Il 16 dicembre ricorre il 250esimo anniversario della nascita della scrittrice
di Orgoglio e pregiudizio, e di altri romanzi destinati a restare classici che
continueremo a leggere almeno per altri 250 anni
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Dai riti religiosi, al marketing del lusso e alle fragranze di nicchia. Ecco
come un odore diventa profumo
I successi letterari di oggi raccontano di esistenze comuni, di frustrazioni
condivise e illusioni generazionali. Dalla lettura oggi non cerchiamo evasione,
ma riconoscimento: vogliamo sapere che non siamo soli a provare tutta questa
confusione
Priscilla De Pace, che ha firmato la prefazione del volume, lo racconta come il
memoir della nostra era digitale: un viaggio nella memoria delle prime
esperienze online e il disincanto del presente cronicamente online
Ce lo racconta l'autrice Olga Campofreda, che ha immaginato il club letterario.
L'appuntamento quest'anno è dal 9 al 10 aprile al Circolo Filologico Milanese, e
il 21 novembre a Shanghai, alla scoperta di Simone de Beauvoir, Fumiko Enchi (e
Eilen Chang)
Emily Dickinson, Anna Achmatova, Antonia Pozzi, Wislawa Szymborska e Sylvia
Plath: il nuovo volume di Alba Donati fa luce sulle vite e sulle parole di
queste 5 poetesse
Cinque libri (perfetti da leggere in un pomeriggio) del pensatore sudcoreano per
capire perché lo chiamano il “filosofo preferito di Internet”
«Possono essere malvagi, i vestiti?», chiede un personaggio al costumista sul
set di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Il libro è una favola nera sul cinema
che, come diceva Pasolini, «gioca con la realtà che scherza con sé stessa»
N on passa praticamente settimana senza che qualche inchiesta, ricerca o
statistica, non certifichi lo stato di crisi, in alcuni casi comatoso, che
colpisce la lettura e l’editoria in generale. Dopo i consueti desolanti dati
sulla vendita dei libri che da anni indicano un calo continuo, la cui rotta
appare impossibile da essere invertita, ora secondo una ricerca guidata
dall’Università della Florida e dall’University College di Londra, la lettura
quotidiana per piacere negli Stati Uniti, risulta essere diminuita del 40% negli
ultimi due decenni. I risultati pubblicati da iScience indicano un vero e
proprio disamoramento alla lettura: non solo si legge meno, ma soprattutto se ne
ha meno piacere. Abbiamo così interpellato Chiara Faggiolani, docente di
biblioteconomia presso l’Università la Sapienza di Roma, dove dirige il
Laboratorio di biblioteconomia BIBLAB e il master in editoria. Presidente del
Forum del libro, Chiara Faggiolani ha recentemente pubblicato, Libri insieme
(2025). Il suo ultimo libro è un interessantissimo e colto saggio/reportage
sulle comunità della conoscenza. Un viaggio e un’indagine nei luoghi dove non
solo si sta resistendo, reinventando e immaginando nuovi spazi per la lettura,
mentali e reali, architettonici e sociali insieme, ma dove si sta anche
promuovendo in maniera capillare e dal basso un piacere essenziale e una pratica
necessaria per il nostro benessere e per la nostra vita in generale.
COME È CAMBIATO IL CONCETTO DI PIACERE RISPETTO ALL’APPROFONDIMENTO CULTURALE
SECONDO LEI?
La lettura è un vizio e non una virtù, aspetto che tende a essere dimenticato.
Il piacere della lettura non è scomparso ma compete con forme di intrattenimento
più immediate: negli anni Sessanta ad esempio la lettura era legata a una
dimensione di piacere, scoperta e persino emancipazione che oggi sembra non
avere. I libri rappresentavano un varco verso mondi lontani, una forma di
accesso al sapere in un’epoca in cui però le alternative di intrattenimento e di
informazione erano decisamente più limitate. Il libro era un oggetto più “raro”,
per questo forse più desiderato, simbolo di crescita culturale e di libertà
individuale. Quello della lettura è un piacere che ha bisogno di lentezza e di
immersione esattamente come allora, ma sentiamo di vivere in un’epoca che
celebra la velocità e l’accumulo. Per questa ragione sembra una pratica
controcorrente… la mia personale idea è che proprio per questo la lettura sia
esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
SECONDO I DATI PROPOSTI DA UNO STUDIO CONDOTTO DA RICERCATORI DELLO UNIVERSITY
COLLEGE DI LONDRA E DELL’UNIVERSITÀ DELLA FLORIDA, SI EVIDENZIA ‒ OLTRE CHE UN
GENERALE E ANCHE SOSTANZIALE CALO DELLA LETTURA ‒ UN VERO E PROPRIO CROLLO DELLA
LETTURA COME FORMA DI PIACERE. IL LIBRO NON È DUNQUE PIÙ UN’OCCASIONE DI SVAGO E
APPROFONDIMENTO INSIEME?
I dati sulla lettura, anche in Italia, non sono incoraggianti. Ma con le
statistiche bisogna essere prudenti: la prima domanda da porsi è sempre che cosa
stiamo misurando e come. I numeri non sempre restituiscono la portata della
trasformazione che stiamo vivendo. Dal mio punto di vista, il libro resta ancora
un luogo di piacere e di approfondimento, ma non più in maniera lineare. Oggi il
libro è diventato una soglia: leggerezza e profondità non si escludono, anzi
coesistono e si contaminano. Il nodo non è il libro, ma il tempo che siamo
disposti a concedergli. Si è già affermata una nuova forma di lettura
“aumentata”, che alterna al libro l’uso di secondi schermi e linguaggi diversi,
intrecciando tempi lenti e tempi veloci. A questa si affianca la lettura
“socializzata”, che trova nei gruppi di lettura, ad esempio, la possibilità di
moltiplicare e trasformare l’esperienza individuale. Forse la sfida, oggi, non è
difendere un modello unico di lettura, ma imparare a coglierne la metamorfosi.
