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Giù in metrò di Luca Gricinella
H o dimenticato di quale torto pensai di essere stato vittima durante la gita di maturità. Ricordo solo che durante quella settimana parlai pochissimo e di controvoglia. Invece che andare a sballarmi con il resto dei miei compagni, passavo le poche ore libere che i professori ci concedevano ogni giorno infilandomi nella metropolitana. Senza curarmi della direzione, salivo sul primo treno di passaggio. Qualche volta, a un’intersezione tra due linee, smontavo dal treno e prendevo una coincidenza, lasciandomi trasportare da un altro convoglio. Poi, a un certo punto, senza seguire un principio preciso, sceglievo una fermata e smontavo. Obbedendo alla segnaletica procedevo verso l’uscita e, una volta ritornato in superficie, mi dedicavo all’esplorazione del quartiere in cui il caso aveva deciso di portarmi. A volte andava male. Il quartiere scelto poteva essere un quartiere dormitorio, il cui paesaggio era dominato da un’infilata di alveari per umani in un anonimo stile brutalista. Altre volte, invece, il caso regalava qualcosa. Come quando, girovagando per un piacevole blocco di condomini in stile liberty, m’imbattei in un pittoresco negozio che vendeva oggettistica rockabilly; una rarità per chi, come me, veniva dalla provincia profonda. Che andassero bene o male, quando l’orologio m’imponeva di tornare sui miei passi e ritornare sotto terra per rientrare in ostello, quelle esplorazioni mi lasciavano lo stesso qualcosa sulla pelle. Era una sorta di brivido, come una scarica elettrica che faceva drizzare i peli delle braccia. L’esaltazione o la spossatezza del giocatore d’azzardo che, almeno per un istante, aveva contemplato l’inebriante girotondo di infinte possibilità tutte ancora da attualizzare. Solo che la mia slot machine, in quei frangenti, era la metropolitana, un treno urbano che correva sotto la superficie della città, divorando le distanze senza che me ne accorgessi. La cosa più simile a cui potevo ricondurre quei viaggi senza meta era l’esperienza di una partita a Super Mario. I momenti in cui, ignaro di quel che potrebbe accadere, posizioni la figurina dell’idraulico sopra uno dei tanti tubi di cui sono costellati i livelli del gioco e pigi il tasto inferiore della croce direzionale per farla accucciare. Il tubo potrebbe essere un passaggio che conduce a un’area segreta del mondo di gioco, carica di tesori. Oppure a una scorciatoia, che può farti avanzare rapidamente verso il livello finale. Oppure, più spesso, essere bloccato e non portare da nessuna parte. La metro, che ‒ curiosa coincidenza ‒, si può chiamare anche tube (tubo), funzionava per me allo stesso modo. O meglio, ero io che la facevo funzionare così, perché il resto delle persone che condividevano con me quei viaggi sapevano alla perfezione dove stavano andando, quanto sarebbe durato il loro tempo sottoterra e, soprattutto, cosa avrebbero trovato una volta riemersi dalla rete metropolitana. > La mia slot machine era la metropolitana, un treno urbano che correva sotto la > superficie della città, divorando le distanze senza che me ne accorgessi. O almeno così pensavo. Magari, su quei treni, seduto a fianco a me o aggrappato a uno dei pali di sostegno, c’era qualcun altro che aveva deciso di scendere nella metropolitana per smontare a una fermata sconosciuta solo per provare il brivido di scoprire che aspetto aveva la città sopra di lui. Chissà, forse non ero solo. Non lo so; quello che so è che questi ricordi e le sensazioni a loro collegate e a lungo sopite nel mio cervello sono state riattivate dalla lettura di un saggio uscito qualche settimana fa per il marchio MachinaLibro dell’editore DeriveApprodi. Scritto dal giornalista culturale Luca Gricinella, Giù in metrò. Società, arti e culture è un libro dedicato a ricostruire il ruolo che la metropolitana riveste nell’immaginario contemporaneo e le influenze che essa ha esercitato su ogni forma di espressione. Dalla fotografia alla musica, dal cinema alla letteratura, fino alle arti performative, quello della metropolitana nell’immaginario collettivo è un ruolo caratterizzato da un ampio ventaglio di sfaccettature. Per poterlo raccontare in modo esaustivo, l’autore ricorre ‒ non potrebbe fare altrimenti ‒, a molte, diverse forme di scrittura: dall’autobiografia alla saggistica, dall’intervista al reportage, dalla recensione all’etnografia. A imporre questo stile ibrido è la natura stessa della metropolitana. Essa è infatti molte cose diverse allo stesso tempo. Prima di tutto è un mezzo di trasporto. Un treno che corre sottoterra grazie a un reticolo di gallerie. È grazie a questa caratteristica che permette a un vasto numero di persone di spostarsi rapidamente, percorrendo lunghe distanze. La costruzione dei primi treni metropolitani ha inizio alla fine del Diciannovesimo secolo. La prima vera linea meritevole di questa definizione è stata quella di Londra, che ha cominciato a operare il 10 gennaio del 1863. Ad avanzare la proposta di costruirla pare sia stato l’allora sindaco della capitale britannica, Charles Pearson, determinato a ridurre il caos insopportabile delle vie del centro, dovuto in parte anche alla mancanza di un interscambio diretto tra le stazioni ferroviarie londinesi. Da allora e fino agli anni cinquanta del Ventesimo secolo, la costruzione di reti di trasporto ferroviario metropolitano visse un periodo di forte e rapida espansione. Una crescita che non si limitò solo al numero di città che adottavano questa soluzione o alla lunghezza complessiva delle loro reti, ma che fu anche un progresso tecnologico. La metropolitana deriva dalla ferrovia, da cui mutua buona parte del suo apparato tecnologico. Tuttavia, le particolarità dello spazio in cui opera hanno fatto sì che questi impianti fossero oggetto di innovazioni, come il controllo della marcia dei treni e la guida automatica. > Giù in metrò è un libro dedicato a ricostruire il ruolo che la metropolitana > riveste nell’immaginario contemporaneo e le influenze che essa ha esercitato > su ogni forma di espressione. Oggi, i diversi tipi di tecnologia impiegati distinguono i sistemi di metropolitana, dando origine a molteplici categorie. Le metropolitane si distinguono così in base al loro tipo di guida, con o senza conducente; al tipo di rotaia usata, metallica o gommata; al tipo di sede, che può essere sotterranea, sopraelevata o di superficie; in base al genere di servizio, dunque pesante o leggero. Potrebbe sembrare una nota di poco conto, ma una parte dell’identità di ogni metropolitana nasce proprio dalle molte combinazioni possibili di queste tecnologie. Ruote e rotaie di quella di New York, racconta Gricinella nel capitolo a essa dedicato, continuano a essere entrambe di metallo, dando così origine al forte stridio che ne è diventato ormai un simbolo. Mentre i convogli automatizzati della linea lilla (M5) della metropolitana di Milano ‒ che attraversa la città da nord a nord ovest collegando lo stadio di San Siro con il capolinea di Bignami Parco Nord ‒ la rendono la linea più amata dai bambini. Seduto su uno dei seggiolini, l’autore li osserva con tenerezza correre verso l’ampia vetrata rivolta nel senso di marcia per potersi godere l’emozione di veder comparire la luce al fondo dell’oscurità del tunnel, mano a mano che il treno si avvicina a una stazione. Ma la metropolitana non è solo un mezzo di trasporto tecnologico, è anche uno spazio. Uno spazio molto particolare; un non luogo, per dirla con il concetto coniato dall’antropologo francese Marc Augé, che alla metropolitana ha dedicato Un etnologo nel metrò (1992), uno dei suoi testi più celebri. A renderla tale è la sua posizione sotterranea. Alla metropolitana si accede infatti attraverso un complesso sistema di soglie composto da scale, portali, tornelli, ascensori, rampe e diversi altri tipi di forme architettoniche. Attraversando i quali non ci si lascia solo alle spalle il mondo di superficie, si perdono tutti i riferimenti e le coordinate spaziali che rendono possibile orientarsi nello spazio. L’esperienza di un viaggio in metropolitana è un’esperienza straniante, durante la quale ci vengono sottratti i riferimenti cardinali a cui siamo abituati ad affidarci quando attraversiamo gli spazi di superficie. A meno di non possedere un’approfondita e inusuale conoscenza della rete e delle corrispondenze che essa ha con i punti di riferimento che scorrono sopra le nostre teste, è impossibile stabilire in quale direzione ci si stia muovendo quando si procede all’interno dei suoi tunnel. > Un viaggio in metropolitana è un’esperienza straniante, durante la quale ci > vengono sottratti i riferimenti cardinali a cui siamo abituati ad affidarci > quando attraversiamo gli spazi di superficie. Un compito per cui non troviamo aiuto nemmeno nelle mappe che rappresentano le diverse linee della metropolitana di una città. Se il modo in cui vengono rappresentate ricorda più uno schema elettrico che una carta geografica è proprio perché disegnare circuiti elettrici era il mestiere di Harry Charles Beck, la persona che ha inventato questo sistema di rappresentazione allo scopo di tracciare la mappa della metropolitana di Londra nel 1933. Ma prendendoci il tempo per guardarla con più attenzione e provando a smettere di attraversarne gli spazi frenetici come elettroni, e Gricinella ci sollecita a farlo con il suo libro, ci accorgiamo che la natura di non luogo ‒ anche Augé lo era nella sua definizione ‒ è molto meno netta e stabile di quanto possiamo pensare. L’antropologo francese specificava infatti che “ciò che per alcuni è un luogo, per altri può essere un non luogo e viceversa”. Scopriamo così che nella stazione di piazza Venezia della metropolitana di Milano ‒ che, è la città in cui l’autore del libro è nato e vive  ‒ esiste un grande spazio vuoto, un mezzanino appartato ma non inaccessibile, di cui si sono appropriate persone delle comunità sudamericane o asiatiche che lo utilizzano come sala prove per le loro coreografie collettive, in quello che Gricinella definisce “un esempio di spazio pubblico completamente in disuso che è stato ben sfruttato”. Oppure veniamo a sapere delle scorribande dei writer, che studiano le reti alla ricerca di varchi o passaggi incustoditi da cui calarsi all’interno dei tunnel della metropolitana per raggiungere i depositi dei treni e marchiarli con tag e graffiti. O, ancora, dalle parole di Gricinella impariamo come le carrozze dei treni metropolitani possano diventare il palcoscenico per un ampio ventaglio di artisti di strada: dai senzatetto che si improvvisano intrattenitori fino agli artisti affermati che usano la metropolitana come ispirazione per i propri lavori. > Guardando la metro con più attenzione, e provando a smettere di attraversarne > gli spazi frenetici come elettroni, ci accorgiamo che la natura di non luogo è > molto meno netta e stabile di quanto possiamo pensare. È il caso di Sara Pizzi, performance artist italiana che vive e lavora a New York, città dalla cui metropolitana si è fatta ispirare per lo spettacolo L Train, realizzato insieme ad Aida Takashima. Ispirato all’omonima linea della metro newyorkese, L Train, una coreografia di danza contemporanea, ha debuttato il 21 e 22 gennaio del 2022 al Green Space Theatre nel Queens e, oltre alla musica, conteneva annunci registrati della linea L e una narrazione recitata. Al centro di questo lavoro c’è il desiderio di parlare “di come la vita sia instabile, di come tutto cambi regolarmente senza che ce ne rendiamo conto, di quante persone abbiamo lasciato nella nostra vita, di quante persone dimentichiamo, di quanto siano imprevedibili le relazioni e di quanto sia facile sentirsi sostituibili. Tutte queste domande portano alla conclusione che la vita sembra come la linea del treno L: tutti vanno nella stessa direzione ma nessuno ha la stessa destinazione.” La linea L della metropolitana di New York collega Manhattan a Brooklyn con ventisette fermate. È stata la prima linea automatizzata della città ed essendo così lunga serve un considerevole numero di persone diverse, che si alternano sui suoi convoglia a seconda del momento della giornata. “Dalle sei alle otto” dice Pizzi, intervistata nel libro, > studenti, insegnanti, altri lavoratori. Dalle nove del mattino fino alle tre > del pomeriggio, tutti gli altri lavoratori con orari normali, senzatetto, > artisti, turisti. Dalle quattro fino alle sette del pomeriggio è il delirio: > fiumi di persone che tornano a casa dal lavoro e qui devi sgomitare tra > skateboard, animali, buste della spesa e borse per entrare nella carrozza e > sentirsi come una sardina in lattina. Dalle otto di sera in poi, invece, c’è > la gente che torna tardi o va a lavoro, a cena, a un evento, e te la ritrovi a > mezzanotte sullo stesso treno per tornare a casa ubriaca. Dalle due alle > quattro del mattino, infine, è quell’orario magico in cui non sai se stai > sognando o sei sveglio: tra carrozze vuote, o solo con senzatetto > addormentati, lavoratori della metropolitana o giovani adulti ubriachi, > l’unica cosa che si può temere è di addormentarsi e ritrovarsi all’altro capo > della città. Per quanto emblematica, quella testimoniata da Pizzi è solo una delle tante storie che Luca Gricinella raccoglie per raccontare cosa sia davvero la metropolitana e il legame che abbiamo con essa. Non soltanto un ambiente urbano, né un comodo per quanto affollato mezzo di trasporto. Vista attraverso la penna dello scrittore milanese, la metropolitana ‒ o metro, oppure metrò, alla francese ‒ si rivela per quello che è in realtà: un complesso oggetto culturale che, in virtù del fascino che le sue caratteristiche esercitano su di noi, occupa un posto di rilievo nel nostro immaginario e continua a rappresentare un luogo in cui storie personali, dinamiche di comunità, pratiche artistiche spontanee e marketing corporativo continuano a incontrarsi e influenzarsi le une con le altre, in quell’incessante lavorio creativo ed espressivo che siamo abituati a chiamare “cultura”. L'articolo Giù in metrò di Luca Gricinella proviene da Il Tascabile.
