N egli ultimi anni in Italia sono stati pubblicati e tradotti numerosi testi
dedicati all’intimità e alle relazioni. In poco tempo sono usciti Sovvertire le
intimità. Per una politicizzazione del poliamore (2025) di Nic Braida, la
traduzione di Polisicure. Etica, teoria e pratica delle relazioni non monogame
(2025) di Jessica Fern, mentre nell’ambito della traduzione militante la fanzine
Amare senza emergenza di Clementine Morrigan, e alcuni capitoli di Spero
sceglieremo l’amore di Kai Cheng Thom. Questi testi si affiancano ad altri ormai
fondamentali come Per una rivoluzione degli affetti (2022) di Brigitte Vasallo,
alla ripubblicazione nel 2022 di Tutto sull’amore di bell hooks e a molti altri
contributi che interrogano il modo in cui costruiamo e viviamo le relazioni.
Questa costellazione di testi è testimone di un’urgenza collettiva, che nasce
anche da anni di riflessioni e pratiche transfemministe: quella di ripensare le
relazioni non come fatto privato ma come questione politica e sociale. È sempre
più diffuso ed evidente il desiderio di interrogarsi sulle nostre relazioni; su
come le costruiamo, su come le viviamo e su quanto siano influenzate dalle
condizioni materiali delle nostre vite, dal poco tempo che ci lascia il lavoro
retribuito, dall’isolamento e dalla precarietà che il capitalismo produce anche
sul piano affettivo.
In questo contesto si inserisce anche la traduzione di Il cuore scoperto. Per
ri-fare l’amore di Victoire Tuaillon, pubblicato quest’anno da add editore. Il
libro nasce dal percorso collettivo e autogestito dell’Associazione Vanvera che,
dopo aver realizzato la traduzione italiana del podcast Le cœur sur la table di
Tuaillon, ne ha curato un adattamento in forma di libro, situando contenuti e
riflessioni in ambito italiano.
Nel volume – oltre alla trascrizione delle puntate del podcast – sono raccolti
gli interventi di Leo Acquistapace, Marie Moïse, Giusi Palomba, Valentina
Amenta, la collettiva Sessfem, Giorgia Serughetti, Antonia Caruso, Giulia
Siviero e Carlotta Cossutta: attivistə e studiosə italianə invitatə a collocare
i discorsi proposti nel podcast, e situati in Francia, all’interno dei discorsi
collettivi, delle teorie e delle pratiche sviluppate in Italia. A fianco a
queste, ogni capitolo si chiude con la bibliografia consigliata da una libreria
indipendente.
> È sempre più evidente il desiderio di interrogarsi sulle relazioni e su quanto
> siano influenzate dalle condizioni materiali delle nostre vite,
> dall’isolamento e dalla precarietà che il capitalismo produce anche sul piano
> affettivo.
Il libro è un’indagine corale sulle relazioni, un discorso collettivo sulla
necessità di scardinare le normazioni e i dogmi dell’amore romantico, è
l’osservazione di quanto il sistema-coppia (eteronormata e monogama), per come
ci viene raccontato e venduto, sia funzionale alla sopravvivenza di un sistema
economico e socioculturale e al contempo origine di molte delle nostre
sofferenze. Il cuore scoperto, che nasce dall’esigenza di Tuaillon di
“preservare quello che conta: la cura, l’amore, l’arte, la vita, le relazioni
ricche e profonde”, è arrivato in Italia grazie all’urgenza che le persone di
Associazione Vanvera hanno sentito:
> l’urgenza che sentiamo di far fronte ai tempi bui, al dilagare di parole
> povere e di intenzioni prevaricatrici, a questo odio che è sempre stato lì, ma
> che oggi prende ancora più spazio. Un odio che assume anche la forma della
> violenza patriarcale, dell’oppressione eteronormativa, delle discriminazioni,
> dei femminicidi. In maniera più subdola, quest’odio passa anche dallo
> svilimento delle relazioni e del senso di comunità, ci isola nella nostra
> individualità e nella perpetua riconferma delle nostre identità frammentarie.
Fin dall’inizio della lettura, le parole di Tuaillon ci raccontano come l’amore
romantico che ci viene insegnato fin da bambinə – specialmente se si è
socializzate donne – sia un insieme di prescrizioni e limiti che poco hanno a
che fare con il costruire relazioni di cura. Nel primo capitolo, che introduce
le intenzioni delle riflessioni successive, Tuaillon afferma di voler indagare
“l’amore come questione sociale. Vorrei capire in che modo il fatto di essere
persone cresciute, socializzate, identificate come donne o uomini, come persone
bianche o non bianche, abili o no, abbia un impatto diretto sulle nostre
relazioni”.
> Il libro è l’osservazione di quanto il sistema-coppia (eteronormata e
> monogama), per come ci viene raccontato e venduto, sia funzionale alla
> sopravvivenza di un sistema economico e socioculturale e al contempo origine
> di molte delle nostre sofferenze.
Cresciamo pensando che la nostra principale ambizione debba essere quella di
avere una relazione romantica duratura, che dobbiamo salire il prima possibile
su quella scala mobile relazionale che ci costringe a innamorarci-fare
sesso-convivere-sposarci-fare figli. Cresciamo pensando che l’amore debba un po’
far soffrire, che sia legittimo mentirsi ogni tanto, che sia giusto mettere sé
stessə da parte per la persona che amiamo. Che non esiste altro modello d’amore
legittimo. Percorrendo diverse immagini dell’amore romantico, ascoltando le
esperienze di persone con vissuti diversi e facendole dialogare con teorie
femministe sull’amore, Tuaillon ci mostra quanta sofferenza derivi da questo
modello, e quanto potenzialmente trasformativo e liberatorio è cominciare,
collettivamente, a vedere limiti e storture, fino eventualmente a superarlo e
rifiutarlo.
Il libro parte da storie personali, alcune anche molto negative, pessimiste,
frustrate dalla rarità di rapporti umani basati sulla cura, sulla reciprocità,
sull’onestà. Tuaillon, insieme alle voci di chi racconta le proprie esperienze,
affronta vari aspetti e implicazioni dell’amore esplorando, tra le altre cose,
quanto sia diffusa nella società l’idea dell’essere ‘single’ (termine che già
suggerisce una mancanza) come fase transitoria della vita, qualcosa da superare
se si vuole essere accettati. Ci invita invece a riflettere sul fatto che la
scelta di non avere relazioni considerate convenzionalmente romantiche può
essere una decisione consapevole e altrettanto valida.
Le narrazioni che alimentano i nostri immaginari amorosi, però, vanno in
direzione opposta. Siamo immerse in racconti “che, nella stragrande maggioranza,
rappresentano coppie eterosessuali in cui uomini e donne non recitano la stessa
parte. Agli uomini spettano l’azione e la conquista, alle donne la dolcezza, la
passività e l’attesa”. Si tratta di un meccanismo di potere che assegna ruoli
definiti, che legittima solo un certo tipo di relazione e che rafforza l’idea
dell’amore come caccia costante, come competizione per ottenere la propria altra
metà, senza la quale saremmo incompletə, uno standard da raggiungere e
mantenere. Idee che, molto più spesso di quanto vorremmo ammettere, finiscono
per legittimare comportamenti molesti, violazioni del consenso e dinamiche di
prevaricazione, alimentando “la confusione tra amore e violenza, amore e
dominio, amore e paura”.
> Tuaillon ci mostra quanta sofferenza derivi dal modello dell’amore romantico,
> e quanto potenzialmente trasformativo e liberatorio sia cominciare,
> collettivamente, a vederne limiti e storture, fino a superarlo.
Le storie che attraversano il testo ci parlano di uomini cresciuti con l’idea di
dover essere aggressivi e di conquistare, di donne che invece erano educate a
essere mansuete e a lasciarsi conquistare, e di persone trans e non binarie che
hanno dovuto lottare per costruire un proprio spazio emotivo e relazionale. Ma
l’amore, ci dice Tuaillon “richiede di rinunciare all’esercizio del potere.
L’amore ha bisogno del riconoscimento dell’esistenza e della vulnerabilità
dell’altrə. L’amore è rifiutarsi di ferire, anche quando avremmo il potere di
farlo”.
Moltissimi sono gli stereotipi che nutrono questo immaginario, moltissime sono
le parole e le frasi che creano questa normazione. Ma non si tratta solo di
immagini e simboli, quanto di concretezza e materialità. Addentrandosi ancora di
più nel rapporto stretto che esiste tra sistema economico e relazioni, e
utilizzando anche le parole della sociologa Eva Illouz, Tuaillon ci fa
riflettere su quanto le nostre relazioni siano invase e condizionate dalle leggi
del mercato, facendoci concentrare sull’accumulo di capitale sessuale e rendendo
sempre più difficile costruire relazioni basate su uno scambio onesto, sulla
cura reciproca.
Il modello della coppia romantica eterosessuale monogama è normato anche da
leggi e dinamiche commerciali; in Italia non esiste una legittimazione
legislativa a nessun’altra forma di vita comune, se si esclude la possibilità
delle unioni civili, che comunque non garantisce gli stessi diritti, per esempio
quelli sulla genitorialità. E al di là delle concessioni legislative, che non
sono gli unici obiettivi di questo tipo di riflessioni e rivendicazioni, vivere
in coppia è più sostenibile da un punto di vista economico, perché tutto è
pensato per la coppia, dalle case ai bonus sociali, dalle confezioni di cibo al
supermercato alle promozioni per viaggi e cene. In questo modo, il sistema
economico premia la coppia come sistema normale di vita, e scoraggia ogni altra
forma di relazione o comunità, come per esempio la scelta di vivere uno spazio
domestico comunitario, considerato non adatto alla costruzione di una vita
adulta. Allo stesso modo, impariamo molto presto che le relazioni debbano
seguire, in linea con la scala mobile relazionale, un preciso susseguirsi di
step:
> anche le relazioni seguono il ciclo classico del consumo: prima l’eccitazione
> per l’acquisto di una novità (“sei fantastico”, “sei bellissima, averti mi
> rende speciale”), poi ci si abitua (“non è che mi sto accontentando?”, “credo
> di meritare di meglio”), poi ci si lascia perché ci sono sempre nuove merci
> disponibili (“una ne perdi, cento ne trovi”), quindi cerchiamo di nuovo
> l’eccitazione della novità (“sono di nuovo sul mercato”) e si ricomincia,
> ancora e ancora.
“Decostruire questi miti” che limitano il nostro immaginario relazionale, dice
Tuaillon, “non significa rifiutare le nostre emozioni, ma aprire la strada a
relazioni ancora più intense, esaltanti, magiche, finalmente basate
sull’onestà, l’uguaglianza, il rispetto dei nostri limiti”.
> Il sistema economico premia la coppia come sistema normale di vita, e
> scoraggia ogni altra forma di relazione o comunità.
In un mondo dominato da violenza, guerra e ingiustizie, manca lo spazio per un
discorso sull’amore. Le condizioni sociali e materiali ci sottraggono tempo ed
energia per coltivare relazioni di cura diffusa. La gerarchia per la quale la
coppia sia al di sopra di tutte le altre nostre relazioni, che a essa dobbiamo
tutta la nostra attenzione e le nostre energie, ci fa dimenticare quanto
importanti siano tutti gli altri nostri amori. Le nostre sorelle, le persone
amiche, lə nostrə nipoti, le persone con cui condividiamo un periodo di vita
anche breve, le compagnə di collettivi, quella persona conosciuta a un workshop,
lə nostrə insegnanti, le nostre passioni. Quel “bosco”, con le parole di
Brigitte Vasallo, quell’amore che ci salva ma che spesso non vediamo, “che
consideriamo meno amore degli altri, a cui non diamo l’importanza che merita e
senza il quale non potremmo andare avanti in questo mondo di merda”.
Il cuore scoperto è un’indagine sincera e profonda, che non offre ricette o
modelli alternativi da seguire, ma apre uno spazio di ascolto e di riflessione
collettiva. Gli argomenti che Tuaillon affronta ci riguardano tuttə da vicino; e
chi si aspetta un manuale di self-help per le relazioni troverà invece un invito
ad attraversare domande, a prendersi il tempo per guardarsi dentro e per parlare
insieme. Il podcast/libro ci accompagna in un percorso di autoindagine
condivisa: ci invita a ripensare il modo in cui siamo cresciutə, i modelli
familiari che ci hanno insegnato l’amore, ciò che ci ha fatto soffrire, ciò che
desideriamo e come i nostri desideri plasmano le relazioni che viviamo. C’è il
bisogno di comprendere i legami tra economia e intimità, di costruire strumenti
e pratiche per abitare la connessione e il conflitto.
Proprio a partire da questa necessità di discutere insieme e condividere
esperienze nasce tutta l’esperienza di Il cuore scoperto, che non si conclude
con le puntate del podcast o nelle pagine del libro. Tuaillon, e Associazione
Vanvera in Italia, organizzano dei cerchi di parola, una pratica mutuata dai
gruppi di autocoscienza femminista in cui le persone si incontrano per parlare e
ascoltare, fuori dalla logica del dibattito, senza la pressione di dover
rispondere, ma con la libertà di raccontarsi e di essere ascoltate. Nella bonus
track del podcast si trovano anche alcune indicazioni pratiche su come
organizzarne uno. Oltre a questo, Associazione Vanvera ha aperto uno spazio
virtuale in cui poter condividere esperienze, sensazioni, emozioni in seguito
all’ascolto o alla lettura di Il cuore scoperto, che poi vengono utilizzate per
performance o condivise anonimamente in altro modo.
Facendo un salto apparentemente lungo, in realtà piccolissimo, penso a un
recente post Facebook di Margherita Cioppi – una dellə attivistə a bordo della
Karma, una delle barche della Global Sumud Flotilla – in cui racconta del
sequestro da parte delle forze armate israeliane e di come si sia offerta di
aprire un tendalino per permettere ai soldati, che avevano preso il controllo
della barca, di ripararsi dal sole e dalle temperature molto alte. Cioppi
conclude così il suo racconto: “Ci penso da quel momento: perché ho provato a
dare sollievo a un assassino non lo so proprio. Ma in quel momento volevo che
fosse chiaro che non sono come loro. E che l’amore – solo quello – è la fine
dell’assedio”.
L'articolo Il cuore scoperto di Victoire Tuaillon proviene da Il Tascabile.
Tag - sociologia
N el 1998 l’antropologa Clara Gallini pubblicò il libro Il miracolo e la sua
prova. Un etnologo a Lourdes. Il volume è l’unico testo in lingua italiana che
affronta la questione delle apparizioni di Lourdes dal punto di vista
antropologico. Tenendo conto che la data di pubblicazione rasenta il nuovo
millennio, questo ritardo della disciplina è quantomeno bizzarro. Perché non ci
sono altri riferimenti importanti in lingua italiana sul santuario? La
situazione nella letteratura internazionale è migliore, ma non di molto:
esistono dei testi, certo, ma non abbastanza da creare un corpus. Eppure,
Lourdes è un centro sacrale della cristianità europea, un pezzo fondamentale
della sua storia: terzo santuario cristiano al mondo per numero di visitatori,
dopo il Vaticano e la basilica di Guadalupe.
Si dice che ovunque ci siano esseri umani ci sia un antropologo a perseguitarli
con taccuino e registratore. Eppure, l’apparizione della Madonna di Lourdes e la
complessa storia dello sviluppo del santuario non sembra accendere
particolarmente l’interesse degli antropologi, che sembrano, invece, molto più
interessati a mappare le geografie della gentrification nell’ennesimo quartiere
metropolitano.
Ma perché, quindi, gli scienziati sociali hanno lasciato ai margini dei loro
interessi quel centro della cristianità moderna che è Lourdes, con la sua storia
di culto, veggenza e misticismo? Ce lo spiega Gallini stessa, che nel libro si
pone queste domande prima di me. In primis, secondo lei, Lourdes non sarebbe un
campo attrattivo per quelli che lei chiama “sociologi” (ma che qui potremmo
definire anche antropologi urbani), perché il santuario non è sorto in un centro
urbano o industriale, ma in un paesino rurale sui Pirenei francesi. In secondo
luogo, Lourdes non sarebbe nemmeno un campo attrattivo per i folkloristi, poiché
non è sede di un culto antico, radicato nella tradizione millenaria. Infatti,
come è noto, la Madonna è apparsa alla piccola Bernadette solo nel 1858: in
parole povere, più o meno quando il nonno di mio nonno saltava i fossi per il
lungo. In ultimo, Lourdes non si trova in nessun Paese che abbia conosciuto
l’esperienza coloniale: non evoca dunque l’esotismo orientalista che
l’antropologia ama cercare nei suoi oggetti di studio.
Spostandosi su un piano più generale, secondo l’autrice alle apparizioni mariane
europee mancherebbero quelle caratteristiche che rendono un oggetto di studio
interessante per l’antropologia. Il culto della Madonna sembra caratterizzato da
una posizione liminale, che è esattamente quello che ne rende difficile la
definizione. Figura né umana né divina, né antica né moderna, né esotica né
“domestica”, la Vergine Maria risulta difficile da collocare.
> Perché gli scienziati sociali hanno lasciato ai margini dei loro interessi
> quel centro della cristianità moderna che è Lourdes, con la sua storia di
> culto, veggenza e misticismo?
È proprio in un luogo caratterizzato da una forte liminalità che è iniziata la
mia esperienza etnografica nell’ambito delle apparizioni mariane. Più o meno due
anni fa, nel mezzo del tipico paesaggio di wasteland periurbana che chiunque
abbia abitato nella pianura padana conosce bene, ho condotto svariati mesi di
ricerca di campo in una zona dove il confine tra paesaggio urbano e paesaggio
naturale si sfuma. Lì, vicino a un piccolo agglomerato urbano, le casette a
schiera lasciano il posto ai capannoni, ai parcheggi e ai campi sportivi
periferici della zona industriale, che, a loro volta, mutano rapidamente in
quadrati di terra, coltivati a uso agricolo o lasciati incolti: nel mezzo di una
macchia boschiva abbastanza rada, sorge una piazzola di parcheggio a lato della
strada provinciale. La piazzola è conosciuta dagli abitanti della zona per
essere un luogo di scambio di sesso: cruisers, scambisti, clienti e sex workers
si avvicendano nella boscaglia alla ricerca di incontri fugaci tra le braccia di
amanti temporanei.
Sul bordo di questa piazzola, nel 1994, la Madonna è apparsa per la prima volta
a un operaio che si stava dirigendo al lavoro, molto presto la mattina, per
attaccare il primo turno nella catena di montaggio di un’enorme fabbrica situata
a pochi chilometri sulla provinciale.
La Vergine appare al veggente incredulo tra i rami di un albero, avvolta in un
fascio di luce: “Avvicinati, non temere” gli dice. Poi gli chiede di pregare con
lei, prima di congedarlo: “Tornerò qui tutti i lunedì”. E così, la settimana
dopo la Madonna ritorna. E quella dopo ancora. E ancora. Le apparizioni si
susseguono per anni, con ritmi e cadenze diverse. Tutto accade davanti agli
occhi increduli di chi vede cadere l’uomo in ginocchia e riportare le parole
della madre di Gesù, fissando il vuoto col viso pieno di luce. Dapprima piccoli
capannelli, poi centinaia di pullman provenienti da tutta Europa arriveranno per
venerare quel luogo sacro, dove la Madonna ha deciso di apparire a bordo di una
piazzola teatro di perversioni immorali e comportamenti deplorevoli. “Ma perché
è apparsa proprio qui?”, ho chiesto, una volta, a un fedele. “Ma perché la
Madonna appare sempre tra i rifiuti, come a Lourdes!” mi è stato prontamente
risposto.
Questo dualismo apparentemente antitetico tra sacro e profano rappresenta la
messa in scena di quella che Gallini, parlando del santuario di Lourdes,
definisce “la frantumazione del credere, la varietà delle forme di un’adesione
che può modularsi su registri solo in apparenza incompatibili”. Con queste
parole, Gallini si riferisce alle apparenti contraddizioni di Lourdes:
contemporaneamente luogo di purezza miracolosa e Tempio del consumo, dedalo e
crocevia di negozi, alberghi, ristoranti, un piccolo regno del capitalismo
religioso che si sviluppa intorno alla maxicattedrale, punctum narrativo della
scena-cartolina.
> Lourdes: contemporaneamente luogo di purezza miracolosa e Tempio del consumo,
> un piccolo regno del capitalismo religioso che si sviluppa intorno alla
> maxicattedrale, punctum narrativo della scena-cartolina.
In questo piccolo mondo, racconta l’antropologa, giorno e notte, nei pressi
della grotta, va in scena uno spettacolo inaspettato: quello della “kermesse” di
amori clandestini tra pellegrini, prostituzione in tutti gli hotel, tradimenti
seriali, amori proibiti, ma anche abboffate bulimiche, acquisti compulsivi. I
pellegrini, a Lourdes, sembrano vivere una seconda vita, opposta e speculare in
quanto a intensità solo alla fervenza della devozione religiosa che è vettore,
ogni giorno, di guarigioni miracolose e impensabili in ogni altro luogo del
mondo. Queste “desacralizzazioni”, secondo Gallini, non sono antitetiche
rispetto al culto: al contrario, lo costituiscono, rappresentando l’alterità
carnale alla purezza dello spirito.
Solo con questa consapevolezza possiamo comprendere come mai, negli anni
Novanta, la Madonna sarebbe apparsa in quella piazzola di cruisers e scambisti:
un terrain vague, uno spazio liminale, una zona di confine tra le “rovine”
sociali, come l’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing definisce le periferie dei
centri di produzione economica, dove l’apparente linearità dei processi di
accumulazione capitalista si scontra con gli assemblaggi discontinui e
imperfetti delle economie marginali (Il fungo alla fine del mondo. La
possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo 2021). Qui, infatti, anche le
economie morali disegnano geografie invisibili e sotterranee: la vita libertina
di un paese di provincia, che si consuma tra le frasche nascoste a lato di una
strada ad alto scorrimento, fa da sfondo scenografico al culto religioso
dell’Immacolata concezione: donna concepita senza peccato, che partorì vergine,
senza mai conoscere la macchia del peccato sessuale.