Proprio su queste trasformazioni si concentrano due ricerche che sto conducendo:
la prima, nell’ambito del progetto PRIN NEREIDE (NEw Reading Experiences in the
Digital Ecosystem), insieme a Gino Roncaglia, dedicata alle forme della lettura
aumentata; la seconda, S.T.O.R.I.E. (Storie Trasformative, Opportunità,
Relazioni, Inclusione ed Emozioni), che indaga la lettura come esperienza
condivisa e generativa di comunità. Una ricerca promossa dall’Associazione degli
editori indipendenti (ADEI) e dal Centro per il libro e la lettura (Cepell), e
realizzata dal Laboratorio di biblioteconomia sociale e ricerca applicata alle
biblioteche (BIBLAB) della Sapienza, che dirigo.
APPARE INVECE ANCORA SOLIDO IL MONDO DELLA LETTURA PER L’INFANZIA. QUALI
DINAMICHE SI POSSONO ATTIVARE PER EVITARE DI PERDERE LETTORI NELL’ADOLESCENZA E
SUCCESSIVAMENTE NELL’ETÀ ADULTA?
La mia sensazione è che negli ultimi venticinque anni sia stata dedicata
un’attenzione straordinaria alla promozione della lettura e, più in generale,
alla salute culturale della prima infanzia. Penso al lavoro prezioso di Nati per
leggere e a esperienze come Cultura per crescere della Fondazione Compagnia di
San Paolo in Piemonte: oggi le giovani famiglie e i nuovi genitori hanno piena
consapevolezza di quanto sia fondamentale inserire la lettura nella quotidianità
dei bambini nei primi mille giorni di vita. In questa fase, la lettura è
accompagnata: diventa un rituale intimo e familiare, un’esperienza condivisa che
segna i ritmi della crescita e che si colloca pienamente in quella che potremmo
definire una “zona prossimale di sviluppo”, per richiamare Vygotskij.
Quando però si entra nell’adolescenza, il quadro cambia radicalmente. La lettura
smette di essere un gesto accompagnato e si trasforma in un atto solitario. Se
non ci sono modelli adulti di riferimento, se mancano comunità e spazi dedicati,
il libro rischia di perdersi, lasciando un vuoto difficilmente colmabile. È in
questa frattura che si gioca la grande sfida del nostro tempo. Per questo, con
il Forum del libro, da molti anni portiamo avanti una vera e propria battaglia a
favore delle biblioteche scolastiche: è lì che nascono e crescono i lettori. La
mia sensazione è che manchi una continuità sociale della lettura: luoghi,
gruppi, comunità capaci di trasformare un gesto individuale in un’esperienza
collettiva, che dia senso, sostegno e riconoscimento al lettore. Senza questa
continuità, la lettura rischia di restare confinata a un tempo fragile, esposto
alla dispersione.
NEL SUO ULTIMO SAGGIO LIBRI INSIEME, LEI INDICA NELLA VISIONE CONTEMPORANEA DEL
TEMPO FINANZIARIZZATO COME LOGICA E MERO STRUMENTO, UNO DEGLI ELEMENTI DI CRISI
ANCHE DELLA LETTURA. COME LIBERARE DUNQUE IL TEMPO? È POSSIBILE RITORNARE AL
PIACERE DEL TEMPO PERSO?
Sì, come ho già anticipato, sono fermamente convinta che il vero problema della
lettura oggi sia la mancata valorizzazione di un tempo umano. È sotto gli occhi
di tutti: il tempo libero è lasciato al caso, disperso, consumato senza
direzione. Negli anni Sessanta non era così, e da quel periodo abbiamo ancora
molto da imparare. Liberare il tempo significa restituirgli un valore autentico.
La lettura, infatti, viene spesso percepita come un’attività improduttiva,
perché non “serve” a nulla nell’immediato. Ma è proprio lì che risiede il suo
potere: nel suo sottrarsi alla logica della performance. Parlare di tempo perso
è, in realtà, un paradosso, perché ciò che appare improduttivo ci restituisce
pienezza, densità e respiro. È esattamente ciò che accade con quelle che nel mio
libro chiamo “comunità della conoscenza”: gruppi, spazi, rituali che non
producono utilità immediata, ma che hanno la forza di “prendere tempo al tempo”,
di piegarlo, trasformarlo e renderlo abilitante.
L’ASSENZA DI CONCENTRAZIONE CHE SEMBRA ESSERE DENOTATA COME UN ECCESSO DI
DISTRAZIONE, NON È INVECE FRUTTO DI UNA REALE IMPOSSIBILITÀ ALLA DISTRAZIONE?
ESISTE FORSE UNA DISTRAZIONE BUONA E UNA CATTIVA? PENSO ANCHE ALL’INFINITO
SCROLL SUI SOCIAL CHE SEGNA LE GIORNATE DI MOLTI: UNA DISTRAZIONE CATTIVA, SE
VOGLIAMO, CHE DIVIENE IN REALTÀ UN’IMPOSSIBILITÀ ALLA DISTRAZIONE.
Ricordiamoci sempre che, quando abbiamo a che fare con gli strumenti, è da noi
che dipende l’uso che ne facciamo. Io credo che sia esattamente come stava
dicendo: esiste una “distrazione buona”, quella che permette alla mente di
divagare, di aprire connessioni inaspettate, di generare visioni nuove. Non a
caso parlavo prima di lettura aumentata: leggere significa anche lasciarsi
attraversare da pensieri laterali, da deviazioni che non interrompono il senso,
ma lo arricchiscono. Per questo trovo sbagliatissimo il divieto assoluto degli
smartphone a scuola. Non entro qui nel merito – sarebbe un discorso lungo – ma
credo che quella proibizione rappresenti un enorme fallimento educativo.