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Tutti famosi
I n Storia della fama. Genesi di otto miliardi di celebrità (2025), Alessandro Lolli, già autore del seminale La guerra dei meme. Fenomenologia di uno scherzo infinito (2017, 20202) torna a proporre la sua prospettiva sociologica, contemporaneamente rigorosa e idiosincratica, questa volta applicata alla fama. Si tratta di un tema indispensabile per comprendere la socializzazione virtuale, ma anche di una questione che in modi diversi ha attraversato tutte le società: per questo, una “storia” che parte dall’età antica, si sofferma a lungo sulla modernità e arriva infine all’oggi, una fase inedita, secondo Lolli, in cui quello che era un problema che riguardava pochi soggetti diventa affare di massa, con conseguenze immani per i soggetti stessi e, inevitabilmente, per la società. IL TUO LIBRO RICOSTRUISCE COME LA FAMA SIA DIVENTATA UN FENOMENO SEMPRE PIÙ CENTRALE NELLA SOCIETÀ. QUESTO COSA IMPLICA PRECISAMENTE? UN AUMENTO DI SPEREQUAZIONE RISPETTO A UN BENE SEMPRE PIÙ AMBITO O UNA DEMOCRATIZZAZIONE DI QUALCOSA DI ELITARIO PER DEFINIZIONE? La sperequazione della fama secondo me non sta aumentando. Anzi, prendiamo Kanye West e Taylor Swift, rispettivamente il cantante e la cantante più famosi al mondo. Mi sai dire i titoli di cinque canzoni di Taylor Swift? Probabilmente no. Saprai chi è, ne avrai sentite alcune (io ne so forse due). Mentre se ti chiedo titoli di Britney Spears, me li sai dire subito. Oggi le persone in cima alla gerarchia della fama sono meno famose che in passato, per via della targhettizzazione sempre più mirata che il pubblico riceve nei suoi consumi culturali. Certo, diversi famosi oggi riempiono ancora gli stadi e hanno tutto il loro seguito di fedeli, ma non sono più dei fenomeni di massa come potevano esserlo le popstar già solamente dieci o quindici anni fa, quando un’intera generazione guardava MTV. La nostra fruizione della musica allora passava per i media nazionali e le loro canzoni le sentivi per forza. Ora la fruizione passa per degli strumenti che noi addestriamo con i nostri gusti e Taylor Swift potremmo non averla mai sentita (cosa impossibile per Britney Spears a inizio anni 2000). Nessuno è più famoso come ai tempi di quella che definisco la fama paradigmatica. Oggi la fama ritorna cittadina: famosi di livello globale esistono ancora, tutti sanno i loro nomi, ma non ne abbiamo più una reale conoscenza come era un tempo. Quindi la sperequazione secondo me è diminuita, è aumentato invece qualcosa di diverso, ovvero il fatto che sia più facile mettersi nei panni del famoso. Sempre più persone nei panni di un microfamoso ci si sono trovate, tendenzialmente chiunque usi un social network – è questa la tesi del libro. Chiunque abbia i social ha già dovuto gestire degli hater, ad esempio, quindi è più facile l’identificazione. In passato tu, persona normale, quell’esperienza non l’avevi mai avuta. QUINDI MENTRE SI VA VERSO UNA CRESCITA ESPONENZIALE DELLE DISUGUAGLIANZE SUL PIANO ECONOMICO, LE ESPERIENZE CHE FACCIAMO A LIVELLO DI SOGGETTIVAZIONE DIVENTANO SEMPRE PIÙ SIMILI? O È SOLO UN’ILLUSIONE DATA DALLA SENSAZIONE DI LIVELLAMENTO CHE CONSENTE IL VIRTUALE, IN CUI TUTTI POSSONO AVERE UNA PAGINA FACEBOOK, IN CUI “UNO VALE UNO”? I social network si sono presentati in maniera un po’ truffaldina: ti dicevano “a cosa stai pensando?”, si spacciavano come un modo per parlare con i tuoi amici, per esprimerti, e invece erano uno strumento di disintermediazione potentissimo che dava quello che io chiamo “il palcoscenico”, prima verbale poi anche audiovisivo, in mano a tutti, e questa è chiaramente un’esperienza aliena a tutta la storia dell’uomo. Poi possiamo discutere se questo abbia un valore positivo o negativo. Però un pensionato di sessant’anni che scopre che si può fare i video invece di sbraitare al bar di fronte a chi lo sta sentire, magari tramite il passaparola riesce a sfondare (faccio l’esempio del pensionato come persona meno aderente ai linguaggi che ti permettono poi di provare a sfondare davvero conoscendo la logica del medium). Questa è di fatto una cosa democratizzante, o meglio, se democratizzare ha un significato è anche questo. Il post su Facebook, su Twitter e su Instagram per lungo tempo è stato veramente un modo di parlare con gente che bene o male ti conosceva. Eppure proprio lì ci siamo ritrovati tutti famosi, inconsapevolmente, e abbiamo cominciato a dover gestire nel nostro piccolo quel tipo di dinamiche sociali che prima gestivano solo i Ferragnez. Se hai il profilo pubblico arriva uno sconosciuto che ti conosce, magari ti chiede conto di qualcosa che hai fatto o detto altrove, e come fa a saperlo? Chi è questa persona? Un sacco di gente ha avuto queste esperienze ‘famogene’. Il giorno che prendi 100 like a un post e cinque condivisioni, arriva qualcuno che ti tratta letteralmente come un famoso. Ora esistono a tutti gli effetti dei famosi per nicchie, cioè persone che possono campare addirittura di quella fama lì, piccola e rivolta a una bolla. Questa cosa fino a vent’anni fa era completamente inimmaginabile perché la fama viaggiava su media di portata nazionale. E questo sta facendo qualcosa (che esce un po’ fuori dai confini del libro perché è più sul lato della ricezione) di radicale a quella che chiamiamo la cultura pop. Addirittura stiamo andando verso una impossibilità di parlare di cultura pop in senso pieno. Certo il valore accerchiante e centralizzante del mainstream esisterà finché esisteranno i media nazionali che vogliono che tu parli dei Ferragnez, ma in realtà il consumatore già si è abituato a un altro modello. Tipo: se sono un elettore di Calenda tra i 20 e i 25 anni non li guardo i Ferragnez, voglio vedere solo Shy e Rick Dufer. I Ferragnez li subirò con insofferenza, perché ormai siamo abituati ad un modello che è estraneo al concetto stesso di mainstream, cioè io non devo per forza sapere di Taylor Swift. Prima invece o sapevi di Celentano o non sapevi nulla della cultura in cui vivevi, cioè non c’era un famosetto alternativo fatto per te. E questo avrà delle conseguenze che toccheremo con mano a livello sociale tra qualche anno. Non subito, perché forme di mainstream ancora sopravvivono, ma prima o poi YouTube ucciderà definitivamente la radio e la TV. Esisteranno solo microcelebrità, non legate a un modello di iperspecializzazione di competenze quanto a una logica imprenditoriale. Mi spiego: poniamo che io sia un imprenditore che deve fare una ricerca di mercato. Non è che una pizzeria è sbagliata in assoluto aprirla. È sbagliato aprirla in quel quartiere, è sbagliato aprirla senza una unique selling proposition che ti differenzi dai tuoi più vicini competitor. Le persone che partecipano al gioco della fama, se vogliono sfondare, devono tenere conto di tutte queste cose: io chi sono?  Poniamo che io sia un cantante indie: cosa devo cantare, chi sono i miei competitor, come devo rappresentarmi, presso quali fasce? Fare arte diventa molto più simile a un’indagine di mercato, come decidere in che quartiere aprire il mio esercizio commerciale. Il livello di consapevolezza riguardo a questo è la distinzione che io traccio tra social network e social media. Il primo creava fama in modo inconscio e non intenzionale, mentre le piattaforme di social media richiedono un’intenzionalità che è paragonabile esattamente all’imprenditorialità. Già nel momento in cui apri un canale YouTube ragioni come un imprenditore, che deve arrivare a un pubblico, crescere, eccetera. Cioè ragioni come un imprenditore o anche come un artista: qualcuno che fa una proposta sapendo che la sopravvivenza della stessa è legata alla ricezione che avrà. Diversamente dai social network, nel social media tu stai consapevolmente accettando le regole del gioco, sai di stare davvero salendo sul palco, stai facendo davvero una cosa che è fatta per gli altri, per i non conoscenti, per la fama. E si va sempre più in quella direzione. NELLA TUA RICOSTRUZIONE STORICA NON A CASO CERCHI DI FAR VEDERE COME IL DESIDERIO DI FAMA SIA ANCHE INDOTTO. NON È SOLTANTO UNA QUESTIONE PSICOLOGICA, È FORZOSAMENTE GENERATO DA UN SISTEMA PRODUTTIVO. SIA, COME SPIEGHI BENE, TRAMITE IL DESIGN DELLE PIATTAFORME, SIA PER IL FATTO CHE NELL’ECONOMIA POSTINDUSTRIALE “DIVENTARE QUALCUNO” (O DIVENTARE UN BRAND) SEMBRA UNA DELLE POCHE STRADE DISPONIBILI PER GUADAGNARSI DA VIVERE: SENZA QUELLA RICONOSCIBILITÀ SI VALE QUANTO UN’INTELLIGENZA ARTIFICIALE. A FRONTE DI QUESTO, NON È POSSIBILE CHE L’ANONIMATO SIA DIVENTATO UN PRIVILEGIO? NON A CASO MOLTI MILIARDARI VIVONO IN UN ANONIMATO QUASI COMPLETO. TUTTI DESIDERANO NECESSARIAMENTE I RIFLETTORI OPPURE IN REALTÀ LAVORARE DIETRO LE QUINTE (CON UNO STIPENDIO SERIO), POTER CONDIVIDERE LE PROPRIE OPINIONI SOLO CON LE PERSONE CHE TI INTERESSANO INVECE CHE SUI SOCIAL, NON SENTIRSI COSTANTEMENTE OSSERVATI PUÒ AVERE UNA SUA ATTRATTIVA, MA SI SENTE DI NON POTERSELO PIÙ PERMETTERE? Ha assolutamente la sua attrattiva, infatti quello della fama è un potere di seduzione che potremmo definire satanico. Prendiamo appunto la figura del miliardario che si può permettere l’anonimato. Magari su Internet ha una pagina istituzionale oppure non è proprio mai diventato una figura pubblica, però è un qualcuno che secondo me in qualche momento nella sua vita questa cosa l’ha incontrata, ed ha capito sulla sua pelle quanto gli poteva far male. Eppure anche lui è suscettibile a un’offerta di questo tipo – come quando Trump va da Musk e gli dice “senti, vuoi fare il mio braccio destro?”. Non è detto che i soldi che ha siano una motivazione sufficiente per rifiutare quel livello di esposizione lì, con tutti i suoi pro e contro. Infatti nel libro cito Houellebecq che in Le particelle elementari sostiene, erroneamente, che le rockstar siano più ricche di banchieri e imprenditori. Di fatto non è così, eppure, comprensibilmente, la vita della rock star gli appare molto più invidiabile di quella di un miliardario anonimo. A dispetto dei soldi. Questo passaggio secondo me è fondamentale per la contemporaneità: in passato se eri famoso, nel senso proprio del termine, eri anche almeno benestante, perché voleva dire che avevi avuto accesso alla carriera propriamente detta della fama, quindi eri un cantante, un politico, uno scrittore affermato, eccetera eccetera e quindi avevi anche soldi. Oggi questa unione tra i soldi e la fama si è slegata. Ci sono delle persone, ad esempio una mia amica che fa l’influencer da 100.000 followers e rotti, che non ha manco i soldi per piangere perché non ha mai fatto advertising. Lei è una forza culturale significativa nel suo ambiente, un’influencer politica, ha un’esposizione che però non si traduce in soldi. Questo anche per via delle sue scelte etiche, ma pure se le avesse tradite forse si faceva al massimo uno stipendio da entry level, se cominciava a fare le pubblicità degli shampoo con la falce e il martello… Eppure lei è una che ha influenza, ha fama, ha potere sulla cultura, viene riconosciuta in tanti ambienti. Quindi come tante figure simili vive tutti gli aspetti della fama, ma non riceve la proporzionalità che ti aspetteresti in denaro. La seconda caratteristica tipica del contemporaneo è che paradossalmente