N el 1956 il sociologo russo-americano Pitirim Sorokin coniava il termine
quantofrenia per denunciare un fenomeno che, a suo dire, rischiava di svuotare
le scienze sociali di ogni profondità: l’ossessione per la misurazione numerica
della realtà. In un momento storico segnato dalla volontà di rendere
scientificamente affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica
strada per la legittimazione. Eppure, Sorokin vedeva in questa tendenza un
pericolo: ridurre la complessità dell’esperienza umana a semplici dati
significava sacrificare la qualità alla contabilità, la comprensione profonda
alla superficie della cifra.
Quella che Sorokin descriveva come una deriva potenziale è oggi diventata
sistema. Viviamo immersi in un ambiente culturale che ha fatto della
datificazione la sua ideologia dominante. Ogni gesto, emozione, desiderio e
pensiero può (e deve) essere tracciato, misurato, confrontato. L’essere umano
contemporaneo si muove in un ecosistema fatto di tracker, dashboard, KPI (Key
Performance Indicator), insight, analytics, convinto che ogni aspetto della sua
esistenza sia più vero quanto più numericamente rappresentabile.
Questo non vale solo per le aziende o le istituzioni, ma per la vita quotidiana.
Il nostro sonno, il battito cardiaco, la produttività, le emozioni: tutto viene
tradotto in dati. Il filosofo sudcoreano-tedesco Byung-Chul Han in La società
della trasparenza (2014) ha scritto che “oggi tutto dev’essere trasparente,
tutto deve essere visibile, misurabile”. Ma la trasparenza, apparentemente virtù
democratica, si rivela così una forma subdola di controllo: l’efficienza che
diventa valore morale. Sempre secondo Byung-Chul Han, “la società della
trasparenza è una società della sorveglianza che si maschera da libertà”. Se in
teoria sapere tutto di sé dovrebbe renderci più liberi e consapevoli, in pratica
ci consegna a un’autosorveglianza continua. La quantità crescente di dati a
nostra disposizione non ci rende affatto più lucidi: ci sovraccarica. L’accesso
all’informazione è individuale, ma l’elaborazione è lasciata al singolo, senza
strumenti, senza tempo, senza tregua. Non è tanto una questione di opacità, ma
di asfissia cognitiva.
David Brooks, editorialista del New York Times, in L’animale sociale. Alle
origini dell’amore, della personalità e del successo (2012) esplora le radici
emotive e inconsce del comportamento umano, contestando l’idea che siamo guidati
da scelte razionali e misurabili: “La mente inconscia si occupa di gran parte
del lavoro della vita. È come un presidente che prende decisioni ma che non ha
idea di come le sue politiche vengano attuate”. L’ossessione per i dati,
confrontandosi solo con la razionalità misurabile, ignora la complessità delle
motivazioni umane. Brooks mostra come la vera formazione del carattere, della
moralità, della felicità non sia misurabile: “Ciò che rende la vita
significativa sono le relazioni intime, il senso di appartenenza, la gratitudine
– tutte cose che sfuggono al numero”.
> In un momento storico segnato dalla volontà di rendere scientificamente
> affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica strada per la
> legittimazione.
La tendenza a ridurre la realtà a ciò che è misurabile non è solo una strategia
cognitiva, ma un vero e proprio paradigma ideologico che si nutre di una falsa
promessa: che i dati possano raccontare il reale in modo oggettivo. Come notava
Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, in Pensieri lenti e veloci (2012),
invece, gran parte delle nostre decisioni è guidata da processi intuitivi,
emotivi, non razionali. E là dove il dato pretende di spiegare tutto, finisce
spesso per mascherare la complessità. Lo stesso Kahneman ha messo in guardia
contro l’eccessiva fiducia nella coerenza statistica, evidenziando il ruolo
centrale del contesto e delle euristiche.
Più ci affidiamo ai numeri, più ci deresponsabilizziamo. Un effetto paradossale,
dal momento che è proprio l’ansia di controllo che alimenta la smania di
misurare tutto a portarci a delegare le decisioni ai dati, spogliandoci della
responsabilità. Il numero rassicura, ci assolve: “lo dice l’algoritmo”, “è un
dato oggettivo”, ma il controllo così perseguito si rivela illusorio: invece di
decidere, lasciamo che una finta certezza decida per noi. Se un progetto
fallisce, si incolpano i dati; se una decisione si rivela errata, era comunque
“data-driven”. In questo modo, come ha osservato Herbert Simon, teorico
dell’automazione e padre del concetto di “razionalità limitata”, in La ragione
nelle vicende umane (1984), il dato diventa alibi e non strumento di
comprensione.