Quando sono arrivata io, trent’anni dopo la prima apparizione, il veggente non
c’era più. Ormai l’uomo vive lontano e non frequenta più la comunità. Ma il
culto è ancora vivo e resiste alle forze politiche e sociali che cercano di
cacciare la comunità dei fedeli da quella piazzola.
Il veggente non c’è più, ma la Madonna abita ancora il luogo, in modalità più
timide, silenziose. Un uomo mi riferisce di aver sentito dei fruscii nell’erba.
Un altro di aver visto gocciolare dell’olio da una pianta. Un altro mi racconta
di aver ritrovato miracolosamente il suo amato rosario, perso qualche giorno
prima. Una donna mi indica le nuvole, sorridendo: “Lo vedi anche tu, vero?”, mi
chiede. Molti mi raccontano le grazie ricevute: il figlio dell’amico guarito da
una malattia grave, la moglie comparsa in sogno dopo la morte. Le vie della
Madonna sono infinite, come sa bene chi si occupa di apparizioni mariane. La
Madonna è anche una grande frequentatrice di internet: durante la mia
etnografia, ho potuto osservare come la rete non sia solo luogo di creazione di
comunità religiose, ma anche medium specifico che modella il rapporto che le
persone intrattengono con il miracolo.
> Le economie morali disegnano geografie invisibili e sotterranee: la vita
> libertina di un paese di provincia, che si consuma tra le frasche nascoste a
> lato di una strada ad alto scorrimento, fa da sfondo scenografico al culto
> religioso dell’Immacolata Concezione.
La Vergine Maria ricopre un ruolo centrale nella teologia cattolica; eppure, le
forme del suo culto assumono spesso aspetti eterodossi ‒ e un po’ ribelli ‒
rispetto alle istituzioni cattoliche. Questo non capita solo all’ombra di una
grande capitale industriale, nel mezzo della pianura padana: in tutta Italia
ogni tanto una Madonna piange, un’altra sanguina, un’altra fa capolino dalle
nuvole e manda messaggi di pace, un’altra ancora compare agli occhi di qualche
sventurato e annuncia una guerra in arrivo. La Madonna, puntualmente, compare
con modalità e linguaggi indecorosi, goffi, eccessivi, facendo storcere il naso
non solo ai teologi, ma anche all’opinione pubblica mainstream (cattolica e
non). La Madonna si circonda di personaggi ambigui – come la famosa Gisella
Cardia di Trevignano, da anni al centro di bufere mediatiche e indagini per
truffa ai danni dei tanti fedeli che si sono rivolti a lei ‒, oppure se ne esce
con profezie strampalate sulla politica globale, o ancora esaudisce desideri
venali, materiali (nel caso di Gisella, la famosa moltiplicazione delle fette di
pizza). La Madonna non si comporta come ci aspettiamo, e continuamente sfida i
confini teorici ed estetici che distinguono l’ambito del sacro da quello del
profano. Perché, come detto prima, è una figura liminale, una divinità della
soglia.
Le apparizioni della Madonna sono fenomeni culturali importanti da includere a
pieno titolo nell’analisi della complessità antropologica e politica della
contemporaneità europea. Eppure, spesso sono trattate solo come rimanenze
folkloriche curiose e bizzarre, che nel migliore dei casi ci strappano un
sorriso. Ci fa ridere che qualcuno parli con la Madonna, e releghiamo questa
stranezza o all’ambito medico-psichiatrico (“Sarà matto!”) o alla semplice
suggestione della ripetizione del gesto rituale. Prendo in prestito le parole
dell’antropologa Stefania Consigliere quando scrive “La nostra preoccupazione
per chi “vede quel che non c’è” (la Madonna, ad esempio, oppure i jinn, o gli
spiriti della foresta) maschera il fatto che, spessissimo, noi non vediamo quel
che c’è: la violenza, il cinismo, lo sfruttamento, la distruzione” (Favole del
reincanto 2020).
Nel caso del campo che io ho attraversato, “quel che c’è” è la vita nella
periferia periurbana all’ombra di un grande polo produttivo, che all’epoca della
prima apparizione stava iniziando a chiudere i battenti, causando una grossa
crisi occupazionale in tutta l’area circostante: la fine della fabbrica è stata
anche la “fine di un mondo”, utilizzando la famosa espressione demartiniana. Una
modesta ma dirompente apocalisse culturale che ha causato precarizzazione del
tessuto sociale e perdita di sicurezza economica: una crisi dei valori che,
nell’interpretazione dei fedeli, invece che essere imputata alla fabbrica veniva
ricondotta alla cattiva condotta sessuale degli avventori dei boschi.
Uno dei contributi più importanti di Clara Gallini alla letteratura
antropologica italiana è stato quello di sottolineare la modernità del miracolo:
questa antropologa aliena allo scenario antropologico italiano post-demartiniano
voleva liberarsi di quell’ossessione per il “primitivo” che ancora oggi
perseguita molti nella disciplina. “Ha mai visto degli uomini primitivi?
Esistono, invece, uomini moderni che vivono in società moderne che noi chiamiamo
primitive. Ma non lo sono”, sosteneva nel 2014 in un’intervista alla Repubblica.
> Le apparizioni della Madonna sono fenomeni culturali importanti da includere a
> pieno titolo nell’analisi della complessità antropologica e politica della
> contemporaneità europea.
Le apparizioni mariane, secondo l’antropologa, non erano certo eventi
“primitivi”, ovvero rimanenze di culti arcaici e antichi, destinati a scomparire
all’arrivo della modernità. Al contrario, secondo lei erano fenomeni reattivi
rispetto alle sfide della modernità capitalista. La sua analisi brillante,
muovendosi tra le pagine più note della teoria marxista, invita gli antropologi
a concentrarsi sulle condizioni materiali della vita umana nell’approcciarsi
all’analisi dei fenomeni religiosi. Secondo Gallini, in contrasto con la
posizione dominante degli allievi di de Martino e dell’etnologo stesso, la
“magia” non era qualcosa che si limitava agli ambiti rurali; al contrario,
secondo lei magia e religione sono ambiti in continuo mutamento dialettico
rispetto al capitalismo moderno e le sue varie manifestazioni: la società dei
consumi ‒ il piccolo impero capitalista di Lourdes ne è esempio ‒ ma potremmo
aggiungere, oggi, l’avvento del capitalismo digitale (come nel caso del recente
fenomeno Carlo Acutis, il “Santo dei millenial”).
Durante la mia etnografia, sfogliando il grande archivio dei messaggi che la
Madonna riferì al veggente, ne ho trovato uno che diceva: “Lascia che il mondo,
la fabbrica, la stessa Chiesa girino per il loro verso, Io agisco in senso
contrario”. Tracciare le geografie di quel “senso contrario” è uno dei compiti
ermeneutici che un’antropologia coraggiosa dovrebbe saper raccogliere.
L'articolo Dove appare la Madonna? proviene da Il Tascabile.
H o dimenticato di quale torto pensai di essere stato vittima durante la gita di
maturità. Ricordo solo che durante quella settimana parlai pochissimo e di
controvoglia. Invece che andare a sballarmi con il resto dei miei compagni,
passavo le poche ore libere che i professori ci concedevano ogni giorno
infilandomi nella metropolitana. Senza curarmi della direzione, salivo sul primo
treno di passaggio. Qualche volta, a un’intersezione tra due linee, smontavo dal
treno e prendevo una coincidenza, lasciandomi trasportare da un altro convoglio.
Poi, a un certo punto, senza seguire un principio preciso, sceglievo una fermata
e smontavo. Obbedendo alla segnaletica procedevo verso l’uscita e, una volta
ritornato in superficie, mi dedicavo all’esplorazione del quartiere in cui il
caso aveva deciso di portarmi.
A volte andava male. Il quartiere scelto poteva essere un quartiere dormitorio,
il cui paesaggio era dominato da un’infilata di alveari per umani in un anonimo
stile brutalista. Altre volte, invece, il caso regalava qualcosa. Come quando,
girovagando per un piacevole blocco di condomini in stile liberty, m’imbattei in
un pittoresco negozio che vendeva oggettistica rockabilly; una rarità per chi,
come me, veniva dalla provincia profonda.
Che andassero bene o male, quando l’orologio m’imponeva di tornare sui miei
passi e ritornare sotto terra per rientrare in ostello, quelle esplorazioni mi
lasciavano lo stesso qualcosa sulla pelle. Era una sorta di brivido, come una
scarica elettrica che faceva drizzare i peli delle braccia. L’esaltazione o la
spossatezza del giocatore d’azzardo che, almeno per un istante, aveva
contemplato l’inebriante girotondo di infinte possibilità tutte ancora da
attualizzare.
Solo che la mia slot machine, in quei frangenti, era la metropolitana, un treno
urbano che correva sotto la superficie della città, divorando le distanze senza
che me ne accorgessi. La cosa più simile a cui potevo ricondurre quei viaggi
senza meta era l’esperienza di una partita a Super Mario. I momenti in cui,
ignaro di quel che potrebbe accadere, posizioni la figurina dell’idraulico sopra
uno dei tanti tubi di cui sono costellati i livelli del gioco e pigi il tasto
inferiore della croce direzionale per farla accucciare. Il tubo potrebbe essere
un passaggio che conduce a un’area segreta del mondo di gioco, carica di tesori.
Oppure a una scorciatoia, che può farti avanzare rapidamente verso il livello
finale. Oppure, più spesso, essere bloccato e non portare da nessuna parte. La
metro, che ‒ curiosa coincidenza ‒, si può chiamare anche tube (tubo),
funzionava per me allo stesso modo. O meglio, ero io che la facevo funzionare
così, perché il resto delle persone che condividevano con me quei viaggi
sapevano alla perfezione dove stavano andando, quanto sarebbe durato il loro
tempo sottoterra e, soprattutto, cosa avrebbero trovato una volta riemersi dalla
rete metropolitana.
> La mia slot machine era la metropolitana, un treno urbano che correva sotto la
> superficie della città, divorando le distanze senza che me ne accorgessi.
O almeno così pensavo. Magari, su quei treni, seduto a fianco a me o aggrappato
a uno dei pali di sostegno, c’era qualcun altro che aveva deciso di scendere
nella metropolitana per smontare a una fermata sconosciuta solo per provare il
brivido di scoprire che aspetto aveva la città sopra di lui. Chissà, forse non
ero solo. Non lo so; quello che so è che questi ricordi e le sensazioni a loro
collegate e a lungo sopite nel mio cervello sono state riattivate dalla lettura
di un saggio uscito qualche settimana fa per il marchio MachinaLibro
dell’editore DeriveApprodi. Scritto dal giornalista culturale Luca Gricinella,
Giù in metrò. Società, arti e culture è un libro dedicato a ricostruire il ruolo
che la metropolitana riveste nell’immaginario contemporaneo e le influenze che
essa ha esercitato su ogni forma di espressione.
Dalla fotografia alla musica, dal cinema alla letteratura, fino alle arti
performative, quello della metropolitana nell’immaginario collettivo è un ruolo
caratterizzato da un ampio ventaglio di sfaccettature. Per poterlo raccontare in
modo esaustivo, l’autore ricorre ‒ non potrebbe fare altrimenti ‒, a molte,
diverse forme di scrittura: dall’autobiografia alla saggistica, dall’intervista
al reportage, dalla recensione all’etnografia. A imporre questo stile ibrido è
la natura stessa della metropolitana. Essa è infatti molte cose diverse allo
stesso tempo.
Prima di tutto è un mezzo di trasporto. Un treno che corre sottoterra grazie a
un reticolo di gallerie. È grazie a questa caratteristica che permette a un
vasto numero di persone di spostarsi rapidamente, percorrendo lunghe distanze.
La costruzione dei primi treni metropolitani ha inizio alla fine del
Diciannovesimo secolo. La prima vera linea meritevole di questa definizione è
stata quella di Londra, che ha cominciato a operare il 10 gennaio del 1863. Ad
avanzare la proposta di costruirla pare sia stato l’allora sindaco della
capitale britannica, Charles Pearson, determinato a ridurre il caos
insopportabile delle vie del centro, dovuto in parte anche alla mancanza di un
interscambio diretto tra le stazioni ferroviarie londinesi.
Da allora e fino agli anni cinquanta del Ventesimo secolo, la costruzione di
reti di trasporto ferroviario metropolitano visse un periodo di forte e rapida
espansione. Una crescita che non si limitò solo al numero di città che
adottavano questa soluzione o alla lunghezza complessiva delle loro reti, ma che
fu anche un progresso tecnologico. La metropolitana deriva dalla ferrovia, da
cui mutua buona parte del suo apparato tecnologico. Tuttavia, le particolarità
dello spazio in cui opera hanno fatto sì che questi impianti fossero oggetto di
innovazioni, come il controllo della marcia dei treni e la guida automatica.
> Giù in metrò è un libro dedicato a ricostruire il ruolo che la metropolitana
> riveste nell’immaginario contemporaneo e le influenze che essa ha esercitato
> su ogni forma di espressione.
Oggi, i diversi tipi di tecnologia impiegati distinguono i sistemi di
metropolitana, dando origine a molteplici categorie. Le metropolitane si
distinguono così in base al loro tipo di guida, con o senza conducente; al tipo
di rotaia usata, metallica o gommata; al tipo di sede, che può essere
sotterranea, sopraelevata o di superficie; in base al genere di servizio, dunque
pesante o leggero. Potrebbe sembrare una nota di poco conto, ma una parte
dell’identità di ogni metropolitana nasce proprio dalle molte combinazioni
possibili di queste tecnologie.
Ruote e rotaie di quella di New York, racconta Gricinella nel capitolo a essa
dedicato, continuano a essere entrambe di metallo, dando così origine al forte
stridio che ne è diventato ormai un simbolo. Mentre i convogli automatizzati
della linea lilla (M5) della metropolitana di Milano ‒ che attraversa la città
da nord a nord ovest collegando lo stadio di San Siro con il capolinea di
Bignami Parco Nord ‒ la rendono la linea più amata dai bambini. Seduto su uno
dei seggiolini, l’autore li osserva con tenerezza correre verso l’ampia vetrata
rivolta nel senso di marcia per potersi godere l’emozione di veder comparire la
luce al fondo dell’oscurità del tunnel, mano a mano che il treno si avvicina a
una stazione.
Ma la metropolitana non è solo un mezzo di trasporto tecnologico, è anche uno
spazio. Uno spazio molto particolare; un non luogo, per dirla con il concetto
coniato dall’antropologo francese Marc Augé, che alla metropolitana ha dedicato
Un etnologo nel metrò (1992), uno dei suoi testi più celebri. A renderla tale è
la sua posizione sotterranea. Alla metropolitana si accede infatti attraverso un
complesso sistema di soglie composto da scale, portali, tornelli, ascensori,
rampe e diversi altri tipi di forme architettoniche. Attraversando i quali non
ci si lascia solo alle spalle il mondo di superficie, si perdono tutti i
riferimenti e le coordinate spaziali che rendono possibile orientarsi nello
spazio.
L’esperienza di un viaggio in metropolitana è un’esperienza straniante, durante
la quale ci vengono sottratti i riferimenti cardinali a cui siamo abituati ad
affidarci quando attraversiamo gli spazi di superficie. A meno di non possedere
un’approfondita e inusuale conoscenza della rete e delle corrispondenze che essa
ha con i punti di riferimento che scorrono sopra le nostre teste, è impossibile
stabilire in quale direzione ci si stia muovendo quando si procede all’interno
dei suoi tunnel.
> Un viaggio in metropolitana è un’esperienza straniante, durante la quale ci
> vengono sottratti i riferimenti cardinali a cui siamo abituati ad affidarci
> quando attraversiamo gli spazi di superficie.
Un compito per cui non troviamo aiuto nemmeno nelle mappe che rappresentano le
diverse linee della metropolitana di una città. Se il modo in cui vengono
rappresentate ricorda più uno schema elettrico che una carta geografica è
proprio perché disegnare circuiti elettrici era il mestiere di Harry Charles
Beck, la persona che ha inventato questo sistema di rappresentazione allo scopo
di tracciare la mappa della metropolitana di Londra nel 1933. Ma prendendoci il
tempo per guardarla con più attenzione e provando a smettere di attraversarne
gli spazi frenetici come elettroni, e Gricinella ci sollecita a farlo con il suo
libro, ci accorgiamo che la natura di non luogo ‒ anche Augé lo era nella sua
definizione ‒ è molto meno netta e stabile di quanto possiamo pensare.
L’antropologo francese specificava infatti che “ciò che per alcuni è un luogo,
per altri può essere un non luogo e viceversa”.
Scopriamo così che nella stazione di piazza Venezia della metropolitana di
Milano ‒ che, è la città in cui l’autore del libro è nato e vive ‒ esiste un
grande spazio vuoto, un mezzanino appartato ma non inaccessibile, di cui si sono
appropriate persone delle comunità sudamericane o asiatiche che lo utilizzano
come sala prove per le loro coreografie collettive, in quello che Gricinella
definisce “un esempio di spazio pubblico completamente in disuso che è stato ben
sfruttato”.
Oppure veniamo a sapere delle scorribande dei writer, che studiano le reti alla
ricerca di varchi o passaggi incustoditi da cui calarsi all’interno dei tunnel
della metropolitana per raggiungere i depositi dei treni e marchiarli con tag e
graffiti. O, ancora, dalle parole di Gricinella impariamo come le carrozze dei
treni metropolitani possano diventare il palcoscenico per un ampio ventaglio di
artisti di strada: dai senzatetto che si improvvisano intrattenitori fino agli
artisti affermati che usano la metropolitana come ispirazione per i propri
lavori.
> Guardando la metro con più attenzione, e provando a smettere di attraversarne
> gli spazi frenetici come elettroni, ci accorgiamo che la natura di non luogo è
> molto meno netta e stabile di quanto possiamo pensare.
È il caso di Sara Pizzi, performance artist italiana che vive e lavora a New
York, città dalla cui metropolitana si è fatta ispirare per lo spettacolo L
Train, realizzato insieme ad Aida Takashima. Ispirato all’omonima linea della
metro newyorkese, L Train, una coreografia di danza contemporanea, ha debuttato
il 21 e 22 gennaio del 2022 al Green Space Theatre nel Queens e, oltre alla
musica, conteneva annunci registrati della linea L e una narrazione recitata. Al
centro di questo lavoro c’è il desiderio di parlare “di come la vita sia
instabile, di come tutto cambi regolarmente senza che ce ne rendiamo conto, di
quante persone abbiamo lasciato nella nostra vita, di quante persone
dimentichiamo, di quanto siano imprevedibili le relazioni e di quanto sia facile
sentirsi sostituibili. Tutte queste domande portano alla conclusione che la vita
sembra come la linea del treno L: tutti vanno nella stessa direzione ma nessuno
ha la stessa destinazione.”
La linea L della metropolitana di New York collega Manhattan a Brooklyn con
ventisette fermate. È stata la prima linea automatizzata della città ed essendo
così lunga serve un considerevole numero di persone diverse, che si alternano
sui suoi convoglia a seconda del momento della giornata. “Dalle sei alle otto”
dice Pizzi, intervistata nel libro,
> studenti, insegnanti, altri lavoratori. Dalle nove del mattino fino alle tre
> del pomeriggio, tutti gli altri lavoratori con orari normali, senzatetto,
> artisti, turisti. Dalle quattro fino alle sette del pomeriggio è il delirio:
> fiumi di persone che tornano a casa dal lavoro e qui devi sgomitare tra
> skateboard, animali, buste della spesa e borse per entrare nella carrozza e
> sentirsi come una sardina in lattina. Dalle otto di sera in poi, invece, c’è
> la gente che torna tardi o va a lavoro, a cena, a un evento, e te la ritrovi a
> mezzanotte sullo stesso treno per tornare a casa ubriaca. Dalle due alle
> quattro del mattino, infine, è quell’orario magico in cui non sai se stai
> sognando o sei sveglio: tra carrozze vuote, o solo con senzatetto
> addormentati, lavoratori della metropolitana o giovani adulti ubriachi,
> l’unica cosa che si può temere è di addormentarsi e ritrovarsi all’altro capo
> della città.
Per quanto emblematica, quella testimoniata da Pizzi è solo una delle tante
storie che Luca Gricinella raccoglie per raccontare cosa sia davvero la
metropolitana e il legame che abbiamo con essa. Non soltanto un ambiente urbano,
né un comodo per quanto affollato mezzo di trasporto. Vista attraverso la penna
dello scrittore milanese, la metropolitana ‒ o metro, oppure metrò, alla
francese ‒ si rivela per quello che è in realtà: un complesso oggetto culturale
che, in virtù del fascino che le sue caratteristiche esercitano su di noi,
occupa un posto di rilievo nel nostro immaginario e continua a rappresentare un
luogo in cui storie personali, dinamiche di comunità, pratiche artistiche
spontanee e marketing corporativo continuano a incontrarsi e influenzarsi le une
con le altre, in quell’incessante lavorio creativo ed espressivo che siamo
abituati a chiamare “cultura”.
L'articolo Giù in metrò di Luca Gricinella proviene da Il Tascabile.
“C hissà che direbbe se fosse ancora vivo” si sospira pensando a tutti i grandi
maestri che ci hanno lasciato e che, per un motivo o per l’altro, supponiamo
avrebbero tanto da dire sulla nostra povera contemporaneità. L’idea è che i
nostri tempi, che costoro non hanno fatto in tempo a vedere, portino il segno
visibile delle loro intuizioni finalmente avverate oppure che presentino nuove
sfide che sembrano fatte apposta per essere interpretate dalla loro cassetta
degli attrezzi teoretica. Non sono il solo a pensare che entrambe queste
affermazioni siano vere per René Girard, il grande filosofo e antropologo
francese scomparso precisamente dieci anni fa, il 4 novembre 2015.
Non sono il solo a pensare che il mondo che abitiamo da quindici anni a questa
parte sia particolarmente suscettibile di analisi girardiane, un mondo che
Girard ha fatto in tempo a scorgere ma non a commentare: le sue ultime
apparizioni pubbliche risalgono alla fine del primo decennio degli anni Duemila
quando la rivoluzione tecnologica che ci avrebbe costretto a parlare di “capro
espiatorio” quasi ogni santo giorno era appena iniziata. Non sono il solo a
pensare, infine, che proprio i social network siano, da un lato una sorta di
piastra di Petri del pensiero girardiano, dall’altro un acceleratore di queste
dinamiche che rende le sue riflessioni più attuali che mai.