questo non rende una persona come questa influencer meno invidiabile. Ti faccio un esempio: preferiresti 100.000 like o 100 €? Tra 100.000 like e 100 € secondo me tutti sceglierebbero i like. Se sei un imprenditore molto ricco e però sei poco attraente, le donne magari ti cercano ma solo perché gli fai fare la bella vita nelle terrazze di Dubai, non sei un vero oggetto del desiderio. Al contrario, se sei famoso stai su un palco, tutti ti guardano, tutti vorrebbero averti o essere te, insomma è una forma di amore. Quella è la cosa più ambita. Forse è un amore falso, ma a me non interessa giudicare: dovrei diventare moralista e il mio non voleva essere un testo moralista, cerco di descrivere la fama fino a un punto in cui tu lettore puoi trarre tutto il tuo giudizio. Quello che interessa a me è constatare che quell’amore lì ha un potere di seduzione fortissimo. LA TUA ANALISI È MOLTO OGGETTIVA INFATTI. NON GIUDICANDO MAI I MECCANISMI PSICOLOGICI CHE SONO ALLA BASE DELLE RELAZIONI FAMOGENE PERÒ SEMBRI IMPLICITAMENTE NATURALIZZARLI, CONSIDERARLI INEVITABILI. NON DISCUTI AD ESEMPIO LA GRATIFICAZIONE GARANTITA DALLA FAMA, COME SE FOSSE OVVIO CHE CHIUNQUE NON POSSA CHE AMBIRVI. DIRESTI CHE LA FAMA LOGORA CHI NON CE L’HA? La fama è un potere, qui inteso non come un’istituzione, ma come una cosa che agisce sull’animo, e se vogliamo dare un nome preciso a questo potere è un amore senza volto, quello che si riceve dal pubblico, l’amore della folla anonima. Quindi è un amore degenerato, ma rimane un amore, cioè un riconoscimento. Certo, ha un valore puramente quantitativo: la fama si caratterizza proprio in questo rispetto a tutte le altre relazioni, quelle relazioni che non sono famogene perché io so con chi sto parlando e da chi vengo riconosciuto, da chi vengo validato, da chi vengo amato, da chi vengo odiato. Si ha un rapporto di fama quando io non so queste cose, quindi ciò che conta è solo il numero. Intendiamoci, la fama logora anche chi ce l’ha. Ma il fatto è che la fama può essere negativa, positiva, o anche, e questo è cruciale, troppo ristretta rispetto al tuo sforzo: nel momento in cui giochi a quel gioco, puoi decidere di uscirne a causa della delusione. Raramente comprendi in maniera morale e spirituale che questa cosa ti sta facendo del male, più spesso comprendi che hai fallito a quel gioco e che continuarlo vuol dire esporti sempre di più alla percezione di un fallimento. Quel bisogno di validazione non può che aumentare esponenzialmente: lo disse una volta Gipi, una persona che non cito nel libro ma che avrei dovuto perché da quindici anni in ogni intervista parla proprio di questo. La prima volta che lo vidi dal vivo, a una presentazione nel 2013, parlò di quando divenne famoso. In effetti fu il primo fumettista italiano a raggiungere quei livelli di fama, ben prima di Zerocalcare; se ricordi andò dalla Bignardi nel 2008, è lì che si è cominciato a parlar di graphic novel, a nobilitare il fumettista come artista eccetera. Parlando di questo lui parlava di applausi, che oggi chiameremmo like. Diceva che nel momento in cui ne hai presi 100.000, il buco che hai dentro ora vale 100.000. Quando ne prendi “solo” 1.000, quindi, ti senti vuotissimo. Se non ne avessi mai presi né 100.000 né 1.000, ne prendi 100 e sei supercontento. Insomma sviluppi un’assuefazione alla fama, come con una droga, e quindi più hai un riconoscimento, più hai bisogno almeno di quella soglia là, tutto il resto è un fallimento. Quindi è questo, secondo me, più che un motivo moralistico stile “ho capito che questa è una via sbagliata” a far sì che la gente si chiami fuori. Tante persone si ritirano come coping per un fallimento percepito: mi convinco di non valere più nulla, quindi non vale neanche più la pena stare qua a provarci. Tanto vale che faccio la vita vera. NELLA SUA PREFAZIONE, FRANCESCO PACIFICO PARLA DELL’UMILIAZIONE CHE STA DIETRO A TUTTO IL MECCANISMO DELLA FAMA, LA CHIAMA UNO “SQUALLIDO IPEROGGETTO”, UN PO’ COME CHRISTOPHER LASCH NEL SUO FAMOSO LA CULTURA DEL NARCISISMO NEL SOTTOTITOLO PARLAVA DI “UN’EPOCA DI DISILLUSIONI COLLETTIVE”, SVELANDO INSOMMA LA POCHEZZA UMANA, SOCIALE E RELAZIONALE DI CUI IL NARCISISMO ERA UNA CONSEGUENZA PRIMA CHE UNA CAUSA. PERÒ POI LEGGENDO IL TUO LIBRO TU SEMBRI INTERESSATO, PIÙ CHE A DECOSTRUIRE LA FAMA E IL BISOGNO DI FAMA, A SVELARNE IN MODO UN PO’ DIALETTICO IL MECCANISMO DESIDERANTE CHE VI SI ESPRIME. AD ESEMPIO, RICONOSCI CHE NEL FAN C’È UN DESIDERIO MIMETICO E UNA VOLONTÀ DI IDENTIFICAZIONE, MA INSISTI PIÙ CHE ALTRO SUL DESIDERIO ESPLICITAMENTE EROTICO CHE RENDE TALE IL FAN. Perché il desiderio erotico è l’ultimo passo prima dell’identificazione. In questo senso è fondamentale la figura della groupie, cioè il fan che si risolve fin dove si può risolvere, perché il rapporto sessuale è questa unione di due corpi, il momento in cui non potresti essere più vicino di così a una persona (che non conosci davvero): qual è la cosa più forte che puoi fare con chiunque? Farci l’amore, no? Con chiunque con cui non hai un altro rapporto invece molto più mentale e spirituale. E quindi sì, quella è la forma che prende nel momento in cui provi ad attualizzarla. L’identificazione invece è un meccanismo psicologico ancora precedente: una delle forze che ci spingono ad ammirare qualcuno di così distante è mettersi nei suoi panni. Questo emerge spesso in tutta quella serie di produzioni testuali che sono la difesa del famoso da parte del fan. C’era un giornalista del Foglio di cui non farò il nome, che per anni ha difeso strenuamente quasi ogni settimana nella sua rubrica i Ferragnez. Se la prendeva con “gli invidiosi” che li criticavano, difendendoli con i soliti argomenti: “tu non sei nessuno, loro stanno a fare i soldi, guarda che bella vita”. Lo muoveva un meccanismo di pura identificazione. Se vuoi, anche di sopravvivenza: se io non sto dalla tua parte, tu mi schiacci. Lui si stava ponendo direttamente nel salotto dei Ferragnez per usare quella violenza contro quelli che in realtà erano molto più simili a lui. Ed è qualcosa di diverso dalla cortigianeria, perché è una cortigianeria tutta proiettiva, immaginaria: che io sappia lui non ha mai avuto davvero accesso alle prebende dei Ferragni, è tutta una difesa psicologica, preventiva. Se io con la mente non mi metto nella parte del rosicone, del perdente, vuol dire che sono un vincente. Voi in questo momento state subendo questo potere che riconosco schiacciante, proprio per questo io devo stare dalla parte del potente. Devo dire “ma guarda che sfigati, che passano il giorno a criticarli mentre loro fanno la bella vita”. Mentre mi esprimo così, io sono già accanto a loro, ai potenti. Non sono tra le schiere dei rosiconi, perché l’ho appena detto, che io no, io non rosico. E questo nell’atteggiamento della difesa del famoso è secondo me la forza principale, lì proprio si vede come si struttura questa cosa: come un asservimento di fronte a questo potere di cui si riconosce la forza. Quanto più riconosci il potere schiacciante del famoso, tanto più ti inchini, diventi un fan. Come dico nel libro, sia essere hater che essere fan sono due modi di difendersi. Se fai l’hater (che è la cosa forse più naturale di fronte a un potere che riconosci come tale), stai anche ammettendo che ti sta facendo del male, cioè che tu rispetto a lui non sei nessuno, cioè stai ammettendo questa differenza. Se invece ti dici “no no, loro fanno bene, io sono con loro, anzi, hai visto come fanno rosicare gli altri”, stai vaneggiando di essere non solo con loro ma come loro, quindi non toccato da questi sentimenti qua, di inferiorità e invidia. QUESTO SPIEGHEREBBE ANCHE QUELLA DINAMICA A CUI ACCENNI SECONDO CUI NON DESIDERIAMO SOLTANTO ESSERE FAMOSI, MA DESIDERIAMO ANCHE AVERE QUALCUNO DI FAMOSO DA AMMIRARE DA LONTANO. IL FAN PUÒ SICURAMENTE AVERE UN SACCO DI RISENTIMENTO, MA POTREBBE COMUNQUE PREFERIRE AVERE DEI RAPPORTI FAMOGENI CON DEI MODELLI PIUTTOSTO CHE AFFRONTARE UNA DISILLUSIONE RISPETTO A QUESTI MITI. INSOMMA ABBIAMO BISOGNO DI AUTORITÀ? Senz’altro, le persone vogliono qualcuno che le guidi proprio perché non ci sono più tre partiti e una chiesa, e magari quattro o cinque famosi che ne incarnano le visioni, a dirti cosa fare. Adesso le figure che ammiri e che prendi a modello sono delle celebrità di nicchia, qualcuno che incarna un tuo flavour di personalità, che ha gli interessi tuoi, che ha una visione morale tua… tua o sua: chi è stato il primo a contaminare l’altro non si sa più. L’ho scelto perché mi corrispondeva o ho iniziato a modellarmi su di lui? Io non credo che questa funzione scomparirà, anzi questa funzione diventerà ancora più forte, come il tuo legame di vicinanza con l’autorità che ti sei scelto. Il tuo Shy di Breaking Italy funziona molto meglio di Pippo Baudo, perché è fatto su misura: è comunque grande, di quella grandezza necessaria per funzionare come un modello, come padre, come maître à penser, però hai l’illusione (che poi non è un’illusione) che l’hai scelto tu, cioè che è comunque qualcosa di coerente col tuo percorso di vita. Prima, una persona alla TV aveva il conduttore di centrodestra, quello democristiano, quello comunista, e tra questa rosa limitata aveva molta più facilità a dire “quello non mi rappresenta, mi è stato calato dall’alto e quindi sì, sono un po’ più d’accordo con quello piuttosto che con quell’altro”, ma se io invece mi sono scelto il mio influencer, l’adesione diventa totale. Questo spiega anche molto astensionismo, la morte della politica rappresentativa: la gente non è più abituata a scendere a compromessi. Certo, ci sono ancora personalità come Trump e Berlusconi che hanno qualcosa che sfugge a questa logica, cioè non sono amati per le singole questioni che condividi con loro, ma per un carisma eccezionale. Nati per ammaliare il prossimo, che sia una tavolata o una nazione intera. Loro sono dei veri e propri famosi nel senso del divismo. Ma sono rari: la “taylorizzazione” (nel senso di “taylor made”, fatto su misura) dei consumi culturali, politici, spirituali, chiamali come vuoi, insomma il fatto che io fruisco la cultura in una maniera sempre più personalizzata, è ciò che fa sì che nessun partito mi rappresenti. I partiti sono dei pachidermi novecenteschi, che non sono pensati per me. Devono prendere un bacino elettorale e quindi avere molta più ampiezza e meno precisione, mentre siamo ormai abituati a un rispecchiamento molto più preciso. EPPURE TU SOSTIENI, A RAGIONE TROVO, CHE, A DISPETTO DI CHI PARLA DI INDIVIDUALISMO, A CAUSA DELLA TECNOLOGIA SIAMO SEMPRE PIÙ MEDIATI E PIÙ SOCIALI: LE PERSONE DIPENDONO COSTANTEMENTE E SEMPRE DI PIÙ DA UN FEEDBACK ESTERNO, IN UN CERTO SENSO SONO MENO ISOLATE E MENO AUTONOME DI UN TEMPO, PARADOSSALMENTE. E IL RISCHIO CHE FAI INTRAVEDERE IN QUESTO RAPPORTO DI CONTROLLO SOCIALE È, INEVITABILMENTE, IL CONFORMISMO. Esatto, sono convinto che la nostra società sia molto più conformista di quelle del passato. La società tradizionale aveva appunto queste agenzie morali, come la Chiesa e lo Stato (al massimo incarnate in alcune voci che ne facevano le veci, ad esempio la famiglia), che erano più rigide ma erano poche, individuabili, e distanti. Qua invece tu sei conformista in ogni