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La lunga notte dell’Ilva morente e la previsione ignorata di Ubs nel 2014: “Se chiude, l’acciaio Ue sarà salvo”
Si rincomincia da capo: buste aperte sul tavolo dei commissari, offerte e piani da vagliare. Un film già visto a Taranto, dove il treno per l’ex Ilva però è passato da un pezzo: è da anni che l’impianto è fermo o marcia all’indietro, tra un balletto e l’altro della politica sensibile alla Confindustria. E l’entità delle nuove offerte, se mai ce ne fosse bisogno, lo conferma. Ma non si può certo dire che quello che è successo, il disastro ArcelorMittal, non fosse prevedibile. Anzi i segni c’erano tutti ed erano ben evidenti, mettendo insieme i puntini. Anche prima che il gruppo franco-indiano prendesse possesso dell’impianto, con l’industria europea dell’acciaio che aveva tutto da guadagnare da un ridimensionamento sostanziale dell’Ilva. L’ALLARME IGNORATO DI UBS NEL 2014 I primi a mettere in chiaro le cose erano stati gli svizzeri di Ubs più di 11 anni fa: la chiusura totale o parziale dell’impianto di Taranto avrebbe fatto un favore a tutti i concorrenti europei dell’Ilva. In un’analisi finanziaria datata 18 giugno 2014 la banca elvetica parlava di quella che viene letteralmente definita una cattiva notizia per i lavoratori dell’Ilva e una buona notizia per i produttori europei di acciaio: “Se la soluzione proposta per l’Ilva si dovesse realizzare come tratteggiato dalla stampa, verrebbero eliminati tra i 4 e i 6 milioni di tonnellate di produzione di acciaio, che significa il 20-30% della produzione in eccesso in Europa. Cosa che sarebbe positiva per gli altri produttori”, si leggeva nello studio che ricordava come all’epoca l’impianto di Taranto con la sua capacità produttiva di 11,2 milioni di tonnellate l’anno fosse uno dei più grandi d’Europa. “LA CHIUSURA SPAZZERÀ VIA LA PRODUZIONE IN ECCESSO” Un dimezzamento della produzione, come suggeriva all’epoca il presidente della Commissione Industria al Senato, Massimo Mucchetti, avrebbe appunto tolto di mezzo 4-6 milioni di tonnellate d’acciaio dal monte di 20 milioni di tonnellate che, secondo gli analisti della banca svizzera, costituiva la sovraccapacità produttiva europea. “Secondo i nostri calcoli, una chiusura totale spazzerebbe via il 58% della produzione in eccesso”, si leggeva nel report. L’eliminazione di questa forza produttiva, calcolavano gli analisti, avrebbe rappresentato per i produttori sopravvissuti un incremento della profittabilità compreso tra 3 e 18 euro a tonnellata di acciaio rispetto al livello di partenza di 55 euro a tonnellata. “Saremmo ampiamente a favore di una soluzione che comportasse una parziale chiusura dell’Ilva, poiché eliminerebbe una fetta importante della sovraccapacità produttiva d’Europa. Sfortunatamente crediamo improbabile che ciò si verifichi molto presto, per via dei diversi interessi delle parti in causa”. Anzi: “C’è il rischio che non vi sia alcuna chiusura, date le difficili circostanze sociali nella regione Puglia”, ma la proiezione viene fatta ipotizzando che avvenga. Come, a undici anni di distanza, sta di fatto accadendo. COSA DICEVA UBS SU MARCEGAGLIA A guadagnarci di più, sempre secondo le previsioni di Ubs, sarebbe stato chi non avesse partecipato al “salvataggio”. Per ArcelorMittal un coinvolgimento avrebbe portato “vantaggio solo nel lungo termine, ma non nel medio-breve termine. Una mossa del genere metterebbe a dura prova il bilancio del gruppo nel caso di una partecipazione di maggioranza o di un’acquisizione completa”. Quanto al futuro partner di ArcelorMittal in Ilva, il gruppo italiano Marcegaglia, Ubs scriveva: “Non vediamo perché dovrebbe occuparsi della gestione degli impianti di laminazione di Taranto. Il gruppo non ha né le competenze