Certo, esiste anche una “distrazione cattiva”: quella del rumore incessante,
dello scrolling infinito che ci tiene agganciati senza darci alcun nutrimento.
Ma attenzione: non è corretto pensare che questa forma di distrazione sia legata
solo al digitale. Non è così. Ci si può disperdere anche in altre attività
apparentemente “innocue” se mancano attenzione, coinvolgimento e presenza
mentale. La vera differenza non sta nello strumento, ma nel livello di
attivazione e di protagonismo che riusciamo a mettere in ciò che facciamo. Una
distrazione è sterile quando ci rende del tutto passivi, fertile quando ci apre
possibilità, connessioni e immaginazione. Ed è proprio qui che entrano in gioco
gli educatori, i mediatori, la scuola: non per proibire, ma per guidare, per
aiutare a trasformare gli strumenti in occasioni, per insegnare a distinguere
tra dispersione e divagazione creativa. Ma se non lo fa la scuola chi lo deve
fare?
LA CRISI DELLA LETTURA E DEL LIBRO COME PIACERE FORSE INDICA ANCHE UN DISAGIO
CULTURALE PIÙ TRASVERSALE, CHE VA OLTRE LE DINAMICHE TECNOLOGICHE ODIERNE?
Sì, la crisi della lettura rivela una difficoltà più profonda: abbiamo confuso
il piacere con il consumo. Leggere, invece, non intrattiene soltanto, moltiplica
il pensiero. È un gesto esigente – il nostro cervello non è nato per leggere, lo
ha imparato con fatica, va ricordato – ma proprio per questo è anche un piacere
che apre, sorprende, talvolta inquieta e che ci restituisce complessità. La
lettura di libri ci educa a sostare nella complessità delle storie. Questo
aspetto è fondamentale rispetto alla nostra essenza di esseri narrativi.
IN LIBRI INSIEME LEI CITA IL CASO DEI SILENT BOOK CLUB. COME FUNZIONANO E COME
AGISCONO SULLA VITA DELLE PERSONE E SULLA QUALITÀ DI LETTURA QUESTE NUOVE
COMUNITÀ DELLA CONOSCENZA?
È uno degli esempi più interessanti di comunità della conoscenza. Spesso
descritti come una moda – Silent reading party o Silent book club che dir si
voglia – sono invece una pratica molto seria. Si tratta di persone che si
ritrovano per leggere in silenzio, insieme. Ognuno con il proprio libro, ma
immersi nello stesso spazio-tempo: quello della lettura profonda. Non si discute
del libro letto come avviene con i gruppi di lettura: l’esperienza principale è
proprio la condivisone del silenzio della lettura profonda. Si tratta quindi di
un rituale semplice che restituisce alle persone la possibilità di entrare nello
stato di flusso di cui parla Mihály Csíkszentmihályi, quel momento in cui la
mente si concentra, il tempo si contrae e si espande allo stesso tempo e ci si
sente pienamente presenti. Alla fine, magari, si condividono piccoli pezzi di
brani letti, si scambiano riflessioni e impressioni. È un piccolo miracolo: se
fatto bene è una forma contemporanea di resistenza al rumore del mondo.
GLI EDITORI E GLI STESSI QUOTIDIANI COSÌ COME LE RIVISTE SEMBRANO NON RIUSCIRE ‒
NONOSTANTE QUALCHE SFORZO ‒ A COGLIERE LA SPECIFICITÀ DEI GRUPPI DI LETTURA E IN
SENSO PIÙ AMPIO LE COMUNITÀ DELLA CONOSCENZA INTEGRANDOLE IN DISCORSI PIÙ AMPI.
COME PUÒ IL LIBRO ESISTERE ALL’INFUORI DI UN MERCATO? QUALI PROSPETTIVE SI
POSSONO IMMAGINARE CONSIDERATO CHE PARLIAMO DI UN MOVIMENTO MOLTO DIFFUSO E NATO
DAL BASSO?
Il libro è certamente un prodotto, l’editoria un’impresa e un mercato. Non
dobbiamo dimenticarlo. Ma il libro non è solo un bene da vendere: è un bene
relazionale. Ogni libro porta con sé idee che circolano, immaginari che si
condividono, legami che si creano. I gruppi di lettura e le comunità della
conoscenza lo dimostrano chiaramente. Con la ricerca S.T.O.R.I.E. che ho citato
prima, abbiamo mappato in un mese e mezzo 1.253 gruppi di lettura in Italia, che
a mio avviso rappresentano circa il 10% di quelli esistenti. Per il 95% di
questi, la partecipazione al gruppo genera benefici che vanno oltre la lettura
stessa, con ricadute positive sulla salute mentale, sul benessere individuale e
collettivo. Credo che sia questa la prospettiva nuova da abbracciare: guardare
non solo al libro come oggetto, ma alle relazioni e agli effetti che la lettura
è in grado di generare. Il suo potere trasformativo.
MOLTI ESEMPI CHE LEI PORTA IN AMBITO DI CULTURA DELLA LETTURA RAPPRESENTANO
NICCHIE DI UN SISTEMA ESTREMAMENTE DIFFUSO LA CUI COMPLESSITÀ È DIFFICILE PERÒ
DA SINTETIZZARE E QUINDI DA MODELLARE. ECONOMICAMENTE ABBIAMO A CHE FARE CON
ELEMENTI FRAGILISSIMI EPPURE CAPACI DI MUOVERE LETTORI E DARE CORPO A PERCORSI
DI ELABORAZIONE MAI BANALI. UN PENSARE I LIBRI CHE PRECEDE IL FARLI, COME
AVREBBE DETTO ROBERTO CERATI. MA ORA COME FARLI PER DAVVERO?