momento in cui ti esprimi sul social network proprio per via del feedback costante. In ogni momento ricevi approvazione o disapprovazione. Il social network poi funziona anche tramite bolle, che sono ambienti dei quali conosci già gli orientamenti e le opinioni: tu già prima di ragionare su un tema conosci i posizionamenti dei tuoi pari, hai già in testa questa mappa di opinioni. Per dirla in maniera positiva, diciamo, hai già la società dentro di te, con tutto quello che comporta, di bene e di male. E di male comporta un’autocensura preventiva, una riduzione proprio della libertà di pensiero. Come diceva William James, “molte persone credono di pensare invece riordinano i propri pregiudizi”, e oggi molte persone credono di pensare invece riordinano le voci altrui nella loro testa. Cercano di farle combaciare con la loro percezione del mondo. È una cosa che vivo su me stesso e che vedo molto spesso nella forma che prendono talvolta certe prese di posizione, piene di mani avanti, di considerazioni preliminari… INSOMMA TU LAMENTI UNA CARENZA DI INDIVIDUALISMO, PIUTTOSTO CHE DENUNCIARNE L’ECCESSO COME È ORMAI CONSUETUDINE FARE. E UN ALTRO PUNTO CHE FAI AL RIGUARDO È QUELLO SULLE IDENTITY POLITICS. La critica che si fa spesso alle identity politics da sinistra (in uno spettro che va dalla sinistra estrema all’area rosso-bruna o comunitaria/tradizionalista) è che sarebbero individualiste, espressione dell’ideologia della società delle merci, trionfo del capitalismo, come gli influencer insomma. Ora, il problema è che l’individualismo non è una posizione dell’ego, è una teoria filosofico-politica, e se noi la applichiamo a influattivisti ispirati alle identity politics capiamo che in realtà queste ultime hanno come presupposto proprio la scomparsa dell’individuo: la persona parlante non è un individuo ma è membro di una o più comunità oppresse, e solamente in virtù di questa appartenenza prende parola ed è legittimato a esprimersi. Cosa che peraltro chiunque aderisca a questa visione rivendicherebbe: non sono individualisti, sono collettivisti (di tanti collettivi – è questa l’intersezionalità). Ogni soggettività è formata da una serie di linee di oppressioni, di situazioni per le quali una volta sei nel gruppo privilegiato e una volta nel gruppo oppresso. Io sono convinto che non sia una teoria individualista, e come ti dicevo sono convinto che lo pensino anche quelli che la professano. Quello su cui forse avrebbero da ridire è il fatto che questo loro modo di pensare ben si accorda anche alla logica dei social, dove infatti c’è sempre una persona che sta parlando e che gode di quella esposizione e di quella pubblicità ma è legato all’altro lato, alla comunità perché tutto il suo valore è misurato dalle reaction e dai follower che prende. Cioè l’influencer si esprime per cercare di cogliere un riscontro che è immediato, verificabile, numerico come non lo è mai stato prima nella storia, neanche ai tempi delle hit parade. Lì al massimo potevi ipotizzare che una canzone fosse andata male per via di alcuni motivi che comprendevi a posteriori, invece il sistema del social media ti dà delle metrics precise. Ecco, la soggettività che si espone su un social media è una soggettività molto fragile, che si mette in mano agli altri, le sue parole contano quanto quest’altra collettività le fa contare. E quindi secondo me non solo non sono individualiste filosoficamente proprio alla base le politiche identitarie, ma non è individualista neanche l’utente tipo di un social media: è troppo legato al giudizio altrui, non ha nulla di quella teoria dell’individuo che si differenzia da una società ed è portatore di diritti e di valori a sé propri… Che poi anche questa possa essere una finzione è un altro discorso, ma è una finzione in cui alcune persone si riconoscono e pensano che il mondo dovrebbe essere formato appunto da individui non da pecore. Un social media ti rende egoista, perché ti nutre l’ego quando prendi quelle reazioni, ma non un individualista. RISPETTO A CHI PENSA CHE LE POLITICHE IDENTITARIE SIANO UNA RISPOSTA O UNA REAZIONE ALL’ALT-RIGHT, TU LE LEGGI COME INVECE UNA “RISPOSTA ALLA NEVROSI DELLE SINISTRE STORICHE”. Dico che secondo me sono una filiazione della sinistra. Tra la critica poniamo di un Fusaro o di uno Zhok che le associa all’individualismo e quella di un Jordan Peterson che parla di marxismo culturale, penso che abbia ragione quest’ultimo: è un marxismo che chiaramente perde la centralità della classe, ma ne acquista tot altre che si articolano allo stesso modo. Riprende cioè dal marxismo questa struttura secondo cui c’è una parte della società che opprime e sfrutta e una parte della società che è oppressa e sfruttata. Il marxismo però ha in sé, secondo me, anche l’universalismo, perché il punto è l’abolizione delle classi, l’obiettivo è un mondo in cui non viene più sfruttato nessuno. Se applichi questo discorso alla razza o al genere bisogna capire cosa vuol dire l’abolizione di razza e genere come strutture simboliche. Lì spesso diventa molto più forte la variante operaista del marxismo, in cui una parte che si riconosce come oppressa (in quanto neri, in quanto donne, in quanto gay…) si pone come primo obiettivo il conflitto e la distruzione della controparte. Cosa che poi, calata nella realtà dei fatti, si trasforma semplicemente nel pretendere da questa controparte un tornaconto, fosse anche una visibilità. Anche qui Jordan Peterson non sbaglia nell’individuare questo meccanismo che lui, semplificando, chiama tribalismo. SOSTIENI CHE LA FAMA NON È UN RAPPORTO DI PRODUZIONE, MA DI CONSUMO. C’È CHI CI SI MANTIENE PERÒ. IN MODO MOLTO DIRETTO, AD ESEMPIO, TRAMITE ONLYFANS, COME RACCONTI BENE NELL’ULTIMO CAPITOLO SUL FUTURO DELLA FAMA. UN CASO EMBLEMATICO PER CHIEDERSI CHI COMANDA DAVVERO NEI RAPPORTI DI FAMA: IL FAMOSO (PIÙ POTENTE DEI FAN), O I FAN (DA CUI IL FAMOSO DIPENDE PER ESSERE TALE)? OnlyFan è paradigmatico perché svela che ogni rapporto di libero professionismo è prostituzione. Il famoso stereotipico è un artista che se può fare quella cosa come carriera, come sostentamento, è perché è letteralmente un venduto, perché è una persona che vende quella cosa lì ed è dipendente da un acquirente. Nelle interviste spesso emerge che tipo di rapporto ha con i suoi acquirenti, ovvero con i suoi fan: li odia. Li odiano sia Noyz Narcos sia le Onlyfansers, perché sono delle persone con cui non hanno nessun rapporto, mentre i fan hanno un rapporto completamente fantasmatico con loro, e loro sanno di esserne dipendenti. Dipendenti però non dal singolo fan, bensì dal fan collettivo, quindi quando il fan dice “ti boicotterò” pensa di avere un potere che non ha, perché non ha un sindacato, non è organizzato come un corpo collettivo. Marx spiega bene come i rapporti diseguali e sproporzionati possono essere resi dialettici se quella massa di singole persone che producono plusvalore si organizzano. Le opere di boicottaggio collettive possono funzionare in questo senso. Quindi in un certo senso la cancel culture è un atto sindacale: la cancel culture riuscita è una protesta dei fan che nella loro indignazione etica nei confronti di un famoso formano questo sindacato. Certo, è la folla linciante girardiana, ma è anche un sindacato, cioè è una forza talmente grande da impattarti sul serio ‒ e infatti il famoso si rende conto che deve rendere conto: farà ad esempio la pubblica scusa, dovrà ritrattare, insomma, deve farci i conti in qualche modo. Questa asimmetria si inverte solamente nel momento in cui tu hai a che fare con il tuo fan collettivo. Questo perché il famoso vale di più di un non famoso. Ma l’operaio l’ha sempre saputo in qualche misura che lui singolarmente per la Fiat non vale nulla, e che vale solamente se è organizzato, il fan lo sa un po’ di meno. Avendo questo rapporto emotivo con il famoso, vive un’illusione di mutuo riconoscimento, di reciprocità. C’È QUALCOSA DI POLITICO QUINDI IN QUESTA INDIGNAZIONE PUBBLICA E COLLETTIVA? La call out culture, cioè il momento inaugurale della cancel culture, il momento in cui la gente si indigna perché un famoso ha fatto qualcosa di sbagliato o qualcosa che è percepito come tale, è qualcosa di più della sanzione di un uso illegittimo della fama. Al famoso viene rimproverato non solo ciò che ha detto e pensato, che sì, è anche sbagliato in assoluto, ma è davvero sbagliato perché lui ha un seguito: lui è responsabile di tutto quel following che ha. C’è qualcosa di molto profondo che emerge in alcuni episodi di tentata cancellazione: quando si comprende che forse il fatto in sé non era così grave ma lo diventa perché quella persona è così famosa, la folla di fatto si sta vendicando della fama; quello che sta facendo pagare al famoso di turno è il fatto stesso di essere famoso. Si arriva così a un certo punto in cui cade la maschera. Le persone rivelano di essere oltraggiate dal potere arbitrario che questa persona ha, che non può essere giustificato dal fatto che è un grandissimo attore e quindi può anche influenzare nel bene e nel male. Il problema non è che non puoi influenzare nel male, si arriva a un certo livello del ragionamento collettivo secondo cui non li potresti influenzare neanche nel bene: il potere, la visibilità, il follow che hai non è assurdo solo il giorno che sei ubriaco e scrivi la N word su Twitter, è assurdo anche tutti gli altri giorni in cui non la scrivi. Se la dice mio nonno a Natale, infatti, non è così grave come se la dice Manuel Agnelli. Quello che tu imputi a Manuel Agnelli non è tanto che l’ha detta, ma che l’ha detta di fronte a 100.000 persone. E se semplifichi i vari termini di questo discorso come se fosse un’equazione, ti rendi conto che non c’è nulla che lo legittimi neanche quando dice il giusto. Non c’è un mandato popolare che qualcuno gli ha dato per dire il giusto, quindi nel momento in cui dice qualcosa di sbagliato, dici “ma perché questo sta qua?”. In molti casi il punto passa dall’uso illegittimo del potere alla stessa legittimità di questo potere. Sei stato irresponsabile, ma questa responsabilità perché ce l’hai? Associare fama e merito (“ce l’hai perché hai tanti follower, e li hai perché sei bravo”), è un discorso che arriva come razionalizzazione di una violenza che inconsciamente il follower sa di stare subendo. Questo discorso razionalizzante in cui ciò che è reale è razionale ed è giusto e viva così, durante tutto il Novecento viene messo in discussione. Per gli antichi la fama era un attributo che veniva già a chi se l’era meritato, perché era una persona carica di responsabilità, era un governante, cioè aveva una legittimazione ulteriore. Nel corso della storia della fama, tutti abbiamo capito che la fama può essere arbitraria, cioè che un famoso può essere stato semplicemente graziato dal Signore. Magari ha avuto una mezza idea buona, però la verità, quello su cui si basa tutto questo potere, è che ti sei trovato alla fine al posto giusto al momento giusto. La storia della fama è anche una storia di come è cresciuto questo sospetto nei confronti della fama: tutti oggi abbiamo una qualche cognizione del fatto che nessuna fama è pienamente legittima, pienamente meritata. L'articolo Tutti famosi proviene da Il Tascabile.
