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Ue allenta i controlli ambientali per le aziende, protesta delle associazioni: “Conflitto d’interessi. Il relatore legato a lobby per le imprese”
L’accordo tra Parlamento e Consiglio Ue sul pacchetto Omnibus I che comprende l’allentamento delle restrizioni per le aziende su due diligence e reportistica ambientale, annunciato non più tardi di una settimana fa dalla presidenza di turno danese, continua a generare dubbi e proteste. Non solo quelle dei partiti più sensibili alle questioni ambientali e dei diritti umani che hanno denunciato quello che è solo l’ultimo colpo assestato al Green Deal, con il Partito Popolare Europeo che per riuscirci ha chiesto il supporto dell’estrema destra, ma anche quelle delle organizzazioni più attente nel monitoraggio di fenomeni di corruzione e conflitto d’interessi. Per questo dieci associazioni hanno scritto al Comitato consultivo sulla condotta dei membri sottolineando il potenziale conflitto d’interesse dell’eurodeputato Jörgen Warborn (Ppe), a capo della relazione ma allo stesso tempo presidente di SME Europe, associazione legata ai Popolari che, si legge sul suo sito, si batte per i diritti delle piccole e medie imprese in diversi settori. Proprio quei soggetti che otterrebbero maggiori benefici dal nuovo accordo raggiunto in Ue. L’incarico di Warborn alla Presidenza di Small and Medium Entrepreneurs of Europe non è un segreto: compare nel board del loro sito ufficiale insieme ad altri europarlamentari ed ex membri, compreso Antonio Tajani, e ha esplicitato il suo incarico anche nella sua dichiarazione di interessi privati. I firmatari della lettera di protesta sottolineano però che, “sebbene sia un’entità giuridica separata e né un partito politico europeo né una fondazione, SME Europe opera di fatto come un’ala di lobbying del Partito Popolare Europeo. Come stabilito nel suo statuto, SME Europe ‘è la rete politica indipendente di organizzazioni politiche cristiano-democratiche e conservatrici e pro-business. Il suo obiettivo principale è contribuire a plasmare la politica dell’Ue in modo più favorevole alle Pmi‘”. Questo, a loro dire, si scontra con il ruolo svolto dall’eurodeputato all’interno della commissione Giuridica del Parlamento Ue, come membro supplente, e soprattutto come “relatore di taluni requisiti in materia di rendicontazione di sostenibilità aziendale e di dovere di diligenza (2025/0045(COD)), una proposta legislativa della Commissione volta, tra le altre cose, a ridurre l’onere di rendicontazione per le imprese più piccole”. Ciò che i firmatari sottolineano è che nella sua dichiarazione di consapevolezza di conflitto d’interesse per l’incarico affidato, Warborn ha pensato che non fosse necessario menzionare il proprio incarico in SME Europe. I firmatari continuano poi ricordando le prese di posizione dell’eurodeputato in occasione delle discussioni sulla proposta: “Nella sua bozza originaria di relazione della commissione egli ha proposto emendamenti che avrebbero ulteriormente ristretto l’ambito delle imprese soggette a determinati obblighi di rendicontazione rispetto alla proposta della Commissione. Durante un dibattito in plenaria su tale fascicolo il 22 ottobre 2025, Warborn ha sollecitato gli eurodeputati a votare a favore del mandato per i negoziati interistituzionali al fine di ‘fornire chiarezza alle imprese europee’, concentrandosi, tra l’altro, su ‘piccole imprese, medie imprese’. Nel 2025, sia immediatamente prima sia dopo la sua nomina a relatore, il sig. Warborn ha partecipato a numerosi eventi organizzati da SME Europe. Il 7 febbraio 2025 ha parlato a un evento organizzato da SME Europe al Parlamento europeo, dove ha sottolineato ‘l’urgente necessità di ridurre gli oneri normativi per stimolare la crescita delle imprese in Europa’ e ha ‘evidenziato che [l’ambito del Pacchetto Omnibus] rimane limitato, coprendo solo una frazione dei settori e delle politiche’. Il 29 aprile 2025 ha parlato all’Economic Leadership Forum di SME Europe. L’agenda corrispondente lo indicava sia come Presidente di SME Europe sia come Co-Chair dello SME Circle per un punto dell’ordine del giorno e, tre ore dopo, come relatore per il Primo pacchetto Omnibus di semplificazione per un diverso punto dell’ordine del giorno”. Alla luce di tutto ciò, concludono i firmatari della missiva, “riteniamo che la posizione di Warborn come Presidente di SME Europe, in combinazione con il suo ruolo di relatore per il fascicolo sopra menzionato, possa costituire un possibile conflitto di interessi”. Richiesta appoggiata anche dal Movimento 5 Stelle con una dichiarazione dell’europarlamentare Mario Furore: “Questo caso dimostra ancora una volta che l’Ue è soffocata da vergognosi conflitti di interesse. Non si può servire l’interesse dei cittadini e poi, al contempo, quello delle potenti lobby che li vogliono calpestare. Il regolamento sulla due diligence in voto domani al Parlamento europeo è un regalo alle grandi compagnie che già oggi soffocano le piccole imprese e gli artigiani con una concorrenza impari. Noi voteremo contro, la destra invece, a partire da Fratelli d’Italia e Lega, lo sosterrà dimostrando ancora una volta di essere gli scendiletto di multinazionali e grandi comitati d’affari”. 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Finanza sostenibile, cosa c’è nella proposta di revisione delle regole Ue. Il nodo delle armi controverse e delle aziende dell’oil&gas