Già ai suoi tempi Girard notò che la diffusione nella società della locuzione
“capro espiatorio”, tanto nel linguaggio giornalistico quanto in quello
quotidiano, comportava importanti conseguenze. A differenza di tanti pensatori
che sono gelosissimi della loro ridefinizione tecnica di un concetto noto a
tutti e passano la loro carriera a squalificare gli usi “barbari” di quella
parola che è diventata il centro del loro programma teorico, Girard riconobbe un
sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione del termine, fondata
su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del senso comune. Proprio da
questa comprensione generale però, come vedremo, deriva secondo lui la
progressiva perdita di efficacia del meccanismo e, allo stesso tempo, una
proliferazione dei fenomeni ascrivibili allo stesso: di quelli veri e di quelli
falsi.
La chiamo Teoria del tutto perché la teoresi di Girard non mancava certo di
ambizione o di sistematicità. Spaziando tra antropologia, psicologia, sociologia
e storia delle religioni, con un pugno di intuizioni debitamente sviluppate e
interconnesse, Girard pretese di spiegare la condizione umana nel suo insieme e,
quasi en passant, la natura di Dio stesso: di quello vero e di quelli falsi.
Tanto sviluppate e interconnesse sono queste intuizioni ‒ e la Teoria del tutto
che ne segue ‒ che è complicato introdurle quali strumenti di analisi del
presente senza un approfondimento adeguato. Allo stesso tempo, l’originalità di
queste intuizioni fa sì che un’esposizione a volo d’uccello dei principali
assunti del pensiero girardiano risulterebbe, alla meglio, una cascata di
affermazioni arbitrarie e, alla peggio, uno sproloquio da manicomio.
> Girard riconobbe un sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione
> del termine, fondata su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del
> senso comune.
Sì, le convinzioni di Girard sul mondo sono così radicali che solo enunciarle in
un testo breve come questo rischia solo di scandalizzarvi e farvi scappare
quanto più lontano possibile dal suo universo mentale. Ho pensato quindi di
proporvi tre ipotesi fondamentali e indigeribili del pensiero girardiano e,
insieme a queste, una versione diminuita delle stesse, una sorta di argomento
minore ‒ apocrifo e di mia invenzione ‒ che limita la portata dell’affermazione
originaria ma ci consente di metterle al lavoro sulla contemporaneità senza che
il lettore sia costretto a confrontarsi con l’intera opera girardiana per farsi
un’idea dettagliata, positiva o negativa che sia. Infatti le ho chiamate ipotesi
ma, come ho anticipato, il suo pensiero è così interconnesso che ciascuna di
queste affermazioni può essere fatta discendere dall’altra e viceversa. Girard
stesso, nel corso della sua vita, ha presentato la sua Teoria del tutto partendo
da punti diversi che, con quelli che definiva “ragionamenti a spirale”,
reintegravano e giustificavano quelle che nel saggio precedente erano le
premesse.
L’omicidio collettivo fondativo
Freud e Girard si azzuffano nel fango. Volano botte da orbi retoriche. Il
secondo accusa il primo di aver frainteso tutto quello che ha intuito, che il
triangolo non è edipico, che i tuoi genitori non c’entrano niente, il triangolo
è la base delle relazioni umane punto e basta (ci arriviamo). Rotolando per
terra attraverso i secoli e i millenni, giungono all’alba dei tempi. Lì, in una
radura poco distante, si sta consumando una scena incredibile e spaventosa: una
dozzina di ominidi sta uccidendo a mani nude un loro simile. Il Padre della
psicanalisi punta il dito ed esclama “Guarda! L’omicidio del Padre primordiale
ad opera dei suoi Figli! La nascita della Civiltà”.
> Le convinzioni di Girard sul mondo sono così radicali che enunciarle rischia
> di scandalizzarvi e farvi scappare quanto più lontano possibile dal suo
> universo mentale.
Girard si alza da terra, si ricompone e, con il suo Main Theme che suona in
sottofondo, sussurra: “Sigmund… come al solito non hai capito niente eppure hai
capito tutto”.
Più o meno così ci presenta Girard il suo confronto intellettuale con Sigmund
Freud, in particolare con la sua opera maledetta Totem e tabù (1913). Maledetta
perché, come ci riporta il nostro, già in quegli anni tutti i freudiani la
evitavano come la peste. E se non potevano fare a meno di parlarne, lo facevano
con mille mani avanti e esecrando il più scandaloso passo falso del loro
maestro, questa idea ridicola e preoccupante che l’umanità sia sorta
dall’omicidio di un Padre Primordiale da parte dell’Orda Primitiva composta dai
suoi Figli coalizzati contro di lui. Girard, con una soddisfazione intellettuale
che non riesce a nascondere, dice il contrario: buttate pure tutto Totem e tabù,
se non l’intera opera freudiana, ma lasciatemi l’omicidio collettivo che è
l’unica intuizione assolutamente geniale e assolutamente vera che egli ha avuto.
Anche questa intuizione, a dire il vero, la smussa e la radicalizza insieme. I
legami familiari, dice, non c’entrano nulla. Ogni società è sorta sul cadavere
di un individuo, un individuo qualsiasi, un capro espiatorio, ucciso da tutti i
membri del gruppo che hanno convogliato su di lui tutta la violenza che li
metteva gli uni contro gli altri, trovando finalmente unità. Questo evento non è
accaduto una volta per tutte, come sembra credere Freud, ma più volte per ogni
civiltà umana, in cicli che possiamo sintetizzare così: i rapporti in un gruppo
si guastano progressivamente fino a giungere a un’ostilità diffusa che Girard
chiama “crisi mimetica” (vedremo perché); una volta scatenatasi, questa violenza
può avere due esiti: l’estinzione del gruppo stesso attraverso una catena di
rappresaglie omicide senza fine, oppure l’omicidio collettivo di un membro
scelto a caso che si assume, insieme, la colpa di tutta la violenza che correva
per la società e il merito della pace che segue questa ritrovata unità: il capro
espiatorio. Da questa pace sorgono tutte le istituzioni culturali che
garantiranno la pace interna fino alla prossima crisi mimetica.
Ora vi chiederete: e Girard, tutte queste cose, come le sa? Risponde lui:
analizzando le istituzioni stesse, su tutte i riti e i miti. È pacifico che
questo fenomeno fondamentale non può più essere osservato direttamente ma,
sostiene Girard, le tracce che ha impresso nella storia culturale dell’uomo sono
chiarissime e univoche. Ogni rito è per lui una messa in scena della crisi
originaria e dell’omicidio collettivo che l’ha risolto, che serve a sfogare la
violenza e ripristinare le forze positive che l’hanno seguita “la prima volta”.
Ogni rito, infatti, era in origine un rito di sacrificio, di sacrificio umano
per la precisione, e solo modificazioni successive hanno trasformato la maggior
parte di questi, prima in sacrifici animali e poi in rappresentazioni via via
più allusive o giocose della violenza reale, come l’aggressione collettiva di
fantocci.
I miti, dal canto loro, sono la narrazione mistificata di questo episodio
omicida che informa i riti e, a cascata, tutte le istituzioni religiose e
sociali, cioè il sacro stesso. A subire la violenza, nel mito, è un dio o un
uomo in seguito divinizzato che paga per delle colpe che gli vengono attribuite
nel racconto medesimo. Per Girard, infatti, ogni mito è il racconto di questo
omicidio insensato ma narrato dal punto di vista dei persecutori stessi che si
convincono della colpevolezza della vittima. Proprio come i riti, anche i miti
vedono evoluzioni che marginalizzano o mistificano ulteriormente l’evento reale
da cui traggono origine, trasformandolo in una disputa, un esilio o un
allontanamento/suicidio volontario. Facile formulare un’obiezione ‒ che è stata
effettivamente mossa ‒ a tutto ciò: Girard opera un cherry picking e/o
un’interpretazione forzata dei materiali mitici e rituali al fine di affermare
l’universalità della sua scoperta.
> Ogni società è sorta sul cadavere di un individuo, un individuo qualsiasi, un
> capro espiatorio, ucciso da tutti i membri del gruppo che hanno convogliato su
> di lui tutta la violenza che li metteva gli uni contro gli altri, trovando
> finalmente unità.
Nei limiti di questo articolo, sacrifichiamo volentieri l’universalità per
mantenere la capacità esplicativa di molti miti e rituali che presentano con
inquietante ricorrenza il simulacro di una violenza collettiva. Tra queste
storie, ve n’è una che non consideriamo neppure mito ma realtà storica e che ha
avuto una certa influenza sull’umanità. Girard ci mette gli occhi sopra e
afferma che è, contemporaneamente, sempre la stessa storia e una completamente
diversa.
L’eccezionalità del Cristianesimo
Duemila anni fa un uomo fu ucciso da persone che, a suo dire, non sapevano
quello che facevano. Duemila anni dopo, oltre due miliardi di persone
considerano quell’uomo figlio di Dio e tra queste c’era anche René Girard. In
chiusura de La violenza e il sacro, la sua prima grande opera di taglio
antropologico uscita nel 1972 e dalla quale ho estratto le nozioni che vi ho
sintetizzato prima, Girard lancia al lettore una sorta di cliffhanger,
anticipando che “l’ampliamento di tale teoria in direzione giudeo-cristiano”
sarà rinviata a opere successive.
Niente suggerisce al lettore che la tradizione giudaico-cristiana farà eccezione
all’unità di tutti i riti fin lì tratteggiata dall’autore. Immaginate lo stupore
quando l’opera annunciata si intitola con una suggestiva frase estratta dal
Vangelo. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo esce nel 1978. Da lì
in poi, l’opera di Girard diventa ‒ o forse si rivela ‒ una serratissima
apologetica cristiana che trae i suoi argomenti dalle precedenti ricerche
antropologiche, sociologiche, psicologiche e letterarie.
Lungi dall’essere la riproposizione del mito del dio ucciso e risorto, per
Girard il cristianesimo è la rivelazione della falsità del mito stesso, l’evento
che una volta per tutte mostra le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo,
ovverosia la mistificazione sacrificale dell’omicidio collettivo. Sì, la storia
è proprio la stessa ma per la prima volta è interpretata correttamente, viene
cioè raccontata dal punto di vista della vittima innocente e non da quello dei
persecutori. Questo è forse il boccone girardiano più difficile da ingoiare,
soprattutto se il lettore fa parte di quei sei miliardi circa che non sono
affatto convinti che quell’uomo lì fosse figlio di Dio. Eppure il centro del
ragionamento girardiano non è quasi toccato dall’effettiva esistenza di un
essere superiore, creatore del cielo e della terra ecc. La rivelazione cristiana
per lui coincide con la rivelazione del meccanismo vittimario e può pertanto
essere “accettata” anche da una prospettiva materialista. L’unico accenno di
“argomento ontologico” a sostegno dell’esistenza di Dio si trova in pochi e
frettolosi passaggi che stabiliscono, sulla logica degli altri argomenti
ontologici, che solo un essere superiore avrebbe potuto svegliare gli uomini e
rivelare loro la radice della propria violenza, attraverso la croce.
In questo senso, l’eccezionalità cristiana in Girard può essere ricevuta come la
pars construens della sua proposta teorica, il Che fare? di fronte a tutta la
violenza del mondo che per Girard coincide con l’aspetto di radicale
non-violenza del messaggio evangelico. Se la Passione racconta per la prima
volta in modo veritiero cos’è un capro espiatorio, colui che viene “odiato senza
ragione”, l’insegnamento di Cristo è tutto orientato a scongiurare con ogni
mezzo l’insorgere di questa violenza. Porgi l’altra guancia; chi è senza peccato
scagli la prima pietra; non giudicate, per non essere giudicati; e infine “Voi
avete udito che fu detto: ‘Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico’. Ma io vi
dico: ‘Amate i vostri nemici’”: Girard legge la novità evangelica come questa
profilassi estrema contro l’innesco della violenza, un pacifismo così radicale
da essere inaccettabile e infatti inaccettato tutt’ora, duemila anni dopo la
rivelazione.
> La rivelazione cristiana per lui coincide con la rivelazione del meccanismo
> vittimario e può pertanto essere “accettata” anche da una prospettiva
> materialista.
Ci resta da capire quale sia l’innesco della violenza per Girard, cos’è che
scatena, dapprima il tutti contro tutti e poi il tutti contro uno. Le basi di
questa risposta le gettò nella sua prima opera, un’opera di critica letteraria
incentrata sul desiderio, quando ancora non sapeva ‒ per sua stessa ammissione ‒
le ramificazioni antropologiche, sociologiche e infine religiose cui quella
singola intuizione lo avrebbe condotto.
Il desiderio mimetico
L’estate scorsa, per un paio di settimane, l’opinione pubblica si è
scandalizzata per un gruppo Facebook chiamato “Mia moglie” in cui decine di
migliaia di mariti italiani pubblicavano foto delle loro consorti ‒ sembra quasi
sempre senza consenso ‒ affinché venissero rese oggetto del desiderio di una
folla di altri uomini sconosciuti. Lo scandalo si è giustamente concentrato non
tanto sul gioco erotico in sé quanto sulla diffusa assenza di consenso al gioco
stesso da parte delle donne coinvolte loro malgrado. Stupisce però che quasi
nessuno si sia comunque interrogato sul perché questi ormai mitici trentaduemila
uomini italiani si trovassero tutti a loro agio in una perversione
apparentemente così specifica e marginale che non ha neppure una vera e propria
traduzione nella nostra lingua ‒ il cuckolding. Quasi nessuno eccetto un’autrice
che, proprio su queste pagine, ha correttamente parlato di “classica diffrazione
di stampo girardiano” per descrivere ciò che stava avvenendo lì.
E infatti non sarebbe poi così esagerato indicare il cuckolding come forma
universale del desiderio secondo Girard. Di questo stavano litigando lui e Freud
mentre si rotolavano nel fango. Il Padre della psicanalisi ha introdotto il
triangolo con il complesso d’Edipo mentre per Girard il triangolo è la forma di
tutte le relazioni e quella edipica è solo la prima di queste ma non ha nessun
primato epistemologico nella genesi del desiderio. Nella sua prima opera,
Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), analizzando un pugno di classici
moderni ‒ Cervantes, Stendhal, Flaubert e Dostoevskij ‒ Girard individua la
struttura fondamentale del desiderio nella triangolazione tra un soggetto, un
mediatore (in seguito chiamato anche modello/ostacolo) e un oggetto. Il
desiderio è mimetico perché imita sempre il desiderio altrui, si fa dire da
altri chi o cosa desiderare. Allo stesso tempo, il desiderio dell’imitatore
riverbera sul mediatore, innescando quella rivalità che è l’origine di ogni
violenza.
Se tutto questo sembra astratto, ritorniamo a ciò che succedeva in quel gruppo:
i mariti tornano a desiderare le proprie mogli solo se le vedono desiderate da
altri e, forse ancora più sconvolgente a ben guardare, gli altri desiderano
queste donne che intravedono in fotografie pessime e male inquadrate solo perché
gli viene detto che appartengono a qualcun altro. Il desiderio degli “aspiranti
bull” del gruppo è, paradossalmente, molto più strano del desiderio dei “cuck”
che cedono la loro donna alla massa. In un mondo in cui la pornografia più
esplicita è ovunque, costoro si eccitano alla vista di mezzo corpo femminile in
costume solo perché un mediatore sconosciuto gli dice: “Questa è mia moglie”.
Non concepisco migliore argomento in favore dell’esistenza del desiderio
mimetico girardiano nella sua purezza che questo.
> Il desiderio è mimetico perché imita sempre il desiderio altrui, si fa dire da
> altri chi o cosa desiderare. Allo stesso tempo, il desiderio dell’imitatore
> riverbera sul mediatore, innescando quella rivalità che è l’origine di ogni
> violenza.
I membri di “Mia moglie”, però, non accedono mai alla rivalità mimetica e quindi
alla violenza proprio in quanto perversi: sono riusciti a dirottare il loro
desiderio rivalitario in una reciprocità collaborativa che, tra le altre cose,
tende a far scomparire l’oggetto del desiderio lasciandoli in balia di un
desiderio reciproco. Pollastrini suggerisce giustamente, sulla scorta del
Challengers di Guadagnino ‒ come del caso Schreber di Freud ‒ che a sedimentarsi
è un desiderio omosessuale.
Ma non va sempre così, anzi, quasi mai. Girard afferma che l’oggetto del
desiderio tende sempre a eclissarsi ma per lasciare spazio a una rivalità che
odia senza neanche più bisogno dell’invidia o della gelosia: è la crisi dei
doppi. I due contendenti, ormai dimentichi dell’oggetto della contesa, si
recriminano l’un l’altro le stesse colpe, le stesse accuse. Niente più li
distingue. Un tipico oggetto del desiderio che, molto più delle mogli, si presta
a questa repentina scomparsa è l’onore. Chi ha offeso chi? Chi per primo, chi
per secondo, chi ha esagerato nella risposta a un’offesa che non era poi così
grave? La disputa verbale precede quella fisica e si allarga a macchia d’olio in
tutta la società: è la crisi mimetica.
Solo una cosa può risolvere questa crisi, già lo sapete, ma ora sapete anche
perché: il capro espiatorio assume su di sé tutte le recriminazioni, tutte le
colpe, tutta la catena di accuse ormai inestricabile che aveva diviso la
collettività. Lui e solo lui è l’origine dell’odio, della frustrazione, della
gelosia che proviamo. Una volta che lo abbiamo ucciso tutti insieme, ci
ritroviamo in pace: “la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la
pietra d’angolo”.
Lungi dall’essere un pretesto per misere liti, per Girard, la mimesi reciproca è
il vero motore dell’ominizzazione, ciò che ci ha resi umani, l’inizio di tutto
il processo. Imitandosi a vicenda, gli ominidi escono dal dominio del “montaggio
istintuale”, accedono a una nuova classe di desideri e quindi di conflitti. Si
scatena la violenza e uccidono uno di loro. Si calmano. Lo seppelliscono con un
cumulo di pietre: una piramide rudimentale, priva di punta, proprio come le più
antiche tombe di cui abbiamo testimonianza. Da qui, attraverso numerosi cicli,
nasce la civiltà con i suoi riti, i suoi miti, le sue istituzioni.
Mi rendo conto ora che forse, ancora più di Cristo morto e risorto, sia questo
il boccone girardiano più ostico, l’idea che la mimesi sia allo stesso tempo il
vero motore del salto compiuto dall’Homo sapiens sapiens e la realtà ultima di
ogni nostro desiderio. Anche qui possiamo però ridurre la portata universale
dell’affermazione girardiana dirigendo l’attenzione su quanti dei nostri
desideri sono mimetici senza che ce ne rendiamo conto. Fino alla fine, da
Menzogna romantica e verità romanzesca in poi, Girard ha difeso la tesi per cui
ogni desiderio è mimetico e il desiderio oggettuale è relegato all’ambito del
“montaggio istintuale”, malamente definito e ricondotto ai più bassi gradini
della piramide di Maslow. Senza cercare di dimostrare l’inesistenza totale del
desiderio oggettuale, noi possiamo fare a meno di questo assolutismo e
ipotizzare che il mimetismo sia una componente fondamentale di tanti nostri
desideri che raramente mettiamo a fuoco. Ora siamo pronti per affrontare la
contemporaneità da girardiani scettici.
I fondamenti dei nostri capri espiatori
In questi ultimi dieci anni tanti hanno evocato Girard, spinti da un mondo che
sembrava sempre più ostinato a dargli ragione. Spesso, però, è stato evocato
superficialmente, senza cioè integrare i fondamenti della sua teoria che,
abbiamo visto, non è d’altronde facile da comunicare. Di fronte al moltiplicarsi
di fenomeni quali le shitstorm, la call out culture, la cancel culture, il
politicamente corretto, a tanti saliva alla bocca la parola “capro espiatorio”
e, con questa, il nome del grande studioso che ci ha intitolato la sua opera più
famosa. All’interno di queste riflessioni, però, il ruolo di Girard si riduce
spesso all’averci genericamente “messo in guardia” contro un fenomeno brutto e
cattivo ‒ il capro espiatorio ‒ che si è stranamente moltiplicato nella nostra
società, chissà perché. Tanto più grande è stato Girard da averci dato gli
strumenti per interpretare le cause profonde del fenomeno e cioè quel meccanismo
di cui abbiamo appena parlato, chiamato mimetismo. Se tutti riconoscono che i
capri espiatori si sono moltiplicati grazie all’imporsi del social network,
Girard ci fornisce la chiave per decifrare che tipo di tendenze sono incentivate
da queste nuove forme di socialità e come queste portino a fenomeni di capro
espiatorio.
> Lungi dall’essere un pretesto per misere liti, per Girard, la mimesi reciproca
> è ciò che ci ha resi umani, l’inizio di tutto il processo. Imitandosi a
> vicenda, gli ominidi escono dal dominio del “montaggio istintuale”, accedono a
> una nuova classe di desideri e quindi di conflitti.
Quando Girard formulava la sua teoria mimetica non era semplice mostrare che
dietro ogni nostro desiderio c’è l’imitazione, cioè l’ammirazione per un modello
che ci indica cosa desiderare. Il cuckolding è il diorama del desiderio mimetico
perché Girard stesso, quando doveva scendere nel dettaglio, tra tutti i desideri
mimetici, selezionava i triangoli amorosi per illustrarne il funzionamento.
Invece, per rendere conto del mimetismo della stragrande maggioranza dei
desideri, Girard deve ricorrere alla dicotomia mediazione interna/mediazione
esterna: i desideri di mediazione interna sono quelli, come i triangoli amorosi,
in cui il modello/ostacolo è vicino a te, in carne ed ossa, un rivale nel senso
proprio del termine; quelli di mediazione esterna sono i desideri ispirati da un
mediatore lontano nello spazio e nel tempo, da un mediatore astratto, come
possono essere i mass-media novecenteschi che ti fanno desiderare di avere una
Ferrari perché ce l’hanno i ricchi. Anticipando le critiche, Girard non riduce
la mediazione esterna a un’innovazione contemporanea, e apre il saggio con
l’esempio del Don Chisciotte che imita il desiderio di Amadigi di Gaula, un
predecessore fittizio inventato da Cervantes come modello di cavaliere errante.
