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La lettura e la crisi del piacere
N on passa praticamente settimana senza che qualche inchiesta, ricerca o statistica, non certifichi lo stato di crisi, in alcuni casi comatoso, che colpisce la lettura e l’editoria in generale. Dopo i consueti desolanti dati sulla vendita dei libri che da anni indicano un calo continuo, la cui rotta appare impossibile da essere invertita, ora secondo una ricerca guidata dall’Università della Florida e dall’University College di Londra, la lettura quotidiana per piacere negli Stati Uniti, risulta essere diminuita del 40% negli ultimi due decenni. I risultati pubblicati da iScience indicano un vero e proprio disamoramento alla lettura: non solo si legge meno, ma soprattutto se ne ha meno piacere. Abbiamo così interpellato Chiara Faggiolani, docente di biblioteconomia presso l’Università la Sapienza di Roma, dove dirige il Laboratorio di biblioteconomia BIBLAB e il master in editoria. Presidente del Forum del libro, Chiara Faggiolani ha recentemente pubblicato, Libri insieme (2025). Il suo ultimo libro è un interessantissimo e colto saggio/reportage sulle comunità della conoscenza. Un viaggio e un’indagine nei luoghi dove non solo si sta resistendo, reinventando e immaginando nuovi spazi per la lettura, mentali e reali, architettonici e sociali insieme, ma dove si sta anche promuovendo in maniera capillare e dal basso un piacere essenziale e una pratica necessaria per il nostro benessere e per la nostra vita in generale. COME È CAMBIATO IL CONCETTO DI PIACERE RISPETTO ALL’APPROFONDIMENTO CULTURALE SECONDO LEI? La lettura è un vizio e non una virtù, aspetto che tende a essere dimenticato. Il piacere della lettura non è scomparso ma compete con forme di intrattenimento più immediate: negli anni Sessanta ad esempio la lettura era legata a una dimensione di piacere, scoperta e persino emancipazione che oggi sembra non avere. I libri rappresentavano un varco verso mondi lontani, una forma di accesso al sapere in un’epoca in cui però le alternative di intrattenimento e di informazione erano decisamente più limitate. Il libro era un oggetto più “raro”, per questo forse più desiderato, simbolo di crescita culturale e di libertà individuale. Quello della lettura è un piacere che ha bisogno di lentezza e di immersione esattamente come allora, ma sentiamo di vivere in un’epoca che celebra la velocità e l’accumulo. Per questa ragione sembra una pratica controcorrente… la mia personale idea è che proprio per questo la lettura sia esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. SECONDO I DATI PROPOSTI DA UNO STUDIO CONDOTTO DA RICERCATORI DELLO UNIVERSITY COLLEGE DI LONDRA E DELL’UNIVERSITÀ DELLA FLORIDA, SI EVIDENZIA ‒ OLTRE CHE UN GENERALE E ANCHE SOSTANZIALE CALO DELLA LETTURA ‒ UN VERO E PROPRIO CROLLO DELLA LETTURA COME FORMA DI PIACERE. IL LIBRO NON È DUNQUE PIÙ UN’OCCASIONE DI SVAGO E APPROFONDIMENTO INSIEME? I dati sulla lettura, anche in Italia, non sono incoraggianti. Ma con le statistiche bisogna essere prudenti: la prima domanda da porsi è sempre che cosa stiamo misurando e come. I numeri non sempre restituiscono la portata della trasformazione che stiamo vivendo. Dal mio punto di vista, il libro resta ancora un luogo di piacere e di approfondimento, ma non più in maniera lineare. Oggi il libro è diventato una soglia: leggerezza e profondità non si escludono, anzi coesistono e si contaminano. Il nodo non è il libro, ma il tempo che siamo disposti a concedergli. Si è già affermata una nuova forma di lettura “aumentata”, che alterna al libro l’uso di secondi schermi e linguaggi diversi, intrecciando tempi lenti e tempi veloci. A questa si affianca la lettura “socializzata”, che trova nei gruppi di lettura, ad esempio, la possibilità di moltiplicare e trasformare l’esperienza individuale. Forse la sfida, oggi, non è difendere un modello unico di lettura, ma imparare a coglierne la metamorfosi. Proprio su queste trasformazioni si concentrano due ricerche che sto conducendo: la prima, nell’ambito del progetto PRIN NEREIDE (NEw Reading Experiences in the Digital Ecosystem), insieme a Gino Roncaglia, dedicata alle forme della lettura aumentata; la seconda, S.T.O.R.I.E. (Storie Trasformative, Opportunità, Relazioni, Inclusione ed Emozioni), che indaga la lettura come esperienza condivisa e generativa di comunità. Una ricerca promossa dall’Associazione degli editori indipendenti (ADEI) e dal Centro per il libro e la lettura (Cepell), e realizzata dal Laboratorio di biblioteconomia sociale e ricerca applicata alle biblioteche (BIBLAB) della Sapienza, che dirigo. APPARE INVECE ANCORA SOLIDO IL MONDO DELLA LETTURA PER L’INFANZIA. QUALI DINAMICHE SI POSSONO ATTIVARE PER EVITARE DI PERDERE LETTORI NELL’ADOLESCENZA E SUCCESSIVAMENTE NELL’ETÀ ADULTA? La mia sensazione è che negli ultimi venticinque anni sia stata dedicata un’attenzione straordinaria alla promozione della lettura e, più in generale, alla salute culturale della prima infanzia. Penso al lavoro prezioso di Nati per leggere e a esperienze come Cultura per crescere della Fondazione Compagnia di San Paolo in Piemonte: oggi le giovani famiglie e i nuovi genitori