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M illenovecentonovantadue. “Lo stile di vita americano non è negoziabile” afferma perentorio George W.H. Bush al Summit della Terra, dando così inizio anticipato al ventunesimo secolo. Mike Judge ha trent’anni e ha appena venduto Frog Baseball, il suo primo cortometraggio animato, a MTV. Quell’american way of life sbandierata da Bush lo ossessionerà per tutta la sua carriera di animatore, sceneggiatore e regista, fino a diventare il centro gravitazionale di tutto il suo universo comico, in equilibrio precario tra sarcasmo e barbarie. Nei due minuti e cinquantotto secondi di Frog Baseball esordiscono i suoi personaggi più celebri, Beavis e Butt-Head, due giovani metallari perdigiorno che seviziano degli animali in modi molto creativi alternando le violenze ai riff, cantati a cappella, di Iron Man dei Black Sabbath e Smoke on the water dei Deep Purple. Con l’arrivo del corto su MTV, Mike Judge entra di fatto nel rooster della mitologica Liquid Television, un carosello di short animati a cui devono la propria fama diversi altri capolavori dell’animazione come Æon Flux o Brad Dharma, Psychedelic Detective. Nato a Guayaquil in Ecuador, nel 1962, da madre bibliotecaria e padre archeologo, a tre anni Mike si trasferisce con la famiglia in una fattoria ad Albuquerque, nel New Mexico. Finito il liceo si sposta a San Diego dove ottiene una laurea in fisica alla University California San Diego nel 1985. L’anno successivo inizia a lavorare a Santa Monica, nella ruggente Silicon Valley, in un’azienda che produce schede video per computer, tre mesi dopo si licenzia. Per diversi anni suona come bassista in oscure blues band texane mentre segue un corso di specializzazione superiore in matematica all’università del Texas. È in questo periodo che comincia a cimentarsi con l’animazione. Crea il suo primo corto: Office Space, in cui appare come protagonista Milton, un impiegato frustrato che, tra un’angheria e l’altra del capo, balbetta tra sé di voler dar fuoco all’azienda; ai tempi doveva probabilmente apparire come una versione punk e apocalittica di Dilbert, la celebre striscia feriale di Scott Adams. Riesce a presentare il corto in un festival di animazione a Dallas e Comedy Central lo acquista. Nel giro di qualche anno Office Space, rinominato Milton come il suo protagonista, diventerà un siparietto fisso nel Saturday Night Live. Nel frattempo Judge lavora per espandere le avventure dei due protagonisti apparsi in Frog Baseball, dando vita all’omonima serie, Beavis and Butt-Head, che dal 1993 va in onda su MTV, divenendo la risposta hardcore punk del network al recente successo dei Simpson di Matt Groening. Nel giro di qualche puntata si conferma una delle serie animate per adulti di maggior successo negli Stati Uniti, archetipo, insieme all’opera di Groening di una nuova forma di animazione per adulti, che verrà sviluppata da South Park (1997) e dai Griffin (1999). > La serie di animazione Beavis and Butt-Head di Mike Judge, che dal 1993 va in > onda su MTV, diviene la risposta hardcore punk del network al recente successo > dei Simpson di Matt Groening. Nel 1996 Judge si confronta con il cinema, scrive e dirige il film d’animazione Beavis and Butt-Head do America in cui partecipano anche star umane come Bruce Willis e Demi Moore. Sessantatré milioni di dollari al box office. L’anno successivo ritorna in TV con una nuova serie, King of the Hill, scritta insieme a Greg Daniels (The Simpson, The Office, Park and Recreation), che continuerà ad andare in onda su FOX per una decina di anni. Mentre il successo gli sorride, Judge decide di abbandonare per la prima volta l’animazione e confrontarsi con un film live action, il remake di un’opera di animazione realizzato con attori reali. Scrive così la sceneggiatura per un lungometraggio ispirato alla sua serie di corti ambientati in ufficio. Riproposto con il suo nome originale, Office Space esce nei cinema nel 1999 ed è un fiasco, rientra appena delle spese di produzione (dieci milioni contro i dodici guadagnati). Il film è l’occasione per riproporre molte delle gag della serie animata originale calandole in una inedita cornice politica, quasi sindacale. Peter Gibbons, il protagonista e collega di Milton, è anche lui un impiegato frustrato della Initech, una software house texana. Insofferente al suo monotono lavoro d’ufficio e costantemente sopraffatto dai rimproveri passivo-aggressivi dei suoi otto capi, Peter viene convinto dalla sua ragazza a intraprendere delle sedute di psicoterapia. Seduto sulla poltrona confessa allo psichiatra che da quando ha iniziato a lavorare “ogni singolo giorno della mia vita è stato peggiore di quello precedente; questo significa che ogni singolo giorno che ci incontriamo qui, quello è il giorno peggiore della mia vita”. Il dottore, impressionato dalla sua tristezza, gli propone un percorso di ipnosi, ma durante una delle sedute, mentre cade in trance con la proposizione di “ignorare tutte le sue preoccupazioni riguardo il suo lavoro, fino a quando non schioccherò nuovamente le dita”, lo psichiatra muore per un attacco cardiaco. Peter, ancora incosciente, torna a casa e si risveglia il mattino successivo in uno stato di inedito benessere. Niente è cambiato tranne che, nonostante non si sia presentato a lavoro, gli infiniti messaggi del capo nella segreteria telefonica non lo turbano più. Comincia così a ignorare completamente le preoccupazioni per il lavoro e la sua vita si riempie nuovamente di senso: chiude la sua vecchia relazione in costante crisi e chiede di uscire alla ragazza che ammirava da tempo. Ottiene addirittura una promozione al lavoro quando impressiona una coppia di headhunter, chiamati a efficientare l’azienda, confessando di “lavorare appena quindici minuti ogni giorno e il resto del tempo fissare la sua scrivania” e che proprio alla struttura dell’azienda si deve la sua totale assenza di motivazione sul lavoro: “Ho otto capi. Questo significa che quando faccio un errore ci sono otto diverse persone che vengono a farmelo notare. Questa è la mia sola motivazione: evitare di essere scocciato”. Gibbons è insomma un impiegato in quiet quitting che, attraverso una forma artificiale di rimozione della responsabilizzazione introiettata sul lavoro, ritrova la libertà di affermare sé stesso in un mondo nel quale non era che un ingranaggio anonimo. È questo il primo distillato del cinema di Mike Judge che tornerà in ognuno dei suoi film: prendere l’impalcatura della rom-com per sviluppare al suo interno un tema politico. Nonostante i risultati altalenanti, l’intuizione è efficace e permette al film di sviluppare una profonda riflessione sui i lati più disumanizzanti dello sfruttamento lavorativo. La svolta decisiva nel film avviene quando Gibbons e due suoi colleghi che stanno per essere licenziati, decidono di truffare l’azienda con un virus informatico che devia microtransazioni sul loro conto bancario, “come succede in Superman 3, un film davvero sottovalutato”. Dopo varie peripezie e sul punto di venire scoperti, Peter decide di restituire il denaro con un assegno e lascia nell’ufficio del capo una lettera in cui confessa la truffa. Proprio quel giorno, dopo l’ennesima angheria, Milton decide finalmente di dare fuoco all’azienda, che brucerà insieme alle prove del misfatto. > In Office Space è presente un aspetto del cinema di Mike Judge che tornerà in > ognuno dei suoi film: prendere l’impalcatura della rom-com per sviluppare al > suo interno un tema politico. Sono i classici temi dell’alienazione e della reificazione, ampiamente esposti da Karl Marx nelle sue teorizzazioni sulla struttura del lavoro nella società capitalista quelli su cui si concentra la trama del film. L’alienazione è lo stato in cui si trova l’uomo quando non riconosce più nel lavoro (nella sua organizzazione, nei suoi strumenti, nei suoi prodotti) una parte di sé, una sua creazione, ma gli appare come qualcosa che sfuggendo alla sua volontà si pone contro di lui, un ostacolo alla spontanea ricerca di felicità e realizzazione. È un conflitto che ricorda quello tra il dottor Frankenstein e la sua creatura, se soltanto il primo soffrisse di un’amnesia che non gli permettesse più di riconoscerla come un frutto del suo ingegno. La reificazione, in breve, è la naturalizzazione di questo stato: l’uomo crede di riconoscere nello stato transitorio imposto dalle logiche dello sfruttamento una legge di natura. Continuando la lettura marxista, il film incappa proprio in quella che era la maggiore forma di ribellione operaia con cui il giovane Marx si era duramente confrontato: il luddismo. In una delle scene finali del film infatti vediamo Peter abbandonare l’ufficio per l’ultima volta, insieme ai suoi due complici, Michael e Samir, e portare con sé una delle fotocopiatrici. La macchina sarà la protagonista di una lunga scena di “pestaggio luddista” con tanto di slow-motion, mazze da baseball e gangsta rap in sottofondo. Mentre in Office Space i temi dell’alienazione e della reificazione restano confinati al mondo dell’ufficio, di cui esiste ancora un fuori, un mondo esterno fatto di amicizie, bevute e barbecue in cui si può evadere, nella sua opera successiva Mike Judge porterà queste minacce alle estreme conseguenze fino a coinvolgere l’intera società e infiltrarsi profondamente nelle facoltà cognitive dell’umanità intera. Nel 2006, con il suo terzo film, Idiocracy, Judge si confronta per la prima volta con la fantascienza. Il film si apre con un’epica voce fuoricampo che, mentre assistiamo all’avvicinarsi sullo schermo del globo terrestre fluttuante nello spazio, ci introduce alla premessa distopica: > L’evoluzione umana era giunta a una svolta. La selezione naturale, il processo > per cui il più forte, più intelligente, più veloce, si riproduce in maniera > maggiore rispetto agli altri, il processo che un tempo aveva favorito gli > aspetti più nobili dell’uomo adesso favoriva caratteristiche diverse. La > maggior parte della fantascienza dell’epoca aveva predetto un futuro più > civilizzato e più intelligente, ma più il tempo passava, più le cose > sembravano andare nella direzione opposta: un istupidimento generale. Com’era > potuto succedere? L’evoluzione non premia necessariamente l’intelligenza. > Senza predatori naturali ad assottigliare il branco iniziò a premiare coloro > che si riproducevano di più e lasciò che gli intelligenti diventassero una > specie in via d’estinzione. Non è, evidentemente, la più raffinata delle ipotesi di biologia speculativa, ma c’è anche di peggio: il problema, in cui incappa Mike Judge al minuto uno del film, implicito nella sua stessa premessa (darwinismo sociale), e ben più problematico, è l’eugenetica. Incomincia così la memorabile sequenza (un case study, ci suggerisce la scritta in sovraimpressione) in cui vediamo due coppie confrontarsi con la propria intenzione di procreare in un frenetico montaggio alternato: per Trevor e Carol, dall’alto quoziente intellettivo, “avere figli è un’importante decisione”, “aspettiamo il momento giusto” (all’unisono, guardandosi negli occhi) “non vogliamo farlo senza riflettere”; Trish invece entra in cucina mentre Clevon sta bevendo una birra e gli urla: “oh merda sono di nuovo incinta”; apprendiamo dall’albero genealogico in sovraimpressione che questo è il loro quinto figlio. Le scene continuano a susseguirsi in un’escalation grottesca che avanza di quinquennio in quinquennio: Trevor e Carol constatano sereni che “non possiamo permetterci un figlio adesso, non con l’attuale congiuntura finanziaria”; nel frattempo Clevon ha avuto due figli anche con la vicina di casa Britney e uno da Mckenzie che lo sta inseguendo con un bastone; Trevor e Carol, finalmente decisi al grande passo, non riescono a ottenere una gravidanza e battibeccano sul possibile ricorso all’inseminazione artificiale; intanto Clevon Jr., quarterback della squadra locale e primogenito di Clevon, nonostante si sia impalato con i genitali su un cancello in seguito a un incidente con una moto d’acqua, grazie ai progressi scientifici nel campo delle cellule staminali è riuscito comunque ad avere diversi figli con le cheerleaders del suo liceo; purtroppo Trevor è morto per un infarto mentre si masturbava per ottenere lo sperma per l’inseminazione artificiale, Carol incrociando le dita dice di aver congelato i suoi ultimi ovuli, “per quando arriverà l’uomo giusto”; l’albero genealogico di Clevon nel frattempo si espande fino a straripare dallo schermo; “andò avanti così per generazioni” annuncia, piena di pathos, la voce fuori campo. > In Idiocracy i due partecipanti a un