La mediazione esterna, insomma, nasce con la cultura e, a livello cronologico,
segue di poco l’apparizione della mediazione interna, quella che ha destato le
prime rivalità tra gli ominidi che si sono placate solo tramite ricorrenti
omicidi collettivi.
E se il social network comportasse la confusione e il collasso di mediazione
esterna e mediazione interna? I modelli sul social network siamo tutti noi, gli
uni per gli altri, conosciuti e sconosciuti. Mediatori interni e mediatori
esterni sono posti sullo stesso piano, tutti su quel piedistallo chiamato
“profilo” che attira sguardi, attenzioni, amori, odi e invidie. Più di ogni
altra cosa approvazioni pubbliche, quel pulsantino fondamentale nell’economia
del social network chiamato “like” che altro non è che un indice di gradimento,
un indice che indica cosa desiderare, in quanto già desiderato. Il sociologo
Niklas Luhmann chiamava queste dinamiche “osservazione di secondo ordine” e, in
tempi recenti, il filosofo Hans-Georg Moeller ha adoperato la categoria per
descrivere come “profilistica” la nuova tecnologia dell’identità inaugurata dal
social network. In ottica girardiana, il social network è la più perfetta
macchina mimetica perché registra e ci mostra tutti i nostri desideri reciproci.
Sul social network davvero ogni desiderio è desiderio dell’altro.
Insomma, se abbiamo assunto che i fenomeni di capro espiatorio si sono
moltiplicati per via dei social network e possiamo dimostrare indipendentemente
che sono anche uno degli ambienti più mimetici in cui l’umanità si sia trovata a
vivere, possiamo persino rovesciare la domanda e dire che ciò che abbiamo
davanti agli occhi conferma l’intuizione girardiana: il social network è la
prova del nesso tra mimesi e capro espiatorio, la piastra di Petri che rivela la
connessione profonda tra una società che si imita senza sosta e che senza sosta
si ritrova ad odiare collettivamente alcuni membri della società stessa.
L’inconsistenza dei nostri capri espiatori
Abbiamo anticipato che, già nel corso della sua vita, Girard osserva un duplice
e paradossale movimento dei capri espiatori: si moltiplicano ma non funzionano
più. Le ragioni che individua sono due e complementari. Intanto, sempre più
raramente uccidiamo i nostri capri espiatori e quindi non accediamo al momento
catartico che segue un vero e proprio omicidio collettivo, ma se uccidiamo
sempre più di rado è proprio perché non ci crediamo più fino in fondo. La
diffusione del termine “capro espiatorio” testimonia proprio questo: la (lenta)
presa di coscienza che l’umanità sta facendo del suo meccanismo fondatore. Anche
la più approssimativa comprensione del termine rimanda a una violenza che si
scatena senza ragione su un singolo o su un gruppo come “diversivo” o “sfogo” di
determinate energie.
> In ottica girardiana, il social network è la più perfetta macchina mimetica
> perché registra e ci mostra tutti i nostri desideri reciproci. Sul social
> network davvero ogni desiderio è desiderio dell’altro.
D’altro canto, queste “energie” ‒ che Girard inquadra come mimesi ‒ sono ancora
qui e pertanto i capri espiatori continuano ad essere ricercati senza che
nessuno di questi svolga il suo compito fino in fondo. Ancora una volta, la
situazione che osserviamo sui social network sembra confermare ed esasperare il
fenomeno. Se osservate con attenzione una qualsiasi shitstorm noterete non solo
che, ovviamente, non si conclude con un omicidio ma che produce tutta una serie
di shitstorm minori lungo i suoi bordi. I capri espiatori si moltiplicano
letteralmente all’interno dello stesso evento. Alcuni di questi sono
semplicemente i difensori del capro espiatorio originale che, in questo
contesto, diversamente da una lapidazione vera e propria, possono trovare il
coraggio di farsi avanti, rischiando molto ma non la morte immediata.
Altri, ancora più interessanti, fanno parte della cerchia dei persecutori. A
differenza della folla anonima che lapida e che ritrova l’unità in questo gesto
collettivizzante, i persecutori del social network hanno nomi e cognomi, profili
ricchi di storia e contraddizioni, facilmente accessibili. “Come si permette LUI
di parlare?” si chiede a un certo punto qualcuno che sposta lo sguardo dalla
vittima selezionata a un suo collega con la pietra in mano. Pervertendo il senso
ultimo della parabola dell’adultera, ovverosia comprendendolo solo parzialmente,
il lapidatore virtuale scopre che nessuno è senza peccato, nessuno può scagliare
la prima pietra tranne, guarda caso, sé stesso. Il colmo si raggiunge quando,
durante questo spostamento, il persecutore che ha selezionato una vittima
secondaria arriva persino a condannare il meccanismo di “capro espiatorio” per
meglio colpevolizzare il suo nemico, senza rendersi conto di averne appena
eretto un altro. La conoscenza del meccanismo di “capro espiatorio” indebolisce
la pratica ma viene contemporaneamente messa al lavoro per individuare la
vittima perfetta, il colpevole assoluto che finalmente e una volta per tutte
chiuderà il ciclo della violenza. Ma chi è questa vittima?
L’incertezza dei nostri capri espiatori
L’omicidio fondativo, l’eccezionalità cristiana, la mimesi di ogni desiderio:
abbiamo visto che nel pensiero girardiano ce ne sono di affermazioni che un
tempo avremmo definito “problematiche”, prima che questa parola prendesse a
significare “offensive per qualcuno”.
Ma c’è n’è una che potrebbe essere la più problematica di tutte e la sua
problematicità ha a che fare direttamente con una certa permalosità
generalizzata che Girard stesso vedeva crescere già nel suo tempo. Proprio colui
che ha dedicato la sua vita di studioso al riscatto delle vittime sulle quali
abbiamo fondato la civiltà, sin dagli anni Novanta, osserva attorno a sé una
propensione ad occupare il ruolo della vittima in modo indebito. L’idea non
suonerà nuova al lettore italiano perché è la tesi centrale del saggio nostrano
più discusso sul tema, Critica della vittima di Daniele Giglioli, uscito ormai
più di dieci anni fa. Per Girard, questa tendenza a posizionarsi all’interno di
quello che Giglioli chiama “paradigma vittimario” accompagna e cresce insieme
alla consapevolezza generalizzata sul meccanismo del capro espiatorio. Il
ragionamento è semplice: quanto più riconosciamo che alcuni vengono odiati senza
ragione e poi riscattati, tanto più abbiamo la tentazione di identificarci in
costoro e vivere i nostri conflitti come una persecuzione che chiede giustizia.
E a questo punto, sia in Girard sia in Giglioli, compare l’idea problematica che
rischia di squalificare l’intero discorso: la distinzione tra vittime false e
vittime vere. In più punti Girard intrattiene l’idea dell’assoluta innocenza
della vittima quando si trova effettivamente perseguitata. Oltre a Cristo ‒ che
lo è per dogma ‒, lo stesso viene detto di Giobbe, di Edipo, degli ebrei nelle
persecuzioni medievali. In Giglioli, che sembra criticare la posizione della
vittima in quanto tale, compaiono qui e lì delle vittime dichiaratamente false
che sembrano alludere all’esistenza delle vittime vere, o perlomeno “più vere”:
c’è Silvio Berlusconi e la sua persecuzione giudiziaria come simbolo
universalmente condiviso dai suoi lettori di sinistra di vittima falsa, ma anche
il popolo ebraico (di nuovo) che oggi eredita la posizione vittimaria dai
“titolari effettivi”, cioè le autentiche vittime dell’Olocausto.
> Quanto più riconosciamo che alcuni vengono odiati senza ragione e poi
> riscattati, tanto più abbiamo la tentazione di identificarci in costoro e
> vivere i nostri conflitti come una persecuzione che chiede giustizia.
L’errore che si costeggia con questi discorsi non è la volontà di distinguere le
vittime vere da quelle false ‒ cioè riconoscere empiricamente che si sono date,
si danno e si daranno persone completamente innocenti delle accuse loro rivolte
e persone che inventano di sana pianta dei torti mai subiti. L’errore è
immaginare che questa distinzione sia in qualche modo autoevidente, il punto di
partenza del discorso stesso quando invece è il suo precarissimo punto di
arrivo. E non lo dico io ma Girard stesso. Lo dice implicitamente in tutta la
sua opera ma anche esplicitamente: “Non pensiamo che per sfuggire alla
responsabilità della violenza sia sufficiente rinunciare all’iniziativa
violenta. Ma nessuno si accorge mai di prendere questa iniziativa. Perfino i
soggetti più violenti credono di reagire a una violenza che proviene dagli
altri”. Ogni violenza è agita da qualcuno che crede di averla già subita, da
qualcuno che si percepisce come vittima. Di questo ci parla la crisi mimetica
dei doppi che si rilanciano le stesse accuse, da qui viene la violenza per
Girard: non da una generica “aggressività animale” ma da un reciproco senso di
ingiustizia subita. Così in Girard la posizione della vittima è sia quella di
colui che viene infine accerchiato ma anche quella di coloro che l’accerchiano,
i quali si sentono soggettivamente vittime della sua azione.
A riprova dell’attualità di Girard, a pochi anni dalla sua morte, si è diffuso
uno slogan che ha segnato il rapporto irrazionale che stavamo instaurando con il
concetto di vittima, sempre più confusi dal proliferare dei capri espiatori.
“Credere alla vittima” è infatti un’assurdità logica ancora prima di
un’aberrazione etica. Di per sé, non vuol dire nulla. È una delle più brevi
petizioni di principio formulabili. Non puoi chiedere di credere alla vittima
poiché dal momento che la definisci tale, già le credi. Se riusciamo ad
attribuire un senso alla frase, se l’abbiamo fatta operare nel mondo come
significasse qualcosa di compiuto, è perché la vera affermazione al lavoro era
ben più sinistra: credi all’accusatore. Credi a chiunque si presenti come una
vittima di un torto subito, credi alla colpevolezza di colui che indica. Girard
aggiungerebbe qui “senza fare inchieste”, la frase che più lo inquieta nella sua
già citata rilettura del Libro di Giobbe in L’antica via degli empi. Ad agire
“senza fare inchieste” è il dio del massacro che gli accusatori mobilitano
contro Giobbe, ovverosia la folla linciante che si scatena sul primo
malcapitato. Giobbe, dal canto suo, mobilita un avvocato difensore che interceda
per lui presso l’Altissimo, un Paraclito, il vero Dio dei Vangeli che è il Dio
delle vittime.
Sebbene Girard mostri con quanta insistenza le Scritture pongano Satana nel
ruolo dell’accusatore e Cristo in quello del difensore, non stiamo qui
affermando che l’accusa ha sempre torto e la difesa sempre ragione ma che questa
dialettica deve quantomeno darsi per evitare che l’umanità risolva la propria
violenza a spese di una catena di capri espiatori, più o meno innocenti, più o
meno colpevoli, selezionati “senza fare inchieste”. Il luogo in cui questa
dialettica dovrebbe avere luogo esiste già ed è ovviamente il tribunale,
metonimia dello Stato di diritto, la cui elaborazione nel corso dei secoli,
dall’habeas corpus alla presunzione di innocenza, può essere letta come la
progressiva tutela di tutti i potenziali capri espiatori dalle grinfie della
folla.
> Da qui viene la violenza per Girard: non da una generica “aggressività
> animale” ma da un reciproco senso di ingiustizia subita. Così in Girard la
> posizione della vittima è sia quella di colui che viene infine accerchiato ma
> anche quella di coloro che l’accerchiano, i quali si sentono soggettivamente
> vittime della sua azione.
Se la seconda metà del Novecento ha visto l’emergere del “processo mediatico”
come oggettiva regressione resa possibile dai mass-media tradizionali, il social
network allarga la ferita e consente all’intera popolazione di istituire
processi sommari, ciò che di volta in volta abbiamo chiamato shitstorm, cancel
culture, call-out culture etc. C’è davvero da chiedersi, fuori da ogni
formulazione retorica, cosa avrebbe detto Girard se avesse avuto gli ultimi
dieci anni di fronte agli occhi. Dove si sarebbe soffermata la sua critica in
questo mondo che ha globalizzato per davvero il villaggio, in cui le più
primitive dinamiche di linciaggio sono riemerse solo a partire da una
complessiva virtualizzazione della socialità.
Girard ci ha lasciato un problema con due corni: l’assoluta certezza
dell’esistenza delle vittime e il necessario sospetto verso chiunque si presenti
come vittima, poiché farlo è il primo passo per esercitare la violenza. Eppure
non ci ha lasciati privi di strumenti. Con un anticipo spaventoso sui tempi,
mentre siamo immersi in uno Zeitgeist che ci intima di rintracciare nella nostra
storia personale tutti i modi in cui siamo stati vittime per rinfacciarli al
prossimo, Girard afferma che la conversione cristiana è una cosa semplicissima,
quella cosa accaduta a San Paolo sulla famosa via: riconoscere sé stessi in
quanto persecutori.
L'articolo Noialtri girardiani proviene da Il Tascabile.
I n Storia della fama. Genesi di otto miliardi di celebrità (2025), Alessandro
Lolli, già autore del seminale La guerra dei meme. Fenomenologia di uno scherzo
infinito (2017, 20202) torna a proporre la sua prospettiva sociologica,
contemporaneamente rigorosa e idiosincratica, questa volta applicata alla fama.
Si tratta di un tema indispensabile per comprendere la socializzazione virtuale,
ma anche di una questione che in modi diversi ha attraversato tutte le società:
per questo, una “storia” che parte dall’età antica, si sofferma a lungo sulla
modernità e arriva infine all’oggi, una fase inedita, secondo Lolli, in cui
quello che era un problema che riguardava pochi soggetti diventa affare di
massa, con conseguenze immani per i soggetti stessi e, inevitabilmente, per la
società.
IL TUO LIBRO RICOSTRUISCE COME LA FAMA SIA DIVENTATA UN FENOMENO SEMPRE PIÙ
CENTRALE NELLA SOCIETÀ. QUESTO COSA IMPLICA PRECISAMENTE? UN AUMENTO DI
SPEREQUAZIONE RISPETTO A UN BENE SEMPRE PIÙ AMBITO O UNA DEMOCRATIZZAZIONE DI
QUALCOSA DI ELITARIO PER DEFINIZIONE?
La sperequazione della fama secondo me non sta aumentando. Anzi, prendiamo Kanye
West e Taylor Swift, rispettivamente il cantante e la cantante più famosi al
mondo. Mi sai dire i titoli di cinque canzoni di Taylor Swift? Probabilmente no.
Saprai chi è, ne avrai sentite alcune (io ne so forse due). Mentre se ti chiedo
titoli di Britney Spears, me li sai dire subito. Oggi le persone in cima alla
gerarchia della fama sono meno famose che in passato, per via della
targhettizzazione sempre più mirata che il pubblico riceve nei suoi consumi
culturali. Certo, diversi famosi oggi riempiono ancora gli stadi e hanno tutto
il loro seguito di fedeli, ma non sono più dei fenomeni di massa come potevano
esserlo le popstar già solamente dieci o quindici anni fa, quando un’intera
generazione guardava MTV. La nostra fruizione della musica allora passava per i
media nazionali e le loro canzoni le sentivi per forza.
Ora la fruizione passa per degli strumenti che noi addestriamo con i nostri
gusti e Taylor Swift potremmo non averla mai sentita (cosa impossibile per
Britney Spears a inizio anni 2000). Nessuno è più famoso come ai tempi di quella
che definisco la fama paradigmatica. Oggi la fama ritorna cittadina: famosi di
livello globale esistono ancora, tutti sanno i loro nomi, ma non ne abbiamo più
una reale conoscenza come era un tempo. Quindi la sperequazione secondo me è
diminuita, è aumentato invece qualcosa di diverso, ovvero il fatto che sia più
facile mettersi nei panni del famoso. Sempre più persone nei panni di un
microfamoso ci si sono trovate, tendenzialmente chiunque usi un social network –
è questa la tesi del libro. Chiunque abbia i social ha già dovuto gestire degli
hater, ad esempio, quindi è più facile l’identificazione. In passato tu, persona
normale, quell’esperienza non l’avevi mai avuta.
QUINDI MENTRE SI VA VERSO UNA CRESCITA ESPONENZIALE DELLE DISUGUAGLIANZE SUL
PIANO ECONOMICO, LE ESPERIENZE CHE FACCIAMO A LIVELLO DI SOGGETTIVAZIONE
DIVENTANO SEMPRE PIÙ SIMILI? O È SOLO UN’ILLUSIONE DATA DALLA SENSAZIONE DI
LIVELLAMENTO CHE CONSENTE IL VIRTUALE, IN CUI TUTTI POSSONO AVERE UNA PAGINA
FACEBOOK, IN CUI “UNO VALE UNO”?
I social network si sono presentati in maniera un po’ truffaldina: ti dicevano
“a cosa stai pensando?”, si spacciavano come un modo per parlare con i tuoi
amici, per esprimerti, e invece erano uno strumento di disintermediazione
potentissimo che dava quello che io chiamo “il palcoscenico”, prima verbale poi
anche audiovisivo, in mano a tutti, e questa è chiaramente un’esperienza aliena
a tutta la storia dell’uomo.
Poi possiamo discutere se questo abbia un valore positivo o negativo. Però un
pensionato di sessant’anni che scopre che si può fare i video invece di
sbraitare al bar di fronte a chi lo sta sentire, magari tramite il passaparola
riesce a sfondare (faccio l’esempio del pensionato come persona meno aderente ai
linguaggi che ti permettono poi di provare a sfondare davvero conoscendo la
logica del medium). Questa è di fatto una cosa democratizzante, o meglio, se
democratizzare ha un significato è anche questo. Il post su Facebook, su Twitter
e su Instagram per lungo tempo è stato veramente un modo di parlare con gente
che bene o male ti conosceva. Eppure proprio lì ci siamo ritrovati tutti famosi,
inconsapevolmente, e abbiamo cominciato a dover gestire nel nostro piccolo quel
tipo di dinamiche sociali che prima gestivano solo i Ferragnez. Se hai il
profilo pubblico arriva uno sconosciuto che ti conosce, magari ti chiede conto
di qualcosa che hai fatto o detto altrove, e come fa a saperlo? Chi è questa
persona? Un sacco di gente ha avuto queste esperienze ‘famogene’. Il giorno che
prendi 100 like a un post e cinque condivisioni, arriva qualcuno che ti tratta
letteralmente come un famoso. Ora esistono a tutti gli effetti dei famosi per
nicchie, cioè persone che possono campare addirittura di quella fama lì, piccola
e rivolta a una bolla. Questa cosa fino a vent’anni fa era completamente
inimmaginabile perché la fama viaggiava su media di portata nazionale.
E questo sta facendo qualcosa (che esce un po’ fuori dai confini del libro
perché è più sul lato della ricezione) di radicale a quella che chiamiamo la
cultura pop. Addirittura stiamo andando verso una impossibilità di parlare di
cultura pop in senso pieno. Certo il valore accerchiante e centralizzante del
mainstream esisterà finché esisteranno i media nazionali che vogliono che tu
parli dei Ferragnez, ma in realtà il consumatore già si è abituato a un altro
modello. Tipo: se sono un elettore di Calenda tra i 20 e i 25 anni non li guardo
i Ferragnez, voglio vedere solo Shy e Rick Dufer. I Ferragnez li subirò con
insofferenza, perché ormai siamo abituati ad un modello che è estraneo al
concetto stesso di mainstream, cioè io non devo per forza sapere di Taylor
Swift. Prima invece o sapevi di Celentano o non sapevi nulla della cultura in
cui vivevi, cioè non c’era un famosetto alternativo fatto per te. E questo avrà
delle conseguenze che toccheremo con mano a livello sociale tra qualche anno.
Non subito, perché forme di mainstream ancora sopravvivono, ma prima o poi
YouTube ucciderà definitivamente la radio e la TV. Esisteranno solo
microcelebrità, non legate a un modello di iperspecializzazione di competenze
quanto a una logica imprenditoriale. Mi spiego: poniamo che io sia un
imprenditore che deve fare una ricerca di mercato. Non è che una pizzeria è
sbagliata in assoluto aprirla. È sbagliato aprirla in quel quartiere, è
sbagliato aprirla senza una unique selling proposition che ti differenzi dai
tuoi più vicini competitor. Le persone che partecipano al gioco della fama, se
vogliono sfondare, devono tenere conto di tutte queste cose: io chi sono?
Poniamo che io sia un cantante indie: cosa devo cantare, chi sono i miei
competitor, come devo rappresentarmi, presso quali fasce? Fare arte diventa
molto più simile a un’indagine di mercato, come decidere in che quartiere aprire
il mio esercizio commerciale.
Il livello di consapevolezza riguardo a questo è la distinzione che io traccio
tra social network e social media. Il primo creava fama in modo inconscio e non
intenzionale, mentre le piattaforme di social media richiedono un’intenzionalità
che è paragonabile esattamente all’imprenditorialità. Già nel momento in cui
apri un canale YouTube ragioni come un imprenditore, che deve arrivare a un
pubblico, crescere, eccetera. Cioè ragioni come un imprenditore o anche come un
artista: qualcuno che fa una proposta sapendo che la sopravvivenza della stessa
è legata alla ricezione che avrà. Diversamente dai social network, nel social
media tu stai consapevolmente accettando le regole del gioco, sai di stare
davvero salendo sul palco, stai facendo davvero una cosa che è fatta per gli
altri, per i non conoscenti, per la fama. E si va sempre più in quella
direzione.
