H o dimenticato di quale torto pensai di essere stato vittima durante la gita di
maturità. Ricordo solo che durante quella settimana parlai pochissimo e di
controvoglia. Invece che andare a sballarmi con il resto dei miei compagni,
passavo le poche ore libere che i professori ci concedevano ogni giorno
infilandomi nella metropolitana. Senza curarmi della direzione, salivo sul primo
treno di passaggio. Qualche volta, a un’intersezione tra due linee, smontavo dal
treno e prendevo una coincidenza, lasciandomi trasportare da un altro convoglio.
Poi, a un certo punto, senza seguire un principio preciso, sceglievo una fermata
e smontavo. Obbedendo alla segnaletica procedevo verso l’uscita e, una volta
ritornato in superficie, mi dedicavo all’esplorazione del quartiere in cui il
caso aveva deciso di portarmi.
A volte andava male. Il quartiere scelto poteva essere un quartiere dormitorio,
il cui paesaggio era dominato da un’infilata di alveari per umani in un anonimo
stile brutalista. Altre volte, invece, il caso regalava qualcosa. Come quando,
girovagando per un piacevole blocco di condomini in stile liberty, m’imbattei in
un pittoresco negozio che vendeva oggettistica rockabilly; una rarità per chi,
come me, veniva dalla provincia profonda.
Che andassero bene o male, quando l’orologio m’imponeva di tornare sui miei
passi e ritornare sotto terra per rientrare in ostello, quelle esplorazioni mi
lasciavano lo stesso qualcosa sulla pelle. Era una sorta di brivido, come una
scarica elettrica che faceva drizzare i peli delle braccia. L’esaltazione o la
spossatezza del giocatore d’azzardo che, almeno per un istante, aveva
contemplato l’inebriante girotondo di infinte possibilità tutte ancora da
attualizzare.
Solo che la mia slot machine, in quei frangenti, era la metropolitana, un treno
urbano che correva sotto la superficie della città, divorando le distanze senza
che me ne accorgessi. La cosa più simile a cui potevo ricondurre quei viaggi
senza meta era l’esperienza di una partita a Super Mario. I momenti in cui,
ignaro di quel che potrebbe accadere, posizioni la figurina dell’idraulico sopra
uno dei tanti tubi di cui sono costellati i livelli del gioco e pigi il tasto
inferiore della croce direzionale per farla accucciare. Il tubo potrebbe essere
un passaggio che conduce a un’area segreta del mondo di gioco, carica di tesori.
Oppure a una scorciatoia, che può farti avanzare rapidamente verso il livello
finale. Oppure, più spesso, essere bloccato e non portare da nessuna parte. La
metro, che ‒ curiosa coincidenza ‒, si può chiamare anche tube (tubo),
funzionava per me allo stesso modo. O meglio, ero io che la facevo funzionare
così, perché il resto delle persone che condividevano con me quei viaggi
sapevano alla perfezione dove stavano andando, quanto sarebbe durato il loro
tempo sottoterra e, soprattutto, cosa avrebbero trovato una volta riemersi dalla
rete metropolitana.
> La mia slot machine era la metropolitana, un treno urbano che correva sotto la
> superficie della città, divorando le distanze senza che me ne accorgessi.
O almeno così pensavo. Magari, su quei treni, seduto a fianco a me o aggrappato
a uno dei pali di sostegno, c’era qualcun altro che aveva deciso di scendere
nella metropolitana per smontare a una fermata sconosciuta solo per provare il
brivido di scoprire che aspetto aveva la città sopra di lui. Chissà, forse non
ero solo. Non lo so; quello che so è che questi ricordi e le sensazioni a loro
collegate e a lungo sopite nel mio cervello sono state riattivate dalla lettura
di un saggio uscito qualche settimana fa per il marchio MachinaLibro
dell’editore DeriveApprodi. Scritto dal giornalista culturale Luca Gricinella,
Giù in metrò. Società, arti e culture è un libro dedicato a ricostruire il ruolo
che la metropolitana riveste nell’immaginario contemporaneo e le influenze che
essa ha esercitato su ogni forma di espressione.
Dalla fotografia alla musica, dal cinema alla letteratura, fino alle arti
performative, quello della metropolitana nell’immaginario collettivo è un ruolo
caratterizzato da un ampio ventaglio di sfaccettature. Per poterlo raccontare in
modo esaustivo, l’autore ricorre ‒ non potrebbe fare altrimenti ‒, a molte,
diverse forme di scrittura: dall’autobiografia alla saggistica, dall’intervista
al reportage, dalla recensione all’etnografia. A imporre questo stile ibrido è
la natura stessa della metropolitana. Essa è infatti molte cose diverse allo
stesso tempo.
Prima di tutto è un mezzo di trasporto. Un treno che corre sottoterra grazie a
un reticolo di gallerie. È grazie a questa caratteristica che permette a un
vasto numero di persone di spostarsi rapidamente, percorrendo lunghe distanze.
La costruzione dei primi treni metropolitani ha inizio alla fine del
Diciannovesimo secolo. La prima vera linea meritevole di questa definizione è
stata quella di Londra, che ha cominciato a operare il 10 gennaio del 1863. Ad
avanzare la proposta di costruirla pare sia stato l’allora sindaco della
capitale britannica, Charles Pearson, determinato a ridurre il caos
insopportabile delle vie del centro, dovuto in parte anche alla mancanza di un
interscambio diretto tra le stazioni ferroviarie londinesi.
Da allora e fino agli anni cinquanta del Ventesimo secolo, la costruzione di
reti di trasporto ferroviario metropolitano visse un periodo di forte e rapida
espansione. Una crescita che non si limitò solo al numero di città che
adottavano questa soluzione o alla lunghezza complessiva delle loro reti, ma che
fu anche un progresso tecnologico. La metropolitana deriva dalla ferrovia, da
cui mutua buona parte del suo apparato tecnologico. Tuttavia, le particolarità
dello spazio in cui opera hanno fatto sì che questi impianti fossero oggetto di
innovazioni, come il controllo della marcia dei treni e la guida automatica.
> Giù in metrò è un libro dedicato a ricostruire il ruolo che la metropolitana
> riveste nell’immaginario contemporaneo e le influenze che essa ha esercitato
> su ogni forma di espressione.
Oggi, i diversi tipi di tecnologia impiegati distinguono i sistemi di
metropolitana, dando origine a molteplici categorie. Le metropolitane si
distinguono così in base al loro tipo di guida, con o senza conducente; al tipo
di rotaia usata, metallica o gommata; al tipo di sede, che può essere
sotterranea, sopraelevata o di superficie; in base al genere di servizio, dunque
pesante o leggero. Potrebbe sembrare una nota di poco conto, ma una parte
dell’identità di ogni metropolitana nasce proprio dalle molte combinazioni
possibili di queste tecnologie.