Più chiarezza su categorie, nomi da utilizzare, soglie d’investimento. Una bella spruzzata di semplificazione, che va tanto di moda a Bruxelles ed è (molto) apprezzata dagli operatori. Ma, si sa, il diavolo sta nei dettagli, per cui è probabilmente sui settori da escludere – senza se e senza ma, come chiedono in molti – che si vedrà se nel trilogo si riuscirà a mantenere la barra dritta. In estrema sintesi sono questi i punti salienti della proposta di revisione della Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr) appena presentata dalla Commissione Ue. È la regolamentazione sull’informativa sulla sostenibilità per il settore finanziario in vigore da marzo 2021. Che ha rappresentato il primo tassello andato a regime del piano d’azione sulla finanza sostenibile varato dalla Commissione Ue a marzo 2018. Il cammino della Sfdr non è stato esente da problemi, perché il mercato l’ha considerata un “bollino” mentre si tratta di un’auto-certificazione sulle caratteristiche di sostenibilità di un prodotto finanziario. Da qui la necessità di rivederla. Nella proposta pubblicata il 20 novembre ci sono luci e ombre. Per i prodotti finanziari va in soffitta la precedente distinzione tra gli articolo 8 (light green, con caratteristiche sociali o ambientali) e gli articolo 9 (dark green, più ambiziosi, con obiettivi di sostenibilità). A sostituirla è una classificazione in tre categorie: “transizione”, “sostenibile” e “Esg basics”, differenziate per obiettivi d’investimento e per settori e attività economici esclusi. Ogni prodotto dovrà garantire che almeno il 70% degli investimenti sia allineato con gli obiettivi dichiarati e solo quelli che rientreranno in queste categorie potranno utilizzare terminologia di tipo Esg nei nomi e nel marketing. Viene riconosciuto per la prima volta nell’ordinamento Ue l’investimento a impatto (all’interno delle categorie “transizione” e “sostenibile”) come pratica distinta di finanza sostenibile, il che ha fatto esultare le organizzazioni europee che promuovono l’impact investing come Social Impact Agenda per l’Italia. Di contro viene eliminata la definizione di investimento sostenibile, che pur farraginosa aiutava a comprendere di cosa si parla. Via anche una serie di obblighi informativi, per alleggerire gli operatori e con la speranza di rendere le informazioni più comprensibili a chi sceglie dove investire. Quanto alla soglia del 70%, i prodotti “transizione” e “sostenibile” potranno by-passarla se dimostreranno un allineamento del 15% alla tassonomia Ue sui settori e attività considerati sostenibili (che include gas e nucleare). Veniamo al nodo esclusioni, probabilmente il più rilevante. Tutte e tre le categorie di prodotti devono escludere le società del tabacco, quelle che violano standard internazionali (Onu, Ocse) e quelle coinvolte in attività legate a armi controverse. Solo che il Parlamento Ue ha appena dato luce verde alla proposta della Commissione di restringere il campo delle “armi vietate”, aprendo le porte alla possibilità di investire in modo sostenibile in armi fino a ieri bollate come “controverse”. Quanti saranno d’accordo? La Cei, ad esempio, ha chiesto di prendere le distanze anche finanziariamente dalle aziende di armamenti. E si sa che il ruolo degli investitori faith-based è sempre stato centrale nella finanza sostenibile e prima ancora nella sua progenitrice, la finanza etica. Poi ci sono le fonti fossili. Di nuovo, tutt’e tre le categorie devono escludere aziende legate al carbone. Ma solo i prodotti “transizione” e “sostenibile” devono escludere anche aziende oil&gas, in particolare quelle che progettano di espandere la produzione. Su questo si è concentrata la critica della Ong francese Reclaim Finance, uno dei watchdog europei più inflessibili in materia. Che nel complesso ha accolto positivamente la proposta della Commissione, ma che insieme a oltre un centinaio di organizzazioni ed esperti aveva chiesto di escludere da tutte le categorie le società che sviluppano nuovi progetti fossili. Una richiesta allineata, ancora, agli investitori faith-based, che sono i principali protagonisti – specie quelli cattolici, coordinati dal Movimento Laudato Si’ – del movimento globale per il disinvestimento dalle fonti fossili. Che la SFDR 2.0 abbia rimesso al centro le esclusioni è forse il suo elemento più positivo. Del resto la finanza etica è nata così, dicendo dei “no” che lanciano messaggi chiari al piccolo risparmiatore che vuole investire per promuovere lo sviluppo sostenibile o affermare certi valori. E che di solito non la prende bene se scopre che i suoi soldi vanno ad aziende che producono armi all’uranio impoverito o trivellano a tutto spiano. Non ci sono scadenze per raggiungere l’accordo politico sulla nuova regolamentazione. È prevedibile che l’iter di negoziazione avrà una navigazione agitata e prima del 2028 con ogni probabilità non cambierà nulla. Ma non bisogna dimenticare le origini della Sfdr, che è figlia di un’altra epoca, risale a due legislature europee fa, a ben prima della guerra in Ucraina e delle sue conseguenze. Cioè a quando la credibilità della finanza sostenibile non era stata ancora presa a martellate dal greenwashing dilagante, per aver in sostanza spostato l’attenzione dai “no” ai “sì” allargando le maglie dei suoi criteri ambientali, sociali e di governance al punto che ormai vi rientra tutto o quasi. Se la Sfdr 2.0 si manterrà fedele all’impianto originario, per la finanza sostenibile sarà una sorta di salutare ritorno alle origini. 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La lunga notte dell’Ilva morente e la previsione ignorata di Ubs nel 2014: “Se chiude, l’acciaio Ue sarà salvo”
Si rincomincia da capo: buste aperte sul tavolo dei commissari, offerte e piani da vagliare. Un film già visto a Taranto, dove il treno per l’ex Ilva però è passato da un pezzo: è da anni che l’impianto è fermo o marcia all’indietro, tra un balletto e l’altro della politica sensibile alla Confindustria. E l’entità delle nuove offerte, se mai ce ne fosse bisogno, lo conferma. Ma non si può certo dire che quello che è successo, il disastro ArcelorMittal, non fosse prevedibile. Anzi i segni c’erano tutti ed erano ben evidenti, mettendo insieme i puntini. Anche prima che il gruppo franco-indiano prendesse possesso dell’impianto, con l’industria europea dell’acciaio che aveva tutto da guadagnare da un ridimensionamento sostanziale dell’Ilva. L’ALLARME IGNORATO DI UBS NEL 2014 I primi a mettere in chiaro le cose erano stati gli svizzeri di Ubs più di 11 anni fa: la chiusura totale o parziale dell’impianto di Taranto avrebbe fatto un favore a tutti i concorrenti europei dell’Ilva. In un’analisi finanziaria datata 18 giugno 2014 la banca elvetica parlava di quella che viene letteralmente definita una cattiva notizia per i lavoratori dell’Ilva e una buona notizia per i produttori europei di acciaio: “Se la soluzione proposta per l’Ilva si dovesse realizzare come tratteggiato dalla stampa, verrebbero eliminati tra i 4 e i 6 milioni di tonnellate di produzione di acciaio, che significa il 20-30% della produzione in eccesso in Europa. Cosa che sarebbe positiva per gli altri produttori”, si leggeva nello studio che ricordava come all’epoca l’impianto di Taranto con la sua capacità produttiva di 11,2 milioni