NELLA TUA RICOSTRUZIONE STORICA NON A CASO CERCHI DI FAR VEDERE COME IL
DESIDERIO DI FAMA SIA ANCHE INDOTTO. NON È SOLTANTO UNA QUESTIONE PSICOLOGICA, È
FORZOSAMENTE GENERATO DA UN SISTEMA PRODUTTIVO. SIA, COME SPIEGHI BENE, TRAMITE
IL DESIGN DELLE PIATTAFORME, SIA PER IL FATTO CHE NELL’ECONOMIA POSTINDUSTRIALE
“DIVENTARE QUALCUNO” (O DIVENTARE UN BRAND) SEMBRA UNA DELLE POCHE STRADE
DISPONIBILI PER GUADAGNARSI DA VIVERE: SENZA QUELLA RICONOSCIBILITÀ SI VALE
QUANTO UN’INTELLIGENZA ARTIFICIALE. A FRONTE DI QUESTO, NON È POSSIBILE CHE
L’ANONIMATO SIA DIVENTATO UN PRIVILEGIO? NON A CASO MOLTI MILIARDARI VIVONO IN
UN ANONIMATO QUASI COMPLETO. TUTTI DESIDERANO NECESSARIAMENTE I RIFLETTORI
OPPURE IN REALTÀ LAVORARE DIETRO LE QUINTE (CON UNO STIPENDIO SERIO), POTER
CONDIVIDERE LE PROPRIE OPINIONI SOLO CON LE PERSONE CHE TI INTERESSANO INVECE
CHE SUI SOCIAL, NON SENTIRSI COSTANTEMENTE OSSERVATI PUÒ AVERE UNA SUA
ATTRATTIVA, MA SI SENTE DI NON POTERSELO PIÙ PERMETTERE?
Ha assolutamente la sua attrattiva, infatti quello della fama è un potere di
seduzione che potremmo definire satanico. Prendiamo appunto la figura del
miliardario che si può permettere l’anonimato. Magari su Internet ha una pagina
istituzionale oppure non è proprio mai diventato una figura pubblica, però è un
qualcuno che secondo me in qualche momento nella sua vita questa cosa l’ha
incontrata, ed ha capito sulla sua pelle quanto gli poteva far male. Eppure
anche lui è suscettibile a un’offerta di questo tipo – come quando Trump va da
Musk e gli dice “senti, vuoi fare il mio braccio destro?”. Non è detto che i
soldi che ha siano una motivazione sufficiente per rifiutare quel livello di
esposizione lì, con tutti i suoi pro e contro. Infatti nel libro cito
Houellebecq che in Le particelle elementari sostiene, erroneamente, che le
rockstar siano più ricche di banchieri e imprenditori. Di fatto non è così,
eppure, comprensibilmente, la vita della rock star gli appare molto più
invidiabile di quella di un miliardario anonimo. A dispetto dei soldi.
Questo passaggio secondo me è fondamentale per la contemporaneità: in passato se
eri famoso, nel senso proprio del termine, eri anche almeno benestante, perché
voleva dire che avevi avuto accesso alla carriera propriamente detta della fama,
quindi eri un cantante, un politico, uno scrittore affermato, eccetera eccetera
e quindi avevi anche soldi. Oggi questa unione tra i soldi e la fama si è
slegata. Ci sono delle persone, ad esempio una mia amica che fa l’influencer da
100.000 followers e rotti, che non ha manco i soldi per piangere perché non ha
mai fatto advertising. Lei è una forza culturale significativa nel suo ambiente,
un’influencer politica, ha un’esposizione che però non si traduce in soldi.
Questo anche per via delle sue scelte etiche, ma pure se le avesse tradite forse
si faceva al massimo uno stipendio da entry level, se cominciava a fare le
pubblicità degli shampoo con la falce e il martello… Eppure lei è una che ha
influenza, ha fama, ha potere sulla cultura, viene riconosciuta in tanti
ambienti. Quindi come tante figure simili vive tutti gli aspetti della fama, ma
non riceve la proporzionalità che ti aspetteresti in denaro.
La seconda caratteristica tipica del contemporaneo è che paradossalmente questo
non rende una persona come questa influencer meno invidiabile. Ti faccio un
esempio: preferiresti 100.000 like o 100 €? Tra 100.000 like e 100 € secondo me
tutti sceglierebbero i like. Se sei un imprenditore molto ricco e però sei poco
attraente, le donne magari ti cercano ma solo perché gli fai fare la bella vita
nelle terrazze di Dubai, non sei un vero oggetto del desiderio. Al contrario, se
sei famoso stai su un palco, tutti ti guardano, tutti vorrebbero averti o essere
te, insomma è una forma di amore. Quella è la cosa più ambita. Forse è un amore
falso, ma a me non interessa giudicare: dovrei diventare moralista e il mio non
voleva essere un testo moralista, cerco di descrivere la fama fino a un punto in
cui tu lettore puoi trarre tutto il tuo giudizio. Quello che interessa a me è
constatare che quell’amore lì ha un potere di seduzione fortissimo.
LA TUA ANALISI È MOLTO OGGETTIVA INFATTI. NON GIUDICANDO MAI I MECCANISMI
PSICOLOGICI CHE SONO ALLA BASE DELLE RELAZIONI FAMOGENE PERÒ SEMBRI
IMPLICITAMENTE NATURALIZZARLI, CONSIDERARLI INEVITABILI. NON DISCUTI AD ESEMPIO
LA GRATIFICAZIONE GARANTITA DALLA FAMA, COME SE FOSSE OVVIO CHE CHIUNQUE NON
POSSA CHE AMBIRVI. DIRESTI CHE LA FAMA LOGORA CHI NON CE L’HA?
La fama è un potere, qui inteso non come un’istituzione, ma come una cosa che
agisce sull’animo, e se vogliamo dare un nome preciso a questo potere è un amore
senza volto, quello che si riceve dal pubblico, l’amore della folla anonima.
Quindi è un amore degenerato, ma rimane un amore, cioè un riconoscimento. Certo,
ha un valore puramente quantitativo: la fama si caratterizza proprio in questo
rispetto a tutte le altre relazioni, quelle relazioni che non sono famogene
perché io so con chi sto parlando e da chi vengo riconosciuto, da chi vengo
validato, da chi vengo amato, da chi vengo odiato. Si ha un rapporto di fama
quando io non so queste cose, quindi ciò che conta è solo il numero.
Intendiamoci, la fama logora anche chi ce l’ha. Ma il fatto è che la fama può
essere negativa, positiva, o anche, e questo è cruciale, troppo ristretta
rispetto al tuo sforzo: nel momento in cui giochi a quel gioco, puoi decidere di
uscirne a causa della delusione. Raramente comprendi in maniera morale e
spirituale che questa cosa ti sta facendo del male, più spesso comprendi che hai
fallito a quel gioco e che continuarlo vuol dire esporti sempre di più alla
percezione di un fallimento. Quel bisogno di validazione non può che aumentare
esponenzialmente: lo disse una volta Gipi, una persona che non cito nel libro ma
che avrei dovuto perché da quindici anni in ogni intervista parla proprio di
questo.
La prima volta che lo vidi dal vivo, a una presentazione nel 2013, parlò di
quando divenne famoso. In effetti fu il primo fumettista italiano a raggiungere
quei livelli di fama, ben prima di Zerocalcare; se ricordi andò dalla Bignardi
nel 2008, è lì che si è cominciato a parlar di graphic novel, a nobilitare il
fumettista come artista eccetera. Parlando di questo lui parlava di applausi,
che oggi chiameremmo like. Diceva che nel momento in cui ne hai presi 100.000,
il buco che hai dentro ora vale 100.000. Quando ne prendi “solo” 1.000, quindi,
ti senti vuotissimo. Se non ne avessi mai presi né 100.000 né 1.000, ne prendi
100 e sei supercontento. Insomma sviluppi un’assuefazione alla fama, come con
una droga, e quindi più hai un riconoscimento, più hai bisogno almeno di quella
soglia là, tutto il resto è un fallimento. Quindi è questo, secondo me, più che
un motivo moralistico stile “ho capito che questa è una via sbagliata” a far sì
che la gente si chiami fuori. Tante persone si ritirano come coping per un
fallimento percepito: mi convinco di non valere più nulla, quindi non vale
neanche più la pena stare qua a provarci. Tanto vale che faccio la vita vera.
NELLA SUA PREFAZIONE, FRANCESCO PACIFICO PARLA DELL’UMILIAZIONE CHE STA DIETRO A
TUTTO IL MECCANISMO DELLA FAMA, LA CHIAMA UNO “SQUALLIDO IPEROGGETTO”, UN PO’
COME CHRISTOPHER LASCH NEL SUO FAMOSO LA CULTURA DEL NARCISISMO NEL SOTTOTITOLO
PARLAVA DI “UN’EPOCA DI DISILLUSIONI COLLETTIVE”, SVELANDO INSOMMA LA POCHEZZA
UMANA, SOCIALE E RELAZIONALE DI CUI IL NARCISISMO ERA UNA CONSEGUENZA PRIMA CHE
UNA CAUSA. PERÒ POI LEGGENDO IL TUO LIBRO TU SEMBRI INTERESSATO, PIÙ CHE A
DECOSTRUIRE LA FAMA E IL BISOGNO DI FAMA, A SVELARNE IN MODO UN PO’ DIALETTICO
IL MECCANISMO DESIDERANTE CHE VI SI ESPRIME. AD ESEMPIO, RICONOSCI CHE NEL FAN
C’È UN DESIDERIO MIMETICO E UNA VOLONTÀ DI IDENTIFICAZIONE, MA INSISTI PIÙ CHE
ALTRO SUL DESIDERIO ESPLICITAMENTE EROTICO CHE RENDE TALE IL FAN.
Perché il desiderio erotico è l’ultimo passo prima dell’identificazione. In
questo senso è fondamentale la figura della groupie, cioè il fan che si risolve
fin dove si può risolvere, perché il rapporto sessuale è questa unione di due
corpi, il momento in cui non potresti essere più vicino di così a una persona
(che non conosci davvero): qual è la cosa più forte che puoi fare con chiunque?
Farci l’amore, no? Con chiunque con cui non hai un altro rapporto invece molto
più mentale e spirituale. E quindi sì, quella è la forma che prende nel momento
in cui provi ad attualizzarla.
L’identificazione invece è un meccanismo psicologico ancora precedente: una
delle forze che ci spingono ad ammirare qualcuno di così distante è mettersi nei
suoi panni. Questo emerge spesso in tutta quella serie di produzioni testuali
che sono la difesa del famoso da parte del fan. C’era un giornalista del Foglio
di cui non farò il nome, che per anni ha difeso strenuamente quasi ogni
settimana nella sua rubrica i Ferragnez. Se la prendeva con “gli invidiosi” che
li criticavano, difendendoli con i soliti argomenti: “tu non sei nessuno, loro
stanno a fare i soldi, guarda che bella vita”. Lo muoveva un meccanismo di pura
identificazione. Se vuoi, anche di sopravvivenza: se io non sto dalla tua parte,
tu mi schiacci. Lui si stava ponendo direttamente nel salotto dei Ferragnez per
usare quella violenza contro quelli che in realtà erano molto più simili a lui.
Ed è qualcosa di diverso dalla cortigianeria, perché è una cortigianeria tutta
proiettiva, immaginaria: che io sappia lui non ha mai avuto davvero accesso alle
prebende dei Ferragni, è tutta una difesa psicologica, preventiva.
Se io con la mente non mi metto nella parte del rosicone, del perdente, vuol
dire che sono un vincente. Voi in questo momento state subendo questo potere che
riconosco schiacciante, proprio per questo io devo stare dalla parte del
potente. Devo dire “ma guarda che sfigati, che passano il giorno a criticarli
mentre loro fanno la bella vita”. Mentre mi esprimo così, io sono già accanto a
loro, ai potenti. Non sono tra le schiere dei rosiconi, perché l’ho appena
detto, che io no, io non rosico. E questo nell’atteggiamento della difesa del
famoso è secondo me la forza principale, lì proprio si vede come si struttura
questa cosa: come un asservimento di fronte a questo potere di cui si riconosce
la forza. Quanto più riconosci il potere schiacciante del famoso, tanto più ti
inchini, diventi un fan. Come dico nel libro, sia essere hater che essere fan
sono due modi di difendersi. Se fai l’hater (che è la cosa forse più naturale di
fronte a un potere che riconosci come tale), stai anche ammettendo che ti sta
facendo del male, cioè che tu rispetto a lui non sei nessuno, cioè stai
ammettendo questa differenza. Se invece ti dici “no no, loro fanno bene, io sono
con loro, anzi, hai visto come fanno rosicare gli altri”, stai vaneggiando di
essere non solo con loro ma come loro, quindi non toccato da questi sentimenti
qua, di inferiorità e invidia.
QUESTO SPIEGHEREBBE ANCHE QUELLA DINAMICA A CUI ACCENNI SECONDO CUI NON
DESIDERIAMO SOLTANTO ESSERE FAMOSI, MA DESIDERIAMO ANCHE AVERE QUALCUNO DI
FAMOSO DA AMMIRARE DA LONTANO. IL FAN PUÒ SICURAMENTE AVERE UN SACCO DI
RISENTIMENTO, MA POTREBBE COMUNQUE PREFERIRE AVERE DEI RAPPORTI FAMOGENI CON DEI
MODELLI PIUTTOSTO CHE AFFRONTARE UNA DISILLUSIONE RISPETTO A QUESTI MITI.
INSOMMA ABBIAMO BISOGNO DI AUTORITÀ?
Senz’altro, le persone vogliono qualcuno che le guidi proprio perché non ci sono
più tre partiti e una chiesa, e magari quattro o cinque famosi che ne incarnano
le visioni, a dirti cosa fare. Adesso le figure che ammiri e che prendi a
modello sono delle celebrità di nicchia, qualcuno che incarna un tuo flavour di
personalità, che ha gli interessi tuoi, che ha una visione morale tua… tua o
sua: chi è stato il primo a contaminare l’altro non si sa più. L’ho scelto
perché mi corrispondeva o ho iniziato a modellarmi su di lui? Io non credo che
questa funzione scomparirà, anzi questa funzione diventerà ancora più forte,
come il tuo legame di vicinanza con l’autorità che ti sei scelto. Il tuo Shy di
Breaking Italy funziona molto meglio di Pippo Baudo, perché è fatto su misura: è
comunque grande, di quella grandezza necessaria per funzionare come un modello,
come padre, come maître à penser, però hai l’illusione (che poi non è
un’illusione) che l’hai scelto tu, cioè che è comunque qualcosa di coerente col
tuo percorso di vita. Prima, una persona alla TV aveva il conduttore di
centrodestra, quello democristiano, quello comunista, e tra questa rosa limitata
aveva molta più facilità a dire “quello non mi rappresenta, mi è stato calato
dall’alto e quindi sì, sono un po’ più d’accordo con quello piuttosto che con
quell’altro”, ma se io invece mi sono scelto il mio influencer, l’adesione
diventa totale.
Questo spiega anche molto astensionismo, la morte della politica
rappresentativa: la gente non è più abituata a scendere a compromessi. Certo, ci
sono ancora personalità come Trump e Berlusconi che hanno qualcosa che sfugge a
questa logica, cioè non sono amati per le singole questioni che condividi con
loro, ma per un carisma eccezionale. Nati per ammaliare il prossimo, che sia una
tavolata o una nazione intera. Loro sono dei veri e propri famosi nel senso del
divismo. Ma sono rari: la “taylorizzazione” (nel senso di “taylor made”, fatto
su misura) dei consumi culturali, politici, spirituali, chiamali come vuoi,
insomma il fatto che io fruisco la cultura in una maniera sempre più
personalizzata, è ciò che fa sì che nessun partito mi rappresenti. I partiti
sono dei pachidermi novecenteschi, che non sono pensati per me. Devono prendere
un bacino elettorale e quindi avere molta più ampiezza e meno precisione, mentre
siamo ormai abituati a un rispecchiamento molto più preciso.
EPPURE TU SOSTIENI, A RAGIONE TROVO, CHE, A DISPETTO DI CHI PARLA DI
INDIVIDUALISMO, A CAUSA DELLA TECNOLOGIA SIAMO SEMPRE PIÙ MEDIATI E PIÙ SOCIALI:
LE PERSONE DIPENDONO COSTANTEMENTE E SEMPRE DI PIÙ DA UN FEEDBACK ESTERNO, IN UN
CERTO SENSO SONO MENO ISOLATE E MENO AUTONOME DI UN TEMPO, PARADOSSALMENTE. E IL
RISCHIO CHE FAI INTRAVEDERE IN QUESTO RAPPORTO DI CONTROLLO SOCIALE È,
INEVITABILMENTE, IL CONFORMISMO.
Esatto, sono convinto che la nostra società sia molto più conformista di quelle
del passato. La società tradizionale aveva appunto queste agenzie morali, come
la Chiesa e lo Stato (al massimo incarnate in alcune voci che ne facevano le
veci, ad esempio la famiglia), che erano più rigide ma erano poche,
individuabili, e distanti. Qua invece tu sei conformista in ogni momento in cui
ti esprimi sul social network proprio per via del feedback costante. In ogni
momento ricevi approvazione o disapprovazione. Il social network poi funziona
anche tramite bolle, che sono ambienti dei quali conosci già gli orientamenti e
le opinioni: tu già prima di ragionare su un tema conosci i posizionamenti dei
tuoi pari, hai già in testa questa mappa di opinioni. Per dirla in maniera
positiva, diciamo, hai già la società dentro di te, con tutto quello che
comporta, di bene e di male. E di male comporta un’autocensura preventiva, una
riduzione proprio della libertà di pensiero. Come diceva William James, “molte
persone credono di pensare invece riordinano i propri pregiudizi”, e oggi molte
persone credono di pensare invece riordinano le voci altrui nella loro testa.
Cercano di farle combaciare con la loro percezione del mondo. È una cosa che
vivo su me stesso e che vedo molto spesso nella forma che prendono talvolta
certe prese di posizione, piene di mani avanti, di considerazioni preliminari…
INSOMMA TU LAMENTI UNA CARENZA DI INDIVIDUALISMO, PIUTTOSTO CHE DENUNCIARNE
L’ECCESSO COME È ORMAI CONSUETUDINE FARE. E UN ALTRO PUNTO CHE FAI AL RIGUARDO È
QUELLO SULLE IDENTITY POLITICS.
La critica che si fa spesso alle identity politics da sinistra (in uno spettro
che va dalla sinistra estrema all’area rosso-bruna o
comunitaria/tradizionalista) è che sarebbero individualiste, espressione
dell’ideologia della società delle merci, trionfo del capitalismo, come gli
influencer insomma. Ora, il problema è che l’individualismo non è una posizione
dell’ego, è una teoria filosofico-politica, e se noi la applichiamo a
influattivisti ispirati alle identity politics capiamo che in realtà queste
ultime hanno come presupposto proprio la scomparsa dell’individuo: la persona
parlante non è un individuo ma è membro di una o più comunità oppresse, e
solamente in virtù di questa appartenenza prende parola ed è legittimato a
esprimersi. Cosa che peraltro chiunque aderisca a questa visione
rivendicherebbe: non sono individualisti, sono collettivisti (di tanti
collettivi – è questa l’intersezionalità). Ogni soggettività è formata da una
serie di linee di oppressioni, di situazioni per le quali una volta sei nel
gruppo privilegiato e una volta nel gruppo oppresso.
Io sono convinto che non sia una teoria individualista, e come ti dicevo sono
convinto che lo pensino anche quelli che la professano. Quello su cui forse
avrebbero da ridire è il fatto che questo loro modo di pensare ben si accorda
anche alla logica dei social, dove infatti c’è sempre una persona che sta
parlando e che gode di quella esposizione e di quella pubblicità ma è legato
all’altro lato, alla comunità perché tutto il suo valore è misurato dalle
reaction e dai follower che prende. Cioè l’influencer si esprime per cercare di
cogliere un riscontro che è immediato, verificabile, numerico come non lo è mai
stato prima nella storia, neanche ai tempi delle hit parade. Lì al massimo
potevi ipotizzare che una canzone fosse andata male per via di alcuni motivi che
comprendevi a posteriori, invece il sistema del social media ti dà delle metrics
precise. Ecco, la soggettività che si espone su un social media è una
soggettività molto fragile, che si mette in mano agli altri, le sue parole
contano quanto quest’altra collettività le fa contare. E quindi secondo me non
solo non sono individualiste filosoficamente proprio alla base le politiche
identitarie, ma non è individualista neanche l’utente tipo di un social media: è
troppo legato al giudizio altrui, non ha nulla di quella teoria dell’individuo
che si differenzia da una società ed è portatore di diritti e di valori a sé
propri… Che poi anche questa possa essere una finzione è un altro discorso, ma è
una finzione in cui alcune persone si riconoscono e pensano che il mondo
dovrebbe essere formato appunto da individui non da pecore. Un social media ti
rende egoista, perché ti nutre l’ego quando prendi quelle reazioni, ma non un
individualista.
RISPETTO A CHI PENSA CHE LE POLITICHE IDENTITARIE SIANO UNA RISPOSTA O UNA
REAZIONE ALL’ALT-RIGHT, TU LE LEGGI COME INVECE UNA “RISPOSTA ALLA NEVROSI DELLE
SINISTRE STORICHE”.
Dico che secondo me sono una filiazione della sinistra. Tra la critica poniamo
di un Fusaro o di uno Zhok che le associa all’individualismo e quella di un
Jordan Peterson che parla di marxismo culturale, penso che abbia ragione
quest’ultimo: è un marxismo che chiaramente perde la centralità della classe, ma
ne acquista tot altre che si articolano allo stesso modo. Riprende cioè dal
marxismo questa struttura secondo cui c’è una parte della società che opprime e
sfrutta e una parte della società che è oppressa e sfruttata. Il marxismo però
ha in sé, secondo me, anche l’universalismo, perché il punto è l’abolizione
delle classi, l’obiettivo è un mondo in cui non viene più sfruttato nessuno. Se
applichi questo discorso alla razza o al genere bisogna capire cosa vuol dire
l’abolizione di razza e genere come strutture simboliche. Lì spesso diventa
molto più forte la variante operaista del marxismo, in cui una parte che si
riconosce come oppressa (in quanto neri, in quanto donne, in quanto gay…) si
pone come primo obiettivo il conflitto e la distruzione della controparte. Cosa
che poi, calata nella realtà dei fatti, si trasforma semplicemente nel
pretendere da questa controparte un tornaconto, fosse anche una visibilità.
Anche qui Jordan Peterson non sbaglia nell’individuare questo meccanismo che
lui, semplificando, chiama tribalismo.
SOSTIENI CHE LA FAMA NON È UN RAPPORTO DI PRODUZIONE, MA DI CONSUMO. C’È CHI CI
SI MANTIENE PERÒ. IN MODO MOLTO DIRETTO, AD ESEMPIO, TRAMITE ONLYFANS, COME
RACCONTI BENE NELL’ULTIMO CAPITOLO SUL FUTURO DELLA FAMA. UN CASO EMBLEMATICO
PER CHIEDERSI CHI COMANDA DAVVERO NEI RAPPORTI DI FAMA: IL FAMOSO (PIÙ POTENTE
DEI FAN), O I FAN (DA CUI IL FAMOSO DIPENDE PER ESSERE TALE)?