hanno piena consapevolezza di quanto sia fondamentale inserire la lettura nella quotidianità dei bambini nei primi mille giorni di vita. In questa fase, la lettura è accompagnata: diventa un rituale intimo e familiare, un’esperienza condivisa che segna i ritmi della crescita e che si colloca pienamente in quella che potremmo definire una “zona prossimale di sviluppo”, per richiamare Vygotskij. Quando però si entra nell’adolescenza, il quadro cambia radicalmente. La lettura smette di essere un gesto accompagnato e si trasforma in un atto solitario. Se non ci sono modelli adulti di riferimento, se mancano comunità e spazi dedicati, il libro rischia di perdersi, lasciando un vuoto difficilmente colmabile. È in questa frattura che si gioca la grande sfida del nostro tempo. Per questo, con il Forum del libro, da molti anni portiamo avanti una vera e propria battaglia a favore delle biblioteche scolastiche: è lì che nascono e crescono i lettori. La mia sensazione è che manchi una continuità sociale della lettura: luoghi, gruppi, comunità capaci di trasformare un gesto individuale in un’esperienza collettiva, che dia senso, sostegno e riconoscimento al lettore. Senza questa continuità, la lettura rischia di restare confinata a un tempo fragile, esposto alla dispersione. NEL SUO ULTIMO SAGGIO LIBRI INSIEME, LEI INDICA NELLA VISIONE CONTEMPORANEA DEL TEMPO FINANZIARIZZATO COME LOGICA E MERO STRUMENTO, UNO DEGLI ELEMENTI DI CRISI ANCHE DELLA LETTURA. COME LIBERARE DUNQUE IL TEMPO? È POSSIBILE RITORNARE AL PIACERE DEL TEMPO PERSO? Sì, come ho già anticipato, sono fermamente convinta che il vero problema della lettura oggi sia la mancata valorizzazione di un tempo umano. È sotto gli occhi di tutti: il tempo libero è lasciato al caso, disperso, consumato senza direzione. Negli anni Sessanta non era così, e da quel periodo abbiamo ancora molto da imparare. Liberare il tempo significa restituirgli un valore autentico. La lettura, infatti, viene spesso percepita come un’attività improduttiva, perché non “serve” a nulla nell’immediato. Ma è proprio lì che risiede il suo potere: nel suo sottrarsi alla logica della performance. Parlare di tempo perso è, in realtà, un paradosso, perché ciò che appare improduttivo ci restituisce pienezza, densità e respiro. È esattamente ciò che accade con quelle che nel mio libro chiamo “comunità della conoscenza”: gruppi, spazi, rituali che non producono utilità immediata, ma che hanno la forza di “prendere tempo al tempo”, di piegarlo, trasformarlo e renderlo abilitante. L’ASSENZA DI CONCENTRAZIONE CHE SEMBRA ESSERE DENOTATA COME UN ECCESSO DI DISTRAZIONE, NON È INVECE FRUTTO DI UNA REALE IMPOSSIBILITÀ ALLA DISTRAZIONE? ESISTE FORSE UNA DISTRAZIONE BUONA E UNA CATTIVA? PENSO ANCHE ALL’INFINITO SCROLL SUI SOCIAL CHE SEGNA LE GIORNATE DI MOLTI: UNA DISTRAZIONE CATTIVA, SE VOGLIAMO, CHE DIVIENE IN REALTÀ UN’IMPOSSIBILITÀ ALLA DISTRAZIONE. Ricordiamoci sempre che, quando abbiamo a che fare con gli strumenti, è da noi che dipende l’uso che ne facciamo. Io credo che sia esattamente come stava dicendo: esiste una “distrazione buona”, quella che permette alla mente di divagare, di aprire connessioni inaspettate, di generare visioni nuove. Non a caso parlavo prima di lettura aumentata: leggere significa anche lasciarsi attraversare da pensieri laterali, da deviazioni che non interrompono il senso, ma lo arricchiscono. Per questo trovo sbagliatissimo il divieto assoluto degli smartphone a scuola. Non entro qui nel merito – sarebbe un discorso lungo – ma credo che quella proibizione rappresenti un enorme fallimento educativo. Certo, esiste anche una “distrazione cattiva”: quella del rumore incessante, dello scrolling infinito che ci tiene agganciati senza darci alcun nutrimento. Ma attenzione: non è corretto pensare che questa forma di distrazione sia legata solo al digitale. Non è così. Ci si può disperdere anche in altre attività apparentemente “innocue” se mancano attenzione, coinvolgimento e presenza mentale. La vera differenza non sta nello strumento, ma nel livello di attivazione e di protagonismo che riusciamo a mettere in ciò che facciamo. Una distrazione è sterile quando ci rende del tutto passivi, fertile quando ci apre possibilità, connessioni e immaginazione. Ed è proprio qui che entrano in gioco gli educatori, i mediatori, la scuola: non per proibire, ma per guidare, per aiutare a trasformare gli strumenti in occasioni, per insegnare a distinguere tra dispersione e divagazione creativa. Ma se non lo fa la scuola chi lo deve fare? LA CRISI DELLA LETTURA E DEL LIBRO COME PIACERE FORSE INDICA ANCHE UN DISAGIO CULTURALE PIÙ TRASVERSALE, CHE VA OLTRE LE DINAMICHE TECNOLOGICHE ODIERNE? Sì, la crisi della lettura rivela una difficoltà più profonda: abbiamo confuso il piacere con il consumo. Leggere, invece, non intrattiene soltanto, moltiplica il pensiero. È un gesto esigente – il nostro cervello non è nato per leggere, lo ha imparato con fatica, va ricordato – ma proprio per questo è anche un piacere che apre, sorprende, talvolta inquieta e che ci restituisce complessità. La lettura di libri ci educa a sostare nella complessità delle storie. Questo aspetto è fondamentale rispetto