La distorsione non è solo cognitiva, ma anche narrativa. Isaac Asimov lo aveva
intuito già nel 1955 con il racconto Diritto di voto (pubblicato per la prima
volta in Italia nel 1962 sulla rivista Galaxy): in un futuro ipertecnologico,
l’esercizio democratico viene rimpiazzato da un supercomputer, Multivac, in
grado di prevedere il voto di tutta la popolazione intervistando un solo
cittadino rappresentativo. Non importa più cosa si pensa o cosa si vuole:
importa solo che i dati funzionino. L’immaginazione cede il passo all’inferenza
statistica.
> – Multivac possiede già la maggior parte delle informazioni necessarie per
> decidere quali saranno i risultati delle elezioni nazionali, statali e locali.
> […] Non possiamo prevedere quali domande le farà, ma sappiamo che forse non
> avranno senso, né per lei né per noi. […] Durante il colloquio dovremo
> ricorrere a qualche semplice dispositivo che le terrà sotto controllo
> pressione sanguigna, il battito cardiaco, la conduttività della pelle e le
> onde cerebrali. […]
> – Questa roba serve per controllare se dico la verità? – chiese Norman.
> – Nient’affatto, signor Muller. Non ha importanza che lei menta o dica la
> verità.
Nel momento in cui Multivac afferma che “non ha importanza che lei menta o dica
la verità”, Asimov ci mostra una distopia dove la soggettività non ha più peso.
Non conta cosa credi o cosa pensi, perché l’infrastruttura algoritmica ha già
deciso chi sei e cosa farai. È una prefigurazione inquietante del nostro
presente: i dati raccolti, incrociati e analizzati ci assegnano una “verità”
algoritmica, spesso più influente delle nostre reali intenzioni o convinzioni.
La verità, come l’intenzione politica, diventa ridondante. L’intelligenza
artificiale generativa ha accelerato ulteriormente questa logica, rendendo
possibile la creazione automatica di contenuti visivamente attraenti ma
stilisticamente omologati. Emblematico il caso delle illustrazioni ispirate allo
Studio Ghibli: la bellezza è replicabile, ma l’originalità è sacrificata.
> Il numero rassicura, ci assolve: “lo dice l’algoritmo”, “è un dato oggettivo”,
> ma il controllo così perseguito si rivela illusorio: invece di decidere,
> lasciamo che una finta certezza decida per noi.
La cultura digitale ha così internalizzato la quantofrenia. Le metriche sono
diventate una seconda pelle: i like, le condivisioni, le visualizzazioni hanno
sostituito il giudizio critico. La comunicazione si adatta alle logiche degli
algoritmi e non alle esigenze del contenuto. Come osserva Evgeny Morozov in To
Save Everything, Click Here (2013), l’uso strumentale della tecnologia tende a
risolvere problemi complessi con soluzioni semplicistiche, nascondendo
implicazioni politiche e culturali.
La tendenza alla misurazione si è infiltrata anche nelle istituzioni educative.
Le scuole e le università, sempre più soggette a ranking e valutazioni
standardizzate, sono costrette a misurare l’impatto della ricerca e
dell’insegnamento in termini di produttività. Ma come si misura una buona
lezione? Come si quantifica l’effetto trasformativo della cultura su una
persona? La valutazione dell’apprendimento rischia di diventare una caricatura
di sé, come ha argomentato Martha Nussbaum in Non per profitto. Perché le
democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2014). Nussbaum critica
l’educazione orientata ai test e ai numeri perché sacrifica le capacità
critiche, empatiche ed etiche, cioè quelle fondamentali per una cittadinanza
attiva. “Una democrazia – scrive – richiede cittadini che non solo abbiano
capacità tecniche, ma che possano pensare criticamente, esaminare le tradizioni,
comprendere il significato della sofferenza e dell’ingiustizia”. Ridurre tutto a
metriche (valutazioni PISA, crediti, output di ricerca) snatura l’educazione: la
trasforma in addestramento. La cultura, invece, dovrebbe formare esseri umani
completi, non solo lavoratori efficienti.
Eppure, i dati non sono il male. Come sottolineano anche Harvard Business
Publishing e Forbes in numerosi contributi sul management, affidarsi
esclusivamente alla quantificazione rischia di semplificare eccessivamente
fenomeni complessi, conducendo a decisioni paradossalmente meno informate, ma le
metriche possono aiutarci a identificare delle opportunità che sarà l’intuizione
a tradurre in scelte realmente efficaci. I numeri non provano gioia, dolore,
entusiasmo: sono strumenti, non fini. Un esempio virtuoso fu House of Cards
(2013-2018), prima produzione originale Netflix basata su dati di fruizione che
indicavano una domanda per contenuti politici. Ma non furono i numeri a
decretarne il successo: fu l’intuizione creativa, il cast d’eccezione, la cura
narrativa. Oggi, invece, la stessa piattaforma viene criticata per puntare su
formule prevedibili e produzioni a basso rischio.