Ruote e rotaie di quella di New York, racconta Gricinella nel capitolo a essa
dedicato, continuano a essere entrambe di metallo, dando così origine al forte
stridio che ne è diventato ormai un simbolo. Mentre i convogli automatizzati
della linea lilla (M5) della metropolitana di Milano ‒ che attraversa la città
da nord a nord ovest collegando lo stadio di San Siro con il capolinea di
Bignami Parco Nord ‒ la rendono la linea più amata dai bambini. Seduto su uno
dei seggiolini, l’autore li osserva con tenerezza correre verso l’ampia vetrata
rivolta nel senso di marcia per potersi godere l’emozione di veder comparire la
luce al fondo dell’oscurità del tunnel, mano a mano che il treno si avvicina a
una stazione.
Ma la metropolitana non è solo un mezzo di trasporto tecnologico, è anche uno
spazio. Uno spazio molto particolare; un non luogo, per dirla con il concetto
coniato dall’antropologo francese Marc Augé, che alla metropolitana ha dedicato
Un etnologo nel metrò (1992), uno dei suoi testi più celebri. A renderla tale è
la sua posizione sotterranea. Alla metropolitana si accede infatti attraverso un
complesso sistema di soglie composto da scale, portali, tornelli, ascensori,
rampe e diversi altri tipi di forme architettoniche. Attraversando i quali non
ci si lascia solo alle spalle il mondo di superficie, si perdono tutti i
riferimenti e le coordinate spaziali che rendono possibile orientarsi nello
spazio.
L’esperienza di un viaggio in metropolitana è un’esperienza straniante, durante
la quale ci vengono sottratti i riferimenti cardinali a cui siamo abituati ad
affidarci quando attraversiamo gli spazi di superficie. A meno di non possedere
un’approfondita e inusuale conoscenza della rete e delle corrispondenze che essa
ha con i punti di riferimento che scorrono sopra le nostre teste, è impossibile
stabilire in quale direzione ci si stia muovendo quando si procede all’interno
dei suoi tunnel.
> Un viaggio in metropolitana è un’esperienza straniante, durante la quale ci
> vengono sottratti i riferimenti cardinali a cui siamo abituati ad affidarci
> quando attraversiamo gli spazi di superficie.
Un compito per cui non troviamo aiuto nemmeno nelle mappe che rappresentano le
diverse linee della metropolitana di una città. Se il modo in cui vengono
rappresentate ricorda più uno schema elettrico che una carta geografica è
proprio perché disegnare circuiti elettrici era il mestiere di Harry Charles
Beck, la persona che ha inventato questo sistema di rappresentazione allo scopo
di tracciare la mappa della metropolitana di Londra nel 1933. Ma prendendoci il
tempo per guardarla con più attenzione e provando a smettere di attraversarne
gli spazi frenetici come elettroni, e Gricinella ci sollecita a farlo con il suo
libro, ci accorgiamo che la natura di non luogo ‒ anche Augé lo era nella sua
definizione ‒ è molto meno netta e stabile di quanto possiamo pensare.
L’antropologo francese specificava infatti che “ciò che per alcuni è un luogo,
per altri può essere un non luogo e viceversa”.
Scopriamo così che nella stazione di piazza Venezia della metropolitana di
Milano ‒ che, è la città in cui l’autore del libro è nato e vive ‒ esiste un
grande spazio vuoto, un mezzanino appartato ma non inaccessibile, di cui si sono
appropriate persone delle comunità sudamericane o asiatiche che lo utilizzano
come sala prove per le loro coreografie collettive, in quello che Gricinella
definisce “un esempio di spazio pubblico completamente in disuso che è stato ben
sfruttato”.
Oppure veniamo a sapere delle scorribande dei writer, che studiano le reti alla
ricerca di varchi o passaggi incustoditi da cui calarsi all’interno dei tunnel
della metropolitana per raggiungere i depositi dei treni e marchiarli con tag e
graffiti. O, ancora, dalle parole di Gricinella impariamo come le carrozze dei
treni metropolitani possano diventare il palcoscenico per un ampio ventaglio di
artisti di strada: dai senzatetto che si improvvisano intrattenitori fino agli
artisti affermati che usano la metropolitana come ispirazione per i propri
lavori.
> Guardando la metro con più attenzione, e provando a smettere di attraversarne
> gli spazi frenetici come elettroni, ci accorgiamo che la natura di non luogo è
> molto meno netta e stabile di quanto possiamo pensare.
È il caso di Sara Pizzi, performance artist italiana che vive e lavora a New
York, città dalla cui metropolitana si è fatta ispirare per lo spettacolo L
Train, realizzato insieme ad Aida Takashima. Ispirato all’omonima linea della
metro newyorkese, L Train, una coreografia di danza contemporanea, ha debuttato
il 21 e 22 gennaio del 2022 al Green Space Theatre nel Queens e, oltre alla
musica, conteneva annunci registrati della linea L e una narrazione recitata. Al
centro di questo lavoro c’è il desiderio di parlare “di come la vita sia
instabile, di come tutto cambi regolarmente senza che ce ne rendiamo conto, di
quante persone abbiamo lasciato nella nostra vita, di quante persone
dimentichiamo, di quanto siano imprevedibili le relazioni e di quanto sia facile
sentirsi sostituibili. Tutte queste domande portano alla conclusione che la vita
sembra come la linea del treno L: tutti vanno nella stessa direzione ma nessuno
ha la stessa destinazione.”
La linea L della metropolitana di New York collega Manhattan a Brooklyn con
ventisette fermate. È stata la prima linea automatizzata della città ed essendo
così lunga serve un considerevole numero di persone diverse, che si alternano
sui suoi convoglia a seconda del momento della giornata. “Dalle sei alle otto”
dice Pizzi, intervistata nel libro,
> studenti, insegnanti, altri lavoratori. Dalle nove del mattino fino alle tre
> del pomeriggio, tutti gli altri lavoratori con orari normali, senzatetto,
> artisti, turisti. Dalle quattro fino alle sette del pomeriggio è il delirio:
> fiumi di persone che tornano a casa dal lavoro e qui devi sgomitare tra
> skateboard, animali, buste della spesa e borse per entrare nella carrozza e
> sentirsi come una sardina in lattina. Dalle otto di sera in poi, invece, c’è
> la gente che torna tardi o va a lavoro, a cena, a un evento, e te la ritrovi a
> mezzanotte sullo stesso treno per tornare a casa ubriaca. Dalle due alle
> quattro del mattino, infine, è quell’orario magico in cui non sai se stai
> sognando o sei sveglio: tra carrozze vuote, o solo con senzatetto
> addormentati, lavoratori della metropolitana o giovani adulti ubriachi,
> l’unica cosa che si può temere è di addormentarsi e ritrovarsi all’altro capo
> della città.