esperimento segreto di ibernazione si > ritrovano nel 2505 in un mondo dove regna la più totale stupidità. Ma quello > in cui vediamo risvegliarsi i due protagonisti non è poi così dissimile dal > nostro 2025. Esposto il presupposto teorico dell’intreccio narrativo, il film si sviluppa come una scanzonata commedia fantascientifica in cui seguiamo le avventure di Joe Bauers, bibliotecario dell’esercito, e Rita, una prostituta, scelti per i loro parametri cognitivi “perfettamente nella media”, per partecipare a un esperimento segreto di ibernazione della durata di un anno. Qualcosa ovviamente va storto e i due si ritrovano nel 2505 in un mondo dove regna la più totale stupidità. Ma quello in cui vediamo risvegliarsi i due protagonisti non è poi così dissimile dal nostro 2025 (di cui è pure una sorta di anagramma numerico). Prendiamo il primo incontro di Joe, che piomba per sbaglio nella casa di Frito Pendejo, quello che più avanti nel film diventerà il suo avvocato. Lo trova seduto, su una poltrona con gabinetto integrato, mentre guarda un grande schermo contornato di pubblicità su cui va in onda Ow! My balls!, una serie interminabile di video in cui il protagonista incappa in vari incidenti che hanno a che fare con i suoi genitali. Una situazione familiare che non può non ricordarci quella di una seduta mattutina al bagno mentre ci frastorniamo con centinaia di clip su TikTok. Joe e Frito, durante tutta la parte centrale del film, ci accompagnano in varie peripezie, permettendoci di scoprire come funziona la società del futuro: mentre le insegne delle attività commerciali hanno adottato nomi sempre più volgari (bambini festeggiano il compleanno dalla famosa catena di fastfood Buttfuckers), i vari indumenti che le persone indossano non sono che patchwork pubblicitari di una moltitudine di brand e Joe, nonostante parli il suo inglese medio, ha grandi difficoltà a comunicare con chiunque: ogni volta scatena una reazione violenta in chi lo ascolta perché, come ci avverte la solita voce fuori campo, la sua lingua rispetto a quella corrente suona davvero “pompous and faggy”. Ancora: negli ospedali si accumulano le slot machine, il film di maggior successo dell’anno si chiama Ass ed “è esattamente quello, per novanta minuti” (un culo su uno schermo). Joe finirà persino per incontrare il presidente degli Stati Uniti Dwayne Elizondo Mountain Dew Herbert Camacho, un ex wrestler che ha trasformato la Casa bianca in una corrida di macchiette untuose da talent show. Una classe politica non dissimile da quella che è possibile ammirare oggi nel secondo governo Trump. Ogni azione (ricordiamolo: siamo nel futuro) è tecnologicamente determinata, dalle diagnosi negli ospedali, alla videosorveglianza onnipervasiva, dalla gestione carceraria fino alla identità stessa dell’individuo, esposta costantemente al controllo delle forze dell’ordine tramite un codice a barre tatuato sul polso. Tutto così assurdo eppure stranamente familiare, come nella migliore fantascienza. Con una forzatura ermeneutica possiamo provare a ipotizzare, con il senno di poi, che un così plateale declino cognitivo, invece che da una selezione genetica, potrebbe essere stato causato proprio dall’uso di quelle tecnologie compiacenti che, in Idiocracy, vediamo radicate profondamente nella vita quotidiana della società. Tanto nella fantascienza di Judge, quanto nel nostro presente, viviamo in una società ipertecnologica che, deresponsabilizzando l’individuo in ogni sua mansione pratica e lo porta a un inaridimento cognitivo dovuto all’oblio del processo stesso, demandato ormai da tempo, soltanto alla macchina. È la situazione che André Gorz, filosofo francese, in L’immateriale (2003), interrogandosi se l’umanità sia ancora soggetto o oggetto della propria evoluzione tecnologica, rintraccia nelle nuove forme di capitalismo cognitivo: > gli apparati megatecnologici, ritenuti dominare la natura e sottometterla al > potere degli uomini, assoggettano gli uomini agli strumenti di quel potere. Il > soggetto sono loro: questa megamacchina tecnoscientifica che ha abolito la > natura per dominarla e che costringe l’umanità a mettersi al servizio di > questo dominio. Lo sviluppo delle conoscenze tecnoscientifiche cristallizzate > nel macchinario del capitale, non ha generato una società dell’intelligenza ma > una società dell’ignoranza. La grande maggioranza conosce sempre più cose, ma > ne sa e ne comprende sempre meno. In Idiocracy le piante vengono annaffiate da anni con una bevanda energetica chiamata Brawndo – The thirst mutilator. Lo scopriamo quasi alla fine del film, quando realizziamo che tutto il mondo è preda di una carestia di cui non si conoscono le cause. Nel frattempo Joe aveva aperto un lavandino e visto uscire la bevanda verde fluorescente invece dell’acqua, una tra le tante stranezze. Tutto il mondo in realtà ha sostituito da tempo e ovunque l’acqua col Brawndo; quando Joe chiede dell’acqua gli viene risposto ridendo “quale? quella del cesso?”; quando chiede il perché di questa sostituzione gli viene risposto “perché Brawndo ha gli elettroliti!”, ma nessuno, Joe compreso, sa cosa siano questi elettroliti. > Tanto nella fantascienza di Judge, quanto nel nostro presente, viviamo in una > società ipertecnologica che, deresponsabilizzando l’individuo in ogni sua > mansione pratica e lo porta a un inaridimento cognitivo dovuto all’oblio del > processo stesso, demandato ormai da tempo, soltanto alla macchina. Torna, come in Office Space, il tema dell’alienazione e della reificazione, ma in Idiocracy la sua pervasività è completa, l’ottusità tecnocratica della software house ha infiltrato l’intera società e come l’ufficio era destinato a bruciare alla fine del film precedente, qui il mondo, reso sterile dall’eccesso di sali minerali contenuti nella Brawndo sembra destinato a inaridirsi e collassare. L’apocalisse appare imminente perché anche il bene primario alla base della vita terrestre, l’acqua, ha subito un processo di completa risignificazione mercantile, è mancante di una qualche proprietà fondamentale (i decantati elettroliti) e, in quanto gratuita e disponibile, non può avere valore, o se lo ha deve essere regolamentata. È proprio questo il modo in cui Gorz illustra il rapporto fagocitante tra capitalismo e natura: “l’abolizione della natura ha come motore non il progetto demiurgico della scienza, ma il progetto del capitale di sostituire alle ricchezze prime, che la natura offre gratuitamente e che sono accessibili a tutti, delle ricchezze artificiali e mercantili: trasformare il mondo in merci di cui il capitale monopolizza la produzione, ponendosi in tal modo come padrone dell’umanità”. Quando Joe viene infine riconosciuto come l’uomo più intelligente del mondo e assoldato dal presidente Camacho come ministro degli Interni per risolvere il problema della siccità, propone banalmente di sostituire della semplice acqua alla bevanda energetica usata nell’irrigazione dei campi ormai infertili. Prima che, tra lo sgomento di tutti, la soluzione si riveli efficace, il presidente viene contattato dal CEO della Brawndo Corporation in preda al panico, le azioni stanno crollando e il computer ha eseguito autonomamente i licenziamenti necessari a riassestare la società, metà della popolazione del Paese si ritrova disoccupata e inferocita invade la Casa bianca: vogliono la testa di Joe. La messa in scena del film è decisamente più sobria rispetto all’attacco a Capitol Hill del 2021. Lo scambio reciproco di soggetto e oggetto che Gorz vede nel rapporto odierno tra esseri umani e tecnologia digitale non determina soltanto un inedito slittamento di potere ma anche un capovolgimento delle influenze ideologiche attive in questo campo di forze. Quella che Marcuse definiva la razionalità tecnologica, l’ideologia della classe dominante di cui è imbevuto ogni prodotto tecnologico da questa progettato, in una società in cui la tecnologia è ormai soggetto autonomo dell’esistente, da strumento del potere diventa essa stessa creatrice di una propria ideologia autonoma che l’uomo subisce passivamente. L’umanità aspira infine a quell’assenza di pensiero (istupidimento), a quell’automatismo freddo (deresponsabilizzazione) che è una caratteristica intrinseca della macchina. Non stiamo già decantando tutti da anni le virtù sorprendenti dell’Intelligenza artificiale? Sentendoci in pericolo, dipendenti, aspirando infine alla sua velocità e abilità tecnica? Quanto abbiamo dovuto sminuire la vita umana in sé per paragonarci a efficienti dispositivi digitali e quanto della visione attuale dell’uomo come semplice macchina pensante è implicita in questo schema di pensiero? Continua Gorz: “l’uomo è ‘obsoleto’, bisogna dotarlo di protesi chimiche per ‘tranquillizzare’ il suo sistema nervoso stressato dalle aggressioni che subisce e di protesi elettroniche per aumentare le capacità del suo cervello”. Come si esce da tutto ciò? Un testo recente, Hacking del sé (2024), l’ultimo contributo del lavoro ormai decennale del collettivo Ippolita, un centro di ricerca indipendente che si occupa di filosofia dell’informatica e tecnopolitica, può essere una guida utile. Il libro, raccogliendo una miscellanea di interventi del collettivo (prefazioni, postfazione, articoli e cut-up) pubblicati in varie sedi, si interroga proprio su “l’impatto che le tecnologia commerciali hanno sui loro utenti e come influiscano sulla costituzione della loro soggettività, sulla loro formazione e sul loro vivere comune”. > Secondo il collettivo Ippolita è in atto una sempre maggiore “delega reiterata > dei desideri e delle capacità cognitive a procedure algoritmiche. Ma se le > tecnologie non sono neutre, bensì incarnano e configurano mondi, la delega > tecnica si rivela per quello che è: delega sociale e politica”. Analizzando la delega tecnologica che mette in atto l’umanità nei confronti delle tecnologie digitali, Ippolita scandaglia le conseguenze di quel processo per cui “milioni di utenti si servono di app e servizi per il monitoraggio e la gestione di aspetti sempre più numerosi della vita quotidiana”; è in atto una sempre maggiore “delega reiterata dei desideri e delle capacità cognitive a procedure algoritmiche. Ma se le tecnologie non sono neutre, bensì incarnano e configurano mondi, la delega tecnica si rivela per quello che è: delega sociale e politica”. L’obiettivo delle grandi corporation tecnologiche, si spiega nel testo, è proprio quello “di rendere comune e abituale un numero crescente di azioni e relazioni cui viene riconosciuto valore in quanto profittevole, secondo l’etica del consumo incarnata appunto dall’utente, che è paradossalmente al servizio del fornitore del servizio”. È lo stesso ribaltamento di prospettiva di cui parla Gorz riguardo il progresso tecnologico. È lo stesso procedimento che, fuori dall’ambito tecnologico, è attuato dalla Brawndo Corporation nel film, che è riuscita a sostituire l’acqua con la sua bevanda energetica. Per Ippolita la soluzione non passa per un intervento correttivo sociale (che oggi nessuno, nemmeno gli Stati, se volessero, avrebbero la forza di effettuare) ma da una disciplina del soggetto, una routine che coinvolga tanto il nostro corpo quanto la nostra mente. Il concetto è espresso fin dal titolo del volume: > per hacking del sé, ispirandoci ai lavori dell’ultimo Foucault, intendiamo un > esercizio di cura del sé che inizia con il comprendere quale tipo di norma le > megamacchine sono capaci di farci assumere, per capire come disinnescarla > prima che la sua forza ci renda conformi e oppressi. Avere riguardo per il > proprio corpo digitale, proteggerlo perché si emancipi dall’informatica > commerciale, riconoscere l’importanza che ha nella nostra vita, significa fare > un passo di consapevolezza tecnica e nel contempo di responsabilità etica > verso noi stessi e verso la comunità. Per questo secondo noi il campo della > battaglia si gioca sulla cura di sé, tra addestramento e consapevolezza, ed è > qui che si aprono margini possibili di emancipazione e coscientizzazione. Il lavoro che bisognerà fare – qui e ora – è esposto nel libro in maniera piana e pragmatica, sono semplici propositi che provano a illuminare una via possibile, di cui non conosciamo gli ostacoli futuri ma di cui possiamo già intuire chiaramente la direzione: “comprendere che tipo di riconfigurazione sta avvenendo e agire una decodifica delle norme che tentano di scriverci addosso: è questo l’esercizio e l’abito che stiamo ricercando. Osservare e osservarsi, andare domandando, sperimentare e verificare nuove individuazioni psichiche e collettive”. L'articolo Idiocracy now proviene da Il Tascabile.
