò che meno gli manca, spiega, è una certa
insoddisfazione di fondo. Secondo Damiano, in Italia ci si lamenta, e spesso:
“C’è un senso di impotenza, comprensibile per ragioni politiche, che diventa un
circolo vizioso: forse dall’Inghilterra potremmo imparare a guardare il
bicchiere mezzo pieno”.
A Londra il bicchiere mezzo pieno spesso è un boccale di birra: Damiano ha
imparato la cultura del pub e il gusto del Sunday roast, l’ironia british e la
tolleranza al maltempo. E ha iniziato a correre davvero: “Non mi piaceva nemmeno
ma ho iniziato a farlo sempre di più. Faccio la 10 km una volta all’anno, niente
di che rispetto alla media inglese”. Eppure diventare adulto in Inghilterra è
stata una marcia: un piede sempre a terra, andatura costante e sostenuta, non
avere più bisogno di scattare.
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lamenta. In Italia insoddisfazione e senso di impotenza” proviene da Il Fatto
Quotidiano.