necessarie, né rientra nella sua strategia essere coinvolto nel processo di produzione dell’acciaio stesso. Tuttavia, Marcegaglia ha bisogno di un fornitore affidabile di semilavorati. Quindi, mentre Marcegaglia sarebbe soddisfatta di un ridimensionamento dello stabilimento di Taranto, a nostro avviso una chiusura totale potrebbe non essere auspicabile, soprattutto considerando che Marcegaglia ha investimenti significativi nella sua divisione energetica a Taranto”. L’ASSEGNAZIONE E COSA ACCADDE DOPO Ciò detto, in Ubs non prevedevano “una soluzione rapida per lo stabilimento Ilva in Italia, poiché gli interessi economici, sociali e politici non sono facilmente conciliabili e potrebbero persino compromettere il raggiungimento di un risultato positivo. Inoltre, siamo convinti che un esito positivo sarebbe possibile solo se venisse ridotta la capacità produttiva. Solo allora vedremmo la possibilità che l’Ue contribuisca a stabilizzare il mercato attuando misure di protezione volte a favorire la ristrutturazione del mercato europeo dell’acciaio”. Di tempo in effetti ne è passato parecchio: l’asta del 2016 si è chiusa con l’assegnazione alla cordata ArcelorMittal-Marcegaglia-Intesa Sanpaolo. Le ultime due si sono sfilate poco dopo. E in ogni caso, l’avventura in solitaria del colosso franco-indiano finì presto in discussione, tra mosse politiche usate come una clava (l’addio allo scudo penale targato M5s) e il cambio al vertice con l’arrivo della manager della cordata avversaria, Lucia Morselli. Quindi la “pax” con la firma un nuovo contratto (capestro) che ha visto scendere in campo lo Stato tramite Invitalia. Altri tre anni e poi di nuovo lo stop, il commissariamento e ora le nuove gare a prezzi simbolici, mentre la triade scelta dal governo per guidare Acciaierie d’Italia fino a nuova assegnazione prepara una causa da 5 miliardi di euro ad ArcelorMittal. IL TRACOLLO DELLA PRODUZIONE E LA LISTA CLIENTI Ma intanto la produttività dell’ex campione d’Europa è scesa vertiginosamente. Se infatti anche dopo il sequestro del 2012 Ilva è riuscita a produrre fino a 6 dignitosi milioni di tonnellate di acciaio l’anno, in seguito all’insediamento di ArcelorMittal la produzione è crollata: dal 2019 non è più andata oltre i 4 milioni di tonnellate e ora viaggia sugli 1,5 milioni. Non si può definire una ditta a conduzione familiare, ma un’acciaieria medio-piccola sì. Una situazione che ha avvantaggiato la concorrenza e cioè, oltre ad Arcelor, anche l’austriaca Voestalpine e gli svedesi di Ssab. Ai quali la diminuzione di capacità produttiva in Europa ha consentito di mantenere buoni margini, nonostante l’ingresso in forze di prodotti da Cina e India e nonostante i concorrenti abbiano delle condizioni logistiche molto meno favorevoli di quelle dell’Ilva che beneficiava di porto e cava, oltre agli impianti del nord ovest come sbocco sul mercato più attivo del Paese. Quindi se pure Arcelor nella partita Ilva ha perso dei bei soldi in termini di rapporti contabili tra controllante e controllata, non può certo dire di non averci guadagnato strutturalmente, in termini di peso sul mercato. Senza contare l’acquisizione della lista clienti di Ilva. IL CONTESTO POLITICO-IMPRENDITORIALE Non va poi dimenticato il contesto. A partire dalla nomina del commissario Ilva da far succedere a Enrico Bondi, che toccò a un ministero dello Sviluppo Economico di estrazione confindustriale, visto che faceva capo all’imprenditrice Federica Guidi e al suo vice e successore, Carlo Calenda, che in viale dell’Astronomia è stato assistente del presidente Luca di Montezemolo e poi direttore dell’area strategica e affari internazionali. E così il futuro della più importante acciaieria d’Europa venne messo nelle mani di Piero Gnudi, fidato custode dei segreti fiscali