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Il lato oscuro dei social network di Serena Mazzini
N el 2014, la campagna/performance Wages for Facebook denunciava il nostro essere lavoratorə sfruttatə dalle compagnie tech che possiedono i social network che utilizziamo quotidianamente. > La chiamano amicizia, noi lo chiamiamo lavoro non retribuito. Con ogni like, > chat, tag o poke la nostra soggettività li fa guadagnare. Loro la chiamano > condivisione. Noi lo chiamiamo furto. […] > Chiedere un salario per Facebook significa rendere visibile il fatto che le > nostre opinioni ed emozioni sono state distorte per una specifica funzione > online, per poi esserci riproposte come un modello a cui tuttə dovremmo > conformarci se vogliamo essere accettati in questa società. Traslando le rivendicazioni emerse negli anni Settanta da Wages for housework (Retribuzione per il lavoro domestico), la campagna portava alla luce le condizioni materiali di un mondo in apparenza totalmente astratto, quello della rete. Ma in che senso non siamo semplici utenti, ma siamo ormai soprattutto lavoratorə sfruttatə per il profitto delle aziende tech? Nel suo libro Il lato oscuro dei social network. Come la rete ci controlla e manipola (2025), Serena Mazzini ci spiega questo e altri meccanismi che si celano dietro agli scroll, ai click e ai post che produciamo quotidianamente. In questo suo primo saggio, che ha il pregio di essere estremamente comprensibile e scorrevole, Mazzini, la quale ha lavorato a lungo nell’ambito della comunicazione come strategist, racconta di aver analizzato i dati delle piattaforme quotidianamente, per servirsene per aiutare influencer a creare contenuti “affinché apparissero più sinceri, autentici e credibili”. Diviso in capitoli che si soffermano su vari aspetti delle dinamiche social, il libro è la breve storia di come la rete è passata dall’essere un sogno di comunità e collaborazione globale, a diventare uno strumento di controllo, manipolazione e potere, portandoci a vivere e creare un mondo in cui tutto è sintetico e artificiale, mentre si impegna ad apparire autentico; che si tratti di prodotti, mete turistiche, hobby, i nostri rapporti o la nostra stessa identità. > La rete è diventato un mondo in cui tutto è sintetico e artificiale, mentre si > impegna ad apparire autentico; si tratti di prodotti, mete turistiche, hobby, > i nostri rapporti o la nostra stessa identità. Quando Internet ha cominciato a diffondersi nelle nostre case, quasi nessunə si sarebbe aspettatə che cosa sarebbe diventato. Sebbene le dinamiche che adesso vediamo esplose fossero contenute in nuce in quei primi esperimenti di connessione globale – da subito, per esempio, la creazione di una identità virtuale parallela in cui nascondersi/rifugiarsi caratterizzava l’esperienza dei forum e delle chat – ci sono alcune tappe che hanno segnato in maniera irreversibile il nostro rapporto con il digitale, ma che soprattutto hanno permesso al digitale di instaurare quella che nel libro è definita come una vera e propria “mutazione antropologica”. Chi si ricorda Indymedia tra gli anni Novanta e i Duemila, non poteva immaginare cosa sarebbe accaduto con l’avvento di Facebook nel 2004, che Mazzini indica giustamente come una delle tappe principali di questa mutazione. Nel 2010, la nascita di Instagram e l’inserimento della fotocamera anteriore nell’iPhone, hanno marcato in maniera definitiva l’impatto del visivo come dominio inscalfibile delle nostre quotidianità. Se all’inizio di Facebook postavamo degli “aggiornamenti” un po’ goffi, in seguito all’avvento di queste novità “lo smartphone divenne un dispositivo per la condivisione immediata di esperienze personali; e i social network, da piattaforme web, divennero applicazioni accessibili sempre e ovunque, capaci di trattenere l’attenzione degli utenti e di integrarsi in maniera capillare nella vita quotidiana”. Difficile pensare, nella storia recente, a un cambiamento così drastico ed enorme nei modi in cui percepiamo noi stessi, le altre persone e il mondo circostante, difficile pensare a qualcosa che più di questo ha modificato le nostre abitudini e i nostri modi di vivere le relazioni e gli spazi. Ma torniamo ai salari: in che senso siamo lavoratorə sfruttatə? I sensi sono in realtà molteplici. Wages for Facebook affermava che “quando parliamo di Facebook non stiamo parlando di un lavoro come gli altri, ma della manipolazione più pervasiva, della violenza più sottile e mistificata che il capitalismo ha recentemente perpetrato contro di noi”. La nostra presenza sui social network, ormai dovremmo saperlo, non è neutra. Qualunque nostra attività è registrata e utilizzata come dato, merce preziosissima nell’economia tecnocapitalista. I nostri like, le nostre interazioni con post, reel, video, gli articoli che leggiamo, le pagine che seguiamo, i prodotti che cerchiamo online, tutto serve ad alimentare quell’enorme tesoro che sono i dataset, che le aziende utilizzano per creare il loro profitto e per alimentarlo, propinandoci, attraverso gli algoritmi, contenuti sempre più mirati e sempre più targettizzati, creando bolle e realtà parallele che contribuiscono a dividere e parcellizzare le popolazioni (e che contribuiscono inoltre allo sviluppo dei software di Intelligenza artificiale). Questa visione non è semplicemente riflesso di un timore legato alla paura del “progresso” o alla demonizzazione degli strumenti digitali, ma è piuttosto, come afferma anche Mazzini, l’osservazione di una realtà fattuale: siamo prodotti, e al contempo lavoriamo gratuitamente. Uno dei modi in cui l’utilizzo dei social ha completamente plasmato la nostra realtà è esemplificato in maniera estremamente evidente dalla maniera in cui la politica istituzionale se ne è servita per creare bolle di opinione e polarizzare l’opinione pubblica. Mazzini riassume bene il modo in cui Donald Trump se ne è servito per raccogliere un consenso sempre maggiore, coalizzandosi anche con i proprietari delle aziende tech. Stiamo assistendo proprio in questi mesi alle dinamiche (e ai teatrini) fra Trump ed Elon Musk, personaggio sempre più al centro della politica statunitense. Un esempio più circoscritto, ma anche più vicino geograficamente, è la cosiddetta Bestia, il meccanismo propagandistico ideato da Luca Morisi per sostenere Matteo Salvini nell’acquisizione di consenso e voti a partire dal 2017. > Non si tratta di paura del “progresso” o di demonizzazione degli strumenti > digitali, è l’osservazione di una realtà fattuale: siamo prodotti, e al > contempo lavoriamo gratuitamente. Mazzini dedica un lungo capitolo al fenomeno dello sharenting – termine coniato dalla crasi tra share (condividere) e parenting (genitorialità) – nel quale racconta, attraverso numerosi esempi, di come le bambine e i bambini vengano usati da alcune famiglie per produrre alti profitti, talvolta in grado di mantenere l’intera famiglia e permettere una vita agiata. Ma a che prezzo? Come zia di due nipoti molto piccole mi interrogo moltissimo, così come i loro genitori, sul modo in cui le forme sociali influenzano i loro comportamenti, il loro umore, i loro gusti in quanto persone socializzate come donne. Ancor di più, lo faccio in relazione all’influenza che hanno i social network nella creazione di un immaginario sessualizzante e sessualizzato anche per bambine molto piccole. Ma la questione non è individuale. Prima di tutto, il prezzo che lə bambinə soggette allo sharenting pagano è quello di non avere un’infanzia libera, soprattutto libera dallo sguardo altrui. Queste bambine e questi bambini vengono ripresi in ogni momento della loro quotidianità (mentre mangiano, giocano, fanno il bagno, si vestono), esposti in momenti di vulnerabilità (quei reel che ci fanno tanto ridere con i bambini che piangono disperati perché sgridati o perché si sono fatti male giocando), utilizzati come fenomeni da baraccone o, peggio ancora, fatti recitare una parte. Un esempio estremamente inquietante che viene fatto nel libro è quello di Wren Eleanor, una bambina che fin dai tre anni è stata mostrata su un profilo TikTok gestito dalla madre, che la esponeva anche attraverso video ambigui e sessualizzanti, in cui la bambina mangiava cibi di forma fallica o aveva atteggiamenti provocatori. Analizzando l’account era evidente che quei video fossero i contenuti con più visualizzazioni del profilo, e che fossero anche molto spesso pieni di commenti riconducibili a reti di pornografia infantile. Il caso Wren ha fatto emergere un movimento spontaneo, con molte persone che hanno chiesto alla madre di cancellare i video e che hanno cominciato a parlare dei problemi legati a questo tipo di account. Ma il fenomeno è enorme ed estremamente produttivo e sono numerosi i genitori che non rispettano il consenso delle loro figlie, pensando evidentemente di possederle, al punto da utilizzare la loro infanzia come merce. Il canale Fantastic Adventures, per esempio, era gestito da una madre che sottoponeva i figli a privazioni di cibo e violenze di altro genere per obbligarli a partecipare ai video. Oppure il caso emerso l’anno scorso in cui la figlia dell’influencer Ruby Franke ha testimoniato nel processo in cui la madre è stata accusata per abusi su minori, raccontando l’esperienza di chi cresce come vittima del family vlogging. Casi come questi, ci dice Mazzini, “ci mostrano come dietro i contenuti apparentemente innocui e divertenti, in cui i bambini sembrano sempre felici, spensierati e amati, possa nascondersi una realtà ben diversa”. Pensiamo che sia divertente vedere il video di un bambino che fa qualcosa di buffo, o che sia innocuo l’utilizzare i propri figli per produrre canali YouTube pieni di contenuti di intrattenimento, ma “ignoriamo che quei bambini, che vediamo sorridere per intrattenere i nostri, potrebbero essere costretti a ripetere le stesse scene decine di volte, imparare copioni precisi […] per assecondare i desideri di genitori inebriati dall’algoritmo”. Questi fenomeni, che sembrano riguardare solo chi lavora effettivamente con l’immagine della propria famiglia e dei propri figli, sono in realtà estremamente pervasivi della quotidianità di molte persone, e si concretizzano per esempio nel caricamento costante di foto e video che ritraggono bambinə anche molto piccolə senza oscurare il volto; pratica che, dice anche Mazzini, fino a un certo punto era una prassi delle regole non scritte dei social. > Il prezzo che lə bambinə soggette allo sharenting pagano è quello di non avere > un’infanzia libera dallo sguardo altrui. Il capitolo sullo sharenting è seguito da una riflessione molto interessante sul modo in cui i social hanno modificato il nostro rapporto con la morte – argomento affrontato in maniera puntuale anche dal tanatologo Davide Sisto – al punto da permetterci di scrivere dei messaggi che potranno poi essere pubblicati sui nostri profili alla nostra morte. Anche quello che Mazzini chiama “capitalismo della pietà” – che consiste in video di persone che vanno in giro a regalare soldi a chi si dimostra “buono” – ha molto spazio nel libro, così come il “reality show della malattia”, per cui vengono messe in mostra malattie, disabilità, situazioni di disagio sociale e psicologico al fine di guadagnare visualizzazioni (e quindi denaro). Messa in questi termini, verrebbe voglia di scappare da ogni forma di socialità digitale. Forse, in parte, sarebbe auspicabile, ma la realtà è che per molte di noi utilizzare questi strumenti è ancora utile (per alcune persone necessario) e che, afferma Mazzini, disertare completamente da alcuni spazi sociali online – come è stato fatto nella disiscrizione di massa da Twitter, ora X, dopo l’acquisto della piattaforma da parte di Elon Musk – può portare alla creazione di bolle di violenza e radicalizzazione di destra inscalfibili. Al contempo, boicottare alcune piattaforme e cercare forme di socialità online alternative è più che positivo. I social network si sono succeduti nel tempo e se alcuni hanno avuto la meglio sugli altri è stato per la loro capacità di rispondere ad alcune esigenze, ma queste esigenze possono cambiare. Alla fine del saggio Mazzini riflette anche su questo e, pur senza fornire esplicitamente delle alternative precise, evidenzia la necessità di smettere di accettare passivamente un sistema che in realtà non ci sta facendo del bene, e di concedere così tanto potere a queste piattaforme sulle nostre vite. Servirebbero, anche, delle azioni di politica istituzionale che invece tardano ad arrivare, per proteggere i dati dellə utenti, per limitare la possibilità di utilizzo da parte delle aziende, per informare le persone piccole e giovani riguardo al funzionamento delle tecnologie e dei social network. Serve però soprattutto, a suo avviso, un cambiamento di immaginario e di cultura in cui “piattaforme, brand, agenzie, creator e utenti” lavorino in direzione comune, ma anche e principalmente che la comunicazione abbandoni la sua ossessione per la viralità, cercando modalità che avvicinino utenti e creator, che responsabilizzino lə utenti e non li trattino da oggetti passivi. Mazzini ci invita a chiederci: > Vogliamo davvero accettare di essere parte di un meccanismo che si nutre di > noi, trasformando le nostre vite in semplici dati per macchine insaziabili? > […] Per anni abbiamo lavorato gratuitamente, in silenzio, trasformando la > nostra presenza digitale in una merce da vendere al miglior offerente. […] > Riprenderci il controllo significa soprattutto guardare oltre gli schermi, > ritrovando valore nelle comunità fisiche che spesso abbiamo trascurato. Questi > spazi, fragili ma preziosi, offrono la possibilità di costruire relazioni > autentiche, dove l’interazione non è filtrata da algoritmi o metriche di > successo. Il primo passo per uscire dagli schermi forse è ricordarci che tutto quello che vediamo delle vite altrui attraverso i social è una costruzione fatta per mostrarsi migliore, per raccontare un’idea di vita e, molto più di frequente, venderci qualcosa. L'articolo Il lato oscuro dei social network di Serena Mazzini proviene da Il Tascabile.