alla nostra essenza di esseri narrativi. IN LIBRI INSIEME LEI CITA IL CASO DEI SILENT BOOK CLUB. COME FUNZIONANO E COME AGISCONO SULLA VITA DELLE PERSONE E SULLA QUALITÀ DI LETTURA QUESTE NUOVE COMUNITÀ DELLA CONOSCENZA? È uno degli esempi più interessanti di comunità della conoscenza. Spesso descritti come una moda – Silent reading party o Silent book club che dir si voglia – sono invece una pratica molto seria. Si tratta di persone che si ritrovano per leggere in silenzio, insieme. Ognuno con il proprio libro, ma immersi nello stesso spazio-tempo: quello della lettura profonda. Non si discute del libro letto come avviene con i gruppi di lettura: l’esperienza principale è proprio la condivisone del silenzio della lettura profonda. Si tratta quindi di un rituale semplice che restituisce alle persone la possibilità di entrare nello stato di flusso di cui parla Mihály Csíkszentmihályi, quel momento in cui la mente si concentra, il tempo si contrae e si espande allo stesso tempo e ci si sente pienamente presenti. Alla fine, magari, si condividono piccoli pezzi di brani letti, si scambiano riflessioni e impressioni. È un piccolo miracolo: se fatto bene è una forma contemporanea di resistenza al rumore del mondo. GLI EDITORI E GLI STESSI QUOTIDIANI COSÌ COME LE RIVISTE SEMBRANO NON RIUSCIRE ‒ NONOSTANTE QUALCHE SFORZO ‒ A COGLIERE LA SPECIFICITÀ DEI GRUPPI DI LETTURA E IN SENSO PIÙ AMPIO LE COMUNITÀ DELLA CONOSCENZA INTEGRANDOLE IN DISCORSI PIÙ AMPI. COME PUÒ IL LIBRO ESISTERE ALL’INFUORI DI UN MERCATO? QUALI PROSPETTIVE SI POSSONO IMMAGINARE CONSIDERATO CHE PARLIAMO DI UN MOVIMENTO MOLTO DIFFUSO E NATO DAL BASSO? Il libro è certamente un prodotto, l’editoria un’impresa e un mercato. Non dobbiamo dimenticarlo. Ma il libro non è solo un bene da vendere: è un bene relazionale. Ogni libro porta con sé idee che circolano, immaginari che si condividono, legami che si creano. I gruppi di lettura e le comunità della conoscenza lo dimostrano chiaramente. Con la ricerca S.T.O.R.I.E. che ho citato prima, abbiamo mappato in un mese e mezzo 1.253 gruppi di lettura in Italia, che a mio avviso rappresentano circa il 10% di quelli esistenti. Per il 95% di questi, la partecipazione al gruppo genera benefici che vanno oltre la lettura stessa, con ricadute positive sulla salute mentale, sul benessere individuale e collettivo. Credo che sia questa la prospettiva nuova da abbracciare: guardare non solo al libro come oggetto, ma alle relazioni e agli effetti che la lettura è in grado di generare. Il suo potere trasformativo. MOLTI ESEMPI CHE LEI PORTA IN AMBITO DI CULTURA DELLA LETTURA RAPPRESENTANO NICCHIE DI UN SISTEMA ESTREMAMENTE DIFFUSO LA CUI COMPLESSITÀ È DIFFICILE PERÒ DA SINTETIZZARE E QUINDI DA MODELLARE. ECONOMICAMENTE ABBIAMO A CHE FARE CON ELEMENTI FRAGILISSIMI EPPURE CAPACI DI MUOVERE LETTORI E DARE CORPO A PERCORSI DI ELABORAZIONE MAI BANALI. UN PENSARE I LIBRI CHE PRECEDE IL FARLI, COME AVREBBE DETTO ROBERTO CERATI. MA ORA COME FARLI PER DAVVERO? Ripartire dal pensiero, dal progetto culturale, e non dalla produzione “in serie”. Roberto Cerati, straordinario e storico direttore commerciale di Einaudi, sosteneva che una casa editrice dovesse essere pronta a perdere economicamente su alcuni libri, perché erano necessari per la cultura e per il sistema del libro stesso. In Einaudi, il tavolo del mercoledì, dove si discuteva dei libri, si dice fosse separato da quello del giovedì, dove si parlava di conti: un gesto che mostrava chiaramente come il profitto non potesse essere l’unico criterio. Chi legge potrà obiettare che, da questo punto di vista, la storia della Einaudi non è stata certo brillante. Ma è un rischio da considerare a partire dalla convinzione che la qualità paga sempre. Nel libro che uscirà a breve, esito della ricerca S.T.O.R.I.E., scrivo che i gruppi di lettura vanno considerati attori autonomi del sistema del libro, non appendici di biblioteche o librerie. Proprio per questa ragione: possono diventare laboratori di pensiero collettivo, spazi in cui il libro diventa esperienza condivisa, generativa di relazioni, idee e innovazione culturale, dimostrando che il valore di un libro non si misura solo in copie vendute, ma nella capacità di connettere e trasformare. L’INEVITABILE CRISI DELLE LIBRERIE UNITA ALLA CAPILLARITÀ DEI CANALI ON-LINE E ALLA VELOCITÀ DI STAMPA ‒ ANCHE DI POCHE COPIE ‒ IMPONGONO FORSE UNA NEGAZIONE DI QUELLO CHE È STATO IL MANTRA NEL NOVECENTO, OVVERO LA NECESSITÀ DI DIFFONDERE IL LIBRO? IN FONDO OGGI POCHE COPIE POSSONO GIÀ DETERMINARE UN MOVIMENTO CULTURALE IMPORTANTE E AGIRE SOTTERRANEAMENTE. I GRUPPI DI LETTURA SONO COME GLI UOMINI LIBRO IMMAGINATI DA RAY BRADBURY IN FAHRENHEIT 451? CONNETTERE I LETTORI FORSE OGGI È PIÙ URGENTE IN SOSTANZA CHE DIFFONDERE I LIBRI? Non credo che la crisi delle librerie ‒ anche legata al caro affitti e alla trasformazione delle città, credo vada ricordato ‒, la capillarità dei canali on-line e la velocità di stampa impongano una negazione della necessità di diffondere il libro. Al contrario, credo che ci obblighino a ripensare cosa significa “diffusione”. Il libro non è solo un oggetto da vendere, come dicevo prima, è un veicolo di