Si rincomincia da capo: buste aperte sul tavolo dei commissari, offerte e piani
da vagliare. Un film già visto a Taranto, dove il treno per l’ex Ilva però è
passato da un pezzo: è da anni che l’impianto è fermo o marcia all’indietro, tra
un balletto e l’altro della politica sensibile alla Confindustria. E l’entità
delle nuove offerte, se mai ce ne fosse bisogno, lo conferma. Ma non si può
certo dire che quello che è successo, il disastro ArcelorMittal, non fosse
prevedibile. Anzi i segni c’erano tutti ed erano ben evidenti, mettendo insieme
i puntini. Anche prima che il gruppo franco-indiano prendesse possesso
dell’impianto, con l’industria europea dell’acciaio che aveva tutto da
guadagnare da un ridimensionamento sostanziale dell’Ilva.
L’ALLARME IGNORATO DI UBS NEL 2014
I primi a mettere in chiaro le cose erano stati gli svizzeri di Ubs più di 11
anni fa: la chiusura totale o parziale dell’impianto di Taranto avrebbe fatto un
favore a tutti i concorrenti europei dell’Ilva. In un’analisi finanziaria datata
18 giugno 2014 la banca elvetica parlava di quella che viene letteralmente
definita una cattiva notizia per i lavoratori dell’Ilva e una buona notizia per
i produttori europei di acciaio: “Se la soluzione proposta per l’Ilva si dovesse
realizzare come tratteggiato dalla stampa, verrebbero eliminati tra i 4 e i 6
milioni di tonnellate di produzione di acciaio, che significa il 20-30% della
produzione in eccesso in Europa. Cosa che sarebbe positiva per gli altri
produttori”, si leggeva nello studio che ricordava come all’epoca l’impianto di
Taranto con la sua capacità produttiva di 11,2 milioni di tonnellate l’anno
fosse uno dei più grandi d’Europa.
“LA CHIUSURA SPAZZERÀ VIA LA PRODUZIONE IN ECCESSO”
Un dimezzamento della produzione, come suggeriva all’epoca il presidente della
Commissione Industria al Senato, Massimo Mucchetti, avrebbe appunto tolto di
mezzo 4-6 milioni di tonnellate d’acciaio dal monte di 20 milioni di tonnellate
che, secondo gli analisti della banca svizzera, costituiva la sovraccapacità
produttiva europea. “Secondo i nostri calcoli, una chiusura totale spazzerebbe
via il 58% della produzione in eccesso”, si leggeva nel report. L’eliminazione
di questa forza produttiva, calcolavano gli analisti, avrebbe rappresentato per
i produttori sopravvissuti un incremento della profittabilità compreso tra 3 e
18 euro a tonnellata di acciaio rispetto al livello di partenza di 55 euro a
tonnellata. “Saremmo ampiamente a favore di una soluzione che comportasse una
parziale chiusura dell’Ilva, poiché eliminerebbe una fetta importante della
sovraccapacità produttiva d’Europa. Sfortunatamente crediamo improbabile che ciò
si verifichi molto presto, per via dei diversi interessi delle parti in causa”.
Anzi: “C’è il rischio che non vi sia alcuna chiusura, date le difficili
circostanze sociali nella regione Puglia”, ma la proiezione viene fatta
ipotizzando che avvenga. Come, a undici anni di distanza, sta di fatto
accadendo.