Ripartire dal pensiero, dal progetto culturale, e non dalla produzione “in
serie”. Roberto Cerati, straordinario e storico direttore commerciale di
Einaudi, sosteneva che una casa editrice dovesse essere pronta a perdere
economicamente su alcuni libri, perché erano necessari per la cultura e per il
sistema del libro stesso. In Einaudi, il tavolo del mercoledì, dove si discuteva
dei libri, si dice fosse separato da quello del giovedì, dove si parlava di
conti: un gesto che mostrava chiaramente come il profitto non potesse essere
l’unico criterio. Chi legge potrà obiettare che, da questo punto di vista, la
storia della Einaudi non è stata certo brillante. Ma è un rischio da considerare
a partire dalla convinzione che la qualità paga sempre.
Nel libro che uscirà a breve, esito della ricerca S.T.O.R.I.E., scrivo che i
gruppi di lettura vanno considerati attori autonomi del sistema del libro, non
appendici di biblioteche o librerie. Proprio per questa ragione: possono
diventare laboratori di pensiero collettivo, spazi in cui il libro diventa
esperienza condivisa, generativa di relazioni, idee e innovazione culturale,
dimostrando che il valore di un libro non si misura solo in copie vendute, ma
nella capacità di connettere e trasformare.
L’INEVITABILE CRISI DELLE LIBRERIE UNITA ALLA CAPILLARITÀ DEI CANALI ON-LINE E
ALLA VELOCITÀ DI STAMPA ‒ ANCHE DI POCHE COPIE ‒ IMPONGONO FORSE UNA NEGAZIONE
DI QUELLO CHE È STATO IL MANTRA NEL NOVECENTO, OVVERO LA NECESSITÀ DI DIFFONDERE
IL LIBRO? IN FONDO OGGI POCHE COPIE POSSONO GIÀ DETERMINARE UN MOVIMENTO
CULTURALE IMPORTANTE E AGIRE SOTTERRANEAMENTE. I GRUPPI DI LETTURA SONO COME GLI
UOMINI LIBRO IMMAGINATI DA RAY BRADBURY IN FAHRENHEIT 451? CONNETTERE I LETTORI
FORSE OGGI È PIÙ URGENTE IN SOSTANZA CHE DIFFONDERE I LIBRI?
Non credo che la crisi delle librerie ‒ anche legata al caro affitti e alla
trasformazione delle città, credo vada ricordato ‒, la capillarità dei canali
on-line e la velocità di stampa impongano una negazione della necessità di
diffondere il libro. Al contrario, credo che ci obblighino a ripensare cosa
significa “diffusione”. Il libro non è solo un oggetto da vendere, come dicevo
prima, è un veicolo di idee, visioni e relazioni. I gruppi di lettura svolgono
oggi un ruolo cruciale in questo ecosistema rendendo viva la circolazione
culturale. Connettere i lettori, creare comunità in cui il libro diventa
esperienza condivisa, è oggi più urgente che mai. Nel mio libro ho cercato di
mostrare il potenziale trasformativo della lettura in questo senso: il ruolo che
può avere nel contrasto alla solitudine, nella rigenerazione urbana e nel
ripensare la costruzione della salute.
COME DEVE ESSERE OGGI UN LUOGO PER LA LETTURA?
Tutti i luoghi possono diventare luoghi di lettura. Questa è una delle lezioni
principali che ho imparato nel mio viaggio tra le nuove comunità della
conoscenza: parchi pubblici, portinerie dei condomini, e così via. I veri luoghi
della lettura sono quelli in cui il tempo della lettura viene rispettato, dove
leggere significa poterlo fare senza fretta e senza distrazioni, trasformando
l’atto in un’esperienza piena e condivisa.
Questa consapevolezza sembra quasi ovvia, eppure apre una prospettiva nuova: la
lettura, quando diventa protagonista di un luogo, può riabilitarlo e
restituirgli un significato completamente nuovo. Nel libro parlo, per esempio,
della lettura nei luoghi di cura: cosa accade quando, in un reparto ospedaliero,
la domenica pomeriggio che non passa mai per i pazienti ricoverati si riempie di
storie e di incontri attorno ai libri?
Ci sono però spazi che più di altri dovrebbero porsi l’obiettivo di rendere
evidente il potenziale trasformativo della lettura, e di volerla dinamizzare:
penso alle librerie, alle biblioteche, e in particolare alle biblioteche
scolastiche. Per quanto riguarda le biblioteche, inutile dirlo, una riflessione
sugli orari di apertura diventa persino più urgente della progettazione dello
spazio, su cui invece, mi pare, siamo più attrezzati.
E INFINE COSA È PER LEI IL PIACERE DI LEGGERE UN LIBRO? E IL PRIMO LIBRO CHE
RICORDA E L’ULTIMO CHE LE HA DATO PIÙ PIACERE E PERCHÉ?
Leggere per me significa riconnettermi autenticamente con me stessa, riscoprire
parti di me che la vita quotidiana a volte non mi permette di frequentare. Avere
una profonda consapevolezza del potere della lettura e di ciò che attiva dentro
di noi mi ha permesso di rendermene conto pienamente… ed è esattamente ciò che
vedo accadere spesso con i miei studenti e le mie studentesse.
Leggere mi aiuta ad allenare la mia capacità di comprendere il mondo, le
persone, le emozioni. Mi permette di sperimentare sensazioni e stati d’animo,
anche quelli sgradevoli o inquietanti, che pur non volendo sentire mi
arricchiscono profondamente. Mi piace la sensazione di essere messa in
difficoltà da una lettura: a volte è come una caduta libera, ma sapendo di avere
un paracadute.
Il primo libro che ricordo nitidamente da bambina è Il giro del mondo in 80
giorni di Jules Verne: un’avventura piena di descrizioni e meraviglia, che mi
lasciò con una sensazione di stupore e di entusiasmo difficile da dimenticare.