La crisi della narrazione si accompagna a una crisi del senso. Se ogni scelta è
calcolata, ogni comportamento previsto, che spazio resta per l’incertezza, per
l’imprevisto, per l’errore creativo? Come possiamo ancora raccontare storie che
aprano mondi, invece di ridurli a ciò che è già noto? In Contro i numeri. Perché
l’ossessione per dati e quantità sta rallentando il mondo (2019), lo storico
Jerry Z. Muller mostra come l’ossessione per la misurazione danneggi i contesti
che vorrebbe migliorare. Il problema, secondo Muller, è che “quando una metrica
diventa un obiettivo, smette di essere una buona metrica”. Succede nella sanità
(dove si punta a ridurre i tempi d’attesa a scapito della qualità della cura),
nell’istruzione (dove si insegna “per il test” anziché per formare pensiero
critico), nella ricerca (dove si pubblica molto ma si scopre poco). Muller parla
di “perversione dei segnali”: i numeri nascono come indicatori, ma finiscono per
sostituire i fini ultimi delle istituzioni.
> La nostra è l’epoca della datificazione della realtà, dove tutto deve essere
> misurabile e misurato.
I dati, insomma, possono ispirare, ma non devono dettare. Come ha scritto
Shoshana Zuboff in Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità
nell’era dei nuovi poteri (2019), “l’esperienza umana è diventata materia prima
gratuita per le pratiche commerciali nascoste di estrazione, previsione e
vendita”. La logica predittiva, secondo Zuboff, sottrae all’individuo il diritto
di definire la propria identità e i propri fini. L’azione spontanea, la
creatività, la decisione etica vengono erose da modelli che anticipano e
condizionano il comportamento. “Questa non è automazione – scrive – è
espropriazione”. Il soggetto viene dissolto nella previsione: non siamo più chi
scegliamo di essere, ma chi il sistema calcola che saremo.
Ed è qui che, infine, la riflessione si fa personale. Ho visto alcune delle
menti migliori della mia generazione struggersi di fronte a serie di dati
impazziti. Rifiutare cene a base di pizze lievitate naturalmente per più di
ventiquattr’ore per sacrificare la vista su metriche svuotate di significato e
fogli Excel troppo luminosi, animate dall’isteria per la consegna del prossimo
report trimestrale. Percorrere i pochi metri quadri di casa con una tazza di
caffè filtrato, cuffie noise-cancelling e felpa oversize di cotone biologico
alla ricerca della formula definitiva per il successo in dieci semplici mosse,
se sintetizzabili in cinque anche meglio. I pollici incollati allo schermo in
cerca di una validazione numerica a sé stessa.
Siamo social media manager, data analyst, SEO specialist, ricercatori. Apostoli
del dato, cavalieri della tabella pivot, eminenze grigie dell’analytics. Con
montature da intellettuale non praticante e outfit business casual calibrati al
millimetro, perché nulla dice “basato su dati significativi” come un look
azzurrino ben stirato. Abbiamo smesso di parlare di idee: meglio restare
ancorati alle metriche di performance, all’eventuale ritorno sull’investimento,
di percentuali, tante percentuali. Sempre del “cosa”, mai del “perché”.
La nostra è l’epoca della datificazione della realtà, dove tutto deve essere
misurabile e misurato. Ogni respiro, ogni passo, ogni sbuffo viene tradotto in
un grafico a torta o in una linea preferibilmente ascendente. Mi sono appena
svegliata: Fitbit ci tiene a dirmi che ho dormito il 13% in meno rispetto alla
media della popolazione degli altri millennial ansiosi. Ordino un cappuccino e
c’è un’app che mi informa che ho speso il 22% in più rispetto al budget mensile
per le mie bevande a base di latte d’avena. Il mio smartwatch registra
un’accelerazione del battito cardiaco: inquietudine da overspending. Voglio lo
zucchero, voglio il cacao? Consulto l’app delle calorie. Non me lo godo, ma
almeno so quanto mi è costato in termini finanziari e metabolici: è fantastico.
Se vado a correre e scordo di avviare l’app, semplicemente la mia corsa non
esiste. Ogni decisione, ogni singolo, microscopico gesto è misurato, analizzato,
comunicato e archiviato. Quand’è che ho smesso di raccontare storie per
limitarmi a ricevere e distribuire dati? Quand’è che sono diventata un’anima
misurata?
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