COSA DICEVA UBS SU MARCEGAGLIA
A guadagnarci di più, sempre secondo le previsioni di Ubs, sarebbe stato chi non
avesse partecipato al “salvataggio”. Per ArcelorMittal un coinvolgimento avrebbe
portato “vantaggio solo nel lungo termine, ma non nel medio-breve termine. Una
mossa del genere metterebbe a dura prova il bilancio del gruppo nel caso di una
partecipazione di maggioranza o di un’acquisizione completa”. Quanto al futuro
partner di ArcelorMittal in Ilva, il gruppo italiano Marcegaglia, Ubs scriveva:
“Non vediamo perché dovrebbe occuparsi della gestione degli impianti di
laminazione di Taranto. Il gruppo non ha né le competenze necessarie, né rientra
nella sua strategia essere coinvolto nel processo di produzione dell’acciaio
stesso. Tuttavia, Marcegaglia ha bisogno di un fornitore affidabile di
semilavorati. Quindi, mentre Marcegaglia sarebbe soddisfatta di un
ridimensionamento dello stabilimento di Taranto, a nostro avviso una chiusura
totale potrebbe non essere auspicabile, soprattutto considerando che Marcegaglia
ha investimenti significativi nella sua divisione energetica a Taranto”.
L’ASSEGNAZIONE E COSA ACCADDE DOPO
Ciò detto, in Ubs non prevedevano “una soluzione rapida per lo stabilimento Ilva
in Italia, poiché gli interessi economici, sociali e politici non sono
facilmente conciliabili e potrebbero persino compromettere il raggiungimento di
un risultato positivo. Inoltre, siamo convinti che un esito positivo sarebbe
possibile solo se venisse ridotta la capacità produttiva. Solo allora vedremmo
la possibilità che l’Ue contribuisca a stabilizzare il mercato attuando misure
di protezione volte a favorire la ristrutturazione del mercato europeo
dell’acciaio”. Di tempo in effetti ne è passato parecchio: l’asta del 2016 si è
chiusa con l’assegnazione alla cordata ArcelorMittal-Marcegaglia-Intesa
Sanpaolo. Le ultime due si sono sfilate poco dopo. E in ogni caso, l’avventura
in solitaria del colosso franco-indiano finì presto in discussione, tra mosse
politiche usate come una clava (l’addio allo scudo penale targato M5s) e il
cambio al vertice con l’arrivo della manager della cordata avversaria, Lucia
Morselli. Quindi la “pax” con la firma un nuovo contratto (capestro) che ha
visto scendere in campo lo Stato tramite Invitalia. Altri tre anni e poi di
nuovo lo stop, il commissariamento e ora le nuove gare a prezzi simbolici,
mentre la triade scelta dal governo per guidare Acciaierie d’Italia fino a nuova
assegnazione prepara una causa da 5 miliardi di euro ad ArcelorMittal.
IL TRACOLLO DELLA PRODUZIONE E LA LISTA CLIENTI
Ma intanto la produttività dell’ex campione d’Europa è scesa vertiginosamente.
Se infatti anche dopo il sequestro del 2012 Ilva è riuscita a produrre fino a 6
dignitosi milioni di tonnellate di acciaio l’anno, in seguito all’insediamento
di ArcelorMittal la produzione è crollata: dal 2019 non è più andata oltre i 4
milioni di tonnellate e ora viaggia sugli 1,5 milioni. Non si può definire una
ditta a conduzione familiare, ma un’acciaieria medio-piccola sì. Una situazione
che ha avvantaggiato la concorrenza e cioè, oltre ad Arcelor, anche l’austriaca
Voestalpine e gli svedesi di Ssab. Ai quali la diminuzione di capacità
produttiva in Europa ha consentito di mantenere buoni margini, nonostante
l’ingresso in forze di prodotti da Cina e India e nonostante i concorrenti
abbiano delle condizioni logistiche molto meno favorevoli di quelle dell’Ilva
che beneficiava di porto e cava, oltre agli impianti del nord ovest come sbocco
sul mercato più attivo del Paese. Quindi se pure Arcelor nella partita Ilva ha
perso dei bei soldi in termini di rapporti contabili tra controllante e
controllata, non può certo dire di non averci guadagnato strutturalmente, in
termini di peso sul mercato. Senza contare l’acquisizione della lista clienti di
Ilva.