della Bologna che conta, incluso il padre della ministra, Guidalberto Guidi, e la di lui impresa, la Ducati Energia. Con il partner industriale italiano del futuro vincitore che si chiamava Marcegaglia. Come l’ex presidente di Confindustria, Emma, che era anche presidente della più importante partecipata statale, l’Eni. La quale era tra i creditori dell’Ilva. In quanto tale Eni sedeva nel comitato di sorveglianza e votò a favore dell’offerta della cordata ArcerlorMittal, Marcegaglia, Intesa Sanpaolo, nonostante l’evidente conflitto d’interesse, come scrisse all’epoca Ilfattoquotidiano.it. IL RI-VOTO E IL MANCATO RILANCIO La questione, oltre un anno dopo, finì davanti all’Avvocatura di Stato perché era tra i quesiti posti da Luigi Di Maio sulla legittimità dell’iter di gara. Nelle risposte, l’Avvocatura spiegherà che il possibile conflitto d’interessi era stato spazzato via perché, proprio il giorno della pubblicazione del nostro articolo, il ministero dello Sviluppo Economico aveva adottato un nuovo decreto ministeriale di aggiudicazione ad ArcelorMittal, confermativo, a valle di una nuova riunione del Comitato di sorveglianza alla quale il rappresentante di Eni non si era presentato. Sbavature di forma e forzature che non furono invece possibili per tenere in considerazione il rilancio – metteva sul piatto meno occupati – della cordata avversaria originariamente formata da Jindal, Leonardo Del Vecchio e dal braccio finanziario dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti. Non proprio tre scappati di casa, quindi, che proponevano in sostanza una riformulazione del vecchio piano del primo commissario dell’Ilva, Enrico Bondi, con la decarbonizzazione grazie all’utilizzo di tecnologie a gas ed elettriche. In pratica le stesse che oggi vengono ritirate fuori dai cassetti, ma in un contesto di domanda che è completamente cambiato. L’ORACOLO GOZZI: “ACCIAIO GREEN COSA DA LABORATORIO” All’epoca però c’era un altro confindustriale d’eccellenza, il presidente di Federacciai Antonio Gozzi, che le sminuiva: “La decarbonizzazione della siderurgia è un progetto assolutamente sperimentale, la più importante società al mondo che sta cercando di fare qualcosa, la Voestalpine, lo sta facendo a livello assolutamente sperimentale e ha dichiarato sul Financial Times, che il lavoro durerà decenni”, commentava a febbraio del 2017 quando erano in corso le valutazioni delle offerte. “Stiamo parlando di cose da laboratori di ricerca non applicato all’impresa ancora, è un progetto sperimentale, solo di ricerca al momento”. Eppure la commissione di saggi nominata ad hoc aveva valutato positivamente la parte industriale del piano proposto da Jindal, Del Vecchio e Cdp, contrariamente a quanto aveva fatto con quello di Arcelor e soci, che era stato giudicato incoerente su investimenti e volumi di produzione, come rivelato dal Fatto all’indomani dell’aggiudicazione. In pratica sulla bilancia il peso maggiore era stato dato alla parte economica dell’offerta e quando il concorrente industrialmente più promettente ha provato a rilanciare, Calenda chiuse la porta affrettandosi a chiedere un parere all’avvocatura di Stato. Il resto è storia. L'articolo La lunga notte dell’Ilva morente e la previsione ignorata di Ubs nel 2014: “Se chiude, l’acciaio Ue sarà salvo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’Ilva verso la proprietà Usa: ecco le offerte. Incognite investimenti e occupati