Pur essendo un amante della saggistica, tra gli ultimi libri letti, voglio
citare due romanzi molto diversi che mi hanno nutrita di emozioni completamente
contrastanti: Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, romanzo
d’esordio di Michele Ruol pubblicato da TerraRossa, è un libro che mi ha
profondamente emozionato, provocando quell’effetto scomodo al quale facevo
riferimento che a volte la lettura riesce a dare. L’anno in cui parlammo con il
mare di Andrés Montero, pubblicato da Edicola Ediciones, è stato come una
medicina: celebra il valore delle storie, esattamente quello che hanno per me.
L'articolo La lettura e la crisi del piacere proviene da Il Tascabile.
La loro mancanza di umanità appariva
come un prodigio di coscienza di classe
(Boris Pasternak)
S ettimane fa, su questa rivista, un articolo di Christian Raimo (“La polemica
si risolve con la politica”) ha preso il via da due polemiche recenti per
sollevare alcune questioni a detta di Raimo centrali. La prima polemica verte
sull’inutilità delle presentazioni di libri, alle quali non va mai nessuno; la
seconda riguarda la scuola Holden di Torino che venderebbe a caro prezzo non
tanto competenze autoriali quanto appartenenza all’ambiente dell’editoria
(relazioni e stato sociale). Da un lato le due polemiche sollevano, secondo
Raimo, la questione della “sostenibilità di due pezzi fondamentali della filiera
dell’industria editoriale, la formazione degli scrittori e la promozione dei
libri”; dall’altro, e soprattutto, sono sintomi di una terza questione che non è
più possibile ignorare: “in Italia si leggono sempre meno libri, un pezzo
consistente del settore editoriale è in crisi e una parte non piccola rischia di
chiudere.
Ma non è questa la notizia peggiore. La notizia peggiore è che una società che
legge di meno peggiora da tanti punti di vista”. Raimo è uno scrittore
democratico e progressista, molto attento alle questioni italiane; i suoi
contributi sulla storia recente o sui casi di cronaca, i suoi interventi
pubblici e le sue lucide prese di posizione antifasciste rappresentano oggi uno
dei pochi casi di quello che un tempo si chiamava impegno civile. Lo ammiro per
questo da tanti anni e a maggior ragione il suo articolo mi ha sorpreso per tre
motivi. Uno, Raimo sostiene che la formazione degli scrittori e la salute del
settore editoriale siano questioni centrali. Due, una questione centrale c’è
davvero ma Raimo non sembra vederla. Tre, l’articolo tenta di conciliare
l’inconciliabile e questo lo rende confuso, a tratti difficile da seguire.
Raimo è uno scrittore colto. Nel suo orizzonte ci sono Joyce e De Felice, non il
cinema dei fratelli Vanzina. Per questo è sorprendente che nel parlare di
scrittura pensi all’editoria aziendale (che da decenni mercifica e standardizza
la scrittura banalizzandola) e ne impieghi la lingua (“la filiera dell’industria
editoriale”) come se fosse un intellettuale organico nel senso di Gramsci. Per
Raimo chi scrive è un addetto di settore, un “pezzo” da formare a scopi
industriali nell’ambito della filiera così come il libro va promosso tramite il
marketing. Chi conosce le pratiche dell’industria editoriale sa bene quanto poco
abbiano a che fare con la letteratura: ci sono agenti che discutono
preventivamente la trama con gli autori, redattori che premono per eliminare
passi potenzialmente scoraggianti, amministratori delegati che approdando
all’editoria dichiarano di voler mettere la propria esperienza al servizio della
promozione del brand. “Our portfolio is particularly exciting, with a wider
selection of books than usual”, dicono le newsletter degli editori; presto – se
non sta già avvenendo – l’intelligenza artificiale verrà usata per le traduzioni
e per creare intrecci. Questa mercificazione industriale è in corso da decenni,
il suo ambito specifico viene chiamato “la cultura” e il suo progresso è
inarrestabile. Non è questo a sorprendere ma il fatto che anche un intellettuale
come Raimo arrivi a identificare scrittura e industria editoriale, lettura e
vendita, prosperità del capitalismo aziendale e progresso sociale.
> Nell’ambito di una “filiera” un calo di fatturato va letto in termini
> economici e industriali: la veste dell’umanista preoccupato, che deplora la
> scarsa attitudine degli italiani alla lettura e denuncia l’inevitabile
> regresso di una società che non legge, finisce per avere qualcosa di
> involontariamente oscurantista.
In realtà non è affatto ovvio che più case editrici significhino più lettura, né
che la salute della “filiera” comporti una società migliore. Anni fa Gianluigi
Simonetti scrisse sul Sole 24Ore che le pubblicazioni di narrativa italiana
erano aumentate del 1800% rispetto a venticinque anni prima: ciò non significa
che per ogni cento scrittori/scrittrici del passato ce ne siano oggi
milleottocento, significa che il libro è una merce industrialmente prodotta e
che come tale è soggetto alle oscillazioni del mercato (“due milioni netti di
libri in meno, un calo di fatturato di 31 milioni”, si rammarica Raimo come se
fosse anche lui un consigliere d’amministrazione).
In tale contesto il calo di vendite indica una crisi di sovrapproduzione alla
quale l’industria reagisce abbassando il prezzo della merce e contestualmente,
se possibile, il costo della forza-lavoro necessaria a produrla; i periodi in
cui il costo di produzione è superiore al prezzo di mercato sono compensati dai
periodi in cui il prezzo torna a superare il costo grazie all’innovazione
tecnologica, una grande azienda è per ovvi motivi meglio attrezzata a superare
le oscillazioni del mercato e le crisi. Qualora infine il mercato persista in
una fase critica, gli investimenti si ritraggono dalla produzione di quella
merce per dirigersi in altri settori. Nell’ambito di una “filiera” un calo di
fatturato va letto in termini economici e industriali: la veste dell’umanista
preoccupato, che deplora la scarsa attitudine degli italiani alla lettura e
denuncia l’inevitabile regresso di una società che non legge, finisce per avere
qualcosa di involontariamente oscurantista.