Per quanto emblematica, quella testimoniata da Pizzi è solo una delle tante
storie che Luca Gricinella raccoglie per raccontare cosa sia davvero la
metropolitana e il legame che abbiamo con essa. Non soltanto un ambiente urbano,
né un comodo per quanto affollato mezzo di trasporto. Vista attraverso la penna
dello scrittore milanese, la metropolitana ‒ o metro, oppure metrò, alla
francese ‒ si rivela per quello che è in realtà: un complesso oggetto culturale
che, in virtù del fascino che le sue caratteristiche esercitano su di noi,
occupa un posto di rilievo nel nostro immaginario e continua a rappresentare un
luogo in cui storie personali, dinamiche di comunità, pratiche artistiche
spontanee e marketing corporativo continuano a incontrarsi e influenzarsi le une
con le altre, in quell’incessante lavorio creativo ed espressivo che siamo
abituati a chiamare “cultura”.
L'articolo Giù in metrò di Luca Gricinella proviene da Il Tascabile.
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I n Storia della fama. Genesi di otto miliardi di celebrità (2025), Alessandro
Lolli, già autore del seminale La guerra dei meme. Fenomenologia di uno scherzo
infinito (2017, 20202) torna a proporre la sua prospettiva sociologica,
contemporaneamente rigorosa e idiosincratica, questa volta applicata alla fama.
Si tratta di un tema indispensabile per comprendere la socializzazione virtuale,
ma anche di una questione che in modi diversi ha attraversato tutte le società:
per questo, una “storia” che parte dall’età antica, si sofferma a lungo sulla
modernità e arriva infine all’oggi, una fase inedita, secondo Lolli, in cui
quello che era un problema che riguardava pochi soggetti diventa affare di
massa, con conseguenze immani per i soggetti stessi e, inevitabilmente, per la
società.
IL TUO LIBRO RICOSTRUISCE COME LA FAMA SIA DIVENTATA UN FENOMENO SEMPRE PIÙ
CENTRALE NELLA SOCIETÀ. QUESTO COSA IMPLICA PRECISAMENTE? UN AUMENTO DI
SPEREQUAZIONE RISPETTO A UN BENE SEMPRE PIÙ AMBITO O UNA DEMOCRATIZZAZIONE DI
QUALCOSA DI ELITARIO PER DEFINIZIONE?
La sperequazione della fama secondo me non sta aumentando. Anzi, prendiamo Kanye
West e Taylor Swift, rispettivamente il cantante e la cantante più famosi al
mondo. Mi sai dire i titoli di cinque canzoni di Taylor Swift? Probabilmente no.
Saprai chi è, ne avrai sentite alcune (io ne so forse due). Mentre se ti chiedo
titoli di Britney Spears, me li sai dire subito. Oggi le persone in cima alla
gerarchia della fama sono meno famose che in passato, per via della
targhettizzazione sempre più mirata che il pubblico riceve nei suoi consumi
culturali. Certo, diversi famosi oggi riempiono ancora gli stadi e hanno tutto
il loro seguito di fedeli, ma non sono più dei fenomeni di massa come potevano
esserlo le popstar già solamente dieci o quindici anni fa, quando un’intera
generazione guardava MTV. La nostra fruizione della musica allora passava per i
media nazionali e le loro canzoni le sentivi per forza.
Ora la fruizione passa per degli strumenti che noi addestriamo con i nostri
gusti e Taylor Swift potremmo non averla mai sentita (cosa impossibile per
Britney Spears a inizio anni 2000). Nessuno è più famoso come ai tempi di quella
che definisco la fama paradigmatica. Oggi la fama ritorna cittadina: famosi di
livello globale esistono ancora, tutti sanno i loro nomi, ma non ne abbiamo più
una reale conoscenza come era un tempo. Quindi la sperequazione secondo me è
diminuita, è aumentato invece qualcosa di diverso, ovvero il fatto che sia più
facile mettersi nei panni del famoso. Sempre più persone nei panni di un
microfamoso ci si sono trovate, tendenzialmente chiunque usi un social network –
è questa la tesi del libro. Chiunque abbia i social ha già dovuto gestire degli
hater, ad esempio, quindi è più facile l’identificazione. In passato tu, persona
normale, quell’esperienza non l’avevi mai avuta.
QUINDI MENTRE SI VA VERSO UNA CRESCITA ESPONENZIALE DELLE DISUGUAGLIANZE SUL
PIANO ECONOMICO, LE ESPERIENZE CHE FACCIAMO A LIVELLO DI SOGGETTIVAZIONE
DIVENTANO SEMPRE PIÙ SIMILI? O È SOLO UN’ILLUSIONE DATA DALLA SENSAZIONE DI
LIVELLAMENTO CHE CONSENTE IL VIRTUALE, IN CUI TUTTI POSSONO AVERE UNA PAGINA
FACEBOOK, IN CUI “UNO VALE UNO”?
I social network si sono presentati in maniera un po’ truffaldina: ti dicevano
“a cosa stai pensando?”, si spacciavano come un modo per parlare con i tuoi
amici, per esprimerti, e invece erano uno strumento di disintermediazione
potentissimo che dava quello che io chiamo “il palcoscenico”, prima verbale poi
anche audiovisivo, in mano a tutti, e questa è chiaramente un’esperienza aliena
a tutta la storia dell’uomo.
Poi possiamo discutere se questo abbia un valore positivo o negativo. Però un
pensionato di sessant’anni che scopre che si può fare i video invece di
sbraitare al bar di fronte a chi lo sta sentire, magari tramite il passaparola
riesce a sfondare (faccio l’esempio del pensionato come persona meno aderente ai
linguaggi che ti permettono poi di provare a sfondare davvero conoscendo la
logica del medium). Questa è di fatto una cosa democratizzante, o meglio, se
democratizzare ha un significato è anche questo. Il post su Facebook, su Twitter
e su Instagram per lungo tempo è stato veramente un modo di parlare con gente
che bene o male ti conosceva. Eppure proprio lì ci siamo ritrovati tutti famosi,
inconsapevolmente, e abbiamo cominciato a dover gestire nel nostro piccolo quel
tipo di dinamiche sociali che prima gestivano solo i Ferragnez. Se hai il
profilo pubblico arriva uno sconosciuto che ti conosce, magari ti chiede conto
di qualcosa che hai fatto o detto altrove, e come fa a saperlo? Chi è questa
persona? Un sacco di gente ha avuto queste esperienze ‘famogene’. Il giorno che
prendi 100 like a un post e cinque condivisioni, arriva qualcuno che ti tratta
letteralmente come un famoso. Ora esistono a tutti gli effetti dei famosi per
nicchie, cioè persone che possono campare addirittura di quella fama lì, piccola
e rivolta a una bolla. Questa cosa fino a vent’anni fa era completamente
inimmaginabile perché la fama viaggiava su media di portata nazionale.