OnlyFan è paradigmatico perché svela che ogni rapporto di libero professionismo
è prostituzione. Il famoso stereotipico è un artista che se può fare quella cosa
come carriera, come sostentamento, è perché è letteralmente un venduto, perché è
una persona che vende quella cosa lì ed è dipendente da un acquirente. Nelle
interviste spesso emerge che tipo di rapporto ha con i suoi acquirenti, ovvero
con i suoi fan: li odia. Li odiano sia Noyz Narcos sia le Onlyfansers, perché
sono delle persone con cui non hanno nessun rapporto, mentre i fan hanno un
rapporto completamente fantasmatico con loro, e loro sanno di esserne
dipendenti. Dipendenti però non dal singolo fan, bensì dal fan collettivo,
quindi quando il fan dice “ti boicotterò” pensa di avere un potere che non ha,
perché non ha un sindacato, non è organizzato come un corpo collettivo. Marx
spiega bene come i rapporti diseguali e sproporzionati possono essere resi
dialettici se quella massa di singole persone che producono plusvalore si
organizzano. Le opere di boicottaggio collettive possono funzionare in questo
senso. Quindi in un certo senso la cancel culture è un atto sindacale: la cancel
culture riuscita è una protesta dei fan che nella loro indignazione etica nei
confronti di un famoso formano questo sindacato. Certo, è la folla linciante
girardiana, ma è anche un sindacato, cioè è una forza talmente grande da
impattarti sul serio ‒ e infatti il famoso si rende conto che deve rendere
conto: farà ad esempio la pubblica scusa, dovrà ritrattare, insomma, deve farci
i conti in qualche modo. Questa asimmetria si inverte solamente nel momento in
cui tu hai a che fare con il tuo fan collettivo. Questo perché il famoso vale di
più di un non famoso. Ma l’operaio l’ha sempre saputo in qualche misura che lui
singolarmente per la Fiat non vale nulla, e che vale solamente se è organizzato,
il fan lo sa un po’ di meno. Avendo questo rapporto emotivo con il famoso, vive
un’illusione di mutuo riconoscimento, di reciprocità.
C’È QUALCOSA DI POLITICO QUINDI IN QUESTA INDIGNAZIONE PUBBLICA E COLLETTIVA?
La call out culture, cioè il momento inaugurale della cancel culture, il momento
in cui la gente si indigna perché un famoso ha fatto qualcosa di sbagliato o
qualcosa che è percepito come tale, è qualcosa di più della sanzione di un uso
illegittimo della fama. Al famoso viene rimproverato non solo ciò che ha detto e
pensato, che sì, è anche sbagliato in assoluto, ma è davvero sbagliato perché
lui ha un seguito: lui è responsabile di tutto quel following che ha. C’è
qualcosa di molto profondo che emerge in alcuni episodi di tentata
cancellazione: quando si comprende che forse il fatto in sé non era così grave
ma lo diventa perché quella persona è così famosa, la folla di fatto si sta
vendicando della fama; quello che sta facendo pagare al famoso di turno è il
fatto stesso di essere famoso. Si arriva così a un certo punto in cui cade la
maschera. Le persone rivelano di essere oltraggiate dal potere arbitrario che
questa persona ha, che non può essere giustificato dal fatto che è un
grandissimo attore e quindi può anche influenzare nel bene e nel male. Il
problema non è che non puoi influenzare nel male, si arriva a un certo livello
del ragionamento collettivo secondo cui non li potresti influenzare neanche nel
bene: il potere, la visibilità, il follow che hai non è assurdo solo il giorno
che sei ubriaco e scrivi la N word su Twitter, è assurdo anche tutti gli altri
giorni in cui non la scrivi. Se la dice mio nonno a Natale, infatti, non è così
grave come se la dice Manuel Agnelli. Quello che tu imputi a Manuel Agnelli non
è tanto che l’ha detta, ma che l’ha detta di fronte a 100.000 persone.
E se semplifichi i vari termini di questo discorso come se fosse un’equazione,
ti rendi conto che non c’è nulla che lo legittimi neanche quando dice il giusto.
Non c’è un mandato popolare che qualcuno gli ha dato per dire il giusto, quindi
nel momento in cui dice qualcosa di sbagliato, dici “ma perché questo sta qua?”.
In molti casi il punto passa dall’uso illegittimo del potere alla stessa
legittimità di questo potere. Sei stato irresponsabile, ma questa responsabilità
perché ce l’hai? Associare fama e merito (“ce l’hai perché hai tanti follower, e
li hai perché sei bravo”), è un discorso che arriva come razionalizzazione di
una violenza che inconsciamente il follower sa di stare subendo. Questo discorso
razionalizzante in cui ciò che è reale è razionale ed è giusto e viva così,
durante tutto il Novecento viene messo in discussione. Per gli antichi la fama
era un attributo che veniva già a chi se l’era meritato, perché era una persona
carica di responsabilità, era un governante, cioè aveva una legittimazione
ulteriore. Nel corso della storia della fama, tutti abbiamo capito che la fama
può essere arbitraria, cioè che un famoso può essere stato semplicemente
graziato dal Signore. Magari ha avuto una mezza idea buona, però la verità,
quello su cui si basa tutto questo potere, è che ti sei trovato alla fine al
posto giusto al momento giusto. La storia della fama è anche una storia di come
è cresciuto questo sospetto nei confronti della fama: tutti oggi abbiamo una
qualche cognizione del fatto che nessuna fama è pienamente legittima, pienamente
meritata.
L'articolo Tutti famosi proviene da Il Tascabile.
N el primo dei tre episodi che compongono il film Mystery Train di Jim Jarmusch
(1989), Mitsuko e Jun, una coppia di giovani giapponesi ossessionati da Elvis
Presley, giungono in un hotel di Memphis per intraprendere un pellegrinaggio
laico nei luoghi in cui è cresciuto il “re del rock and roll”. Quando arrivano,
è notte. Vengono accompagnati alla loro stanza dal facchino dell’albergo, posano
l’enorme valigia rossa sul letto ‒ l’unico bagaglio che hanno con sé ‒ e una
volta rimasti soli, si incagliano immediatamente in un tempo immobile, annoiato.
Seduta sul pavimento, Mitsuko si distrae incollando su un quadernetto immagini
di Elvis ritagliate da giornali, Jun comincia a scattare decine di fotografie
alla stanza. Incuriosita, Mitsuko gli chiede: “Perché fai foto solo alle stanze
in cui soggiorniamo e mai a quello che vediamo fuori mentre viaggiamo?” e Jun le
risponde: “Quelle altre cose sono nella mia memoria. Le camere d’albergo e gli
aeroporti sono le cose che dimenticherò”.
Luoghi e nonluoghi
Negli anni, non ho avuto la stessa lungimiranza di Jun e ho finito per
dimenticare molti luoghi. Come lui, mi riferisco alle camere d’albergo, così
come agli ostelli e agli Airbnb, ma più ci rifletto più mi accorgo di come
questa categoria di spazi abbia in tempi recenti cominciato a perdere la sua
specificità. Se un tempo rappresentavano un mondo a sé, quello della
transitorietà e della transazionalità dell’hospitality, oggi invece mi sembra si
confondano sempre più, almeno nella mia esperienza di vent’anni a zonzo per
l’Europa e non solo, con ciò che ho sempre identificato come “casa”‒ quel luogo
che, almeno sulla carta, dovrebbe incarnare un maggiore senso di appartenenza,
in qualità di spazio intimo, identitario.
Dopo aver rivisto Mystery Train, per giorni non ho potuto fare a meno di
ripensare alla filmografia di Jarmusch, e subito mi ha colpito la frequenza con
cui il regista, nei suoi primi film, abbia spesso scelto come ambientazione
spazi liminali: il taxi (Night on Earth, 1991), la prigione (Down by Law, 1986),
i motel, i bar e gli aeroporti (Stranger than Paradise, 1984). Il tipo di
luoghi, insomma, che Marc Augé mi ha educato dai tempi di un esame della
triennale a identificare come nonluoghi ‒ anche se è interessante notare come i
film appena menzionati siano antecedenti a questo concetto, visto che l’opera
del filosofo francese è stata pubblicata solo nel 1992. Questo mi ha fatto
pensare che Jarmusch avesse già intuito qualcosa su come alcuni luoghi non solo
rappresentino, ma inducano all’alienazione.
Naturalmente, le riflessioni sulla relazionalità degli spazi vissuti hanno
precedenti illustri. Penso agli spazi quotidiani dissezionati da Georges Perec,
alle eterotopie di Michel Foucault, alla liminalità dei luoghi rituali di Arnold
van Gennep prima, e Victor Turner poi: privato, politico, sociale. Tuttavia,
mentre proseguivo su questa linea di pensiero, qualcosa continuava a riportarmi
sulle stanze d’albergo e sull’idea di casa. Facendo avanti e indietro tra queste
due categorie distinte, questo andirivieni ha cominciato a sfumarne e consumarne
i contorni, e a renderle sempre meno distinte di quanto pensassi, per poi
cristallizzarsi in un sospetto: l’appartamento moderno sta forse sempre più
scivolando verso il nonluogo?
> L’appartamento moderno sta forse sempre più scivolando verso il nonluogo?
È una domanda audace, ne sono consapevole, ma nel porla mi avvalgo del benestare
di Marc Augé, secondo cui “la possibilità del nonluogo non è mai assente da
nessun luogo”, soprattutto nell’attuale surmodernità, o modernità eccessiva ‒ di
tempo, di spazio, di ego. Le premesse ci sono, quindi; ma andiamo con ordine.
Essendo l’appartamento uno spazio (e in quanto tale, direbbe Foucault,
“nell’esperienza occidentale ha una storia” fatta di regolamentazioni e
decodificazioni), per indagare il sospetto che stia diventando un nonluogo mi
trovo costretto ad avventurarmi in territori più impervi rispetto a quelli della
letteratura o del cinema. Territori come quello delle normative e delle leggi,
che in questo caso si rivelano sorprendentemente più eloquenti della
rappresentazione. È lì, infatti, che ritrovo quel possibile “intreccio fatale
del tempo con lo spazio” di cui parla Foucault, che è alla base di come
percepiamo i luoghi che abitiamo.
Normative e leggi
Un articolo del Corriere della Sera del 2024 sostiene che in Italia, secondo
la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto di un immobile
urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia, questa direttiva
sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al proprietario di casa
nello stipulare contratti molto più brevi: ‘contratti turistici’ di pochi
giorni, ‘contratti transitori’ che riducono la durata minima a un mese,
‘contratti studenteschi’ con durate anche di sei mesi. Generalmente, continua
l’articolo, la tipologia più popolare rimane quella del contratto ‘a canone
libero’, con durata di quattro anni prorogabili a discrezione del proprietario
di altri quattro (conosciuto anche come contratto 4+4).
Queste dinamiche rispecchiano mediamente i modi contrattuali diffusi nel resto
d’Europa, dove la durata degli affitti oscilla tra uno e tre anni. È quanto
accade anche in Germania, dove vivo dal 2013 e la legge sembra flessibile quanto
in Italia, permettendo ai proprietari degli immobili di modellare
arbitrariamente le condizioni che impongono agli affittuari. La normativa sugli
affitti tedeschi dice che i contratti devono avere una durata minima di due anni
e disdetta possibile solo a fronte di un preavviso di tre mesi. Il costo degli
affitti è regolamentato dal Mietpreisbremse (freno degli affitti), che non
consente di superare del 10% la media del quartiere (come spiega un articolo di
Rivista Studio, però, questa misura non si applica alle “case già arredate che
vengono messe in affitto per brevi periodi e per motivi di lavoro”). Un’altra
clausola comune è quella del sistema Staffelmiete che permette aumenti annuali
progressivi del costo dell’affitto fino a un massimo del 15% nell’arco di tre
anni.
Queste sono le condizioni standard, tuttavia le eccezioni sono all’ordine del
giorno, in Germania come in Italia come nel resto d’Europa. Ricordo tre anni fa
quando a Berlino mi fu proposto un contratto di affitto della durata di quattro
anni, senza possibilità di rinnovo, e ogni anno il costo sarebbe aumentato del
12%, in barba alla regolamentazione dello Staffelmiete. Quando il proprietario
me lo propose, aspettandosi che firmassi immediatamente, non esitai a fargli
notare che un aumento annuale simile era ridicolo. Lui rispose, “È assolutamente
normale, invece: è pensato per rispecchiare l’inflazione”. Forse pensava che
dietro la mia titubanza linguistica nel parlare tedesco burocratico si celasse
anche una certa titubanza di pensiero? Non riuscii a frenare una risata, “Sta
scherzando, vero? Un’inflazione del 12% annuo? Per quattro anni di fila?”
> In Italia, secondo la legge 392 del 1978, la durata di un contratto di affitto
> di un immobile urbano non possa essere inferiore a quattro anni. Tuttavia,
> questa direttiva sembra comunque lasciare un ampio margine di libertà al
> proprietario nello stipulare contratti molto più brevi.
Temporeggiai dicendogli che ci avrei pensato su. Ero disperato, avevo
assolutamente bisogno di un appartamento. Corsi immediatamente dal mio
Mieterverein (“associazione degli inquilini”), un’istituzione tutta tedesca che
tutela i diritti degli affittuari e fornisce consulenza legale gratuita ai soci
a fronte di una quota d’iscrizione annuale di circa 100 euro. Anche l’avvocato
del Mieterverein scoppiò a ridere leggendo il contratto e mi disse, “Certo,
firmalo pure, perché è completamente illegale. Appena firmato gli facciamo
causa. Tranquillo, i contratti con clausole illegali non sono validi.” Infine
non me la sentii di cominciare una relazione del genere con un nuovo
proprietario di casa, consapevole che sarebbe stata tossica fin dall’inizio.
Continuai la mia ricerca.
Affitti e subaffitti
Mentre visitavo un numero spropositato di appartamenti che non riuscivo ad
accaparrarmi (tra cui un tarkovskyano 40 metri quadrati senza cucina né
sanitari, di cui avrei dovuto farmi carico personalmente), trovai come soluzione
temporanea un meraviglioso appartamento di 70 metri quadrati in sublocazione per
otto mesi, nella bella Prenzlauer Berg. Dopodiché, mi spostai per tre mesi in un
50 metri quadrati in un angolo particolarmente caotico di Neukölln. E infine,
per due mesi soltanto in un minuscolo 30 metri quadrati a Kreuzberg. Per chi
vive o ha vissuto in qualsiasi grande città europea, questa storia vagamente
picaresca non è certo una novità.
Come racconta un articolo del novembre del 2023 apparso su The Berliner, il
problema dei contratti brevi è strettamente legato alla carenza di nuovi
appartamenti, a causa di un continuo incremento della popolazione: “Secondo
l’Ufficio di statistica di Berlino-Brandeburgo, alla fine del 2022 vivevano a
Berlino almeno 141.000 persone in più rispetto a cinque anni prima, e un piano
di sviluppo urbano della città pubblicato nel 2019 sostiene che Berlino ha ora
bisogno di almeno 194.000 appartamenti in più entro il 2030 per tenere il passo
con questa crescita demografica.” La carenza di alloggi rende il mercato degli
affitti della capitale tedesca sempre più competitivo e allo stesso tempo mette
nelle mani dei proprietari e delle agenzie immobiliari (Hausverwaltung) un
potere immenso.
In questo scenario sempre più distopico, i fortunati berlinesi che vantano un
vecchio contratto a tempo indeterminato (Unbefrister Mietvertrag) tendono a
tenerselo stretto, anche nel caso programmassero di lasciare la città per più o
meno lunghi periodi, e optano per il subaffitto, spesso in tutta segretezza,
senza coinvolgere il proprietario di casa o l’agenzia che gestisce l’immobile.
Questo ha dato origine, negli ultimi anni, a un mercato che “prospera grazie a
una massa involontaria di persone intrappolate in un circolo di alloggi a breve
termine, Airbnb prolungati e altri accordi temporanei”. Senza considerare che
queste soluzioni di subaffitto comportano spesso costi più elevati degli affitti
regolari ‒ perché vuoi non farci la cresta? ‒ e i disperati alla ricerca di un
tetto in molti casi devono accettare, per dividere le spese, di trovarsi uno o
più coinquilini.
> La carenza di alloggi rende il mercato degli affitti della capitale tedesca
> sempre più competitivo e allo stesso tempo mette nelle mani dei proprietari e
> delle agenzie immobiliari un potere immenso.
Per fortuna, da un paio d’anni mi sono svincolato, almeno temporaneamente, da
queste logiche, quando ho infine firmato un contratto d’affitto per
l’appartamento in cui risiedo ora, da solo. Il mio attuale proprietario mi
propose dapprima quattro anni con clausola di rescissione con due mesi di
preavviso (invece dei tre previsti per legge). Un anno dopo, mi concesse una
piccola grazia, comunicandomela con una lettera che cominciava così: “Visto che
ti considero un buon inquilino, ho deciso di proporti un prolungamento a otto
anni…” Lasciandomi però la sorpresa alla fine: uno Staffelmiete del 2% annuo.
Bene ma non benissimo, insomma. Senza considerare che comunque tra cinque anni,
se ancora vivrò a Berlino, mi ritroverò nella condizione di dover cercare casa
in un mercato immobiliare con molta probabilità più impossibile di quanto lo sia
oggi.
Occasioni ed erosioni
Quando ci si trova in balia di contratti sempre più restrittivi che impongono di
cambiare casa ogni pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli
appartamenti ammobiliati diventa inevitabile. Si impara presto, nell’innegabile
scomodità del dover traslocare di continuo, che gli appartamenti ammobiliati
offrono un servizio fondamentale. Con il loro particolare universo fatto di
arredi più o meno usurati, soprammobili e souvenir che raccontano storie non
nostre, materassi e cuscini ingialliti dal tempo e dai sudori notturni di chissà
chi, gli appartamenti prearredati offrono una straordinaria libertà: si possono
chiamare “casa” non appena si appoggiano le valigie a terra e li si può
dimenticare altrettanto facilmente, abbandonandoli in qualsiasi momento così
come li si è trovati.
Mi sono illuso per anni che questa libertà mi rappresentasse e un po’ mi
piacesse: come per la sindrome di Stoccolma, chiamiamola rassegnazione. L’idea
di dover lasciare qualsiasi posto da un momento all’altro, sempre pronto a
impacchettare tutto in poche ore e partire. Dove sarei andato? Una soluzione
l’avrei trovata: si trova sempre. Ero libero, libero di andare dove volevo,
ovunque e all’improvviso.
Solo recentemente ho capito che non si trattava affatto di libertà, ma del suo
esatto opposto. Come sostiene James Greig in un articolo per Dazed, “la crisi
abitativa comporta una ‘disastrosa perdita di libertà’ […] Abbiamo meno libertà
di scegliere dove vivere, meno libertà di sentirci sicuri e di vivere vite
dignitose. Oggi, tutti tranne i giovani più benestanti sono soggetti alla
precarietà abitativa in qualche forma (il che comprende avere difficoltà a
pagare l’affitto, il sovraffollamento, dover traslocare frequentemente, o
spendere un’alta proporzione del proprio reddito per l’alloggio)”.
> Quando ci si trova in balia di contratti che impongono di cambiare casa ogni
> pochi anni, o addirittura ogni pochi mesi, la caccia agli appartamenti
> ammobiliati diventa inevitabile.
Greig si riferisce a quanto accade in Regno Unito, dove è ancora in vigore ‒
almeno per ora ‒la discussa Section 21, una norma tutta britannica che consente
dai tempi dell’Housing Act 1988 ai proprietari di casa di sfrattare gli
inquilini con contratti a breve termine presentando un preavviso di soli due
mesi, senza dover fornire alcuna motivazione (la cosiddetta no-fault eviction).
La Section 21 è uno strumento che rende il mercato degli affitti infinitamente
più instabile per gli inquilini, che finiscono così per sentirsi sempre di
passaggio, ospiti temporanei, o meglio utenti, consumatori di uno spazio
trasformato in servizio, che si riceve soltanto in prestito e che non offre
neppure, scrive Greig, “la garanzia che non venga strappato via da sotto i
piedi” prima del termine concordato:
> Questo tipo di precarietà causa un’ansia ambientale cronica. Rende più
> difficile rilassarsi, godersi il tempo che si ha nel posto in cui si vive […]
> Si avverte un senso di nostalgia anticipatoria, aspettando il giorno in cui si
> verrà cacciati. Permettere a sé stessi di provare qualsiasi tipo di
> attaccamento sembra inutile: perché preoccuparsi di legare con la propria
> comunità locale quando si sa di essere lì in prestito? Non c’è da
> meravigliarsi che la solitudine sia così comune quando le persone sono
> disincentivate dal mettere radici nelle aree in cui vivono. Una casa dovrebbe
> fornire sicurezza, protezione, qualche tipo di barriera dal mondo esterno. Se
> funzioni realmente così in pratica, non ne sono sicuro, ma la sua assenza può
> certamente essere sentita.
L’idea di appartamento rischia di perdere l’aspetto intimo e identitario, caldo
e generativo, che siamo soliti attribuirgli e cercarvi: quel senso originale di
‘casa’ che, trasloco dopo trasloco, ho finito col non aspettarmi più.
Dev’essere, credo, un po’ come succede con le delusioni d’amore: si impara a
ridimensionarsi, si rimpiccioliscono le aspettative ‒ rubando le parole a Garth
Greenwell di Purezza ‒ “attraverso un’erosione forse necessaria alla
sopravvivenza, e di cui forse devi ancora pentirti”.
Questa erosione, nel mio caso, ha finito per dare forma al tipo di rapporto
particolare che instauro con gli appartamenti: una relazione simile in tutto e
per tutto a quelle situationship distaccate, più o meno etiche, più o meno
consapevoli ‒ caratterizzata, anche questa, da un’uguale quantità di attrazione
e fastidio, e che richiede un’immensa, sempre rinnovata forza di accettazione e
perseveranza. La perseveranza nel dire “benvenuto”, e ogni volta crederci
davvero in quella parola, rivolta a un gran numero di appartamenti che sono
consapevole fin dall’inizio saranno soltanto temporanei; e l’accettazione,
infine, dell’addio rivolto a quello stesso numero di appartamenti, vicinati,
quartieri, città, che finisco sempre per lasciare alle spalle, proprio come una
stanza d’albergo alla fine di una vacanza.