Altrettanto oscurantista, o fuorviante, è il lungo excursus storico e letterario
con cui Raimo ripercorre lo sviluppo dell’editoria, della politica e del
capitalismo in Italia a partire dal 1994, anno di fondazione della scuola Holden
di Torino e della “discesa in campo” di Berlusconi. Raimo menziona la fine del
rigore tragico novecentesco, il crollo dei regimi e delle vecchie ideologie, il
disimpegno, l’ironia postmoderna. Mentre l’ideologia neoliberale antepone
l’individuo alla società, mentre la filosofia rinuncia alla ricerca dell’essenza
e si volge al relativismo scettico, la letteratura riscopre la narrazione: Wu
Ming inaugura il progetto letterario-politico di una nuova epica italiana,
Baricco si volge allo “storytelling” perché “condivide questa visione che, in
nome della laicità e del postmoderno, sostituisce la narrazione
all’interpretazione come modello principale per aver a che fare con il mondo”.
Lo storytelling – cui viene qui conferita la dignità di pendant letterario della
riflessione filosofica postmoderna – è inteso da Raimo da un lato come ritorno
al narrare dopo il secolo delle avanguardie, della frantumazione formale e
dell’opera aperta, dall’altro come giornalismo narrativo di cui Baricco (che
Raimo cita lungamente) è stato in Italia un pioniere. Se come giornalismo
narrativo lo storytelling si fa promotore di una liberazione dalla pesantezza
degli articoli scritti secondo canoni novecenteschi, come recupero della
narrazione letteraria esso, a detta di Raimo, si rivela dotato di potere
politico: “Le storie hanno un potere. Un potere di liberazione estetica, per
Baricco; un potere di emancipazione politica per Wu Ming. Quello che ovviamente
non era stato preso in considerazione era che la consapevolezza del potere delle
storie viene incamerata presto dal capitalismo più aggressivo”.
> Avanguardie a parte, la letteratura ha sempre raccontato storie: in epoca
> moderna a queste storie è stato dato in Italia il nome di romanzi, poi di
> narrativa; oggi l’editoria aziendale mutua per lo più i termini inglesi
> “fiction” e “storytelling”.
L’adozione di una nuova parola per una cosa che veniva percepita e nominata
anche in precedenza indica in genere che si è cominciato a percepire quella cosa
in modo diverso. Avanguardie a parte, la letteratura ha sempre raccontato storie
(e Raimo se ne mostra consapevole quando dice che ridurre il Novecento a un
secolo di mutismo narrativo è una semplificazione). In epoca moderna a queste
storie è stato dato in Italia il nome di romanzi, poi di narrativa; oggi
l’editoria aziendale mutua per lo più i termini inglesi “fiction” e
“storytelling” (per meglio dire, la fiction è narrativa che si avvale
tipicamente dello storytelling come risorsa tecnica). Essi non significano
semplicemente il raccontare una storia: anche Manzoni raccontò una storia, ma
sarebbe ridicolo pensare a lui come a un rappresentante dello storytelling. Le
definizioni abituali sono talmente corrive e generiche che non ci aiutano a
individuarne il significato («storytelling is the social and cultural activity
of sharing stories», «the art of using narratives […] to communicate
information, ideas or experiences in an engaging and memorable way»); è però
sufficiente leggere i libri dei suoi rappresentanti per vedere che il termine –
proveniente dall’industria editoriale statunitense – denota una pratica del
racconto che si concentra esclusivamente su certi valori drammaturgici a scapito
di quelli linguistici: raccontare in modo avvincente, creare attese, punti di
tensione, conflitti che verranno risolti nel corso della narrazione. Evitare
digressioni troppo lunghe e non parlare in modo complicato (Gadda non faceva
storytelling). La lingua come potenziale rivelatrice di mondo e di esperienza
non viene presa in considerazione. Lo storytelling è per un pubblico di massa.
In questo senso la ricostruzione di Raimo – lo storytelling liberatorio e
antagonista delle origini viene in seguito fagocitato dal capitalismo che lo
piega ai propri interessi – è dissonante perché contrappone quanto è in realtà
affine: da un lato il capitalismo mediatico odierno che scopre e incamera il
potere della narrazione, dall’altro lo storytelling estetico e politico lanciato
dall’editoria degli anni Novanta. Invece lo storytelling, come risorsa
tecnico-retorica rivolta a un pubblico di massa, è stato fin dall’inizio
organico a quell’editoria che proprio negli anni Novanta cominciava a diventare
aziendale: è una modulazione capitalista del racconto (il racconto-merce ideale)
così come il “flusso” digitale odierno è modulazione capitalista delle poetiche
avanguardistiche (“il paradigma del senso, scientifico, logico, narrativo,
rischia di venire sostituito dalla frammentazione, la ricerca della verità dalla
nonverità, la critica dall’eristica, il senso dal nonsenso”, scrive Raimo
parlando del capitalismo digitale).
La stessa ambiguità appare nei testi di Baricco citati da Raimo: lo storytelling
degli anni Novanta, quello fatto da Baricco stesso su commissione di Ezio Mauro,
è stato lodevole perché metteva fine alla noia del giornalismo novecentesco, il
capitalismo mediatico-digitale invece lo ha impiegato a scopi perversi. Ma Ezio
Mauro, al pari della narrativa aziendale, è già capitalismo editoriale che si
avvale dello storytelling, anche se nel mistificatorio resoconto di Baricco
diventa “un genio”: “Se sai gestire lo storytelling puoi anche anticipare un
fatto di un paio di giorni, ma anche di una settimana. Se sei molto bravo un
mesetto prima guarderanno la cometa che non c’è neanche ma è come se la
vedessero. Ma non perché sono scemi. No. Perché tu sei bravo in quella
circostanza lì” (Baricco citato da Raimo).