di tonnellate l’anno fosse uno dei più grandi d’Europa. “LA CHIUSURA SPAZZERÀ VIA LA PRODUZIONE IN ECCESSO” Un dimezzamento della produzione, come suggeriva all’epoca il presidente della Commissione Industria al Senato, Massimo Mucchetti, avrebbe appunto tolto di mezzo 4-6 milioni di tonnellate d’acciaio dal monte di 20 milioni di tonnellate che, secondo gli analisti della banca svizzera, costituiva la sovraccapacità produttiva europea. “Secondo i nostri calcoli, una chiusura totale spazzerebbe via il 58% della produzione in eccesso”, si leggeva nel report. L’eliminazione di questa forza produttiva, calcolavano gli analisti, avrebbe rappresentato per i produttori sopravvissuti un incremento della profittabilità compreso tra 3 e 18 euro a tonnellata di acciaio rispetto al livello di partenza di 55 euro a tonnellata. “Saremmo ampiamente a favore di una soluzione che comportasse una parziale chiusura dell’Ilva, poiché eliminerebbe una fetta importante della sovraccapacità produttiva d’Europa. Sfortunatamente crediamo improbabile che ciò si verifichi molto presto, per via dei diversi interessi delle parti in causa”. Anzi: “C’è il rischio che non vi sia alcuna chiusura, date le difficili circostanze sociali nella regione Puglia”, ma la proiezione viene fatta ipotizzando che avvenga. Come, a undici anni di distanza, sta di fatto accadendo. COSA DICEVA UBS SU MARCEGAGLIA A guadagnarci di più, sempre secondo le previsioni di Ubs, sarebbe stato chi non avesse partecipato al “salvataggio”. Per ArcelorMittal un coinvolgimento avrebbe portato “vantaggio solo nel lungo termine, ma non nel medio-breve termine. Una mossa del genere metterebbe a dura prova il bilancio del gruppo nel caso di una partecipazione di maggioranza o di un’acquisizione completa”. Quanto al futuro partner di ArcelorMittal in Ilva, il gruppo italiano Marcegaglia, Ubs scriveva: “Non vediamo perché dovrebbe occuparsi della gestione degli impianti di laminazione di Taranto. Il gruppo non ha né le competenze necessarie, né rientra nella sua strategia essere coinvolto nel processo di produzione dell’acciaio stesso. Tuttavia, Marcegaglia ha bisogno di un fornitore affidabile di semilavorati. Quindi, mentre Marcegaglia sarebbe soddisfatta di un ridimensionamento dello stabilimento di Taranto, a nostro avviso una chiusura totale potrebbe non essere auspicabile, soprattutto considerando che Marcegaglia ha investimenti significativi nella sua divisione energetica a Taranto”. L’ASSEGNAZIONE E COSA ACCADDE DOPO Ciò detto, in Ubs non prevedevano “una soluzione rapida per lo stabilimento Ilva in Italia, poiché gli interessi economici, sociali e politici non sono facilmente conciliabili e potrebbero persino compromettere il raggiungimento di un risultato positivo. Inoltre, siamo convinti che un esito positivo sarebbe possibile solo se venisse ridotta la capacità produttiva. Solo allora vedremmo la possibilità che l’Ue contribuisca a stabilizzare il mercato attuando misure di protezione volte a favorire la ristrutturazione del mercato europeo dell’acciaio”. Di tempo in effetti ne è passato parecchio: l’asta del 2016 si è chiusa con l’assegnazione alla cordata ArcelorMittal-Marcegaglia-Intesa Sanpaolo. Le ultime due si sono sfilate poco dopo. E in ogni caso, l’avventura in solitaria del colosso franco-indiano finì presto in discussione, tra mosse politiche usate come una clava (l’addio allo scudo penale targato M5s) e il cambio al vertice con l’arrivo della manager della cordata avversaria, Lucia Morselli. Quindi la “pax” con la firma un nuovo contratto (capestro) che ha visto scendere in campo lo Stato tramite Invitalia. Altri tre anni e poi di nuovo lo stop, il commissariamento e ora le nuove gare a prezzi simbolici, mentre la triade scelta dal governo per guidare Acciaierie d’Italia fino a nuova assegnazione prepara una causa da 5 miliardi di euro ad ArcelorMittal. IL TRACOLLO DELLA PRODUZIONE E LA LISTA CLIENTI Ma intanto la produttività dell’ex campione d’Europa è scesa vertiginosamente. Se infatti anche dopo il sequestro del 2012 Ilva è riuscita a produrre fino a 6 dignitosi milioni di tonnellate di acciaio l’anno, in seguito all’insediamento di ArcelorMittal la produzione è crollata: dal 2019 non è più andata oltre i 4 milioni di tonnellate e ora viaggia sugli 1,5 milioni. Non si può definire una ditta a conduzione familiare, ma un’acciaieria medio-piccola sì. Una situazione che ha avvantaggiato la concorrenza e cioè, oltre ad Arcelor, anche l’austriaca Voestalpine e gli svedesi di Ssab. Ai quali la diminuzione di capacità produttiva in Europa ha consentito di mantenere buoni margini, nonostante l’ingresso in forze di prodotti da Cina e India e nonostante i concorrenti abbiano delle condizioni logistiche molto meno favorevoli di quelle dell’Ilva che beneficiava di porto e cava, oltre agli impianti del nord ovest come sbocco sul mercato più attivo del Paese. Quindi se pure Arcelor nella partita Ilva ha perso dei bei soldi in termini di rapporti contabili tra controllante e controllata, non può certo dire di non averci guadagnato strutturalmente, in termini di peso sul mercato. Senza contare l’acquisizione della lista clienti di Ilva. IL CONTESTO POLITICO-IMPRENDITORIALE Non va poi dimenticato il contesto. A partire dalla nomina del commissario Ilva da far succedere a Enrico Bondi, che toccò a un ministero dello Sviluppo Economico di estrazione confindustriale, visto che faceva capo all’imprenditrice Federica Guidi e al suo vice e successore, Carlo Calenda, che in viale dell’Astronomia è stato assistente del presidente Luca di Montezemolo e poi direttore dell’area strategica e affari internazionali. E così il futuro della più importante acciaieria d’Europa venne messo nelle mani di Piero Gnudi, fidato custode dei segreti fiscali della Bologna che conta, incluso il padre della ministra, Guidalberto Guidi, e la di lui impresa, la Ducati Energia. Con il partner industriale italiano del futuro vincitore che si chiamava Marcegaglia. Come l’ex presidente di Confindustria, Emma, che era anche presidente della più importante partecipata statale, l’Eni. La quale era tra i creditori dell’Ilva. In quanto tale Eni sedeva nel comitato di sorveglianza e votò a favore dell’offerta della cordata ArcerlorMittal, Marcegaglia, Intesa Sanpaolo, nonostante l’evidente conflitto d’interesse, come scrisse all’epoca Ilfattoquotidiano.it. IL