L'articolo Situationship immobiliare proviene da Il Tascabile.
N el 1956 il sociologo russo-americano Pitirim Sorokin coniava il termine
quantofrenia per denunciare un fenomeno che, a suo dire, rischiava di svuotare
le scienze sociali di ogni profondità: l’ossessione per la misurazione numerica
della realtà. In un momento storico segnato dalla volontà di rendere
scientificamente affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica
strada per la legittimazione. Eppure, Sorokin vedeva in questa tendenza un
pericolo: ridurre la complessità dell’esperienza umana a semplici dati
significava sacrificare la qualità alla contabilità, la comprensione profonda
alla superficie della cifra.
Quella che Sorokin descriveva come una deriva potenziale è oggi diventata
sistema. Viviamo immersi in un ambiente culturale che ha fatto della
datificazione la sua ideologia dominante. Ogni gesto, emozione, desiderio e
pensiero può (e deve) essere tracciato, misurato, confrontato. L’essere umano
contemporaneo si muove in un ecosistema fatto di tracker, dashboard, KPI (Key
Performance Indicator), insight, analytics, convinto che ogni aspetto della sua
esistenza sia più vero quanto più numericamente rappresentabile.
Questo non vale solo per le aziende o le istituzioni, ma per la vita quotidiana.
Il nostro sonno, il battito cardiaco, la produttività, le emozioni: tutto viene
tradotto in dati. Il filosofo sudcoreano-tedesco Byung-Chul Han in La società
della trasparenza (2014) ha scritto che “oggi tutto dev’essere trasparente,
tutto deve essere visibile, misurabile”. Ma la trasparenza, apparentemente virtù
democratica, si rivela così una forma subdola di controllo: l’efficienza che
diventa valore morale. Sempre secondo Byung-Chul Han, “la società della
trasparenza è una società della sorveglianza che si maschera da libertà”. Se in
teoria sapere tutto di sé dovrebbe renderci più liberi e consapevoli, in pratica
ci consegna a un’autosorveglianza continua. La quantità crescente di dati a
nostra disposizione non ci rende affatto più lucidi: ci sovraccarica. L’accesso
all’informazione è individuale, ma l’elaborazione è lasciata al singolo, senza
strumenti, senza tempo, senza tregua. Non è tanto una questione di opacità, ma
di asfissia cognitiva.
David Brooks, editorialista del New York Times, in L’animale sociale. Alle
origini dell’amore, della personalità e del successo (2012) esplora le radici
emotive e inconsce del comportamento umano, contestando l’idea che siamo guidati
da scelte razionali e misurabili: “La mente inconscia si occupa di gran parte
del lavoro della vita. È come un presidente che prende decisioni ma che non ha
idea di come le sue politiche vengano attuate”. L’ossessione per i dati,
confrontandosi solo con la razionalità misurabile, ignora la complessità delle
motivazioni umane. Brooks mostra come la vera formazione del carattere, della
moralità, della felicità non sia misurabile: “Ciò che rende la vita
significativa sono le relazioni intime, il senso di appartenenza, la gratitudine
– tutte cose che sfuggono al numero”.
> In un momento storico segnato dalla volontà di rendere scientificamente
> affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica strada per la
> legittimazione.
La tendenza a ridurre la realtà a ciò che è misurabile non è solo una strategia
cognitiva, ma un vero e proprio paradigma ideologico che si nutre di una falsa
promessa: che i dati possano raccontare il reale in modo oggettivo. Come notava
Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, in Pensieri lenti e veloci (2012),
invece, gran parte delle nostre decisioni è guidata da processi intuitivi,
emotivi, non razionali. E là dove il dato pretende di spiegare tutto, finisce
spesso per mascherare la complessità. Lo stesso Kahneman ha messo in guardia
contro l’eccessiva fiducia nella coerenza statistica, evidenziando il ruolo
centrale del contesto e delle euristiche.
Più ci affidiamo ai numeri, più ci deresponsabilizziamo. Un effetto paradossale,
dal momento che è proprio l’ansia di controllo che alimenta la smania di
misurare tutto a portarci a delegare le decisioni ai dati, spogliandoci della
responsabilità. Il numero rassicura, ci assolve: “lo dice l’algoritmo”, “è un
dato oggettivo”, ma il controllo così perseguito si rivela illusorio: invece di
decidere, lasciamo che una finta certezza decida per noi. Se un progetto
fallisce, si incolpano i dati; se una decisione si rivela errata, era comunque
“data-driven”. In questo modo, come ha osservato Herbert Simon, teorico
dell’automazione e padre del concetto di “razionalità limitata”, in La ragione
nelle vicende umane (1984), il dato diventa alibi e non strumento di
comprensione.
La distorsione non è solo cognitiva, ma anche narrativa. Isaac Asimov lo aveva
intuito già nel 1955 con il racconto Diritto di voto (pubblicato per la prima
volta in Italia nel 1962 sulla rivista Galaxy): in un futuro ipertecnologico,
l’esercizio democratico viene rimpiazzato da un supercomputer, Multivac, in
grado di prevedere il voto di tutta la popolazione intervistando un solo
cittadino rappresentativo. Non importa più cosa si pensa o cosa si vuole:
importa solo che i dati funzionino. L’immaginazione cede il passo all’inferenza
statistica.
> – Multivac possiede già la maggior parte delle informazioni necessarie per
> decidere quali saranno i risultati delle elezioni nazionali, statali e locali.
> […] Non possiamo prevedere quali domande le farà, ma sappiamo che forse non
> avranno senso, né per lei né per noi. […] Durante il colloquio dovremo
> ricorrere a qualche semplice dispositivo che le terrà sotto controllo
> pressione sanguigna, il battito cardiaco, la conduttività della pelle e le
> onde cerebrali. […]
> – Questa roba serve per controllare se dico la verità? – chiese Norman.
> – Nient’affatto, signor Muller. Non ha importanza che lei menta o dica la
> verità.
Nel momento in cui Multivac afferma che “non ha importanza che lei menta o dica
la verità”, Asimov ci mostra una distopia dove la soggettività non ha più peso.
Non conta cosa credi o cosa pensi, perché l’infrastruttura algoritmica ha già
deciso chi sei e cosa farai. È una prefigurazione inquietante del nostro
presente: i dati raccolti, incrociati e analizzati ci assegnano una “verità”
algoritmica, spesso più influente delle nostre reali intenzioni o convinzioni.
La verità, come l’intenzione politica, diventa ridondante. L’intelligenza
artificiale generativa ha accelerato ulteriormente questa logica, rendendo
possibile la creazione automatica di contenuti visivamente attraenti ma
stilisticamente omologati. Emblematico il caso delle illustrazioni ispirate allo
Studio Ghibli: la bellezza è replicabile, ma l’originalità è sacrificata.
> Il numero rassicura, ci assolve: “lo dice l’algoritmo”, “è un dato oggettivo”,
> ma il controllo così perseguito si rivela illusorio: invece di decidere,
> lasciamo che una finta certezza decida per noi.
La cultura digitale ha così internalizzato la quantofrenia. Le metriche sono
diventate una seconda pelle: i like, le condivisioni, le visualizzazioni hanno
sostituito il giudizio critico. La comunicazione si adatta alle logiche degli
algoritmi e non alle esigenze del contenuto. Come osserva Evgeny Morozov in To
Save Everything, Click Here (2013), l’uso strumentale della tecnologia tende a
risolvere problemi complessi con soluzioni semplicistiche, nascondendo
implicazioni politiche e culturali.
La tendenza alla misurazione si è infiltrata anche nelle istituzioni educative.
Le scuole e le università, sempre più soggette a ranking e valutazioni
standardizzate, sono costrette a misurare l’impatto della ricerca e
dell’insegnamento in termini di produttività. Ma come si misura una buona
lezione? Come si quantifica l’effetto trasformativo della cultura su una
persona? La valutazione dell’apprendimento rischia di diventare una caricatura
di sé, come ha argomentato Martha Nussbaum in Non per profitto. Perché le
democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2014). Nussbaum critica
l’educazione orientata ai test e ai numeri perché sacrifica le capacità
critiche, empatiche ed etiche, cioè quelle fondamentali per una cittadinanza
attiva. “Una democrazia – scrive – richiede cittadini che non solo abbiano
capacità tecniche, ma che possano pensare criticamente, esaminare le tradizioni,
comprendere il significato della sofferenza e dell’ingiustizia”. Ridurre tutto a
metriche (valutazioni PISA, crediti, output di ricerca) snatura l’educazione: la
trasforma in addestramento. La cultura, invece, dovrebbe formare esseri umani
completi, non solo lavoratori efficienti.
Eppure, i dati non sono il male. Come sottolineano anche Harvard Business
Publishing e Forbes in numerosi contributi sul management, affidarsi
esclusivamente alla quantificazione rischia di semplificare eccessivamente
fenomeni complessi, conducendo a decisioni paradossalmente meno informate, ma le
metriche possono aiutarci a identificare delle opportunità che sarà l’intuizione
a tradurre in scelte realmente efficaci. I numeri non provano gioia, dolore,
entusiasmo: sono strumenti, non fini. Un esempio virtuoso fu House of Cards
(2013-2018), prima produzione originale Netflix basata su dati di fruizione che
indicavano una domanda per contenuti politici. Ma non furono i numeri a
decretarne il successo: fu l’intuizione creativa, il cast d’eccezione, la cura
narrativa. Oggi, invece, la stessa piattaforma viene criticata per puntare su
formule prevedibili e produzioni a basso rischio.
La crisi della narrazione si accompagna a una crisi del senso. Se ogni scelta è
calcolata, ogni comportamento previsto, che spazio resta per l’incertezza, per
l’imprevisto, per l’errore creativo? Come possiamo ancora raccontare storie che
aprano mondi, invece di ridurli a ciò che è già noto? In Contro i numeri. Perché
l’ossessione per dati e quantità sta rallentando il mondo (2019), lo storico
Jerry Z. Muller mostra come l’ossessione per la misurazione danneggi i contesti
che vorrebbe migliorare. Il problema, secondo Muller, è che “quando una metrica
diventa un obiettivo, smette di essere una buona metrica”. Succede nella sanità
(dove si punta a ridurre i tempi d’attesa a scapito della qualità della cura),
nell’istruzione (dove si insegna “per il test” anziché per formare pensiero
critico), nella ricerca (dove si pubblica molto ma si scopre poco). Muller parla
di “perversione dei segnali”: i numeri nascono come indicatori, ma finiscono per
sostituire i fini ultimi delle istituzioni.
> La nostra è l’epoca della datificazione della realtà, dove tutto deve essere
> misurabile e misurato.
I dati, insomma, possono ispirare, ma non devono dettare. Come ha scritto
Shoshana Zuboff in Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità
nell’era dei nuovi poteri (2019), “l’esperienza umana è diventata materia prima
gratuita per le pratiche commerciali nascoste di estrazione, previsione e
vendita”. La logica predittiva, secondo Zuboff, sottrae all’individuo il diritto
di definire la propria identità e i propri fini. L’azione spontanea, la
creatività, la decisione etica vengono erose da modelli che anticipano e
condizionano il comportamento. “Questa non è automazione – scrive – è
espropriazione”. Il soggetto viene dissolto nella previsione: non siamo più chi
scegliamo di essere, ma chi il sistema calcola che saremo.
Ed è qui che, infine, la riflessione si fa personale. Ho visto alcune delle
menti migliori della mia generazione struggersi di fronte a serie di dati
impazziti. Rifiutare cene a base di pizze lievitate naturalmente per più di
ventiquattr’ore per sacrificare la vista su metriche svuotate di significato e
fogli Excel troppo luminosi, animate dall’isteria per la consegna del prossimo
report trimestrale. Percorrere i pochi metri quadri di casa con una tazza di
caffè filtrato, cuffie noise-cancelling e felpa oversize di cotone biologico
alla ricerca della formula definitiva per il successo in dieci semplici mosse,
se sintetizzabili in cinque anche meglio. I pollici incollati allo schermo in
cerca di una validazione numerica a sé stessa.
Siamo social media manager, data analyst, SEO specialist, ricercatori. Apostoli
del dato, cavalieri della tabella pivot, eminenze grigie dell’analytics. Con
montature da intellettuale non praticante e outfit business casual calibrati al
millimetro, perché nulla dice “basato su dati significativi” come un look
azzurrino ben stirato. Abbiamo smesso di parlare di idee: meglio restare
ancorati alle metriche di performance, all’eventuale ritorno sull’investimento,
di percentuali, tante percentuali. Sempre del “cosa”, mai del “perché”.
La nostra è l’epoca della datificazione della realtà, dove tutto deve essere
misurabile e misurato. Ogni respiro, ogni passo, ogni sbuffo viene tradotto in
un grafico a torta o in una linea preferibilmente ascendente. Mi sono appena
svegliata: Fitbit ci tiene a dirmi che ho dormito il 13% in meno rispetto alla
media della popolazione degli altri millennial ansiosi. Ordino un cappuccino e
c’è un’app che mi informa che ho speso il 22% in più rispetto al budget mensile
per le mie bevande a base di latte d’avena. Il mio smartwatch registra
un’accelerazione del battito cardiaco: inquietudine da overspending. Voglio lo
zucchero, voglio il cacao? Consulto l’app delle calorie. Non me lo godo, ma
almeno so quanto mi è costato in termini finanziari e metabolici: è fantastico.
Se vado a correre e scordo di avviare l’app, semplicemente la mia corsa non
esiste. Ogni decisione, ogni singolo, microscopico gesto è misurato, analizzato,
comunicato e archiviato. Quand’è che ho smesso di raccontare storie per
limitarmi a ricevere e distribuire dati? Quand’è che sono diventata un’anima
misurata?
L'articolo Quantofrenia, la patologia dell’anima misurata proviene da Il
Tascabile.
M ikkel Bolt Rasmussen, professore di estetica politica al Dipartimento di arte
e studi culturali dell’Università di Copenhagen, in La controrivoluzione di
Trump (2019) e Fasciocapitalismo (2024), produce un’analisi della politica
(anche delle immagini) di Trump e in generale dei nuovi movimenti, partiti e
leader neofascisti come una politica di alleanza rinnovata tra tardo-capitalismo
e fascismo. Il suo obiettivo è trattare il fascismo all’insegna del suo
adattamento, dunque come un’ideologia che ha aggiornato tanto gli strumenti
quanto il fine. Il neofascismo può servirsi della democrazia liberale (nelle sue
possibilità illiberali) per costruire un’utopia più modesta: la riproduzione
della società del dopoguerra, più semplice e dunque più comprensibile, più
spensierata, profondamente razziale, patriarcale. Insomma, i nuovi fascismi
vogliono restringere il campo delle libertà e della partecipazione democratiche
per difendere il benessere dei Paesi Occidentali, in un momento di crisi
economica, politica, migratoria, bellica, climatica, sanitaria.
Nei testi di Rasmussen non si trova, per programma, un approfondimento della
politica danese, più volte invece portata ad esempio per descrivere il “razzismo
di Stato liberale” delle democrazie occidentali, nonostante un certo
antirazzismo morale: la Danimarca, negli ultimi vent’anni, ha portato avanti
politiche estremamente restrittive nei confronti delle persone ritenute
straniere (con vere e proprie ghettizzazioni, incarcerazioni coatte,
sfruttamento, eradicazione culturale) e per contrastare la migrazione, regolare
o irregolare che sia (con addirittura l’esternalizzazione delle pratiche di
richiesta d’asilo). Dal momento che la Danimarca viene più volte mobilitata come
modello a cui aspirare nel contesto Europeo, in termini anche sociali,
soprattutto in quanto avanguardia in sostenibilità e welfare (per le persone
danesi), ho deciso di contattare direttamente Rasmussen, per ospitare qui la sua
critica.
Ne ho approfittato per chiedergli anche un aggiornamento della sua analisi su
Trump, alla luce del secondo mandato. Ne viene fuori una sorta di profezia dei
futuri noti (possibili) dei Paesi del Nord Globale e, ovviamente, anche
dell’Italia. Il governo Meloni ha approvato una serie di decreti e disegni di
legge culminata con il decreto sicurezza (risultato di una decretazione
d’urgenza del precedente DDL), che secondo molti osservatori rappresenta un
pacchetto repressivo verso il dissenso e oppressivo verso le persone
marginalizzate. Per combattere le realizzazioni storiche del neofascismo
nazionale, bisogna studiare le realizzazioni storiche in altri Paesi.
PROFESSOR RASMUSSEN, NEI SUOI LIBRI, E ANCHE SU EFLUX, PARLA PER LA DANIMARCA DI
“RAZZISMO DI STATO LIBERALE”, UN CONCETTO SIMILE, CREDO, A QUELLO DI “STATO
RAZZIALE INTEGRALE” DI HOURIA BOUTELDJA, APPROFONDITO IN BEAUFS ET BARBARES
(2023). STIAMO PARLANDO DI CONCEPIRE IL RAZZISMO COME UNO STRUMENTO SOCIOTECNICO
(UN “COMPLESSO DI ATTIVITÀ PRATICHE E TEORICHE”) CON CUI L’ESTABLISHMENT
“GIUSTIFICA E MANTIENE IL SUO DOMINIO” RIUSCENDO ANCHE A OTTENERE IL CONSENSO
ATTIVO DEI GOVERNATI. MI PERMETTA UNA PROVOCAZIONE CHE POTREBBE ARRIVARE DA
DESTRA: SE I RISULTATI DI QUESTE POLITICHE, PER ESEMPIO IN DANIMARCA, SONO
“POSITIVI”, CIOÈ PORTANO BENESSERE DIFFUSO, SOPRATTUTTO PER QUELLA PORZIONE DI
POPOLAZIONE RITENUTA “CITTADINA” LEGITTIMA, NON SI TRATTA FORSE DI POLITICHE A
CUI ALTRI GOVERNI POTREBBERO O DOVREBBERO GUARDARE, VISTO CHE L’ALTERNATIVA È
UNA RIVOLUZIONE CHE LO STESSO STATO DEMOCRATICO NON PUÒ VOLERE, OPPURE LA GUERRA
CIVILE?
La situazione danese rende manifesto che la riemersione del fascismo come
fenomeno politico fa parte di una storia molto più lunga e complessa, che non
può essere limitata alla gestione della crisi finanziaria da parte delle élite
politiche delle nazioni europee, e sicuramente non a un presunto aumento del
numero di migranti arrivati in Europa. Nel contesto danese, l’introduzione di
politiche migratorie estremamente dure deve essere inquadrata in una traiettoria
storica ben più lunga, che riguarda il modo in cui la classe lavoratrice è stata
concettualizzata nelle prime fasi della costruzione della versione danese del
cosiddetto Stato sociale scandinavo, cioè nel periodo tra le due guerre e nei
primi anni del dopoguerra. Fin da subito, i socialdemocratici danesi
identificarono la classe lavoratrice con la classe lavoratrice danese. Questa
identificazione si consolidò dopo la Seconda guerra mondiale, quando le classi
lavoratrici locali furono integrate nel processo di nazionalizzazione del
popolo, un processo che ebbe luogo in tutta l’Europa occidentale, compresa la
Danimarca, ma anche in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Italia. La
combinazione tra democrazia nazionale e Stato costituzionale spostò il conflitto
tra proletariato e borghesia ‒ che aveva caratterizzato la ‘guerra dei
trent’anni’ del 20° secolo (dal 1914 al 1945) ‒ su un altro piano. Dopo il 1945,
la relazione tra capitale e lavoro fu riorganizzata sulla base di un compromesso
sociale in cui le masse lavoratrici non solo ottennero salari più alti, ma anche
accesso a un’enorme varietà di beni di consumo, istruzione e cultura; ma, cosa
importante, abbandonarono la precedente speranza in un mondo oltre il lavoro
salariato. Questa è la storia dell’abbandono dell’internazionalismo da parte del
movimento operaio consolidato.
Possiamo raccontare questo sviluppo storico come la storia di una straordinaria
conquista del movimento operaio occidentale, come fa ad esempio Geoff Eley in
Forging Democracy: The History of the Left in Europe, 1850-2000 (2002). Ma è,
ovviamente, anche la storia di come il movimento operaio dimenticò più o meno
rapidamente la violenza razziale nelle colonie e il legame tra questa violenza e
quella fascista in Europa. Aimé Césaire e molti altri militanti anticoloniali
cercarono disperatamente ‒ spesso dall’interno dei partiti comunisti delle
nazioni dell’Europa occidentale ‒ di affermare che la spinta rivoluzionaria
doveva affrontare due problemi e non solo uno. Lo sfruttamento era certamente
l’alfa e l’omega, ma la questione coloniale non poteva essere ignorata e doveva
anch’essa essere affrontata. Il fascismo era stato sconfitto in Europa ‒ e
questo era ovviamente fondamentale ‒ ma era un errore considerare il fascismo
come un’eccezione storica: esisteva un legame diretto tra la barbarie delle
colonie e la violenza dei regimi fascisti dell’Europa tra le due guerre.
Analizzare questo legame era cruciale.
L’antifascismo “limitato” (nell’originale “limited anti-fascism”, ndr) che
prevalse nell’Europa occidentale dopo il 1945 non collegò il fascismo come
fenomeno politico alla persistenza della violenza razziale-coloniale nelle
colonie, nelle ex colonie indipendenti e nelle metropoli occidentali, compresa
la feroce opposizione ai movimenti anticoloniali. La prospettiva
antinazionalista e internazionalista, cuore del marxismo rivoluzionario, fu
soppiantata da vari tipi di nazionalismo. È questa una ragione storica per cui
fu così facile per la maggior parte dei partiti socialdemocratici dell’Europa
occidentale abbandonare ogni forma di solidarietà internazionale, sia in tempi
di crisi economica sia in tempi di crescita.
Il periodo dalla fine degli anni Settanta in poi è stato caratterizzato da
un’economia in declino nell’Europa occidentale, rispetto al boom del dopoguerra.