In corsa ci sono solo i fondi. Nulla di nuovo dentro le carte della gara per l’assegnazione di Ilva, nonostante il ministro Adolfo Urso avesse sbandierato più volte l’interesse di nuovi soggetti nella corsa – sempre più stanca – per l’assegnazione dell’acciaieria a un privato. Nessuno gruppo extraeuropeo, nemmeno il ventilato “interesse italiano”. Nell’eterno gioco dell’oca che è la vertenza più importante d’Italia si va verso la vendita a Bedrock Industries o Flacks, società che sono solitamente impegnate in ristrutturazione industriali e impegnate nei rilanci di Kelly-Moore Paints e Stelco. Insomma, la strada per il rilancio dell’Ilva si fa sempre più in salita e il governo, al di là degli annunci, rischia di ritrovarsi costretto a intervenire con una partecipazione statale se non vuole vedere naufragare anche gli unici due potenziali investitori che al momento mettono sul piatto una cifra simbolica: 1 euro. I commissari straordinari di Acciaierie d’Italia e Ilva in as, entrambe in amministrazione straordinaria, procederanno ora all’esame delle proposte per valutarne la completezza e la conformità ai requisiti del bando: “La procedura di gara rimane comunque aperta – hanno specificato – Eventuali ulteriori soggetti interessati potranno presentare una propria offerta purché migliorativa rispetto a quelle già pervenute”. Tenendo conto di quanto trapelato finora, siamo a un’ipotesi piuttosto remota. Bedrock e Flacks girano da tempo intorno al dossier con l’evidente intento di tentare un risanamento che sarà necessariamente lacrime e sangue sotto il profilo occupazionale. Bedrock si impegna infatti per 5.000 persone. Il Ceo di Flacks, parlando con Bloomberg, ha invece sostenuto giovedì che la loro offerta contempla un totale di 8.500 dipendenti, cioè circa 1.200 in meno degli attuali lavoratori del gruppo. Ma la garanzia sarebbe per un biennio. Il punto centrale restano sempre gli investimenti per decarbonizzare la produzione e, soprattutto, riuscire a sopportare il rosso perenne della acciaieria fino a quando non sarà nelle condizioni tecniche per tornare a produrre circa 6 milioni di tonnellate all’anno. Flacks sostiene di avere già il via libera di istituti di credito statunitensi e italiani per un piano da 5 miliardi di euro, ma chiede anche il sostegno pubblico (Invitalia già partner di ArcelorMittal, ndr) nel capitale sociale. I sindacati seguono con attenzione, sempre sul “chi va là” per la paura che il nuovo compratore non abbia particolari vincoli e possa procedere con uno spezzatino dopo aver completato l’acquisizione. Il dossier deve “passare direttamente in mano a Palazzo Chigi”, è tornato a chiedere il segretario della Fiom-Cgil Michele De Palma. “Vorrei dire al presidente del Consiglio che è giunto il momento di prendere in mano la situazione, perché si tratta di una questione che ha un impatto diretto sulla strategia della siderurgia del nostro Paese”. Per quanto il “sistema Paese” da tempo si sia riorganizzato per supplire alla produzione ormai minimale dell’acciaieria di Taranto, il rilancio è ancora ben visto da tutti gli attori: “Come ha affermato Federmeccanica, l’associazione italiana delle imprese metalmeccaniche, c’è bisogno – ha rimarcato De Palma – dell’acciaio prodotto a Taranto, che poi viene laminato e lavorato a Genova e Novi, per garantire un futuro all’industria del nostro Paese”. L'articolo L’Ilva verso la proprietà Usa: ecco le offerte. Incognite investimenti e occupati proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ex Ilva, scadono i termini per le offerte. Il gruppo Flacks svela la sua proposta (tra investimenti ed esuberi)