E questo sta facendo qualcosa (che esce un po’ fuori dai confini del libro
perché è più sul lato della ricezione) di radicale a quella che chiamiamo la
cultura pop. Addirittura stiamo andando verso una impossibilità di parlare di
cultura pop in senso pieno. Certo il valore accerchiante e centralizzante del
mainstream esisterà finché esisteranno i media nazionali che vogliono che tu
parli dei Ferragnez, ma in realtà il consumatore già si è abituato a un altro
modello. Tipo: se sono un elettore di Calenda tra i 20 e i 25 anni non li guardo
i Ferragnez, voglio vedere solo Shy e Rick Dufer. I Ferragnez li subirò con
insofferenza, perché ormai siamo abituati ad un modello che è estraneo al
concetto stesso di mainstream, cioè io non devo per forza sapere di Taylor
Swift. Prima invece o sapevi di Celentano o non sapevi nulla della cultura in
cui vivevi, cioè non c’era un famosetto alternativo fatto per te. E questo avrà
delle conseguenze che toccheremo con mano a livello sociale tra qualche anno.
Non subito, perché forme di mainstream ancora sopravvivono, ma prima o poi
YouTube ucciderà definitivamente la radio e la TV. Esisteranno solo
microcelebrità, non legate a un modello di iperspecializzazione di competenze
quanto a una logica imprenditoriale. Mi spiego: poniamo che io sia un
imprenditore che deve fare una ricerca di mercato. Non è che una pizzeria è
sbagliata in assoluto aprirla. È sbagliato aprirla in quel quartiere, è
sbagliato aprirla senza una unique selling proposition che ti differenzi dai
tuoi più vicini competitor. Le persone che partecipano al gioco della fama, se
vogliono sfondare, devono tenere conto di tutte queste cose: io chi sono?
Poniamo che io sia un cantante indie: cosa devo cantare, chi sono i miei
competitor, come devo rappresentarmi, presso quali fasce? Fare arte diventa
molto più simile a un’indagine di mercato, come decidere in che quartiere aprire
il mio esercizio commerciale.
Il livello di consapevolezza riguardo a questo è la distinzione che io traccio
tra social network e social media. Il primo creava fama in modo inconscio e non
intenzionale, mentre le piattaforme di social media richiedono un’intenzionalità
che è paragonabile esattamente all’imprenditorialità. Già nel momento in cui
apri un canale YouTube ragioni come un imprenditore, che deve arrivare a un
pubblico, crescere, eccetera. Cioè ragioni come un imprenditore o anche come un
artista: qualcuno che fa una proposta sapendo che la sopravvivenza della stessa
è legata alla ricezione che avrà. Diversamente dai social network, nel social
media tu stai consapevolmente accettando le regole del gioco, sai di stare
davvero salendo sul palco, stai facendo davvero una cosa che è fatta per gli
altri, per i non conoscenti, per la fama. E si va sempre più in quella
direzione.
NELLA TUA RICOSTRUZIONE STORICA NON A CASO CERCHI DI FAR VEDERE COME IL
DESIDERIO DI FAMA SIA ANCHE INDOTTO. NON È SOLTANTO UNA QUESTIONE PSICOLOGICA, È
FORZOSAMENTE GENERATO DA UN SISTEMA PRODUTTIVO. SIA, COME SPIEGHI BENE, TRAMITE
IL DESIGN DELLE PIATTAFORME, SIA PER IL FATTO CHE NELL’ECONOMIA POSTINDUSTRIALE
“DIVENTARE QUALCUNO” (O DIVENTARE UN BRAND) SEMBRA UNA DELLE POCHE STRADE
DISPONIBILI PER GUADAGNARSI DA VIVERE: SENZA QUELLA RICONOSCIBILITÀ SI VALE
QUANTO UN’INTELLIGENZA ARTIFICIALE. A FRONTE DI QUESTO, NON È POSSIBILE CHE
L’ANONIMATO SIA DIVENTATO UN PRIVILEGIO? NON A CASO MOLTI MILIARDARI VIVONO IN
UN ANONIMATO QUASI COMPLETO. TUTTI DESIDERANO NECESSARIAMENTE I RIFLETTORI
OPPURE IN REALTÀ LAVORARE DIETRO LE QUINTE (CON UNO STIPENDIO SERIO), POTER
CONDIVIDERE LE PROPRIE OPINIONI SOLO CON LE PERSONE CHE TI INTERESSANO INVECE
CHE SUI SOCIAL, NON SENTIRSI COSTANTEMENTE OSSERVATI PUÒ AVERE UNA SUA
ATTRATTIVA, MA SI SENTE DI NON POTERSELO PIÙ PERMETTERE?
Ha assolutamente la sua attrattiva, infatti quello della fama è un potere di
seduzione che potremmo definire satanico. Prendiamo appunto la figura del
miliardario che si può permettere l’anonimato. Magari su Internet ha una pagina
istituzionale oppure non è proprio mai diventato una figura pubblica, però è un
qualcuno che secondo me in qualche momento nella sua vita questa cosa l’ha
incontrata, ed ha capito sulla sua pelle quanto gli poteva far male. Eppure
anche lui è suscettibile a un’offerta di questo tipo – come quando Trump va da
Musk e gli dice “senti, vuoi fare il mio braccio destro?”. Non è detto che i
soldi che ha siano una motivazione sufficiente per rifiutare quel livello di
esposizione lì, con tutti i suoi pro e contro. Infatti nel libro cito
Houellebecq che in Le particelle elementari sostiene, erroneamente, che le
rockstar siano più ricche di banchieri e imprenditori. Di fatto non è così,
eppure, comprensibilmente, la vita della rock star gli appare molto più
invidiabile di quella di un miliardario anonimo. A dispetto dei soldi.
Questo passaggio secondo me è fondamentale per la contemporaneità: in passato se
eri famoso, nel senso proprio del termine, eri anche almeno benestante, perché
voleva dire che avevi avuto accesso alla carriera propriamente detta della fama,
quindi eri un cantante, un politico, uno scrittore affermato, eccetera eccetera
e quindi avevi anche soldi. Oggi questa unione tra i soldi e la fama si è
slegata. Ci sono delle persone, ad esempio una mia amica che fa l’influencer da
100.000 followers e rotti, che non ha manco i soldi per piangere perché non ha
mai fatto advertising. Lei è una forza culturale significativa nel suo ambiente,
un’influencer politica, ha un’esposizione che però non si traduce in soldi.
Questo anche per via delle sue scelte etiche, ma pure se le avesse tradite forse
si faceva al massimo uno stipendio da entry level, se cominciava a fare le
pubblicità degli shampoo con la falce e il martello… Eppure lei è una che ha
influenza, ha fama, ha potere sulla cultura, viene riconosciuta in tanti
ambienti. Quindi come tante figure simili vive tutti gli aspetti della fama, ma
non riceve la proporzionalità che ti aspetteresti in denaro.