idee, visioni e relazioni. I gruppi di lettura svolgono oggi un ruolo cruciale in questo ecosistema rendendo viva la circolazione culturale. Connettere i lettori, creare comunità in cui il libro diventa esperienza condivisa, è oggi più urgente che mai. Nel mio libro ho cercato di mostrare il potenziale trasformativo della lettura in questo senso: il ruolo che può avere nel contrasto alla solitudine, nella rigenerazione urbana e nel ripensare la costruzione della salute. COME DEVE ESSERE OGGI UN LUOGO PER LA LETTURA? Tutti i luoghi possono diventare luoghi di lettura. Questa è una delle lezioni principali che ho imparato nel mio viaggio tra le nuove comunità della conoscenza: parchi pubblici, portinerie dei condomini, e così via. I veri luoghi della lettura sono quelli in cui il tempo della lettura viene rispettato, dove leggere significa poterlo fare senza fretta e senza distrazioni, trasformando l’atto in un’esperienza piena e condivisa. Questa consapevolezza sembra quasi ovvia, eppure apre una prospettiva nuova: la lettura, quando diventa protagonista di un luogo, può riabilitarlo e restituirgli un significato completamente nuovo. Nel libro parlo, per esempio, della lettura nei luoghi di cura: cosa accade quando, in un reparto ospedaliero, la domenica pomeriggio che non passa mai per i pazienti ricoverati si riempie di storie e di incontri attorno ai libri? Ci sono però spazi che più di altri dovrebbero porsi l’obiettivo di rendere evidente il potenziale trasformativo della lettura, e di volerla dinamizzare: penso alle librerie, alle biblioteche, e in particolare alle biblioteche scolastiche. Per quanto riguarda le biblioteche, inutile dirlo, una riflessione sugli orari di apertura diventa persino più urgente della progettazione dello spazio, su cui invece, mi pare, siamo più attrezzati. E INFINE COSA È PER LEI IL PIACERE DI LEGGERE UN LIBRO? E IL PRIMO LIBRO CHE RICORDA E L’ULTIMO CHE LE HA DATO PIÙ PIACERE E PERCHÉ? Leggere per me significa riconnettermi autenticamente con me stessa, riscoprire parti di me che la vita quotidiana a volte non mi permette di frequentare. Avere una profonda consapevolezza del potere della lettura e di ciò che attiva dentro di noi mi ha permesso di rendermene conto pienamente… ed è esattamente ciò che vedo accadere spesso con i miei studenti e le mie studentesse. Leggere mi aiuta ad allenare la mia capacità di comprendere il mondo, le persone, le emozioni. Mi permette di sperimentare sensazioni e stati d’animo, anche quelli sgradevoli o inquietanti, che pur non volendo sentire mi arricchiscono profondamente. Mi piace la sensazione di essere messa in difficoltà da una lettura: a volte è come una caduta libera, ma sapendo di avere un paracadute. Il primo libro che ricordo nitidamente da bambina è Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne: un’avventura piena di descrizioni e meraviglia, che mi lasciò con una sensazione di stupore e di entusiasmo difficile da dimenticare. Pur essendo un amante della saggistica, tra gli ultimi libri letti, voglio citare due romanzi molto diversi che mi hanno nutrita di emozioni completamente contrastanti: Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, romanzo d’esordio di Michele Ruol pubblicato da TerraRossa, è un libro che mi ha profondamente emozionato, provocando quell’effetto scomodo al quale facevo riferimento che a volte la lettura riesce a dare. L’anno in cui parlammo con il mare di Andrés Montero, pubblicato da Edicola Ediciones, è stato come una medicina: celebra il valore delle storie, esattamente quello che hanno per me. L'articolo La lettura e la crisi del piacere proviene da Il Tascabile.
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Coscienza politica, letteratura e industria
La loro mancanza di umanità appariva come un prodigio di coscienza di classe (Boris Pasternak) S ettimane fa, su questa rivista, un articolo di Christian Raimo (“La polemica si risolve con la politica”) ha preso il via da due polemiche recenti per sollevare alcune questioni a detta di Raimo centrali. La prima polemica verte sull’inutilità delle presentazioni di libri, alle quali non va mai nessuno; la seconda riguarda la scuola Holden di Torino che venderebbe a caro prezzo non tanto competenze autoriali quanto appartenenza all’ambiente dell’editoria (relazioni e stato sociale). Da un lato le due polemiche sollevano, secondo Raimo, la questione della “sostenibilità di due pezzi fondamentali della filiera dell’industria editoriale, la formazione degli scrittori e la promozione dei libri”; dall’altro, e soprattutto, sono sintomi di una terza questione che non è più possibile ignorare: “in Italia si leggono sempre meno libri, un pezzo consistente del settore editoriale è in crisi e una parte non piccola rischia di chiudere. Ma non è questa la notizia peggiore. La notizia peggiore è che una società che legge di meno peggiora da tanti punti di vista”. Raimo è uno scrittore democratico e progressista, molto attento alle questioni italiane; i suoi contributi sulla storia recente o sui casi di cronaca, i suoi interventi pubblici e le sue lucide prese di posizione antifasciste rappresentano oggi uno dei pochi casi di quello che un tempo