“Dobbiamo aspettare la giornata, le offerte arrivano ai commissari che poi devono eventualmente valutare”. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, chiede di attendere le 24 di giovedì quando scadono i termini per la presentazione delle offerte per l’acquisizione dell’ex Ilva. Al momento le offerte note sono quelle dei due fondi americani Bedrock Industries e Flacks Group: Urso aveva citato l’interesse di altri due player extraeuropei, senza rendere noti però i nomi. L’OFFERTA D’ACQUISTO: INVESTIMENTI ED ESUBERI Michael Flacks, fondatore di uno dei due gruppi in gara, spiega – in un’intervista a Bloomberg – i contenuti della proposta già formalizzata ai commissari di Acciaierie d’Italia. A poche ore dalla scadenza Flacks rivela: “Il nostro piano prevede 8.500 lavoratori“, precisando che “non vogliamo fare crescere” il polo dell’ex Ilva. Tradotto oltre 1.200 esuberi, rispetto ai 9.741 lavoratori attualmente dipendenti di Acciaierie d’Italia in Amministrazione Straordinaria, di cui di cui 7.938 a Taranto. Flacks Group ha offerto solo un euro per l’acquisto dell’acciaieria ma il fondatore stima investimenti per 5 miliardi di euro per il complessivo risanamento dell’ex Ilva. Lo Stato manterrebbe una quota del 40% nell’ex Ilva che poi Flacks acquisterebbe in futuro per una cifra compresa tra 500 milioni e un miliardo di euro. “Non compro aziende redditizie“, ha spiegato Flacks a Bloomberg: “Ho comprato edifici che erano spazzatura e li ho trasformati in oro. È l’unica cosa che ho sempre fatto”. Per quanto riguarda i problemi ambientali da affrontare a Taranto il fondatore del gruppo si dice ottimista: “Probabilmente – afferma – sono il maggiore acquirente al mondo di passività ambientali”. Flacks – a differenza del gruppo Bedrock – si è presentato solo in seguito al secondo bando e non alla gara lanciata a fine luglio 2024. URSO: “INTERVENTO PUBBLICO? PIUTTOSTO REALISTICO” Intanto il ministro Urso definisce come “piuttosto realistica” l’ipotesi dell’ingresso dello Stato nell’Ilva. Se il gruppo privato che intende acquisire il gruppo Ilva richiede la presenza dello Stato nel capitale della newco per rafforzare gli investimenti necessari alla decarbonizzazione e al rilancio dell’Ilva, questo sarà possibile attraverso l’intervento di una partecipata pubblica “all’interno della procedura di gara“. “Ho sempre detto che una partecipazione pubblica poteva esserci se richiesta dal soggetto privato in corsa per la gara di acquisizione, e quindi ove necessari’ può scendere in campo un investitore pubblico che rafforzi un eventuale piano di investimenti o realizzi con altri una proposta all’interno di una procedura di gara”. Questa seconda ipotesi è possibile, ha spiegato Urso, perché “con questo tipo di gara in corso è sempre possibile che un soggetto si presenti purché abbia una proposta migliorativa rispetto a quella in campo”. Intanto – tra lo scetticismo e le proteste dei sindacati – i lavoratori attendono di conoscere, dopo la scadenza dei termini, il futuro dell’ex Ilva. L'articolo Ex Ilva, scadono i termini per le offerte. Il gruppo Flacks svela la sua proposta (tra investimenti ed esuberi) proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Potreste ex Ilva a Genova, la denuncia della Uil: “Nostri dirigenti aggrediti da esponenti della Fiom. È squadrismo”
Alcuni dirigenti Uilm sarebbero stati aggrediti questa mattina, tra le 8.30 e le 9, davanti lo stabilimento Ex-Ilva di Cornigliano. È quanto denuncia il sindacato secondo il quale sarebbero coinvolti il segretario generale della sezione genovese metalmeccanici Luigi Pinasco, il segretario organizzativo Claudio Cabras e tre delegati. “Colpiti con calci e pugni e braccati per almeno un chilometro da alcuni individui che indossavano felpe della Fiom“, si legge in una nota della Uil. Tutto questo sarebbe avvenuto a poche ore dalle proteste e gli scontri di ieri a Genova nel corso del corteo, dopo giorni di sciopero e mobilitazione per lo stallo nella vertenza Ilva. I sindacalisti stavano per prendere parte a una diretta televisiva su Rai 3 per la trasmissione Restart e sarebbe stato detto loro di togliere felpe e k-way dell’organizzazione. “Ci hanno intimato di non mostrare nulla che richiamasse la Uilm. Pensavamo finisse lì”, raccontano. A quel punto