La seconda caratteristica tipica del contemporaneo è che paradossalmente questo
non rende una persona come questa influencer meno invidiabile. Ti faccio un
esempio: preferiresti 100.000 like o 100 €? Tra 100.000 like e 100 € secondo me
tutti sceglierebbero i like. Se sei un imprenditore molto ricco e però sei poco
attraente, le donne magari ti cercano ma solo perché gli fai fare la bella vita
nelle terrazze di Dubai, non sei un vero oggetto del desiderio. Al contrario, se
sei famoso stai su un palco, tutti ti guardano, tutti vorrebbero averti o essere
te, insomma è una forma di amore. Quella è la cosa più ambita. Forse è un amore
falso, ma a me non interessa giudicare: dovrei diventare moralista e il mio non
voleva essere un testo moralista, cerco di descrivere la fama fino a un punto in
cui tu lettore puoi trarre tutto il tuo giudizio. Quello che interessa a me è
constatare che quell’amore lì ha un potere di seduzione fortissimo.
LA TUA ANALISI È MOLTO OGGETTIVA INFATTI. NON GIUDICANDO MAI I MECCANISMI
PSICOLOGICI CHE SONO ALLA BASE DELLE RELAZIONI FAMOGENE PERÒ SEMBRI
IMPLICITAMENTE NATURALIZZARLI, CONSIDERARLI INEVITABILI. NON DISCUTI AD ESEMPIO
LA GRATIFICAZIONE GARANTITA DALLA FAMA, COME SE FOSSE OVVIO CHE CHIUNQUE NON
POSSA CHE AMBIRVI. DIRESTI CHE LA FAMA LOGORA CHI NON CE L’HA?
La fama è un potere, qui inteso non come un’istituzione, ma come una cosa che
agisce sull’animo, e se vogliamo dare un nome preciso a questo potere è un amore
senza volto, quello che si riceve dal pubblico, l’amore della folla anonima.
Quindi è un amore degenerato, ma rimane un amore, cioè un riconoscimento. Certo,
ha un valore puramente quantitativo: la fama si caratterizza proprio in questo
rispetto a tutte le altre relazioni, quelle relazioni che non sono famogene
perché io so con chi sto parlando e da chi vengo riconosciuto, da chi vengo
validato, da chi vengo amato, da chi vengo odiato. Si ha un rapporto di fama
quando io non so queste cose, quindi ciò che conta è solo il numero.
Intendiamoci, la fama logora anche chi ce l’ha. Ma il fatto è che la fama può
essere negativa, positiva, o anche, e questo è cruciale, troppo ristretta
rispetto al tuo sforzo: nel momento in cui giochi a quel gioco, puoi decidere di
uscirne a causa della delusione. Raramente comprendi in maniera morale e
spirituale che questa cosa ti sta facendo del male, più spesso comprendi che hai
fallito a quel gioco e che continuarlo vuol dire esporti sempre di più alla
percezione di un fallimento. Quel bisogno di validazione non può che aumentare
esponenzialmente: lo disse una volta Gipi, una persona che non cito nel libro ma
che avrei dovuto perché da quindici anni in ogni intervista parla proprio di
questo.
La prima volta che lo vidi dal vivo, a una presentazione nel 2013, parlò di
quando divenne famoso. In effetti fu il primo fumettista italiano a raggiungere
quei livelli di fama, ben prima di Zerocalcare; se ricordi andò dalla Bignardi
nel 2008, è lì che si è cominciato a parlar di graphic novel, a nobilitare il
fumettista come artista eccetera. Parlando di questo lui parlava di applausi,
che oggi chiameremmo like. Diceva che nel momento in cui ne hai presi 100.000,
il buco che hai dentro ora vale 100.000. Quando ne prendi “solo” 1.000, quindi,
ti senti vuotissimo. Se non ne avessi mai presi né 100.000 né 1.000, ne prendi
100 e sei supercontento. Insomma sviluppi un’assuefazione alla fama, come con
una droga, e quindi più hai un riconoscimento, più hai bisogno almeno di quella
soglia là, tutto il resto è un fallimento. Quindi è questo, secondo me, più che
un motivo moralistico stile “ho capito che questa è una via sbagliata” a far sì
che la gente si chiami fuori. Tante persone si ritirano come coping per un
fallimento percepito: mi convinco di non valere più nulla, quindi non vale
neanche più la pena stare qua a provarci. Tanto vale che faccio la vita vera.
NELLA SUA PREFAZIONE, FRANCESCO PACIFICO PARLA DELL’UMILIAZIONE CHE STA DIETRO A
TUTTO IL MECCANISMO DELLA FAMA, LA CHIAMA UNO “SQUALLIDO IPEROGGETTO”, UN PO’
COME CHRISTOPHER LASCH NEL SUO FAMOSO LA CULTURA DEL NARCISISMO NEL SOTTOTITOLO
PARLAVA DI “UN’EPOCA DI DISILLUSIONI COLLETTIVE”, SVELANDO INSOMMA LA POCHEZZA
UMANA, SOCIALE E RELAZIONALE DI CUI IL NARCISISMO ERA UNA CONSEGUENZA PRIMA CHE
UNA CAUSA. PERÒ POI LEGGENDO IL TUO LIBRO TU SEMBRI INTERESSATO, PIÙ CHE A
DECOSTRUIRE LA FAMA E IL BISOGNO DI FAMA, A SVELARNE IN MODO UN PO’ DIALETTICO
IL MECCANISMO DESIDERANTE CHE VI SI ESPRIME. AD ESEMPIO, RICONOSCI CHE NEL FAN
C’È UN DESIDERIO MIMETICO E UNA VOLONTÀ DI IDENTIFICAZIONE, MA INSISTI PIÙ CHE
ALTRO SUL DESIDERIO ESPLICITAMENTE EROTICO CHE RENDE TALE IL FAN.
Perché il desiderio erotico è l’ultimo passo prima dell’identificazione. In
questo senso è fondamentale la figura della groupie, cioè il fan che si risolve
fin dove si può risolvere, perché il rapporto sessuale è questa unione di due
corpi, il momento in cui non potresti essere più vicino di così a una persona
(che non conosci davvero): qual è la cosa più forte che puoi fare con chiunque?
Farci l’amore, no? Con chiunque con cui non hai un altro rapporto invece molto
più mentale e spirituale. E quindi sì, quella è la forma che prende nel momento
in cui provi ad attualizzarla.
L’identificazione invece è un meccanismo psicologico ancora precedente: una
delle forze che ci spingono ad ammirare qualcuno di così distante è mettersi nei
suoi panni. Questo emerge spesso in tutta quella serie di produzioni testuali
che sono la difesa del famoso da parte del fan. C’era un giornalista del Foglio
di cui non farò il nome, che per anni ha difeso strenuamente quasi ogni
settimana nella sua rubrica i Ferragnez. Se la prendeva con “gli invidiosi” che
li criticavano, difendendoli con i soliti argomenti: “tu non sei nessuno, loro
stanno a fare i soldi, guarda che bella vita”. Lo muoveva un meccanismo di pura
identificazione. Se vuoi, anche di sopravvivenza: se io non sto dalla tua parte,
tu mi schiacci. Lui si stava ponendo direttamente nel salotto dei Ferragnez per
usare quella violenza contro quelli che in realtà erano molto più simili a lui.