RI-VOTO E IL MANCATO RILANCIO La questione, oltre un anno dopo, finì davanti all’Avvocatura di Stato perché era tra i quesiti posti da Luigi Di Maio sulla legittimità dell’iter di gara. Nelle risposte, l’Avvocatura spiegherà che il possibile conflitto d’interessi era stato spazzato via perché, proprio il giorno della pubblicazione del nostro articolo, il ministero dello Sviluppo Economico aveva adottato un nuovo decreto ministeriale di aggiudicazione ad ArcelorMittal, confermativo, a valle di una nuova riunione del Comitato di sorveglianza alla quale il rappresentante di Eni non si era presentato. Sbavature di forma e forzature che non furono invece possibili per tenere in considerazione il rilancio – metteva sul piatto meno occupati – della cordata avversaria originariamente formata da Jindal, Leonardo Del Vecchio e dal braccio finanziario dello Stato, la Cassa Depositi e Prestiti. Non proprio tre scappati di casa, quindi, che proponevano in sostanza una riformulazione del vecchio piano del primo commissario dell’Ilva, Enrico Bondi, con la decarbonizzazione grazie all’utilizzo di tecnologie a gas ed elettriche. In pratica le stesse che oggi vengono ritirate fuori dai cassetti, ma in un contesto di domanda che è completamente cambiato. L’ORACOLO GOZZI: “ACCIAIO GREEN COSA DA LABORATORIO” All’epoca però c’era un altro confindustriale d’eccellenza, il presidente di Federacciai Antonio Gozzi, che le sminuiva: “La decarbonizzazione della siderurgia è un progetto assolutamente sperimentale, la più importante società al mondo che sta cercando di fare qualcosa, la Voestalpine, lo sta facendo a livello assolutamente sperimentale e ha dichiarato sul Financial Times, che il lavoro durerà decenni”, commentava a febbraio del 2017 quando erano in corso le valutazioni delle offerte. “Stiamo parlando di cose da laboratori di ricerca non applicato all’impresa ancora, è un progetto sperimentale, solo di ricerca al momento”. Eppure la commissione di saggi nominata ad hoc aveva valutato positivamente la parte industriale del piano proposto da Jindal, Del Vecchio e Cdp, contrariamente a quanto aveva fatto con quello di Arcelor e soci, che era stato giudicato incoerente su investimenti e volumi di produzione, come rivelato dal Fatto all’indomani dell’aggiudicazione. In pratica sulla bilancia il peso maggiore era stato dato alla parte economica dell’offerta e quando il concorrente industrialmente più promettente ha provato a rilanciare, Calenda chiuse la porta affrettandosi a chiedere un parere all’avvocatura di Stato. Il resto è storia. L'articolo La lunga notte dell’Ilva morente e la previsione ignorata di Ubs nel 2014: “Se chiude, l’acciaio Ue sarà salvo” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Generali abbandona il progetto di gestione del risparmio insieme ai francesi di Natixis
Come previsto, esce dai radar anche il casus belli che ha portato alla conquista di Mediobanca da parte del Monte dei Paschi di Siena. L’alleanza da 1.900 miliardi di euro fra Generali e Natixis nel risparmio gestito è stata definitivamente archiviata. Il gruppo di Trieste e i francesi di Bpce cui fa capo Natixis, hanno deciso di interrompere le trattative iniziate poco meno di un anno fa che avevano messo in allarme il governo. Dandogli argomenti per spalleggiare la scalata al primo socio del Leone, Mediobanca appunto. Tutto era rimasto bloccato in attesa di capire l’esito dell’offerta che ha poi fatto finire piazzetta Cuccia sotto il controllo di Mps in un’operazione che è tutt’ora al vaglio della Procura di Milano. L’obiettivo nel prendere più tempo, dopo aver eliminato le penali da 50 milioni che pendevano su chi avesse fatto un passo indietro, era di trovare condizioni più digeribili ai soci di riferimento del Leone, Caltagirone e Delfin. Entrambi fin dall’inizio hanno infatti osteggiato l’alleanza, così come hanno fatto diversi esponenti del governo. Evidentemente alla fine non si è trovata la quadra sul progetto che, nelle intenzioni iniziali, avrebbe dovuto far nascere un campione europeo mettendo assieme le rispettive attività nell’asset management. A comunicarlo sono stati i diretti interessati, Generali e Bpce, che in una nota hanno spiegato di aver “condotto approfondite interlocuzioni e le consultazioni previste con gli stakeholder interessati” in linea con quanto prevedono i rispettivi processi e modelli di governance. “Sebbene negli ultimi mesi il lavoro svolto insieme abbia confermato il merito e il valore industriale di una partnership” entrambi “hanno stabilito congiuntamente di interrompere le consultazioni, in linea con i termini comunicati il 15 settembre scorso, concludendo che non sussistono le condizioni per raggiungere un accordo definitivo”. Che il matrimonio nella gestione del risparmio non fosse da fare si era capito da tempo, con la fine del supporto all’alleanza coi francesi da parte Mediobanca non più guidata da Alberto Nagel. Nel comunicato congiunto con il quale hanno ufficializzato il fallimento, Bpce e Generali hanno comunque assicurato di voler mantenere il loro “impegno per lo sviluppo di un’industria finanziaria dinamica, guidata da campioni europei competitivi a livello globale che contribuiscano al successo economico della regione”. Ma la partita più importante per il Leone di Trieste ora è un’altra. L'articolo Generali abbandona il progetto di gestione del risparmio insieme ai francesi di Natixis proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Multe da 520mila euro a sei società di call center. L’Antitrust: “Informazioni ingannevoli, lesa libertà dei consumatori”