sarebbero stati circondati da un gruppo di persone – “prima una ventina, poi più di cento” – e inseguiti dopo essere scappati a seguito dei primi colpi. “Non tornate più”, avrebbe urlato qualcuno. I dirigenti si sono poi recati al pronto soccorso per essere medicati. Dura la presa di posizione di Pierpaolo Bombardieri, segretario generale Uil: “Condanniamo l’attacco squadristico dei delegati della Fiom e stessa condanna ci aspettiamo da parte della Cgil e della Fiom”, ha detto. “Bisogna fare attenzione, perché la democrazia non si difende con le aggressioni. Se ci sono diversità di vedute e si aggredisce si rischia di rasentare il terrorismo. È bene dirlo in modo chiaro, le tensioni non vanno risolte con le aggressioni”, ha aggiunto Bombardieri intenvenendo a margine di un’assemblea del sindacato a Padova. Confermata una conferenza stampa alle 15.30 nella sede sindacale di Piazza Colombo a cui parteciperanno anche i sindacalisti coinvolti. Uilm Genova aveva detto no allo sciopero generale di ieri, ritenendo di non essere stata coinvolta nella proclamazione – da loro definita una “vetrina” – e di partecipare alla lotta dei lavoratori “pacificamente, senza minacciare nessuno”. Per Riccardo Serri, segretario della Uil in Liguria, “così si perdono di vista i veri obiettivi. Niente può giustificare umiliazioni, calci, pugni e violenza verbale con cui viene condotta questa vertenza da parte di alcuni soggetti improponibili”. Il segretario generale Uilm, Rocco Palombella, in una nota ha definito quanto accaduto come “atti terroristici che nulla hanno che vedere con un sindacato che difende persone”, chiedendo anche lui la ferma condanna delle istituzioni e della stessa Fiom. L'articolo Potreste ex Ilva a Genova, la denuncia della Uil: “Nostri dirigenti aggrediti da esponenti della Fiom. È squadrismo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Il corteo degli operai Ilva a Genova, le tensioni con la polizia e la stazione occupata: “Non saremo complici del governo” | Video
“Chi lavora sa cosa costano quattro giorni di sciopero per un operaio metalmeccanico, ma non vogliamo essere complici del Governo che rischia di mettere la parola fine alla siderurgia in Italia”. Così Armando Palombo, portavoce dei lavoratori dell’ex-Ilva di Genova, commenta la lunga giornata di contestazione e di sciopero dell’acciaieria di Cornigliano, che resta bloccata da quattro giorni. Lacrimogeni lanciati a grappolo prima e sparati ad altezza uomo in un secondo momento hanno accolto i duemila manifestanti davanti alla Prefettura. Ai metalmeccanici si sono uniti nel corteo altri lavoratori delle fabbriche genovesi, i portuali e alcuni gruppi studenteschi. Alcune uova sono state lanciate verso la grata che impediva l’avvicinamento alla Prefettura, poi sradicata da uno dei mezzi pesanti che hanno attraversato la città insieme al corteo. La sindaca Silvia Salis e il presidente della Regione Marco Bucci hanno incontrato i lavoratori, che hanno occupato per un paio d’ore la stazione di Genova Brignole. “Resisteremo alla genovese – spiegano i lavoratori – Cioè fino alla fine e con tutti i mezzi a nostra disposizione”. Dopo il flop del primo incontro, previsto per domani a Roma un secondo faccia a faccia tra il ministro Adolfo Urso, Bucci e Salis: “Chiederemo una soluzione per Genova, a partire dallo sblocco delle 45mila tonnellate di acciaio necessarie per non fermare la lavorazione della fabbrica genovese”. La giornata si è conclusa con il ritorno dei lavoratori in sciopero a Cornigliano, dove prosegue il blocco stradale che va avanti da lunedì: “La fabbrica non deve chiudere”. L'articolo Il corteo degli operai Ilva a Genova, le tensioni con la polizia e la stazione occupata: “Non saremo complici del governo” | Video proviene da Il Fatto Quotidiano.