Ed è qualcosa di diverso dalla cortigianeria, perché è una cortigianeria tutta
proiettiva, immaginaria: che io sappia lui non ha mai avuto davvero accesso alle
prebende dei Ferragni, è tutta una difesa psicologica, preventiva.
Se io con la mente non mi metto nella parte del rosicone, del perdente, vuol
dire che sono un vincente. Voi in questo momento state subendo questo potere che
riconosco schiacciante, proprio per questo io devo stare dalla parte del
potente. Devo dire “ma guarda che sfigati, che passano il giorno a criticarli
mentre loro fanno la bella vita”. Mentre mi esprimo così, io sono già accanto a
loro, ai potenti. Non sono tra le schiere dei rosiconi, perché l’ho appena
detto, che io no, io non rosico. E questo nell’atteggiamento della difesa del
famoso è secondo me la forza principale, lì proprio si vede come si struttura
questa cosa: come un asservimento di fronte a questo potere di cui si riconosce
la forza. Quanto più riconosci il potere schiacciante del famoso, tanto più ti
inchini, diventi un fan. Come dico nel libro, sia essere hater che essere fan
sono due modi di difendersi. Se fai l’hater (che è la cosa forse più naturale di
fronte a un potere che riconosci come tale), stai anche ammettendo che ti sta
facendo del male, cioè che tu rispetto a lui non sei nessuno, cioè stai
ammettendo questa differenza. Se invece ti dici “no no, loro fanno bene, io sono
con loro, anzi, hai visto come fanno rosicare gli altri”, stai vaneggiando di
essere non solo con loro ma come loro, quindi non toccato da questi sentimenti
qua, di inferiorità e invidia.
QUESTO SPIEGHEREBBE ANCHE QUELLA DINAMICA A CUI ACCENNI SECONDO CUI NON
DESIDERIAMO SOLTANTO ESSERE FAMOSI, MA DESIDERIAMO ANCHE AVERE QUALCUNO DI
FAMOSO DA AMMIRARE DA LONTANO. IL FAN PUÒ SICURAMENTE AVERE UN SACCO DI
RISENTIMENTO, MA POTREBBE COMUNQUE PREFERIRE AVERE DEI RAPPORTI FAMOGENI CON DEI
MODELLI PIUTTOSTO CHE AFFRONTARE UNA DISILLUSIONE RISPETTO A QUESTI MITI.
INSOMMA ABBIAMO BISOGNO DI AUTORITÀ?
Senz’altro, le persone vogliono qualcuno che le guidi proprio perché non ci sono
più tre partiti e una chiesa, e magari quattro o cinque famosi che ne incarnano
le visioni, a dirti cosa fare. Adesso le figure che ammiri e che prendi a
modello sono delle celebrità di nicchia, qualcuno che incarna un tuo flavour di
personalità, che ha gli interessi tuoi, che ha una visione morale tua… tua o
sua: chi è stato il primo a contaminare l’altro non si sa più. L’ho scelto
perché mi corrispondeva o ho iniziato a modellarmi su di lui? Io non credo che
questa funzione scomparirà, anzi questa funzione diventerà ancora più forte,
come il tuo legame di vicinanza con l’autorità che ti sei scelto. Il tuo Shy di
Breaking Italy funziona molto meglio di Pippo Baudo, perché è fatto su misura: è
comunque grande, di quella grandezza necessaria per funzionare come un modello,
come padre, come maître à penser, però hai l’illusione (che poi non è
un’illusione) che l’hai scelto tu, cioè che è comunque qualcosa di coerente col
tuo percorso di vita. Prima, una persona alla TV aveva il conduttore di
centrodestra, quello democristiano, quello comunista, e tra questa rosa limitata
aveva molta più facilità a dire “quello non mi rappresenta, mi è stato calato
dall’alto e quindi sì, sono un po’ più d’accordo con quello piuttosto che con
quell’altro”, ma se io invece mi sono scelto il mio influencer, l’adesione
diventa totale.
Questo spiega anche molto astensionismo, la morte della politica
rappresentativa: la gente non è più abituata a scendere a compromessi. Certo, ci
sono ancora personalità come Trump e Berlusconi che hanno qualcosa che sfugge a
questa logica, cioè non sono amati per le singole questioni che condividi con
loro, ma per un carisma eccezionale. Nati per ammaliare il prossimo, che sia una
tavolata o una nazione intera. Loro sono dei veri e propri famosi nel senso del
divismo. Ma sono rari: la “taylorizzazione” (nel senso di “taylor made”, fatto
su misura) dei consumi culturali, politici, spirituali, chiamali come vuoi,
insomma il fatto che io fruisco la cultura in una maniera sempre più
personalizzata, è ciò che fa sì che nessun partito mi rappresenti. I partiti
sono dei pachidermi novecenteschi, che non sono pensati per me. Devono prendere
un bacino elettorale e quindi avere molta più ampiezza e meno precisione, mentre
siamo ormai abituati a un rispecchiamento molto più preciso.
EPPURE TU SOSTIENI, A RAGIONE TROVO, CHE, A DISPETTO DI CHI PARLA DI
INDIVIDUALISMO, A CAUSA DELLA TECNOLOGIA SIAMO SEMPRE PIÙ MEDIATI E PIÙ SOCIALI:
LE PERSONE DIPENDONO COSTANTEMENTE E SEMPRE DI PIÙ DA UN FEEDBACK ESTERNO, IN UN
CERTO SENSO SONO MENO ISOLATE E MENO AUTONOME DI UN TEMPO, PARADOSSALMENTE. E IL
RISCHIO CHE FAI INTRAVEDERE IN QUESTO RAPPORTO DI CONTROLLO SOCIALE È,
INEVITABILMENTE, IL CONFORMISMO.
Esatto, sono convinto che la nostra società sia molto più conformista di quelle
del passato. La società tradizionale aveva appunto queste agenzie morali, come
la Chiesa e lo Stato (al massimo incarnate in alcune voci che ne facevano le
veci, ad esempio la famiglia), che erano più rigide ma erano poche,
individuabili, e distanti. Qua invece tu sei conformista in ogni momento in cui
ti esprimi sul social network proprio per via del feedback costante. In ogni
momento ricevi approvazione o disapprovazione. Il social network poi funziona
anche tramite bolle, che sono ambienti dei quali conosci già gli orientamenti e
le opinioni: tu già prima di ragionare su un tema conosci i posizionamenti dei
tuoi pari, hai già in testa questa mappa di opinioni. Per dirla in maniera
positiva, diciamo, hai già la società dentro di te, con tutto quello che
comporta, di bene e di male. E di male comporta un’autocensura preventiva, una
riduzione proprio della libertà di pensiero. Come diceva William James, “molte
persone credono di pensare invece riordinano i propri pregiudizi”, e oggi molte
persone credono di pensare invece riordinano le voci altrui nella loro testa.