Sanzionate per oltre mezzo milione di euro dall’Antitrust sei società di call center con l’accusa di aver concluso contratti di energia e telefonia dopo aver fornito informazioni ingannevoli. Le prime tre aziende, attive nel settore energetico, sono Titanium, Fire – condannate in solido a pagare 160mila euro – e J.Wolf Consulting, multata di 120mila euro. Ci sono poi Nova Group, Communicate e Entiende, attive nel settore delle telecomunicazioni, multate rispettivamente per 80mila, 40mila e 120mila euro. Le società avrebbero contattato i consumatori proponendo l’attivazione di contratti energetici dopo aver fornito delle formazioni false o ingannevoli sulla propria identità, sul motivo della telefonata e sulla convenienza dell’offerta. Come spiega l’AGCM in un comunicato stampa: “Nel settore dell’energia è stato accertato che gli operatori dei call center si presentavano come dipendenti di Autorità di regolazione e controllo o di un “centro assistenza bollette” e informavano i consumatori di asseriti aumenti imposti dalla regolazione o di presunte anomalie (doppia attivazione di forniture su un’unica utenza o difficoltà nello switching), per indurli a stipulare un nuovo contratto di fornitura”. Per quanto riguarda le telecomunicazioni – spiega la nota – i telefonisti prospettavano (fingendosi impiegati dell’ufficio tecnico o amministrativo del fornitore attuale) imminenti scadenze o disservizi sulla tariffa relativa al contratto in essere e nuovi rincari ai danni dell’utente chiamato. “Gli addetti ai call center” – spiega AGCM – “indicavano altresì che questi eventi potevano essere evitati attivando una nuova offerta con un diverso operatore a condizioni contrattuali particolarmente favorevoli, che poi si rivelavano false”. “Tale condotta” – conclude l’Antitrust – “è risultata idonea a incidere sulla libertà dei consumatori di scegliere in modo consapevole e informato il proprio fornitore, alterando le facoltà di valutare la convenienza delle offerte attraverso la prospettazione di informazioni non rispondenti a realtà, in violazione degli articoli 20, 21 e 22 del Codice del consumo”. L'articolo Multe da 520mila euro a sei società di call center. L’Antitrust: “Informazioni ingannevoli, lesa libertà dei consumatori” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’ad di Mps a Caltagirone su Mediobanca: “Il vero ingegnere è stato lei, io ho eseguito solo l’incarico”
“Il vero ingegnere è stato lei, io ho eseguito solo l’incarico… Comunque godiamoci questa cosa, ha ingegnato una cosa perfetta, quindi complimenti a lei per l’idea“. È il 18 aprile 2025, l’amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena, Luigi Lovaglio, è al telefono con quello che, dopo il ministero dell’Economia, è il suo più importante azionista, Francesco Gaetano Caltagirone. La data è importante, perché siamo all’indomani dell’assemblea del Monte che ha approvato l’aumento di capitale a favore della scalata di Mediobanca. “Perfetto, grazie. È andata come doveva”, replica il costruttore editore romano nella telefonata registrata dagli investigatori del pool milanese contro i reati di finanziari e riportata in esclusiva dal Corriere della Sera in edicola venerdì 28 novembre. “Ci sono anche intercettazioni come queste, oltre alla ricostruzione del ‘costante investimento a scacchiera in Mediobanca e Generali da parte del gruppo Caltagirone e di Delfin’, ad aver spinto la Procura di Milano a indagare il settimo più ricco italiano costruttore-finanziere-editore Caltagirone, il presidente di Luxottica e della controllante lussemburghese Delfin, Francesco Milleri, e il banchiere di Mps Lovaglio per le ipotesi di reato di ‘aggiotaggio‘ e di ‘ostacolo alle Autorità di vigilanza‘”, spiega il quotidiano di Urbano Cairo che per primo, giovedì 27 novembre, ha dato notizia degli avvisi di garanzia e delle perquisizioni a carico degli scalatori dell’anno. La questione non è puramente teorica: in caso di accordo tra più azionisti, al superamento congiunto della soglia del 25% di proprietà di una società quotata, la legge prevede l’obbligo di lanciare un’offerta pubblica di acquisto. Che per definizione è in contanti, mentre quella che è stata lanciata su Mediobanca a gennaio di quest’anno era un’offerta di scambio in carta, cioè azioni Mps contro azioni Mediobanca, alle quali si è poi aggiunta una mancia in contanti e che si è conclusa a settembre con la consegna a Siena (quindi a Caltagirone, Delfin, ministero dell’Economia e Bpm) di Mediobanca e della sua più importante partecipazione, il 13% delle Generali, cassaforte d’Italia. Caltagirone e Delfin a novembre del 2024 insieme avevano già più del 25% di Mediobanca, ma non avrebbero potuto lanciare un’Opa sul 100% di Piazzetta Cuccia per questioni regolamentari, essendo soggetti industriali e non finanziari. Fondamentale quindi il veicolo Mps, una banca che era a portata perché il governo ne avrebbe dovuto dismettere una quota importante entro la fine dell’anno, come era noto per via di accordi con l’Europa e come poi accaduto con la procedura di vendita accelerata (accelerated bookbuilding o abb) del 13 novembre 2024 finita nel mirino della procura. “Non è spiegabile, se non nel senso di voler pilotare l’attività di dismissione, l’affidamento, di un anno fa, del ruolo ‘di bookrunner unico a Banca Akros, intermediario con una sola esperienza di Abb alle spalle, peraltro di entità notevolmente inferiore a quella in esame, laddove i precedenti Abb del Mef erano stati affidati a un pool di banche internazionali come Ubs, BofA, Jefferies, oltre che a Mediobanca, spiega la Procura nell’atto di perquisizione eseguito nell’ambito dell’indagine e citato dall’Ansa. Secondo il Corriere, però, “il Mef-Ministero dell’Economia e delle Finanze del governo Meloni, non indagato solo perché la procedura accelerata, con la quale il 13 novembre 2024 il Mef incaricò il piccolo intermediario Banca Akros di vendere il 15% di azioni Mps, non può essere ritenuta ‘gara pubblica‘ sulla scorta del decreto ministeriale 2020 che regolava le dismissioni: altrimenti, osservano gli inquirenti elencando una complessa sfilza di ‘opacità e anomalie’, ci sarebbero stati tutti ‘gli elementi di fraudolenza per integrare il reato di turbativa d’asta‘. Infatti, benché ‘organizzata in modo da apparire come una gara competitiva e trasparente‘, la dismissione di queste quote governative di Mps fu ‘viceversa costruita in modo tale che risultassero acquirenti i soggetti che avevano condiviso e che avrebbero beneficiato del progetto di controllo di Mediobanca‘ benedetto proprio da Palazzo Chigi”. Cioè Caltagirone e Delfin, oggi in testa all’azionariato di Mps e, quindi, di Mediobanca e Generali. Quindi a parte un tema di conflitto d’interessi dell’arbitro, regolatore e giocatore, con relativo danno d’immagine, comunque vada a finire l’inchiesta al momento il Tesoro ne esce senza ripercussioni. A parte il danno collaterale dell’utilizzo del golden power che ha tenuto Unicredit fuori dalla partita, visto che in caso di conquista di Bpm la banca di Andrea Orcel si sarebbe trovata tra i soci rilevanti di Mps. Ora i conti su questo capitolo sono in corso a Bruxelles e al Consiglio di