Rappresentare lo storytelling come una piccola rivoluzione editoriale forse non
è falso, ma è stata fin dall’inizio una rivoluzione capitalista, una delle
tante. Se proprio deve significare qualcosa che scuola Holden e “discesa in
campo” di Berlusconi siano coeve, il parallelo da individuare è quello tra
l’incipiente capitalismo mediatico che nel 1994 prende il potere raccontando una
storia con parole semplici (“L’Italia è il Paese che amo. Qui ho le mie radici,
le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato da mio padre e dalla vita il
mio mestiere di imprenditore. Qui ho anche appreso la passione per la libertà”)
e una modulazione del narrare omologa fin dalle origini agli interessi
dell’editoria aziendale, così omologa che oggi la Scuola Holden fa parte del
Gruppo Feltrinelli (la “filiera” si è dotata di uno strumento diretto con cui
formare scrittori adeguati alle proprie esigenze).
> Rappresentare lo storytelling come una piccola rivoluzione editoriale forse
> non è falso, ma è stata fin dall’inizio una rivoluzione capitalista, una delle
> tante.
Raimo tutto questo sembra vederlo e non vederlo. A tratti sembra alludere senza
poter dire, come se nel suo articolo parlassero – disturbandosi reciprocamente –
due personalità inconciliabili: dalla parte del capitale editoriale sembra
parlare un addetto dell’industria (la perdita di trentuno milioni di fatturato,
i “consumi culturali»), dalla parte della letteratura parla l’intellettuale e
scrittore che depreca la mercificazione del libro (“la vulgata per cui
l’editoria […] sia un luogo in cui è bello lavorare, che accoglie progetti,
desideri, e fa da volano all’emancipazione individuale e collettiva, è una
narrazione con sempre più passaggi difettosi e illusori”).
Questa inconciliabilità percorre quasi tutto l’articolo; l’addetto
dell’industria vuole anacronisticamente credere che l’editoria aziendale e le
tradizionali istituzioni di formazione siano omogenee e osmotiche (“le
infrastrutture culturali che pensavamo solide, la scuola, l’università, il
sistema bibliotecario, il sistema istituzionale di sostegno all’editoria,
vengono costantemente indebolite attraverso definanziamenti e cattiva gestione,
mancano di norme che guidino un cambiamento radicale”), l’intellettuale assume
toni da umanista in lotta contro l’ingiustizia che hanno in questo contesto
qualcosa di stravagante: “la buona battaglia per gli intellettuali o per chi
riconosce le ingiustizie e le storture dell’industria culturale è di lottare per
la scuola pubblica e l’università pubblica libera e di qualità prima di tutto. È
lì che si impara a essere una comunità di lettori, e anche di artisti. E a
pensare che questo porti anche a un miglioramento della vita democratica”. È
probabilmente a questo conflitto irrisolto che va ascritto il lapsus calami con
cui Raimo afferma e al tempo stesso nega che i libri siano una merce
(“descrivere il mondo dei libri, della lettura e della scrittura, come un
universo felicemente esperienziale, ha eliminato in buona parte l’idea che i
libri siano un prodotto diverso dagli altri”).
Quanto alla questione politica: se – indipendentemente dalle oscillazioni del
mercato e dalle crisi di sovrapproduzione – è vero che si legge meno (che i
libri vengano comprati, rubati, fotocopiati o presi in prestito), quel che
dovrebbe interessarci è per quale motivo le persone abbiano meno voglia di
leggere, per quale motivo gli insegnanti non possano più persuadere alla lettura
e i ragazzi abbiano smesso di consigliarsi libri. Facendo coincidere la crescita
spirituale delle persone con la salute dell’editoria aziendale, Raimo non può
immaginare che si legga meno anche perché i troppi libri (prodotti standard il
cui basso costo di produzione è premessa di maggiori introiti) hanno fatto venir
meno la fiducia in chi scrive e in chi pubblica.
La nostra generazione è stata l’ultima a imparare e credere che si diventi
scrittori in un difficile percorso personale fatto tra l’altro di tirocinio
linguistico e narrativo, esposizione al mondo, resoconto letterariamente
sincero, rifiuto del conformismo, sguardo non pregiudiziale; che tutto ciò possa
essere acquisito in un percorso formativo scolastico appare in questa
prospettiva paradossale e canzonatorio. Agli occhi della nuova generazione
invece si è scrittori come si è propagandisti sui social media; alle scuole di
scrittura creativa si aggiungono da qualche tempo quelle per influencer e gli
stessi media incoraggiano tale nuova percezione banalizzando interessatamente
l’arte dello scrivere (anni fa Walter Siti fece notare che le trasmissioni
televisive onorano chiunque della qualifica di scrittore: “giornalista e
scrittore”, “sindaco e scrittore”, “architetto e scrittore”. Mi sento,
commentava Siti, come se mi avessero portato via una cosa alla quale ho creduto
per tutta la vita).
> Se è vero che si legge meno, quel che dovrebbe interessarci è per quale motivo
> le persone abbiano meno voglia di leggere, gli insegnanti non possano più
> persuadere alla lettura e i ragazzi abbiano smesso di consigliarsi libri.