L’epoca della globalizzazione neoliberale ha visto brevi fasi di crescita
seguite da numerose crisi. Guardando da lontano e concentrandosi sulla
riproduzione sociale, tutto il periodo dalla fine degli anni Settanta appare
come un lento declino, anche in economie come quella danese. Un argomento
brutalmente “materialista” potrebbe essere che, dopo un periodo di forte
crescita negli anni Cinquanta e Sessanta, durante il quale l’economia danese ‒
come molte altre in Europa occidentale ‒ era in grado di integrare lavoratori
migranti, l’economia in crisi della globalizzazione neoliberale è stata
un’economia dell’espulsione o dell’assorbimento differenziato, in cui solo
alcuni lavoratori stranieri più qualificati erano benvenuti, mentre molti altri
no.
Il primo cambiamento significativo nel contesto danese è avvenuto a metà degli
anni Novanta: mentre rappresentanti della borghesia danese, tra cui i leader
delle organizzazioni imprenditoriali nazionali, continuavano a sostenere la
necessità di manodopera migrante, i politici iniziarono a opporsi. Inizialmente
erano partiti marginali dell’estrema destra a opporsi a ciò che loro chiamavano
“frontiere aperte” ‒ benché la Danimarca non abbia mai avuto frontiere aperte e,
trovandosi nel Nord dell’Unione Europea, abbia ricevuto un numero
significativamente più basso di rifugiati e migranti ‒, ma ben presto anche i
partiti del centrodestra adottarono questa linea. Dopo alcune iniziali
resistenze tra i leader socialdemocratici della vecchia generazione, anche il
Partito socialdemocratico danese cominciò a competere per il voto razzista. Gli
ultimi 25 anni sono stati un lungo spostamento verso destra.
CON IL SECONDO E IL TERZO GOVERNO DI
Lars Løkke Rasmussen (dal 2015 al 2019), leader del centrodestra, vengono
intraprese politiche migratorie davvero securitarie: per dirne una, subito nel
novembre 2015 sono state adottate 34 restrizioni all’asilo, tra cui il rinvio
del diritto al ricongiungimento familiare.
Per fare due esempi ancora più significativi, abbiamo la cosiddetta legge sui
gioielli (Jewelery Law), che obbligava le persone migranti a consegnare beni di
valore contestualmente alla richiesta di asilo; e il cosiddetto Piano ghetto
(Ghetto Plan), che prevedeva controlli di polizia intensificati, sfratti e pene
doppie nei quartieri con alta disoccupazione ed elevata presenza di minoranze
etniche (una multa di 1000 corone danesi diventava automaticamente di 2000 se il
reato avveniva in uno di quei “ghetti”, e lo stesso valeva per le pene
detentive).
PREVEDE ANCHE L’OBBLIGO PER I BAMBINI DI FREQUENTARE UN PROGRAMMA “PRESCOLARE”
PER APPRENDERE LA LINGUA E I VALORI DANESI, OPPURE LA RIALLOCAZIONE DELLE
PERSONE CONSIDERATE “STRANIERE” (PER “DE-GHETTIZZARE” IL QUARTIERE, CON ANNESSA
RISTRUTTURAZIONE O RICOSTRUZIONE, PER FAVORIRE LA SPECULAZIONE IMMOBILIARE). IN
ITALIA, IL GOVERNO MELONI HA SUGGERITO L’ISTITUZIONE DI “ZONE ROSSE” NELLE
PRINCIPALI CITTÀ ITALIANE. IN QUESTI QUARTIERI, LE FORZE DELL’ORDINE HANNO
POTERI SPECIALI E POSSONO AGIRE PER REPRIMERE LE PERSONE CONSIDERATE
“PERICOLOSE” SECONDO CRITERI MOLTO VAGHI (CHE CON QUESTA DISCREZIONALITÀ SI
PRESTANO DI FATTO A ESSERE APPLICATI A SOGGETTI RAZZIALIZZATI). OVVIAMENTE ANCHE
CITTÀ AMMINISTRATE DA PARTITI DI SINISTRA (COME MILANO E ROMA) NON HANNO ESITATO
AD ACCOGLIERE IL SUGGERIMENTO.
È una tendenza naturale. Oggi tutti i partiti del Parlamento danese hanno di
fatto adottato una posizione estremamente xenofoba nei confronti dei migranti.
Incluso il partito di sinistra, l’Alleanza Rosso-Verde, che magari critica la
retorica dei socialdemocratici, ma che comunque sostiene sempre il governo
socialdemocratico, indipendentemente dalle politiche vili che adotta. Dai primi
anni Duemila, vari governi di centrodestra e centrosinistra hanno portato avanti
una lunga lista di misure muscolari finalizzate non solo a limitare il numero di
persone migranti e rifugiate, ma a porre fine alla migrazione. Come ha detto la
prima ministra Mette Frederiksen nel 2019: “Non possiamo promettere zero
richiedenti asilo, ma possiamo sicuramente proporre una visione in tal senso£.
Questa visione ha preso forma in una serie di iniziative bizzarre, tutte con
l’obiettivo di stigmatizzare ed emarginare non solo migranti o richiedenti
asilo, ma anche figli di migranti, cittadini danesi nati o cresciuti in
Danimarca.
Oggi è impossibile distinguere la posizione sull’immigrazione del Partito
popolare danese (di stampo fascista) da quella dei socialdemocratici. Sono
completamente allineati. E ciò non è un caso: è stata una strategia esplicita
del Partito socialdemocratico adottare ogni proposta del Partito popolare
danese, anche le più folli. Elettoralmente ha funzionato: oggi il Partito
popolare danese ha meno del 5% dei voti, mentre in passato aveva oltre il 25%.
Per decenni il Partito popolare danese ha parlato insistentemente di auto
bruciate, pompieri attaccati e ragazze danesi stuprate da uomini musulmani. Oggi
sono i socialdemocratici a portare avanti quella retorica, stigmatizzando
continuamente gli “stranieri” e dipingendoli come una minaccia al futuro del
Paese, arrivando perfino a suggerire che costituiscano un esercito segreto di
infiltrati.
Nel 2024, Frederik Vad, portavoce del Partito socialdemocratico
sull’immigrazione, ha annunciato “un nuovo fronte nella politica migratoria” con
l’obiettivo di combattere “gruppi di immigrati che minano a destabilizzare la
società danese dall’interno”. Se fino ad allora i socialdemocratici avevano
almeno cercato di distinguere tra “immigrati ben integrati” e “indesiderabili”,
Vad ha abbandonato questa distinzione, dichiarando che non si può mai essere
sicuri che un immigrato abbia realmente adottato i valori danesi. Anche se un
immigrato conduce apparentemente “una vita normale”, facendo il medico o il
poliziotto, come possiamo essere certi che non stia in realtà usando la sua
posizione per minare la società danese?
ESPRIMERE QUESTO DUBBIO SIGNIFICA AMMETTERE DI ESSERE RAZZISTI.
“Una società parallela [così si definisce uno spazio in cui i musulmani
ignorerebbero le regole e i valori danesi] non è più solo un quartiere
residenziale a Ishøj [uno dei distretti etichettati come ghetto]. Può essere
anche un tavolo della mensa in un’agenzia governativa. Può essere anche una
farmacia in North Zeland”. Questa dichiarazione di Vad è stata solo l’ultima di
una lista apparentemente infinita di affermazioni islamofobe e xenofobe, che non
solo mettono in dubbio il valore morale di cittadini specifici, ma legittimano
ogni tipo di politica escludente. Se un tempo la Danimarca veniva citata come
uno dei migliori esempi di stato sociale socialdemocratico ‒ lo stesso Bernie
Sanders, nel 2016, parlava con ammirazione della Danimarca durante la sua
campagna elettorale ‒, oggi il Paese è all’avanguardia nella reazione
nazionalista, ammirato da politici fascisti di tutta Europa ansiosi di imparare
dal “modello danese”.
NEL SUO LIBRO LA CONTRORIVOLUZIONE DI TRUMP LEI ANALIZZA LA CAMPAGNA ELETTORALE
PARTENDO DAL PRIMO MANDATO DI TRUMP. GIÀ ALLORA, BEN PRIMA DELL’OPINIONE
PUBBLICA, RICONOSCEVA IN TRUMP UN FASCISTA. IN QUESTO SECONDO MANDATO, GIÀ MOLTO
PIÙ AGGRESSIVO, LA SUA ANALISI È CAMBIATA?
Il periodo del compromesso sociale tra capitale e lavoro nei centri
dell’accumulazione, sotto l’egemonia statunitense, è definitivamente finito.
Siamo entrati in un periodo di transizione, in cui è difficile avere una visione
d’insieme. Le certezze precedenti stanno scomparendo, e non è chiaro cosa ci
attende. Trump è una scorciatoia per questo cambiamento. Molti concetti politici
tradizionali chiaramente non funzionano più, ed è difficile applicarli. Per
questo tante persone fanno riferimento alle frasi di Gramsci sull’interregno, in
cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è ancora nato. Con Stuart Hall, che
si ispirava molto a Gramsci ma combinava le sue teorie con quelle di Althusser e
altri, possiamo forse comprendere la situazione storica attuale come una
congiuntura, cioè una situazione storica specifica, aperta, che richiede
un’analisi dettagliata, focalizzata sulle caratteristiche del momento presente,
ma radicata in un processo storico più lungo. Questo tipo di analisi della
situazione è ciò che ho cercato di sviluppare in La controrivoluzione di Trump,
dove mi sono concentrato sugli elementi distintamente nuovi del fenomeno Trump,
indicando al contempo le condizioni storiche che lo hanno reso possibile e ciò
di cui può essere considerato una continuazione. Mi sono mosso quindi tra
l’analisi della congiuntura, di un periodo e del modo di produzione
capitalistico. È per questo che è diventata una descrizione del ritorno di una
nuova forma paradossale di fascismo, ciò che chiamo fasciocapitalismo (late
capitalism fascism) sullo sfondo del crollo della globalizzazione neoliberale e
di una crisi profonda e persistente dell’economia globale.
Una delle sfide poste da fenomeni politici come Trump, nel 2016 e ora di nuovo
nel 2024-2025, è che egli è chiaramente un fascista – la sua politica è un
ultranazionalismo palingenetico, nei termini di Roger Griffin – ma non rientra
in tutte le caratteristiche che comunemente associamo ai movimenti fascisti
dell’epoca tra le due guerre. È quindi importante sviluppare nuovi concetti per
descrivere il nuovo fascismo, per cogliere ciò che c’è di nuovo nel fascismo
contemporaneo. Per questo dedico un intero capitolo alla lettura del discorso
inaugurale di Trump in La controrivoluzione di Trump. Cerco di analizzare i
tropi fondamentali della sua visione politica, per quanto incoerente possa
apparire. Questa analisi ravvicinata si radica in un’analisi di un processo
politico ed economico più ampio, caratterizzato da una lunga crisi delle
economie dei Paesi avanzati, soprattutto degli Stati Uniti. Mi rifaccio a Ernst
Mandel e Loren Goldner, e descrivo gli ultimi 50 anni come un lungo atterraggio
forzato economico, in cui il boom del dopoguerra è stato sostituito dalla
globalizzazione neoliberale sotto forma di delocalizzazione, privatizzazioni,
ritorno del lavoro precario e crescita del credito e del debito.
COME RIESCE TRUMP IN QUESTA CONTRORIVOLUZIONE? HA AVUTO UN RUOLO
L’AMMINISTRAZIONE BIDEN? E LA CANDIDATURA DI HARRIS?
Trump riconosce e indica costantemente la miseria economica che molti americani
vivono. La crisi finanziaria ha messo in evidenza una tendenza fatta di decenni
di tagli alla riproduzione sociale negli Stati Uniti. Per lungo tempo, questa
realtà è stata mascherata da debiti e prestiti, ma dopo la crisi finanziaria è
diventato evidente che l’economia cresceva sempre meno, e soprattutto quanto
fosse distribuita in modo ineguale la ricchezza, e quanto fosse difficile per
molte famiglie arrivare a fine mese. Mentre Obama, Clinton, Biden e Harris
continuavano a ripetere che andava tutto bene e che si sarebbe proseguito con le
stesse politiche per altri quattro anni, Trump gridava che tutto stava andando
in malora – e molti americani si identificavano in questa percezione. È così che
si vive in molte città di cui i media americani ed europei parlano raramente.
Nell’elezione del 2024, l’inflazione è stata un tema centrale per molti, ma
l’inflazione maschera una tendenza più lunga di declino e di collasso. Trump ha
parlato costantemente di questo collasso. Indubbiamente lo sta accelerando, ma
lo ha indicato e riconosciuto. I democratici no.
Le soluzioni proposte da Trump sono guerre commerciali e protezionismo, ma
ancora di più l’attacco a specifici gruppi di persone identificati come nemici
della comunità nazionale. Make America Great Again è la visione di un popolo
minacciato che deve tornare forte attraverso l’esclusione e il ripiegamento su
sé stesso, politicamente, culturalmente ed economicamente. I nemici di questa
comunità sono gli stranieri, dai messicani ai cinesi, ma anche i “leftist” e le
persone transgender, chiunque possa essere rappresentato come una minaccia alla
supremazia maschile bianca o che faccia sentire insicuri gli uomini bianchi.
Nel libro, affianco alle analisi del neoliberismo anche spunti da varie
generazioni di analisi marxiste del fascismo, che sottolineano la connessione
tra capitalismo come sistema politico-economico e totalità sociale, e fascismo
come movimento politico e culturale che emerge in situazioni di crisi per
evitare un cambiamento socio-materiale – in altre parole, per evitare una
rivoluzione. La dimensione controrivoluzionaria di Trump è diventata ancora più
evidente da quando ho scritto La controrivoluzione di Trump. Ricordiamo quanto
furono grandi le proteste dopo l’uccisione di George Floyd nell’estate 2020:
sono state le più estese proteste nella storia americana degli ultimi decenni.
Le immagini della stazione di polizia in fiamme a Minneapolis hanno
profondamente spaventato la classe dirigente statunitense. Più di duemila grandi
città sono state teatro di manifestazioni e rivolte. Interi quartieri sono stati
liberati dalla polizia. È stata una protesta che ha messo in discussione
l’ordine dominante. Come ha descritto anche Idris Robinson, la folla che ha
partecipato alle proteste era molto più eterogenea rispetto al passato. Occupy
era un movimento composto perlopiù da studenti bianchi delle grandi città; BLM
(Black Lives Matter) nel 2013 e 2014 era principalmente afroamericano. Le
proteste del 2020 sono state sicuramente guidate da neri americani, ma hanno
coinvolto una moltitudine di persone. La rivolta per George Floyd ha mostrato la
possibilità di una rottura radicale. Ogni analisi della rielezione di Trump nel
2024 deve tenere conto di quella rivolta.
Seguendo Karl Korsch e Amadeo Bordiga, in La controrivoluzione di Trump descrivo
la politica di Trump come una controrivoluzione preventiva, volta a far
deragliare una potenziale rivoluzione. Il progetto è bloccare la formulazione di
una nuova visione. Impedire che prenda forma e diventi un’alternativa. Non siamo
ancora a quel punto; non abbiamo un movimento rivoluzionario, e difficilmente
sappiamo cosa significhi oggi “rivoluzione”, né teoricamente né praticamente.
Questo è, naturalmente, uno dei maggiori problemi. Ma il secondo mandato di
Trump serve soprattutto a evitare che ciò accada, a impedire l’emersione di
un’altra partizione del sensibile, come direbbe Jacques Rancière.
IL RUOLO DI MUSK QUAL È?
Centrale. La dimensione controrivoluzionaria era già evidente nel 2016, e oggi
lo è ancora di più. Come il fascismo interbellico, Trump si nutre di
disgregazione e resistenza, ma le devia verso altrove. Cerca di presentarsi come
un’alternativa a Washington D.C., come un outsider rispetto alla classe
politica, e in questo modo cerca di cannibalizzare e mediare l’enorme
insoddisfazione e paura che permeano la società americana. Vuole «prosciugare la
palude», come dice lui. Gli attacchi di Trump ai media mainstream americani,
come CNN e MSNBC, sono ora qualificati come illegali da lui stesso, parte di una
lotta contro i tribunali, e il progetto DOGE (Department of Government
Efficiency) di Musk è la forma che sta assumendo questa lotta. Nel suo primo
mandato era relativamente impreparato, anche se all’inizio aveva Stephen Bannon
al suo fianco. Ma ora è molto più preparato. Il Project 2025 della Heritage
Foundation sembra un vero e proprio manuale operativo; nel primo mese del
secondo mandato Trump ha emesso una raffica di ordini esecutivi che anticipano
espulsioni di massa e guerre commerciali. Allo stesso tempo, Musk e la sua task
force DOGE stanno facendo irruzione nella macchina dello Stato federale per
cercare modi di tagliare il bilancio statale e licenziare dipendenti pubblici.
L’obiettivo è minare il funzionamento standard dello Stato americano.
L’amministrazione americana deve essere distrutta, sia concretamente sia
simbolicamente.
Il contributo di Trump al movimento controrivoluzionario è che esiste una sorta
di contrappeso integrato nella democrazia nazionale che permette l’introduzione
di uno stato d’emergenza. Per questo non basta rispolverare un antifascismo
d’altri tempi che si oppone al fascismo e alla democrazia nazionale. Dobbiamo
anche parlare di capitalismo – come ha detto emblematicamente Horkheimer nel
1939 – e di anticapitalismo. Ecco perché insisto nell’includere l’intero nuovo
ciclo di proteste dal 2011 in poi. Una delle costanti di queste proteste è il
rifiuto della violenza poliziesca. Molte proteste sono scoppiate dopo
l’uccisione da parte della polizia dell’ennesima persona proletaria. Abbiamo una
sequenza che va da Mohamed Bouazizi in Tunisia nel 2010 a Mark Duggan in
Inghilterra nel 2011, da Eric Garner negli Stati Uniti nel 2014 a George Floyd
nel 2020, Giovanni López in Messico nello stesso anno, fino a Nahel Merzouk in
Francia nel 2023. Le nuove proteste rifiutano l’apparato repressivo dello Stato.
Anche perché, più le economie si restringono, più devono controllare chi è
destinato a sopravvivere ai margini delle stesse. Oggi, sempre più proletari si
scontrano direttamente con lo Stato.
P
erò abbiamo tutti grande difficoltà nel dire Trump un fascista, se guardiamo ai
leader del fascismo della prima metà del Novecento.
Se confrontiamo Trump con i leader fascisti interbellici come Hitler e
Mussolini, Trump appare stranamente vuoto. È così contraddittorio che è
difficile attribuirgli una ideologia politica coerente. Naturalmente dobbiamo
ricordare che anche il fascismo interbellico era già caratterizzato da
contraddizioni e frammentazioni. Il fascismo era sia moderno sia nostalgico,
prendeva in prestito elementi estetici dal movimento operaio pur combattendolo
con ogni mezzo.
La paura del comunismo giocò un ruolo importante per Mussolini e Hitler. Ma
mentre il fascismo italiano riuscì ad assorbire buona parte dell’impulso
rivoluzionario e a parassitarlo, il nazismo tedesco era finale [Rasmussen scrive
letteralmente “was final”: intende dire che giunse al potere alla fine di un
processo di crisi durante il quale l’impulso rivoluzionario era già parzialmente
esaurito, ndr] e dovette confrontarsi con una profonda crisi economica. Ma
allora come oggi il fascismo è un fenomeno della sovrastruttura, cioè si
manifesta soprattutto come progetto politico-culturale. Ed è per questo che oggi
è così politicamente efficace. La lunga depoliticizzazione neoliberale, per cui
la democrazia rappresentativa nazionale è stata svuotata di contenuto e
trasformata in amministrazione, fornisce un terreno fertile ai nuovi fascisti,
che – come pochi altri – sanno mobilitare elettori che faticano a vedere
differenze tra i partiti tradizionali, che da decenni si alternano nell’imporre
politiche di austerità. Oggi, solo i fascisti riescono ad attivare le masse.
MA INSOMMA, QUAL È L’OBIETTIVO DI TRUMP?
Trump vuole salvare la democrazia, la vera democrazia, ovviamente. Una
democrazia che negli Stati Uniti non include tutti. Molte persone devono essere
eliminate. Devono finire a Guantanamo o semplicemente essere espulse. Perché
tutto – dai migranti agli attivisti pro-Palestina – è una minaccia per la
democrazia americana, e quindi va deportato. È per questo che l’ICE (Immigration
and Customs Enforcement) detiene Mahmoud Khalil e deporta 238 venezuelani in El
Salvador, appellandosi a vecchie leggi usate solo in tempi di guerra, per
esempio durante la Seconda guerra mondiale. Con Claude Lefort possiamo
comprendere il fenomeno Trump come una risposta totalitaria al paradosso
fondamentale della democrazia: il fatto che il luogo del potere sia vuoto. La
democrazia è caratterizzata dalla sospensione di ogni nozione tradizionale di
gerarchia naturale e di criteri di inclusione. Quando si decapita il re, nessuno
può più rivendicare un diritto speciale al potere. Ma in situazioni di crisi,
questo vuoto diventa un problema, che si tenta di risolvere attraverso una
scorciatoia totalitaria, per cui un leader invoca un principio di
identificazione per colmare quel vuoto.
È ciò che vediamo nella retorica stranamente autoerotica che Trump articola
costantemente: Trump è ricco quindi può rendere forte l’America; l’America è
forte perché Trump è forte e sa fare buoni affari; gli americani amano Trump
perché è forte; gli altri stanno imbrogliando l’America, quindi Trump deve
ripulire e costruire muri; Trump è accusato di tutto perché gli altri vogliono
mantenere l’America debole, ecc. L’America è la comunità immaginaria che
permette a Trump di unire gli opposti. Riesce a rappresentare sia gran parte
della classe operaia americana, sia quella che Davis ha chiamato «classe media
lumpen», che trae reddito da immobili, casinò, compagnie di sicurezza e prestiti
privati, e ovviamente parti significative della classe capitalista come quella a
capo dell’industria dell’energia, delle armi e ora della tecnologia. Parla a
tutti quei lavoratori che si identificano nell’immagine del lavoratore bianco,
anche se non sono razzializzati come bianchi.
L'articolo I futuri noti del fascismo proviene da Il Tascabile.