Stato e bisognerà aspettare a lungo per vedere come andrà a finire. Sembra poi destinata a uscire senza ripercussioni rilevanti anche l’operazione Mps-Mediobanca che comunque è già stata conclusa e perfezionata. Ma bisognerà vedere al termine dell’indagine, quando le carte saranno tutte note. E in ogni, il danno d’immagine non è secondario. Soprattutto per Lovaglio, che puntava a un rinnovo del mandato. Ma anche per Milleri che, in quanto numero uno di Essilor – Luxottica, deve rispondere alle regole francesi e alle lagnanze dei suoi litigiosi azionisti-eredi di Leonardo Del Vecchio. Poi, se gli illeciti fossero provati, ci sarebbero delle sanzioni e ci potrebbero essere delle richieste di risarcimento da parte degli azionisti che hanno ricevuto carta invece di moneta sonante, ma anche qui, previa dimostrazione dell’effettivo danno. Oltre che, appunto, dell’abuso che non è nè scontata nè facile da ottenere. L'articolo L’ad di Mps a Caltagirone su Mediobanca: “Il vero ingegnere è stato lei, io ho eseguito solo l’incarico” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Francesco Gaetano Caltagirone
Monte dei Paschi di Siena
Ponte sullo Stretto, perché la Corte dei Conti ha detto no: violate direttive Ue su ambiente e appalti. E c’è il nodo tariffe
Ci sono la violazione di due direttive europee tra cui quella relativa alla conservazione di habitat naturali e la mancanza del parere dell’Autorità di regolazione dei trasporti sul piano tariffario dietro il no della Corte dei Conti al visto di legittimità e alla registrazione alla delibera del Cipess sul via libera al ponte sullo Stretto di Messina. Dalle 33 pagine di motivazioni, depositate giovedì dalla Sezione centrale di controllo di legittimità, emerge che i magistrati contabili contestano innanzitutto il superamento della valutazione ambientale negativa attraverso la procedura “Iropi”, quella a cui si ricorre quando ci sono imperative motivazioni di rilevante interesse pubblico che giustificano un progetto anche se ci sono criticità. Il secondo profilo riguarda i contratti con il general contractor Eurolink, di cui è capofila WeBuild: la loro “riattivazione”, con aggiornamento dei corrispettivi e radicale modifica delle condizioni economiche, viola l’articolo 72 della direttiva appalti. Abbastanza per fermare il provvedimento che avrebbe dovuto segnare il via ai cantieri dell’opera simbolo del governo Meloni. Il giudizio arriva al termine di un’istruttoria durante la quale il Collegio ha chiesto chiarimenti a Palazzo Chigi, Mit, Mase, Mef e alla società Stretto di Messina, senza ottenere risposte ritenute sufficienti a superare i rilievi. LA VIOLAZIONE DELLA DIRETTIVA HABITAT Il primo fronte riguarda la decisione di superare il parere negativo della Commissione tecnica VIA-VAS, che nel 2024 aveva rilevato criticità gravi per tre siti Natura 2000. Il governo ha scelto di ricorrere alla procedura “Imperative reasons of overriding public interest”, prevista dalla direttiva Habitat solo in casi eccezionali. Ma per la Corte l’uso della deroga non è stato adeguatamente motivato né accompagnato da un’istruttoria tecnica conforme ai criteri europei. La relazione Iropi approvata dal Consiglio dei ministri il 9 aprile 2025, osservano i giudici, è priva di firma, data e, soprattutto, di una valutazione autonoma da parte delle amministrazioni competenti (in particolare il Mase). Non dimostra l’assenza di soluzioni alternative, che la direttiva impone di analizzare in modo approfondito “alla luce degli effetti sugli habitat e sulle specie” e non solo sulla base degli studi prodotti dal soggetto proponente. La Corte contesta anche la qualificazione dei “motivi imperativi di interesse pubblico”. Il governo ha fondato la deroga sulle ricadute economiche del Ponte, sull’aumento dell’accessibilità e sull’integrazione territoriale fra Calabria e Sicilia. Ma per l’Unione europea, ricorda la Corte, quelle motivazioni non consentono di prescindere dal parere della Commissione: si può procedere solo in presenza di ragioni legate alla salute pubblica, alla sicurezza o a impatti ambientali di primaria importanza. Ragioni che non sono state dimostrate. A ciò si aggiunge la carenza del confronto con Bruxelles: la Dg Environment, con una lettera del 15 settembre, aveva chiesto chiarimenti specifici su diversi profili critici, ma il Mase ha fornito una risposta giudicata “meramente riproduttiva” dei pareri VIA, senza nuovi elementi. Nel complesso, secondo il Collegio, la fase Iropi “non risulta coerente con il riparto delle competenze e con i criteri stringenti della direttiva”. Il secondo profilo riguarda i contratti con il general contractor e gli altri affidatari: la loro “riattivazione”, con aggiornamento dei corrispettivi e radicale modifica delle condizioni economiche, viola l’articolo 72 della direttiva appalti. Il finanziamento, ora integralmente pubblico, e le altre variazioni configurano modifiche sostanziali che avrebbero richiesto una nuova gara. Il Cipess, rileva la Corte, si è limitato a prendere atto dei costi senza svolgere un’istruttoria propria. Per questo la delibera è stata dichiarata illegittima. L'articolo Ponte sullo Stretto, perché la Corte dei Conti ha detto no: violate direttive Ue su ambiente e appalti. E c’è il nodo tariffe proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Caltagirone indagato a Milano insieme al presidente di Luxottica e all’amministratore delegato di Mps per la scalata a Mediobanca
Francesco Gaetano Caltagirone è indagato a Milano insieme al presidente di Luxottica, Francesco Milleri e all’amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena, Luigi Lovaglio. L’ipotesi di reato della Procura è di aggiotaggio e ostacolo alle autorità di vigilanza. L’inchiesta di cui ha dato notizia in esclusiva il Corriere della Sera, vede al centro un presunto accordo in relazione all’offerta pubblica di scambio che ha portato l’istituto senese ad acquisire la maggioranza di Mediobanca. L'articolo Caltagirone indagato a Milano insieme al presidente di Luxottica e all’amministratore delegato di Mps per la scalata a Mediobanca proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Biocarburanti dopo il 2035: “Pressioni sull’Ue, ma vanno macellati 120 maiali per alimentare un’auto per un anno”