si chiamava impegno civile. Lo ammiro per questo da tanti anni e a maggior ragione il suo articolo mi ha sorpreso per tre motivi. Uno, Raimo sostiene che la formazione degli scrittori e la salute del settore editoriale siano questioni centrali. Due, una questione centrale c’è davvero ma Raimo non sembra vederla. Tre, l’articolo tenta di conciliare l’inconciliabile e questo lo rende confuso, a tratti difficile da seguire. Raimo è uno scrittore colto. Nel suo orizzonte ci sono Joyce e De Felice, non il cinema dei fratelli Vanzina. Per questo è sorprendente che nel parlare di scrittura pensi all’editoria aziendale (che da decenni mercifica e standardizza la scrittura banalizzandola) e ne impieghi la lingua (“la filiera dell’industria editoriale”) come se fosse un intellettuale organico nel senso di Gramsci. Per Raimo chi scrive è un addetto di settore, un “pezzo” da formare a scopi industriali nell’ambito della filiera così come il libro va promosso tramite il marketing. Chi conosce le pratiche dell’industria editoriale sa bene quanto poco abbiano a che fare con la letteratura: ci sono agenti che discutono preventivamente la trama con gli autori, redattori che premono per eliminare passi potenzialmente scoraggianti, amministratori delegati che approdando all’editoria dichiarano di voler mettere la propria esperienza al servizio della promozione del brand. “Our portfolio is particularly exciting, with a wider selection of books than usual”, dicono le newsletter degli editori; presto – se non sta già avvenendo – l’intelligenza artificiale verrà usata per le traduzioni e per creare intrecci. Questa mercificazione industriale è in corso da decenni, il suo ambito specifico viene chiamato “la cultura” e il suo progresso è inarrestabile. Non è questo a sorprendere ma il fatto che anche un intellettuale come Raimo arrivi a identificare scrittura e industria editoriale, lettura e vendita, prosperità del capitalismo aziendale e progresso sociale. > Nell’ambito di una “filiera” un calo di fatturato va letto in termini > economici e industriali: la veste dell’umanista preoccupato, che deplora la > scarsa attitudine degli italiani alla lettura e denuncia l’inevitabile > regresso di una società che non legge, finisce per avere qualcosa di > involontariamente oscurantista. In realtà non è affatto ovvio che più case editrici significhino più lettura, né che la salute della “filiera” comporti una società migliore. Anni fa Gianluigi Simonetti scrisse sul Sole 24Ore che le pubblicazioni di narrativa italiana erano aumentate del 1800% rispetto a venticinque anni prima: ciò non significa che per ogni cento scrittori/scrittrici del passato ce ne siano oggi milleottocento, significa che il libro è una merce industrialmente prodotta e che come tale è soggetto alle oscillazioni del mercato (“due milioni netti di libri in meno, un calo di fatturato di 31 milioni”, si rammarica Raimo come se fosse anche lui un consigliere d’amministrazione). In tale contesto il calo di vendite indica una crisi di sovrapproduzione alla quale l’industria reagisce abbassando il prezzo della merce e contestualmente, se possibile, il costo della forza-lavoro necessaria a produrla; i periodi in cui il costo di produzione è superiore al prezzo di mercato sono compensati dai periodi in cui il prezzo torna a superare il costo grazie all’innovazione tecnologica, una grande azienda è per ovvi motivi meglio attrezzata a superare le oscillazioni del mercato e le crisi. Qualora infine il mercato persista in una fase critica, gli investimenti si ritraggono dalla produzione di quella merce per dirigersi in altri settori. Nell’ambito di una “filiera” un calo di fatturato va letto in termini economici e industriali: la veste dell’umanista preoccupato, che deplora la scarsa attitudine degli italiani alla lettura e denuncia l’inevitabile regresso di una società che non legge, finisce per avere qualcosa di involontariamente oscurantista. Altrettanto oscurantista, o fuorviante, è il lungo excursus storico e letterario con cui Raimo ripercorre lo sviluppo dell’editoria, della politica e del capitalismo in Italia a partire dal 1994, anno di fondazione della scuola Holden di Torino e della “discesa in campo” di Berlusconi. Raimo menziona la fine del rigore tragico novecentesco, il crollo dei regimi e delle vecchie ideologie, il disimpegno, l’ironia postmoderna. Mentre l’ideologia neoliberale antepone l’individuo alla società, mentre la filosofia rinuncia alla ricerca dell’essenza e si volge al relativismo scettico, la letteratura riscopre la narrazione: Wu Ming inaugura il progetto letterario-politico di una nuova epica italiana, Baricco si volge allo “storytelling” perché “condivide questa visione che, in nome della laicità e del postmoderno, sostituisce la narrazione all’interpretazione come modello principale per aver a che fare con il mondo”. Lo storytelling – cui viene qui conferita la dignità di pendant letterario della riflessione filosofica postmoderna – è inteso da Raimo da un lato come ritorno al narrare dopo il secolo delle avanguardie, della frantumazione formale e dell’opera aperta, dall’altro come giornalismo narrativo di cui Baricco (che Raimo cita