IL CONTESTO POLITICO-IMPRENDITORIALE
Non va poi dimenticato il contesto. A partire dalla nomina del commissario Ilva
da far succedere a Enrico Bondi, che toccò a un ministero dello Sviluppo
Economico di estrazione confindustriale, visto che faceva capo all’imprenditrice
Federica Guidi e al suo vice e successore, Carlo Calenda, che in viale
dell’Astronomia è stato assistente del presidente Luca di Montezemolo e poi
direttore dell’area strategica e affari internazionali. E così il futuro della
più importante acciaieria d’Europa venne messo nelle mani di Piero Gnudi, fidato
custode dei segreti fiscali della Bologna che conta, incluso il padre della
ministra, Guidalberto Guidi, e la di lui impresa, la Ducati Energia. Con il
partner industriale italiano del futuro vincitore che si chiamava Marcegaglia.
Come l’ex presidente di Confindustria, Emma, che era anche presidente della più
importante partecipata statale, l’Eni. La quale era tra i creditori dell’Ilva.
In quanto tale Eni sedeva nel comitato di sorveglianza e votò a favore
dell’offerta della cordata ArcerlorMittal, Marcegaglia, Intesa Sanpaolo,
nonostante l’evidente conflitto d’interesse, come scrisse all’epoca
Ilfattoquotidiano.it.
IL RI-VOTO E IL MANCATO RILANCIO
La questione, oltre un anno dopo, finì davanti all’Avvocatura di Stato perché
era tra i quesiti posti da Luigi Di Maio sulla legittimità dell’iter di gara.
Nelle risposte, l’Avvocatura spiegherà che il possibile conflitto d’interessi
era stato spazzato via perché, proprio il giorno della pubblicazione del nostro
articolo, il ministero dello Sviluppo Economico aveva adottato un nuovo decreto
ministeriale di aggiudicazione ad ArcelorMittal, confermativo, a valle di una
nuova riunione del Comitato di sorveglianza alla quale il rappresentante di Eni
non si era presentato. Sbavature di forma e forzature che non furono invece
possibili per tenere in considerazione il rilancio – metteva sul piatto meno
occupati – della cordata avversaria originariamente formata da Jindal, Leonardo
Del Vecchio e dal braccio finanziario dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti.
Non proprio tre scappati di casa, quindi, che proponevano in sostanza una
riformulazione del vecchio piano del primo commissario dell’Ilva, Enrico Bondi,
con la decarbonizzazione grazie all’utilizzo di tecnologie a gas ed elettriche.
In pratica le stesse che oggi vengono ritirate fuori dai cassetti, ma in un
contesto di domanda che è completamente cambiato.
L’ORACOLO GOZZI: “ACCIAIO GREEN COSA DA LABORATORIO”
All’epoca però c’era un altro confindustriale d’eccellenza, il presidente di
Federacciai Antonio Gozzi, che le sminuiva: “La decarbonizzazione della
siderurgia è un progetto assolutamente sperimentale, la più importante società
al mondo che sta cercando di fare qualcosa, la Voestalpine, lo sta facendo a
livello assolutamente sperimentale e ha dichiarato sul Financial Times, che il
lavoro durerà decenni”, commentava a febbraio del 2017 quando erano in corso le
valutazioni delle offerte. “Stiamo parlando di cose da laboratori di ricerca non
applicato all’impresa ancora, è un progetto sperimentale, solo di ricerca al
momento”. Eppure la commissione di saggi nominata ad hoc aveva valutato
positivamente la parte industriale del piano proposto da Jindal, Del Vecchio e
Cdp, contrariamente a quanto aveva fatto con quello di Arcelor e soci, che era
stato giudicato incoerente su investimenti e volumi di produzione, come rivelato
dal Fatto all’indomani dell’aggiudicazione. In pratica sulla bilancia il peso
maggiore era stato dato alla parte economica dell’offerta e quando il
concorrente industrialmente più promettente ha provato a rilanciare, Calenda
chiuse la porta affrettandosi a chiedere un parere all’avvocatura di Stato. Il
resto è storia.
L'articolo La lunga notte dell’Ilva morente e la previsione ignorata di Ubs nel
2014: “Se chiude, l’acciaio Ue sarà salvo” proviene da Il Fatto Quotidiano.