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La classe operaia dimenticata: o l’Italia fa il salto o perderà la sua politica industriale
La cronaca giornaliera è percorsa dalle manifestazioni degli operai ILVA di Genova e Taranto, da diffuse vertenze sull’occupazione in molte parti del Paese, ma l’opinione pubblica ne è colpevolmente distratta. Quella che era una volta una componente centrale della nostra società – la classe operaia – sembra svanire nelle preoccupazioni di una società in affanno e pericolosamente trascinata sul crinale irresponsabile di un riarmo in previsione di una guerra. Diversamente da quanto abitualmente trattato su questo blog, questa volta vorrei porre all’attenzione dei commenti dei lettori la venuta meno di una politica industriale in un Paese manifatturiero come il nostro, spinto da un governo imprevidente ad occuparsi della notizia dell’oggi che spinge via quella di ieri, senza che ci si ponga in una dimensione di futuro desiderabile. Come è possibile, mi chiedo, che decine di milioni di lavoratrici e lavoratori si rechino in fabbrica, in ufficio, nei capannoni della logistica o dei supermercati, a scuola o nei campi coltivati, con salari inadeguati e senza più un’idea di affrancamento sociale, di riconoscimento di ruolo di “liberazione” di un lavoro che occupa un’intera porzione della propria vita? Gli scioperi generali e le manifestazioni che le organizzazioni sindacali stanno organizzando in questi giorni avranno pure a riferimento un obbiettivo per l’intera classe politica italiana che riguardi le condizioni non solo materiali, ma la sicurezza e la sensazione di essere utili alla società con una prestazione lavoro che liberi energie, anziché esporre a frustrazioni e precarietà? Questa fine d’anno percorsa da vertenze bistrattate serva allora a riflettere sulla crisi dell’attuale sviluppo italiano, incapace di cogliere nelle emergenze e nella crisi di questo cambio d’epoca uno spazio di rilancio di solidarietà che non può che fare riferimento ad una componente sociale che sacrifica ogni giorno energie non solo per se stessa. Come non riflettere sulla crisi climatica e sull’inadempienza delle classi politiche nazionali e globali che continuano a riprodurre il modello industriale dei fossili e non colgono nella transizione energetica verso le rinnovabili una chiave anche di un riscatto del senso del lavoro? Cosa ha da dire Pichetto Fratin su un orizzonte nucleare da lui auspicato, ma tutt’altro che praticabile, privo di indipendenza energetica per il Paese, quando molte delle crisi in corso potrebbero avere uno sbocco in una politica industriale che veda nel vento, nel sole, nelle batterie e nei pompaggi la soluzione anche occupazionale per le nuove generazioni? Cosa significa per l’attuale politica la vertenza pluriennale dell’ex-GKN o dell’eolico offshore a Civitavecchia o il taglio dei finanziamenti alle comunità energetiche, colpevolmente ritardati a danno non solo dell’occupazione e dell’ambiente locale? Non ho dubbi sul fatto che possiamo uscire dalla stretta attuale rimettendo mano – come accennavo – alla politica industriale nazionale e ad una mobilitazione positiva del mondo del lavoro. Proprio ciò che intendono fare i rappresentanti sindacali che sanno bene quanto costi scioperare per un futuro che è tutt’altro che a disposizione in un oggi così spiazzante, eppure da perseguire con un’urgenza e un’attesa praticabili. Non sarebbe male se un salto di prospettiva fosse chiesto ad un governo che rimuove le emergenze con conseguenze inquietanti per le nuove generazioni che hanno il diritto di sperare. E’ proprio una prospettiva nuova in cui collocare il mondo del lavoro in pace e non in guerra che può costituire un salto nella dimensione politica e sociale cui il Paese è chiamato. Ed allora, anche una politica industriale ed energetica che incoraggi il mondo del lavoro – e non solo – in una direzione coraggiosa e riconoscibile potrebbe rimuover tutte le pigrizie che fanno del periodo attuale uno dei più insidiosi di questo inizio secolo. L'articolo La classe operaia dimenticata: o l’Italia fa il salto o perderà la sua politica industriale proviene da Il Fatto Quotidiano.