lungamente) è stato in Italia un pioniere. Se come giornalismo narrativo lo storytelling si fa promotore di una liberazione dalla pesantezza degli articoli scritti secondo canoni novecenteschi, come recupero della narrazione letteraria esso, a detta di Raimo, si rivela dotato di potere politico: “Le storie hanno un potere. Un potere di liberazione estetica, per Baricco; un potere di emancipazione politica per Wu Ming. Quello che ovviamente non era stato preso in considerazione era che la consapevolezza del potere delle storie viene incamerata presto dal capitalismo più aggressivo”. > Avanguardie a parte, la letteratura ha sempre raccontato storie: in epoca > moderna a queste storie è stato dato in Italia il nome di romanzi, poi di > narrativa; oggi l’editoria aziendale mutua per lo più i termini inglesi > “fiction” e “storytelling”. L’adozione di una nuova parola per una cosa che veniva percepita e nominata anche in precedenza indica in genere che si è cominciato a percepire quella cosa in modo diverso. Avanguardie a parte, la letteratura ha sempre raccontato storie (e Raimo se ne mostra consapevole quando dice che ridurre il Novecento a un secolo di mutismo narrativo è una semplificazione). In epoca moderna a queste storie è stato dato in Italia il nome di romanzi, poi di narrativa; oggi l’editoria aziendale mutua per lo più i termini inglesi “fiction” e “storytelling” (per meglio dire, la fiction è narrativa che si avvale tipicamente dello storytelling come risorsa tecnica). Essi non significano semplicemente il raccontare una storia: anche Manzoni raccontò una storia, ma sarebbe ridicolo pensare a lui come a un rappresentante dello storytelling. Le definizioni abituali sono talmente corrive e generiche che non ci aiutano a individuarne il significato («storytelling is the social and cultural activity of sharing stories», «the art of using narratives […] to communicate information, ideas or experiences in an engaging and memorable way»); è però sufficiente leggere i libri dei suoi rappresentanti per vedere che il termine – proveniente dall’industria editoriale statunitense – denota una pratica del racconto che si concentra esclusivamente su certi valori drammaturgici a scapito di quelli linguistici: raccontare in modo avvincente, creare attese, punti di tensione, conflitti che verranno risolti nel corso della narrazione. Evitare digressioni troppo lunghe e non parlare in modo complicato (Gadda non faceva storytelling). La lingua come potenziale rivelatrice di mondo e di esperienza non viene presa in considerazione. Lo storytelling è per un pubblico di massa. In questo senso la ricostruzione di Raimo – lo storytelling liberatorio e antagonista delle origini viene in seguito fagocitato dal capitalismo che lo piega ai propri interessi – è dissonante perché contrappone quanto è in realtà affine: da un lato il capitalismo mediatico odierno che scopre e incamera il potere della narrazione, dall’altro lo storytelling estetico e politico lanciato dall’editoria degli anni Novanta. Invece lo storytelling, come risorsa tecnico-retorica rivolta a un pubblico di massa, è stato fin dall’inizio organico a quell’editoria che proprio negli anni Novanta cominciava a diventare aziendale: è una modulazione capitalista del racconto (il racconto-merce ideale) così come il “flusso” digitale odierno è modulazione capitalista delle poetiche avanguardistiche (“il paradigma del senso, scientifico, logico, narrativo, rischia di venire sostituito dalla frammentazione, la ricerca della verità dalla nonverità, la critica dall’eristica, il senso dal nonsenso”, scrive Raimo parlando del capitalismo digitale). La stessa ambiguità appare nei testi di Baricco citati da Raimo: lo storytelling degli anni Novanta, quello fatto da Baricco stesso su commissione di Ezio Mauro, è stato lodevole perché metteva fine alla noia del giornalismo novecentesco, il capitalismo mediatico-digitale invece lo ha impiegato a scopi perversi. Ma Ezio Mauro, al pari della narrativa aziendale, è già capitalismo editoriale che si avvale dello storytelling, anche se nel mistificatorio resoconto di Baricco diventa “un genio”: “Se sai gestire lo storytelling puoi anche anticipare un fatto di un paio di giorni, ma anche di una settimana. Se sei molto bravo un mesetto prima guarderanno la cometa che non c’è neanche ma è come se la vedessero. Ma non perché sono scemi. No. Perché tu sei bravo in quella circostanza lì” (Baricco citato da Raimo). Rappresentare lo storytelling come una piccola rivoluzione editoriale forse non è falso, ma è stata fin dall’inizio una rivoluzione capitalista, una delle tante. Se proprio deve significare qualcosa che scuola Holden e “discesa in campo” di Berlusconi siano coeve, il parallelo da individuare è quello tra l’incipiente capitalismo mediatico che nel 1994 prende il potere raccontando una storia con parole semplici (“L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita il mio mestiere di imprenditore. Qui ho anche appreso la passione per la libertà”) e una modulazione del narrare omologa fin dalle origini agli interessi dell’editoria aziendale, così omologa che oggi la Scuola Holden fa parte del Gruppo Feltrinelli (la “filiera” si è dotata di uno strumento diretto con cui formare scrittori adeguati alle proprie esigenze). > Rappresentare lo storytelling come una piccola rivoluzione editoriale forse > non è falso, ma è stata fin dall’inizio una rivoluzione capitalista, una delle > tante. Raimo tutto questo sembra vederlo e non vederlo. A tratti sembra alludere senza poter dire, come se nel suo articolo parlassero – disturbandosi reciprocamente – due personalità inconciliabili: dalla parte del capitale editoriale sembra parlare un addetto dell’industria (la perdita di trentuno milioni di fatturato, i “consumi culturali»), dalla parte della letteratura parla l’intellettuale e scrittore che depreca la mercificazione del libro (“la vulgata per cui l’editoria […] sia un luogo in cui è bello lavorare, che accoglie progetti, desideri, e fa da volano all’emancipazione individuale e collettiva, è una narrazione con sempre più passaggi difettosi e illusori”). Questa inconciliabilità percorre quasi tutto l’articolo; l’addetto dell’industria vuole anacronisticamente credere che l’editoria aziendale e le tradizionali istituzioni di formazione siano omogenee e osmotiche (“le infrastrutture culturali che pensavamo solide, la scuola, l’università, il sistema bibliotecario, il sistema istituzionale di sostegno all’editoria, vengono costantemente indebolite attraverso definanziamenti e cattiva gestione, mancano di norme che guidino un cambiamento radicale”), l’intellettuale assume toni da umanista in lotta contro l’ingiustizia che hanno in questo contesto qualcosa di stravagante: “la buona battaglia per gli intellettuali o per chi riconosce le ingiustizie e le storture dell’industria culturale è di lottare per la scuola pubblica e l’università pubblica libera e di qualità prima di tutto. È lì che si impara a essere una comunità di lettori, e anche di artisti. E a pensare che questo porti anche a un miglioramento della vita democratica”. È probabilmente a questo conflitto irrisolto che va ascritto il lapsus calami con cui Raimo afferma e al tempo stesso nega che i libri siano una merce (“descrivere il mondo dei libri, della lettura e della scrittura, come un universo felicemente esperienziale, ha eliminato in buona parte l’idea che i libri siano un prodotto diverso dagli altri”). Quanto alla questione politica: se – indipendentemente dalle oscillazioni del mercato e dalle crisi di sovrapproduzione – è vero che si legge meno (che i libri vengano comprati, rubati, fotocopiati o presi in prestito), quel che dovrebbe interessarci è per quale motivo le persone abbiano meno voglia di leggere, per quale motivo gli insegnanti non possano più persuadere alla lettura e i ragazzi abbiano smesso di consigliarsi libri. Facendo coincidere la crescita spirituale delle persone con la salute dell’editoria aziendale, Raimo non può immaginare che si legga meno anche perché i troppi libri (prodotti standard il cui basso costo di produzione è premessa di maggiori introiti) hanno fatto venir meno la fiducia in chi scrive e in chi pubblica. La nostra generazione è stata l’ultima a imparare e credere che si diventi scrittori in un difficile percorso personale fatto tra l’altro di tirocinio linguistico e narrativo, esposizione al mondo, resoconto letterariamente sincero, rifiuto del conformismo, sguardo non pregiudiziale; che tutto ciò possa essere acquisito in un percorso formativo scolastico appare in questa prospettiva paradossale e canzonatorio. Agli occhi della nuova generazione invece si è scrittori come si è propagandisti sui social media; alle scuole di scrittura creativa si aggiungono da qualche tempo quelle per influencer e gli stessi media incoraggiano tale nuova percezione banalizzando interessatamente l’arte dello scrivere (anni fa Walter Siti fece notare che le trasmissioni televisive onorano chiunque della qualifica di scrittore: “giornalista e scrittore”, “sindaco e scrittore”, “architetto e scrittore”. Mi sento, commentava Siti, come se mi avessero portato via una cosa alla quale ho creduto per tutta la vita). > Se è vero che si legge meno, quel che dovrebbe interessarci è per quale motivo > le persone abbiano meno voglia di leggere, gli insegnanti non possano più > persuadere alla lettura e i ragazzi abbiano smesso di consigliarsi libri. Si lamenta spesso che la tecnologia audiovisiva abbia distrutto il libro, che TikTok sia ostile alla civiltà della scrittura: ma anche il libro – nella percezione, nell’uso, nel marketing, nel profitto – appartiene oggi in gran parte all’universo mediatico, tanto che un corso alla scuola di scrittura introduce all’industria. Ecco, mi sembra che le persone leggano meno anche perché se ne sono accorte, e in questo senso il calo della lettura è addirittura consolante. Come se la gente si fosse svegliata. C’è del resto qualcosa di classista nel credere che una società che non legge sia una società peggiore: secondo Raimo gli ignoranti sono, in quanto tali e senz’altro, peggiori di quelli che leggono. Sembra quasi che per lui l’Occidente fascista, razzista, misogino, neoimperialista e autoritario del Ventunesimo secolo sia da addebitare alle persone incolte. A Berlino, dove vivo da tanti anni, ho conosciuto