Cercano di farle combaciare con la loro percezione del mondo. È una cosa che
vivo su me stesso e che vedo molto spesso nella forma che prendono talvolta
certe prese di posizione, piene di mani avanti, di considerazioni preliminari…
INSOMMA TU LAMENTI UNA CARENZA DI INDIVIDUALISMO, PIUTTOSTO CHE DENUNCIARNE
L’ECCESSO COME È ORMAI CONSUETUDINE FARE. E UN ALTRO PUNTO CHE FAI AL RIGUARDO È
QUELLO SULLE IDENTITY POLITICS.
La critica che si fa spesso alle identity politics da sinistra (in uno spettro
che va dalla sinistra estrema all’area rosso-bruna o
comunitaria/tradizionalista) è che sarebbero individualiste, espressione
dell’ideologia della società delle merci, trionfo del capitalismo, come gli
influencer insomma. Ora, il problema è che l’individualismo non è una posizione
dell’ego, è una teoria filosofico-politica, e se noi la applichiamo a
influattivisti ispirati alle identity politics capiamo che in realtà queste
ultime hanno come presupposto proprio la scomparsa dell’individuo: la persona
parlante non è un individuo ma è membro di una o più comunità oppresse, e
solamente in virtù di questa appartenenza prende parola ed è legittimato a
esprimersi. Cosa che peraltro chiunque aderisca a questa visione
rivendicherebbe: non sono individualisti, sono collettivisti (di tanti
collettivi – è questa l’intersezionalità). Ogni soggettività è formata da una
serie di linee di oppressioni, di situazioni per le quali una volta sei nel
gruppo privilegiato e una volta nel gruppo oppresso.
Io sono convinto che non sia una teoria individualista, e come ti dicevo sono
convinto che lo pensino anche quelli che la professano. Quello su cui forse
avrebbero da ridire è il fatto che questo loro modo di pensare ben si accorda
anche alla logica dei social, dove infatti c’è sempre una persona che sta
parlando e che gode di quella esposizione e di quella pubblicità ma è legato
all’altro lato, alla comunità perché tutto il suo valore è misurato dalle
reaction e dai follower che prende. Cioè l’influencer si esprime per cercare di
cogliere un riscontro che è immediato, verificabile, numerico come non lo è mai
stato prima nella storia, neanche ai tempi delle hit parade. Lì al massimo
potevi ipotizzare che una canzone fosse andata male per via di alcuni motivi che
comprendevi a posteriori, invece il sistema del social media ti dà delle metrics
precise. Ecco, la soggettività che si espone su un social media è una
soggettività molto fragile, che si mette in mano agli altri, le sue parole
contano quanto quest’altra collettività le fa contare. E quindi secondo me non
solo non sono individualiste filosoficamente proprio alla base le politiche
identitarie, ma non è individualista neanche l’utente tipo di un social media: è
troppo legato al giudizio altrui, non ha nulla di quella teoria dell’individuo
che si differenzia da una società ed è portatore di diritti e di valori a sé
propri… Che poi anche questa possa essere una finzione è un altro discorso, ma è
una finzione in cui alcune persone si riconoscono e pensano che il mondo
dovrebbe essere formato appunto da individui non da pecore. Un social media ti
rende egoista, perché ti nutre l’ego quando prendi quelle reazioni, ma non un
individualista.
RISPETTO A CHI PENSA CHE LE POLITICHE IDENTITARIE SIANO UNA RISPOSTA O UNA
REAZIONE ALL’ALT-RIGHT, TU LE LEGGI COME INVECE UNA “RISPOSTA ALLA NEVROSI DELLE
SINISTRE STORICHE”.
Dico che secondo me sono una filiazione della sinistra. Tra la critica poniamo
di un Fusaro o di uno Zhok che le associa all’individualismo e quella di un
Jordan Peterson che parla di marxismo culturale, penso che abbia ragione
quest’ultimo: è un marxismo che chiaramente perde la centralità della classe, ma
ne acquista tot altre che si articolano allo stesso modo. Riprende cioè dal
marxismo questa struttura secondo cui c’è una parte della società che opprime e
sfrutta e una parte della società che è oppressa e sfruttata. Il marxismo però
ha in sé, secondo me, anche l’universalismo, perché il punto è l’abolizione
delle classi, l’obiettivo è un mondo in cui non viene più sfruttato nessuno. Se
applichi questo discorso alla razza o al genere bisogna capire cosa vuol dire
l’abolizione di razza e genere come strutture simboliche. Lì spesso diventa
molto più forte la variante operaista del marxismo, in cui una parte che si
riconosce come oppressa (in quanto neri, in quanto donne, in quanto gay…) si
pone come primo obiettivo il conflitto e la distruzione della controparte. Cosa
che poi, calata nella realtà dei fatti, si trasforma semplicemente nel
pretendere da questa controparte un tornaconto, fosse anche una visibilità.
Anche qui Jordan Peterson non sbaglia nell’individuare questo meccanismo che
lui, semplificando, chiama tribalismo.
SOSTIENI CHE LA FAMA NON È UN RAPPORTO DI PRODUZIONE, MA DI CONSUMO. C’È CHI CI
SI MANTIENE PERÒ. IN MODO MOLTO DIRETTO, AD ESEMPIO, TRAMITE ONLYFANS, COME
RACCONTI BENE NELL’ULTIMO CAPITOLO SUL FUTURO DELLA FAMA. UN CASO EMBLEMATICO
PER CHIEDERSI CHI COMANDA DAVVERO NEI RAPPORTI DI FAMA: IL FAMOSO (PIÙ POTENTE
DEI FAN), O I FAN (DA CUI IL FAMOSO DIPENDE PER ESSERE TALE)?
OnlyFan è paradigmatico perché svela che ogni rapporto di libero professionismo
è prostituzione. Il famoso stereotipico è un artista che se può fare quella cosa
come carriera, come sostentamento, è perché è letteralmente un venduto, perché è
una persona che vende quella cosa lì ed è dipendente da un acquirente. Nelle
interviste spesso emerge che tipo di rapporto ha con i suoi acquirenti, ovvero
con i suoi fan: li odia. Li odiano sia Noyz Narcos sia le Onlyfansers, perché
sono delle persone con cui non hanno nessun rapporto, mentre i fan hanno un
rapporto completamente fantasmatico con loro, e loro sanno di esserne
dipendenti. Dipendenti però non dal singolo fan, bensì dal fan collettivo,
quindi quando il fan dice “ti boicotterò” pensa di avere un potere che non ha,
perché non ha un sindacato, non è organizzato come un corpo collettivo. Marx
spiega bene come i rapporti diseguali e sproporzionati possono essere resi
dialettici se quella massa di singole persone che producono plusvalore si
organizzano. Le opere di boicottaggio collettive possono funzionare in questo
senso. Quindi in un certo senso la cancel culture è un atto sindacale: la cancel
culture riuscita è una protesta dei fan che nella loro indignazione etica nei
confronti di un famoso formano questo sindacato. Certo, è la folla linciante
girardiana, ma è anche un sindacato, cioè è una forza talmente grande da
impattarti sul serio ‒ e infatti il famoso si rende conto che deve rendere
conto: farà ad esempio la pubblica scusa, dovrà ritrattare, insomma, deve farci
i conti in qualche modo. Questa asimmetria si inverte solamente nel momento in
cui tu hai a che fare con il tuo fan collettivo. Questo perché il famoso vale di
più di un non famoso. Ma l’operaio l’ha sempre saputo in qualche misura che lui
singolarmente per la Fiat non vale nulla, e che vale solamente se è organizzato,
il fan lo sa un po’ di meno. Avendo questo rapporto emotivo con il famoso, vive
un’illusione di mutuo riconoscimento, di reciprocità.