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De Palma (Fiom): “Meloni apra le porte di Palazzo Chigi. Non ci fermeremo fino a quando non ci daranno il lavoro”
“Meloni apra le porte di Palazzo Chigi”. Il segretario generale della Fiom-Cgil, Michele De Palma, torna a chiamare in causa la presidente del Consiglio sulla vertenza Ilva. Da mesi, il sindacato chiede alla premier di mettere le mani sul dossier dell’acciaieria, a un passo dalla chiusura. Senza ottenere risposta. Così oggi il leader delle tute blu della Cgil è sceso in piazza insieme ai lavoratori dello stabilimento di Genova, in sciopero da giorni dopo la decisione dei commissari nominati da Adolfo Urso di non inviare più i rotoli di acciaio per la zincatura. Una decisione che fermaun intero reparto per almeno 3 mesi, stoppa il lavoro nonostante le commesse e mette a rischio il futuro anche oltre febbraio 2026 quando nelle previsioni di Urso dovrebbe subentrare un privato alla gestione commissariale. “Deve ritirare il piano – ha insistito De Palma – Per fare la decarbonizzazione ci vogliono le lavoratrici e i lavoratori. Non ci fermeremo fino a quando non ci daranno il lavoro. Vogliamo un tavolo a a Palazzo Chigi”. L'articolo De Palma (Fiom): “Meloni apra le porte di Palazzo Chigi. Non ci fermeremo fino a quando non ci daranno il lavoro” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ilva, tensione al corteo di Genova: la polizia spara lacrimogeni sugli operai
Cinquemila operai in marcia chiedendo di tutelare il lavoro. Una prefettura blindata, isolata, protetta con venti blindati e con le grate per impedire ai lavoratori di avvicinarsi al Palazzo del Governo, dopo giorni di sciopero e proteste per lo stallo nella vertenza Ilva. E alla fine, la tensione. Iniziata con un simbolico lancio di uova e fumogeni dei metalmeccanici di Genova e seguita dalla risposta della polizia che ha sparato lacrimogeni verso i manifestanti, alcuni anche ad altezza d’uomo. Mentre a Taranto gli operai dell’acciaieria hanno terminato lo sciopero ad oltranza che andava avanti da 48 ore con blocchi stradali su due statali, il capoluogo ligure non molla di un centimetro. Lo sciopero di oggi, al quale hanno aderito tutti i metalmeccanici in solidarietà con gli operai di Ilva, era stato giudicato a rischio. La tensione è palpabile da giorni, perché i sindacati chiedono a Giorgia Meloni di prendere tra le mani il dossier legato al rischio di chiusura del siderurgico dopo il “piano corto” presentato dal ministro delle Imprese Adolfo Urso. Ma la presidente del Consiglio tace e la situazione è in stallo. Un silenzio al quale gli operai hanno risposto compatti. I 5.000 in marcia sono partiti da Cornigliano, presente anche il segretario generale della Fiom Michele De Palma e la sindaca Silvia Salis, e si sono diretti verso il centro. Arrivati davanti alla Prefettura è partito il lancio di uova e di qualche fumogeno. Al quale la polizia ha risposto con i lacrimogeni. Non si sono registrati contatti, anche perché erano state predisposte le grate dai reparti mobili. Simbolicamente, dopo il lancio dei lacrimogeni, gli operai hanno fatto avanzare i mezzi da lavoro che hanno sfilato in corteo e ne hanno agganciato uno alle barriere in metallo, sradicandola. Ma pur avendo un varco per superare lo sbarramento non hanno comunque proceduto oltre. Anzi, hanno deciso di cambiare obiettivo, dirigendosi verso la stazione di Brignole con l’obiettivo di occupare i binari dopo aver sollecitato la sindaca Salis, intervenuta per provare a calmare le acque, a sospendere il Consiglio comunale fino a quando non arriveranno risposte da Roma. L'articolo Ilva, tensione al corteo di Genova: la polizia spara lacrimogeni sugli operai proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ex Ilva, il corteo dei lavoratori sfila sul Ponte San Giorgio a Genova: il video della protesta
Nuova giornata di proteste da parte dei dipendenti dell’ex Ilva di Genova. Dopo l’iniziale assemblea, i lavoratori sono partiti in corteo affiancati da alcuni colleghi di Ansaldo Energia e Fincantieri solidali con la protesta, bloccando l’autostrada A10 e sfilando sul Ponte San Giorgio. In precedenza il corteo aveva paralizzato l’area partenze dell’aeroporto “Cristoforo Colombo”. L'articolo Ex Ilva, il corteo dei lavoratori sfila sul Ponte San Giorgio a Genova: il video della protesta proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Ex Ilva, il video degli operai che bloccano l’autostrada a Genova: in corteo con la pala meccanica
Il video mostra il corteo dei lavoratori dell’ex Ilva nel momento in cui entra in autostrada e occupa le corsie, a Genova. Gli operai si sono diretti verso Ponte San Giorgio e la manifestazione, naturalmente, ha provocato conseguenze sulla A10. Come si vede nel filmato, c’è anche una pala meccanica. Poco prima era stato bloccato l’aeroporto. L'articolo Ex Ilva, il video degli operai che bloccano l’autostrada a Genova: in corteo con la pala meccanica proviene da Il Fatto Quotidiano.
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