persone semplici che – per parlare come le statistiche – un libro non lo leggono nemmeno in tre anni. Ma sono persone adorabili, percepiscono con chiarezza la devastazione capitalista e detestano il fascismo senza avere letto Rosa Luxemburg. Pochi giorni fa The Guardian ha pubblicato un articolo (“Quality of scientific papers questioned as academics ‘overwhelmed’ by the millions published”) secondo il quale l’attendibilità dei contributi scientifici sulle riviste specialistiche, anche le più prestigiose, sta rapidamente venendo meno. In un sistema di ricerca che fa dipendere l’avanzamento in carriera dal numero degli articoli pubblicati e delle citazioni ottenute, i ricercatori fanno ricerche rapide, semplici e spesso ripetitive che tendono poi a pubblicare, rimaneggiandole, su più riviste. Negli ultimi dieci anni il numero di contributi (spesso scritti usando l’intelligenza artificiale) è aumentato del 48% e ha superato i due milioni, gli scienziati incaricati della “peer review” sono sommersi da testi inutili e spesso contraffatti. Gli editori – decine di migliaia – trovano più lucrativo offrire al pubblico l’accesso gratuito e chiedere agli autori una tassa di pubblicazione che può arrivare a 11.000 euro (tra il 2015 e il 2018 i ricercatori hanno pagato oltre un miliardo di dollari ai cinque più grandi editori accademici). “Everybody agrees that the system is kind of broken and unsustainable”, ha dichiarato il premio Nobel Venki Ramakrishnan. Tutto questo ha favorito lo sviluppo di quelle che in gergo vengono chiamate “cartiere” (imprese che pubblicano a pagamento contributi scadenti o fasulli con veste di autenticità) e sta minando ciò che a partire dal Diciassettesimo secolo fondò il successo della scienza: la fiducia nella sua attendibilità. “Eventually these papers will all be written by an AI agent and then another AI agent will actually read them, analyse them and produce a summary for humans” (Ramakrishnan). Impressionante, ai fini della presente riflessione, è lo sviluppo parallelo, industrialmente condizionato, dell’editoria scientifica e di quella letteraria. La crescita esponenziale delle pubblicazioni che si accompagna alla loro banalità e inutilità, la priorità data al profitto, l’intervento dell’intelligenza artificiale, la fine della fiducia da parte di chi legge. Anni fa un addetto dell’editoria mi spiegò che i ringraziamenti alla fine del romanzo fanno curriculum: più vieni ringraziato e più fai carriera nell’industria (“dove e quanto spesso un ricercatore pubblica, e quante citazioni ottiene il suo contributo, è decisivo per la carriera”, dice l’articolo di cui sopra). Ci sono nel frattempo negli Stati Uniti anche scuole di scrittura creativa per scienziati: una di esse – frequentata da accademici della Cornell University, dell’Imperial College di Londra, del Karlsruhe Institut of Technology e dell’Università di Heidelberg – pubblicizza i propri corsi dicendo “if you incorporate storytelling in your scientific research paper, your reader will find it easier to read and remember. And your journal editor will find a well-written story more persuading than a simple report of the scientific data you obtained. The result? Your scientific paper will be more likely to get published in a top-tier journal when you tell a story”. > Il problema politico è che da decenni l’editoria aziendale ci sommerge di > banalità e con questo ha messo fine al rapporto di fiducia tra chi scrive e > chi legge (una comunità spirituale è venuta meno senza essere sostituita da > una nuova). Nell’epoca del suo trionfo, applicata a ogni campo dell’attività umana, la razionalità economica si risolve nell’autodistruzione del sapere e dell’arte. È questo che dovrebbe interessarci, ed è sintomatico che un intellettuale limpido e attento come Raimo possa invece ricondurre il problema politico a una questione di finanziamenti, aspettandosi un “cambiamento radicale” dalla buona gestione e dalle norme. Il problema politico è che da decenni l’editoria aziendale ci sommerge di banalità e con questo ha messo fine al rapporto di fiducia tra chi scrive e chi legge (una comunità spirituale è venuta meno senza essere sostituita da una nuova); che tanti intellettuali sono organici agli interessi della “filiera” o trovano ovvio che essa provveda alla formazione scolastica degli scrittori; che nella letteratura come nella scienza l’epoca del capitalismo mediatico invita a pratiche estensive, a bassa densità conoscitiva oltre che emotiva, e che nel segno della semplificazione e della ripetizione si sta realizzando una Gleichschaltung delle coscienze. Parafrasando Pasternak si potrebbe dire che la nevrotica relazione di Raimo con l’industria editoriale appare come un prodigio di virtù civica: in verità, nell’attuale stato di capitalismo mediatico e tramonto della democrazia, la produzione editoriale indiscriminata è parte di una questione sistemica e i troppi libri fanno parte di un movimento storico verso l’omologazione e il fascismo. Se ce ne sono di meno dovremmo esserne solo contenti. L'articolo Coscienza politica, letteratura e industria proviene da Il Tascabile.
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