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Quantofrenia, la patologia dell’anima misurata
N el 1956 il sociologo russo-americano Pitirim Sorokin coniava il termine quantofrenia per denunciare un fenomeno che, a suo dire, rischiava di svuotare le scienze sociali di ogni profondità: l’ossessione per la misurazione numerica della realtà. In un momento storico segnato dalla volontà di rendere scientificamente affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica strada per la legittimazione. Eppure, Sorokin vedeva in questa tendenza un pericolo: ridurre la complessità dell’esperienza umana a semplici dati significava sacrificare la qualità alla contabilità, la comprensione profonda alla superficie della cifra. Quella che Sorokin descriveva come una deriva potenziale è oggi diventata sistema. Viviamo immersi in un ambiente culturale che ha fatto della datificazione la sua ideologia dominante. Ogni gesto, emozione, desiderio e pensiero può (e deve) essere tracciato, misurato, confrontato. L’essere umano contemporaneo si muove in un ecosistema fatto di tracker, dashboard, KPI (Key Performance Indicator), insight, analytics, convinto che ogni aspetto della sua esistenza sia più vero quanto più numericamente rappresentabile. Questo non vale solo per le aziende o le istituzioni, ma per la vita quotidiana. Il nostro sonno, il battito cardiaco, la produttività, le emozioni: tutto viene tradotto in dati. Il filosofo sudcoreano-tedesco Byung-Chul Han in La società della trasparenza (2014) ha scritto che “oggi tutto dev’essere trasparente, tutto deve essere visibile, misurabile”. Ma la trasparenza, apparentemente virtù democratica, si rivela così una forma subdola di controllo: l’efficienza che diventa valore morale. Sempre secondo Byung-Chul Han, “la società della trasparenza è una società della sorveglianza che si maschera da libertà”. Se in teoria sapere tutto di sé dovrebbe renderci più liberi e consapevoli, in pratica ci consegna a un’autosorveglianza continua. La quantità crescente di dati a nostra disposizione non ci rende affatto più lucidi: ci sovraccarica. L’accesso all’informazione è individuale, ma l’elaborazione è lasciata al singolo, senza strumenti, senza tempo, senza tregua. Non è tanto una questione di opacità, ma di asfissia cognitiva. David Brooks, editorialista del New York Times, in L’animale sociale. Alle origini dell’amore, della personalità e del successo (2012) esplora le radici emotive e inconsce del comportamento umano, contestando l’idea che siamo guidati da scelte razionali e misurabili: “La mente inconscia si occupa di gran parte del lavoro della vita. È come un presidente che prende decisioni ma che non ha idea di come le sue politiche vengano attuate”. L’ossessione per i dati, confrontandosi solo con la razionalità misurabile, ignora la complessità delle motivazioni umane. Brooks mostra come la vera formazione del carattere, della moralità, della felicità non sia misurabile: “Ciò che rende la vita significativa sono le relazioni intime, il senso di appartenenza, la gratitudine – tutte cose che sfuggono al numero”. > In un momento storico segnato dalla volontà di rendere scientificamente > affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica strada per la > legittimazione. La tendenza a ridurre la realtà a ciò che è misurabile non è solo una strategia cognitiva, ma un vero e proprio paradigma ideologico che si nutre di una falsa promessa: che i dati possano raccontare il reale in modo oggettivo. Come notava Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, in Pensieri lenti e veloci (2012), invece, gran parte delle nostre decisioni è guidata da processi intuitivi, emotivi, non razionali. E là dove il dato pretende di spiegare tutto, finisce spesso per mascherare la complessità. Lo stesso Kahneman ha messo in guardia contro l’eccessiva fiducia nella coerenza statistica, evidenziando il ruolo centrale del contesto e delle euristiche. Più ci affidiamo ai numeri, più ci deresponsabilizziamo. Un effetto paradossale, dal momento che è proprio l’ansia di controllo che alimenta la smania di misurare tutto a portarci a delegare le decisioni ai dati, spogliandoci della responsabilità. Il numero rassicura, ci assolve: “lo dice l’algoritmo”, “è un dato oggettivo”, ma il controllo così perseguito si rivela illusorio: invece di decidere, lasciamo che una finta certezza decida per noi. Se un progetto fallisce, si incolpano i dati; se una decisione si rivela errata, era comunque “data-driven”. In questo modo, come ha osservato Herbert Simon, teorico dell’automazione e padre del concetto di “razionalità limitata”, in La ragione nelle vicende umane (1984), il dato diventa alibi e non strumento di comprensione. La distorsione non è solo cognitiva, ma anche narrativa. Isaac Asimov lo aveva intuito già nel 1955 con il racconto Diritto di voto (pubblicato per la prima volta in Italia nel 1962 sulla rivista Galaxy): in un futuro ipertecnologico, l’esercizio democratico viene rimpiazzato da un supercomputer, Multivac, in grado di prevedere il voto di tutta la popolazione intervistando un solo cittadino rappresentativo. Non importa più cosa si pensa o cosa si vuole: importa solo che i dati funzionino. L’immaginazione cede il passo all’inferenza statistica. > – Multivac possiede già la maggior parte delle informazioni necessarie per > decidere quali saranno i risultati delle elezioni nazionali, statali e locali. > […] Non possiamo prevedere quali domande le farà, ma sappiamo che forse non > avranno senso, né per lei né per noi. […] Durante il colloquio dovremo > ricorrere a qualche semplice dispositivo che le terrà sotto controllo > pressione sanguigna, il battito cardiaco, la conduttività della pelle e le > onde cerebrali. […] > – Questa roba serve per controllare se dico la verità? – chiese Norman. > – Nient’affatto, signor Muller. Non ha importanza che lei menta o dica la > verità. Nel momento in cui Multivac afferma che “non ha importanza che lei menta o dica la verità”, Asimov ci mostra una distopia dove la soggettività non ha più peso. Non conta cosa credi o cosa pensi, perché l’infrastruttura algoritmica ha già deciso chi sei e cosa farai. È una prefigurazione inquietante del nostro presente: i dati raccolti, incrociati e analizzati ci assegnano una “verità” algoritmica, spesso più influente delle nostre reali intenzioni o convinzioni. La verità, come l’intenzione politica, diventa ridondante. L’intelligenza artificiale generativa ha accelerato ulteriormente questa logica, rendendo possibile la creazione automatica di contenuti visivamente attraenti ma stilisticamente omologati. Emblematico il caso delle illustrazioni ispirate allo Studio Ghibli: la bellezza è replicabile, ma l’originalità è sacrificata. > Il numero rassicura, ci assolve: “lo dice l’algoritmo”, “è un dato oggettivo”, > ma il controllo così perseguito si rivela illusorio: invece di decidere, > lasciamo che una finta certezza decida per noi. La cultura digitale ha così internalizzato la quantofrenia. Le metriche sono diventate una seconda pelle: i like, le condivisioni, le visualizzazioni hanno sostituito il giudizio critico. La comunicazione si adatta alle logiche degli algoritmi e non alle esigenze del contenuto. Come osserva Evgeny Morozov in To Save Everything, Click Here (2013), l’uso strumentale della tecnologia tende a risolvere problemi complessi con soluzioni semplicistiche, nascondendo implicazioni politiche e culturali. La tendenza alla misurazione si è infiltrata anche nelle istituzioni educative. Le scuole e le università, sempre più soggette a ranking e valutazioni standardizzate, sono costrette a misurare l’impatto della ricerca e dell’insegnamento in termini di produttività. Ma come si misura una buona lezione? Come si quantifica l’effetto trasformativo della cultura su una persona? La valutazione dell’apprendimento rischia di diventare una caricatura di sé, come ha argomentato Martha Nussbaum in Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2014). Nussbaum critica l’educazione orientata ai test e ai numeri perché sacrifica le capacità critiche, empatiche ed etiche, cioè quelle fondamentali per una cittadinanza attiva. “Una democrazia – scrive – richiede cittadini che non solo abbiano capacità tecniche, ma che possano pensare criticamente, esaminare le tradizioni, comprendere il significato della sofferenza e dell’ingiustizia”. Ridurre tutto a metriche (valutazioni PISA, crediti, output di ricerca) snatura l’educazione: la trasforma in addestramento. La cultura, invece, dovrebbe formare esseri umani completi, non solo lavoratori efficienti. Eppure, i dati non sono il male. Come sottolineano anche Harvard Business Publishing e Forbes in numerosi contributi sul management, affidarsi esclusivamente alla quantificazione rischia di semplificare eccessivamente fenomeni complessi, conducendo a decisioni paradossalmente meno informate, ma le metriche possono aiutarci a identificare delle opportunità che sarà l’intuizione a tradurre in scelte realmente efficaci. I numeri non provano gioia, dolore, entusiasmo: sono strumenti, non fini. Un esempio virtuoso fu House of Cards (2013-2018), prima produzione originale Netflix basata su dati di fruizione che indicavano una domanda per contenuti politici. Ma non furono i numeri a decretarne il successo: fu l’intuizione creativa, il cast d’eccezione, la cura narrativa. Oggi, invece, la stessa piattaforma viene criticata per puntare su formule prevedibili e produzioni a basso rischio. La crisi della narrazione si accompagna a una crisi del senso. Se ogni scelta è calcolata, ogni comportamento previsto, che spazio resta per l’incertezza, per l’imprevisto, per l’errore creativo? Come possiamo ancora raccontare storie che aprano mondi, invece di ridurli a ciò che è già noto? In Contro i numeri. Perché l’ossessione per dati e quantità sta rallentando il mondo (2019), lo storico Jerry Z. Muller mostra come l’ossessione per la misurazione danneggi i contesti che vorrebbe migliorare. Il problema, secondo Muller, è che “quando una metrica diventa un obiettivo, smette di essere una buona metrica”. Succede nella sanità (dove si punta a ridurre i tempi d’attesa a scapito della qualità della cura), nell’istruzione (dove si insegna “per il test” anziché per formare pensiero critico), nella ricerca (dove si pubblica molto ma si scopre poco). Muller parla di “perversione dei segnali”: i numeri nascono come indicatori, ma finiscono per sostituire i fini ultimi delle istituzioni. > La nostra è l’epoca della datificazione della realtà, dove tutto deve essere > misurabile e misurato. I dati, insomma, possono ispirare, ma non devono dettare. Come ha scritto Shoshana Zuboff in Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (2019), “l’esperienza umana è diventata materia prima gratuita per le pratiche commerciali nascoste di estrazione, previsione e vendita”. La logica predittiva, secondo Zuboff, sottrae all’individuo il diritto di definire la propria identità e i propri fini. L’azione spontanea, la creatività, la decisione etica vengono erose da modelli che anticipano e condizionano il comportamento. “Questa non è automazione – scrive – è espropriazione”. Il soggetto viene dissolto nella previsione: non siamo più chi scegliamo di essere, ma chi il sistema calcola che saremo. Ed è qui che, infine, la riflessione si fa personale. Ho visto alcune delle menti migliori della mia generazione struggersi di fronte a serie di dati impazziti. Rifiutare cene a base di pizze lievitate naturalmente per più di ventiquattr’ore per sacrificare la vista su metriche svuotate di significato e fogli Excel troppo luminosi, animate dall’isteria per la consegna del prossimo report trimestrale. Percorrere i pochi metri quadri di casa con una tazza di caffè filtrato, cuffie noise-cancelling e felpa oversize di cotone biologico alla ricerca della formula definitiva per il successo in dieci semplici mosse, se sintetizzabili in cinque anche meglio. I pollici incollati allo schermo in cerca di una validazione numerica a sé stessa. Siamo social media manager, data analyst, SEO specialist, ricercatori. Apostoli del dato, cavalieri della tabella pivot, eminenze grigie dell’analytics. Con montature da intellettuale non praticante e outfit business casual calibrati al millimetro, perché nulla dice “basato su dati significativi” come un look azzurrino ben stirato. Abbiamo smesso di parlare di idee: meglio restare ancorati alle metriche di performance, all’eventuale ritorno sull’investimento, di percentuali, tante percentuali. Sempre del “cosa”, mai del “perché”. La nostra è l’epoca della datificazione della realtà, dove tutto deve essere misurabile e misurato. Ogni respiro, ogni passo, ogni sbuffo viene tradotto in un grafico a torta o in una linea preferibilmente ascendente. Mi sono appena svegliata: Fitbit ci tiene a dirmi che ho dormito il 13% in meno rispetto alla media della popolazione degli altri millennial ansiosi. Ordino un cappuccino e c’è un’app che mi informa che ho speso il 22% in più rispetto al budget mensile per le mie bevande a base di latte d’avena. Il mio smartwatch registra un’accelerazione del battito cardiaco: inquietudine da overspending. Voglio lo zucchero, voglio il cacao? Consulto l’app delle calorie. Non me lo godo, ma almeno so quanto mi è costato in termini finanziari e metabolici: è fantastico. Se vado a correre e scordo di avviare l’app, semplicemente la mia corsa non esiste. Ogni decisione, ogni singolo, microscopico gesto è misurato, analizzato, comunicato e archiviato. Quand’è che ho smesso di raccontare storie per limitarmi a ricevere e distribuire dati? Quand’è che sono diventata un’anima misurata? L'articolo Quantofrenia, la patologia dell’anima misurata proviene da Il Tascabile.
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