L’industria petrolifera e quella automobilistica stanno esercitando forti pressioni sull’Unione europea, affinché si preveda la possibilità di vendere auto endotermiche, alimentate con biocarburanti, anche dopo il 2035. Ma questa ipotesi – ventilata prima dell’ultimo Consiglio dell’Unione e fortemente sostenuta dal Governo italiano, oltre a comportare modifiche sostanziali al Regolamento Ue (che oggi prevede l’immatricolazione di sole auto a zero emissioni a partire dal 2035), innescherebbe un incremento insostenibile della domanda per questi carburanti. Lo sostiene Transport & Environment, organizzazione europea per la decarbonizzazione dei trasporti che, in un’analisi appena pubblicata calcola gli effetti che avrebbe il riconoscimento dei biofuels tra le soluzioni energetiche per la transizione dei trasporti su strada. Si tratterebbe prevalentemente di biofuels ottenuti da materie prime di scarto limitate nella disponibilità e in larga parte importate, come grassi animali, oli da cucina usati e co-prodotti dell’olio di palma. “Estenderne l’impiego anche alle auto (oltre che ad aerei e navi) spingerebbe a consumarne una quantità, al 2050, da due a nove volte superiore rispetto a quanto si potrà produrre in modo realmente sostenibile” spiega T&E nel report. Perché si tratta di una domanda insostenibile? “Alimentare un’auto totalmente a biofuels per un anno (per 15mila chilometri) richiederebbe il macello di circa 120 maiali o gli oli esausti prodotti dalla frittura di 25 chilogrammi di patatine al giorno”. LA POSIZIONE DELL’INDUSTRIA E LE PRESSIONI SULL’UE Nei giorni scorsi, la lobby automobilistica tedesca (Via), l’associazione dei fornitori automobilistici (Clepa) e un gruppo di 28 aziende e associazioni del settore dei carburanti hanno inviato una comunicazione alla Commissione europea, chiedendo che i veicoli che utilizzano biocarburanti possano essere considerati come a emissioni zero, anche dopo il 2035. Acea, l’associazione dei carmaker europei, ha chiesto una “implementazione pragmatica” delle norme, che consenta l’immatricolazione di nuove vetture alimentate con carburanti a zero emissioni di carbonio anche oltre il 2035. Emblematiche le parole pronunciate dal commissario Ue ai Trasporti, Apostolos Tzitzikostas, che confermano la volontà della Commissione di aprire alle richieste del mondo automotive (Leggi l’approfondimento). “Stiamo conducendo una revisione nell’ambito del più ampio pacchetto per il comparto automotive che rispetterà il principio di neutralità tecnologica” ha detto. I BIOFUELS “SPRECATI” PER LE AUTO Una decisione in tal senso, secondo Transport & Environment, avrebbe due gravi conseguenze: consolidare il mercato di fonti fossili per il settore dell’auto e “sprecare” le limitate quantità di biocarburanti avanzati, fondamentali per i settori cosiddetti hard to abate, come l’aviazione, dove la decarbonizzazione è più difficile. Secondo gli attuali target Ue, infatti, anche nello scenario più ottimistico, nel 2050 aerei e navi richiederanno circa il doppio dei biocarburanti avanzati che sarà possibile produrre in Europa. “Le pressioni dell’industria per espandere il ruolo dei biocarburanti nella transizione sono irresponsabili: non disporremo mai di quantità di grassi animali e oli da cucina esausti sufficienti per alimentare in modo sostenibile neppure una frazione del parco auto europeo, e ancor meno per navi e aerei” afferma Carlo Tritto, Sustainable Fuels Manager di T&E Italia. IL RISCHIO DI AUMENTARE LA DIPENDENZA DALL’IMPORT Se è vero che i biocarburanti avanzati rappresentano una delle soluzioni necessarie alla decarbonizzazione dei trasporti, è altrettanto vero che quelli realmente sostenibili sono limitati e spesso insufficienti, in termini di disponibilità dei feedstock, nel mercato interno. L’Europa, oggi, importa più dell’80% del proprio fabbisogno di olio da cucina usato da Paesi come Cina e Malesia. Mentre il pome (sotto-prodotto dell’inquinante olio di palma) viene importato dall’Unione europea, insieme al Regno Unito, in volumi circa doppi rispetto al potenziale globale. “Per soddisfare i consumi annui di un’auto con biofuels sarebbe necessario friggere – quotidianamente – 25 chilogrammi di patatine o macellare circa 120 maiali l’anno” si legge nell’analisi. I grassi animali, “scarto” dell’industria zootecnica, sono già tra i feedstock più richiesti: “Con l’attuale domanda, le auto europee ne consumano 1,3 milioni di tonnellate, equivalenti ai grassi prodotti dal macello di 200 milioni di maiali”. Lo squilibrio tra domanda e disponibilità aumenterebbe la dipendenza dell’Europa dalle importazioni. T&E stima che oggi circa il 60% dei biocarburanti utilizzati in Europa – sia quelli ottenuti da colture sia quelli avanzati – provenga da Paesi terzi. Per l’Italia tale dipendenza è anche più netta – superiore al 90% –, con la gran parte delle materie prime importate da Indonesia e Malesia, due dei principali produttori di olio di palma al mondo. La domanda ulteriore di biofuels, generata dal potenziale impiego nelle auto, porterebbe le importazioni europee al 90% entro il 2050. RISCHIO FRODI E IL PROBLEMA DELLA QUALITÀ DELL’ARIA L’aumento della dipendenza dall’estero comporta anche un maggiore rischio di frodi. T&E ha documentato in diverse occasioni significative discrepanze nei volumi dichiarati di oli esausti importati in Europa. L’Unione Europea, ad esempio, importa dalla Malesia un volume di olio esausto da cottura tre volte superiore a quanto il Paese può realisticamente raccogliere. Un’inchiesta ha messo in luce una potenziale frode nell’etichettatura degli effluenti dei mulini dell’olio di palma, la cui quantità esportata dall’Indonesia in Europa supererebbe la produzione globale stimata. L’Indonesia stessa – principale produttore mondiale di olio di palma e dei suoi sottoprodotti – ha avviato un’indagine interna in merito. L’Italia, il Paese più interessato a far entrare i biocarburanti nel regolamento Ue sulle auto, è anche quello maggiormente esposto al rischio di frodi. “Lo scorso anno il 40% di tutti i biocarburanti prodotti nel nostro Paese derivava da pome, con circa 600mila tonnellate importate dall’Indonesia” spiega Tritto. E aggiunge: “Oltre a non risolvere i problemi di dipendenza energetica, e in molti casi quelli relativi al clima, i biofuels non sono una soluzione nemmeno per la qualità dell’aria. Quando bruciati nei motori, producono elevate quantità di inquinanti locali tossici, con gravissimi effetti per la salute umana e ingenti costi sanitari”. E l’Italia, in materia di inquinamento atmosferico, ha già ricevuto tre procedure di infrazione dall’Ue, con due di queste tradotte in condanne dalla Corte di Giustizia. 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Cripto-lavanderia: dopo le norme varate da Trump riciclati 28 miliardi di dollari legati a attività illecite