Si lamenta spesso che la tecnologia audiovisiva abbia distrutto il libro, che
TikTok sia ostile alla civiltà della scrittura: ma anche il libro – nella
percezione, nell’uso, nel marketing, nel profitto – appartiene oggi in gran
parte all’universo mediatico, tanto che un corso alla scuola di scrittura
introduce all’industria. Ecco, mi sembra che le persone leggano meno anche
perché se ne sono accorte, e in questo senso il calo della lettura è addirittura
consolante. Come se la gente si fosse svegliata. C’è del resto qualcosa di
classista nel credere che una società che non legge sia una società peggiore:
secondo Raimo gli ignoranti sono, in quanto tali e senz’altro, peggiori di
quelli che leggono. Sembra quasi che per lui l’Occidente fascista, razzista,
misogino, neoimperialista e autoritario del Ventunesimo secolo sia da addebitare
alle persone incolte. A Berlino, dove vivo da tanti anni, ho conosciuto persone
semplici che – per parlare come le statistiche – un libro non lo leggono nemmeno
in tre anni. Ma sono persone adorabili, percepiscono con chiarezza la
devastazione capitalista e detestano il fascismo senza avere letto Rosa
Luxemburg.
Pochi giorni fa The Guardian ha pubblicato un articolo (“Quality of scientific
papers questioned as academics ‘overwhelmed’ by the millions published”) secondo
il quale l’attendibilità dei contributi scientifici sulle riviste
specialistiche, anche le più prestigiose, sta rapidamente venendo meno. In un
sistema di ricerca che fa dipendere l’avanzamento in carriera dal numero degli
articoli pubblicati e delle citazioni ottenute, i ricercatori fanno ricerche
rapide, semplici e spesso ripetitive che tendono poi a pubblicare,
rimaneggiandole, su più riviste. Negli ultimi dieci anni il numero di contributi
(spesso scritti usando l’intelligenza artificiale) è aumentato del 48% e ha
superato i due milioni, gli scienziati incaricati della “peer review” sono
sommersi da testi inutili e spesso contraffatti. Gli editori – decine di
migliaia – trovano più lucrativo offrire al pubblico l’accesso gratuito e
chiedere agli autori una tassa di pubblicazione che può arrivare a 11.000 euro
(tra il 2015 e il 2018 i ricercatori hanno pagato oltre un miliardo di dollari
ai cinque più grandi editori accademici). “Everybody agrees that the system is
kind of broken and unsustainable”, ha dichiarato il premio Nobel Venki
Ramakrishnan. Tutto questo ha favorito lo sviluppo di quelle che in gergo
vengono chiamate “cartiere” (imprese che pubblicano a pagamento contributi
scadenti o fasulli con veste di autenticità) e sta minando ciò che a partire dal
Diciassettesimo secolo fondò il successo della scienza: la fiducia nella sua
attendibilità. “Eventually these papers will all be written by an AI agent and
then another AI agent will actually read them, analyse them and produce a
summary for humans” (Ramakrishnan).
Impressionante, ai fini della presente riflessione, è lo sviluppo parallelo,
industrialmente condizionato, dell’editoria scientifica e di quella letteraria.
La crescita esponenziale delle pubblicazioni che si accompagna alla loro
banalità e inutilità, la priorità data al profitto, l’intervento
dell’intelligenza artificiale, la fine della fiducia da parte di chi legge. Anni
fa un addetto dell’editoria mi spiegò che i ringraziamenti alla fine del romanzo
fanno curriculum: più vieni ringraziato e più fai carriera nell’industria (“dove
e quanto spesso un ricercatore pubblica, e quante citazioni ottiene il suo
contributo, è decisivo per la carriera”, dice l’articolo di cui sopra). Ci sono
nel frattempo negli Stati Uniti anche scuole di scrittura creativa per
scienziati: una di esse – frequentata da accademici della Cornell University,
dell’Imperial College di Londra, del Karlsruhe Institut of Technology e
dell’Università di Heidelberg – pubblicizza i propri corsi dicendo “if you
incorporate storytelling in your scientific research paper, your reader will
find it easier to read and remember. And your journal editor will find a
well-written story more persuading than a simple report of the scientific data
you obtained. The result? Your scientific paper will be more likely to get
published in a top-tier journal when you tell a story”.
> Il problema politico è che da decenni l’editoria aziendale ci sommerge di
> banalità e con questo ha messo fine al rapporto di fiducia tra chi scrive e
> chi legge (una comunità spirituale è venuta meno senza essere sostituita da
> una nuova).
Nell’epoca del suo trionfo, applicata a ogni campo dell’attività umana, la
razionalità economica si risolve nell’autodistruzione del sapere e dell’arte. È
questo che dovrebbe interessarci, ed è sintomatico che un intellettuale limpido
e attento come Raimo possa invece ricondurre il problema politico a una
questione di finanziamenti, aspettandosi un “cambiamento radicale” dalla buona
gestione e dalle norme. Il problema politico è che da decenni l’editoria
aziendale ci sommerge di banalità e con questo ha messo fine al rapporto di
fiducia tra chi scrive e chi legge (una comunità spirituale è venuta meno senza
essere sostituita da una nuova); che tanti intellettuali sono organici agli
interessi della “filiera” o trovano ovvio che essa provveda alla formazione
scolastica degli scrittori; che nella letteratura come nella scienza l’epoca del
capitalismo mediatico invita a pratiche estensive, a bassa densità conoscitiva
oltre che emotiva, e che nel segno della semplificazione e della ripetizione si
sta realizzando una Gleichschaltung delle coscienze. Parafrasando Pasternak si
potrebbe dire che la nevrotica relazione di Raimo con l’industria editoriale
appare come un prodigio di virtù civica: in verità, nell’attuale stato di
capitalismo mediatico e tramonto della democrazia, la produzione editoriale
indiscriminata è parte di una questione sistemica e i troppi libri fanno parte
di un movimento storico verso l’omologazione e il fascismo. Se ce ne sono di
meno dovremmo esserne solo contenti.
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