Da quando Donald Trump ha varato le norme sulle criptovalute che hanno reso i token digitali mainstream negli Usa, utilizzando le cripto per fare affari personali e di famiglia che hanno aumentato il patrimonio del suo clan per 4 miliardi di dollari, denaro sporco per ben 28 miliardi di dollari è stato “lavato” attraverso le criptovalute. Lo documenta l’inchiesta pubblicata dal Consorzio internazionale di giornalismo investigativo ICIJ (lo stesso dei Panama, Paradise e Malta Papers), insieme al New York Times e da altre 36 organizzazioni giornalistiche in tutto il mondo. Trump ha promesso di rendere gli Usa la “capitale mondiale delle criptovalute“: “La guerra dell’amministrazione Biden contro le criptovalute è finita”, ha dichiarato Karoline Leavitt, portavoce della Casa Bianca. Un’inversione di 180 gradi rispetto ai controlli dell’era Biden. Dopo aver costretto alle dimissioni molti regolatori che intralciavano i suoi piani, tra conflitti di interesse personali e dell’amministrazione (la Cantor Fitzgerald, azienda del suo segretario al Commercio Howard Lutnik, è la banca depositaria di Tether, la principale stablecoin mondiale), la finanza Usa ha adottato i criptoasset come nuova forma di speculazione per tutti. C’è però un costo nascosto. Secondo una inchiesta di ICIJ e New York Times, “almeno 28 miliardi di dollari legati ad attività illecite sono confluiti negli exchange di criptovalute negli ultimi due anni. Il denaro proveniva da hacker, ladri ed estorsori. È stato ricondotto a criminali informatici in Corea del Nord e a truffatori i cui schemi si estendevano dal Minnesota al Myanmar. L’analisi ha mostrato che questi gruppi hanno trasferito più volte denaro sui più grandi exchange del mondo, i mercati online dove gli utenti possono convertire dollari statunitensi o euro in bitcoin, ether e altre monete digitali”. Al centro dell’inchiesta ci sono alcuni exchange come Binance, la maggior piattaforma mondiale di scambio di criptovalute, che a maggio ha stretto un accordo commerciale da 2 miliardi di dollari con la società di criptovalute di Trump, ma anche almeno “altri otto importanti exchange, tra cui OKX, una piattaforma globale con una presenza crescente negli Stati Uniti”. “Le forze dell’ordine non riescono a gestire l’enorme quantità di attività illecite nel settore”, ha affermato Julia Hardy, co-fondatrice di zeroShadow, una società di indagini sulle criptovalute. “Non può andare avanti così”. Per garantire l’accuratezza dei risultati dell’indagine, l’ICIJ si è affidata a più di due dozzine di analisti blockchain, tra cui esperti del settore e accademici, nonché ad alcune società di analisi della blockchain. ICIJ ha poi sviluppato metodi proprietari per analizzare le transazioni effettuate con Tether, la principale stablecoin mondiale (una stablecoin è una criptovaluta il cui valore è ancorato 1 a 1 a un altro asset, come il dollaro) gestita dagli italiani Giancarlo Devasini e Paolo Ardoino. Mentre Binance era sotto la supervisione di osservatori nominati dal tribunale, almeno 408 milioni di dollari in valuta digitale sono confluiti sui conti dell’exchange da Huione Group, una società finanziaria con sede in Cambogia usata dalle bande criminali cinesi per riciclare i proventi del traffico di esseri umani e di operazioni fraudolente su scala industriale. Binance non è stata la sola. A febbraio OKX, un altro dei più grandi exchange di criptovalute al mondo, si è dichiarato colpevole negli Stati Uniti di aver gestito un sistema di trasferimento di denaro illegale e ha accettato di ingaggiare un consulente per la conformità incaricato dal tribunale. Nonostante questa svista, i conti dei clienti di OKX hanno continuato a ricevere centinaia di milioni di dollari da Huione, inclusi oltre 161 milioni di dollari dopo che a maggio il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha etichettato Huione come “principale fonte di riciclaggio di denaro”. ICIJ ha esaminato decine di migliaia di transazioni per centinaia di milioni di dollari che Huione ha inviato agli indirizzi di deposito dei clienti su Binance e OKX. L’analisi di ICIJ ha rilevato che, in un anno, Huione ha trasferito in media 1 milione di dollari in tether al giorno sui conti dei clienti su Binance. Anche dopo che il gruppo è stato etichettato come riciclatore il ritmo è continuato senza sosta. Huione offre immobili sparsi nel Sud-est asiatico ai suoi clienti, gruppi criminali organizzati cinesi, per allestire call center nei quali centinaia di lavoratori – molti dei quali vittime della tratta di esseri umani – sono schiavi di una catena delle truffe: cercare e contattano le vittime su Facebook e altre piattaforme di social media, fingono interessi amorosi o consigli finanziari, poi indirizzano le vittime verso siti mascherati da piattaforme di criptovalute. Una volta che le vittime pagano, i siti mostrano quello che sembra un saldo in aumento. In realtà, i ladri stanno già riciclando i fondi delle vittime, spesso proprio sugli exchange cripto. Ma il gruppo criminale non è il solo: l’inchiesta documenta decine di casi simili. Il tutto avviene nonostante i principali exchange si siano impegnati a reprimere i criminali che usano le cripto per spostare fondi. Nel 2023 Binance si è dichiarato colpevole negli Usa per violazioni delle norme in materia di riciclaggio e ha accettato di pagare una multa di 4,3 miliardi di dollari al governo di Washington dopo aver elaborato transazioni per gruppi terroristici come Hamas e Al Qaeda, criminali e pedofili. Il suo fondatore e amministratore delegato, Changpeng “CZ” Zhao, si era dichiarato colpevole ma a ottobre Trump lo ha graziato e la Casa Bianca lo ha dipinto come vittima di una caccia alle streghe politica. Così, tra conflitti di interesse e manipolazioni politiche, il riciclaggio continua. L'articolo Cripto-lavanderia: dopo le norme varate da Trump riciclati 28 miliardi di dollari legati a attività illecite proviene da Il Fatto Quotidiano.
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