C’È QUALCOSA DI POLITICO QUINDI IN QUESTA INDIGNAZIONE PUBBLICA E COLLETTIVA?
La call out culture, cioè il momento inaugurale della cancel culture, il momento
in cui la gente si indigna perché un famoso ha fatto qualcosa di sbagliato o
qualcosa che è percepito come tale, è qualcosa di più della sanzione di un uso
illegittimo della fama. Al famoso viene rimproverato non solo ciò che ha detto e
pensato, che sì, è anche sbagliato in assoluto, ma è davvero sbagliato perché
lui ha un seguito: lui è responsabile di tutto quel following che ha. C’è
qualcosa di molto profondo che emerge in alcuni episodi di tentata
cancellazione: quando si comprende che forse il fatto in sé non era così grave
ma lo diventa perché quella persona è così famosa, la folla di fatto si sta
vendicando della fama; quello che sta facendo pagare al famoso di turno è il
fatto stesso di essere famoso. Si arriva così a un certo punto in cui cade la
maschera. Le persone rivelano di essere oltraggiate dal potere arbitrario che
questa persona ha, che non può essere giustificato dal fatto che è un
grandissimo attore e quindi può anche influenzare nel bene e nel male. Il
problema non è che non puoi influenzare nel male, si arriva a un certo livello
del ragionamento collettivo secondo cui non li potresti influenzare neanche nel
bene: il potere, la visibilità, il follow che hai non è assurdo solo il giorno
che sei ubriaco e scrivi la N word su Twitter, è assurdo anche tutti gli altri
giorni in cui non la scrivi. Se la dice mio nonno a Natale, infatti, non è così
grave come se la dice Manuel Agnelli. Quello che tu imputi a Manuel Agnelli non
è tanto che l’ha detta, ma che l’ha detta di fronte a 100.000 persone.
E se semplifichi i vari termini di questo discorso come se fosse un’equazione,
ti rendi conto che non c’è nulla che lo legittimi neanche quando dice il giusto.
Non c’è un mandato popolare che qualcuno gli ha dato per dire il giusto, quindi
nel momento in cui dice qualcosa di sbagliato, dici “ma perché questo sta qua?”.
In molti casi il punto passa dall’uso illegittimo del potere alla stessa
legittimità di questo potere. Sei stato irresponsabile, ma questa responsabilità
perché ce l’hai? Associare fama e merito (“ce l’hai perché hai tanti follower, e
li hai perché sei bravo”), è un discorso che arriva come razionalizzazione di
una violenza che inconsciamente il follower sa di stare subendo. Questo discorso
razionalizzante in cui ciò che è reale è razionale ed è giusto e viva così,
durante tutto il Novecento viene messo in discussione. Per gli antichi la fama
era un attributo che veniva già a chi se l’era meritato, perché era una persona
carica di responsabilità, era un governante, cioè aveva una legittimazione
ulteriore. Nel corso della storia della fama, tutti abbiamo capito che la fama
può essere arbitraria, cioè che un famoso può essere stato semplicemente
graziato dal Signore. Magari ha avuto una mezza idea buona, però la verità,
quello su cui si basa tutto questo potere, è che ti sei trovato alla fine al
posto giusto al momento giusto. La storia della fama è anche una storia di come
è cresciuto questo sospetto nei confronti della fama: tutti oggi abbiamo una
qualche cognizione del fatto che nessuna fama è pienamente legittima, pienamente
meritata.
L'articolo Tutti famosi proviene da Il Tascabile.
M illenovecentonovantadue. “Lo stile di vita americano non è negoziabile”
afferma perentorio George W.H. Bush al Summit della Terra, dando così inizio
anticipato al ventunesimo secolo. Mike Judge ha trent’anni e ha appena venduto
Frog Baseball, il suo primo cortometraggio animato, a MTV. Quell’american way of
life sbandierata da Bush lo ossessionerà per tutta la sua carriera di animatore,
sceneggiatore e regista, fino a diventare il centro gravitazionale di tutto il
suo universo comico, in equilibrio precario tra sarcasmo e barbarie. Nei due
minuti e cinquantotto secondi di Frog Baseball esordiscono i suoi personaggi più
celebri, Beavis e Butt-Head, due giovani metallari perdigiorno che seviziano
degli animali in modi molto creativi alternando le violenze ai riff, cantati a
cappella, di Iron Man dei Black Sabbath e Smoke on the water dei Deep Purple.
Con l’arrivo del corto su MTV, Mike Judge entra di fatto nel rooster della
mitologica Liquid Television, un carosello di short animati a cui devono la
propria fama diversi altri capolavori dell’animazione come Æon Flux o Brad
Dharma, Psychedelic Detective.
Nato a Guayaquil in Ecuador, nel 1962, da madre bibliotecaria e padre
archeologo, a tre anni Mike si trasferisce con la famiglia in una fattoria ad
Albuquerque, nel New Mexico. Finito il liceo si sposta a San Diego dove ottiene
una laurea in fisica alla University California San Diego nel 1985. L’anno
successivo inizia a lavorare a Santa Monica, nella ruggente Silicon Valley, in
un’azienda che produce schede video per computer, tre mesi dopo si licenzia. Per
diversi anni suona come bassista in oscure blues band texane mentre segue un
corso di specializzazione superiore in matematica all’università del Texas. È in
questo periodo che comincia a cimentarsi con l’animazione. Crea il suo primo
corto: Office Space, in cui appare come protagonista Milton, un impiegato
frustrato che, tra un’angheria e l’altra del capo, balbetta tra sé di voler dar
fuoco all’azienda; ai tempi doveva probabilmente apparire come una versione punk
e apocalittica di Dilbert, la celebre striscia feriale di Scott Adams. Riesce a
presentare il corto in un festival di animazione a Dallas e Comedy Central lo
acquista. Nel giro di qualche anno Office Space, rinominato Milton come il suo
protagonista, diventerà un siparietto fisso nel Saturday Night Live.
Nel frattempo Judge lavora per espandere le avventure dei due protagonisti
apparsi in Frog Baseball, dando vita all’omonima serie, Beavis and Butt-Head,
che dal 1993 va in onda su MTV, divenendo la risposta hardcore punk del network
al recente successo dei Simpson di Matt Groening. Nel giro di qualche puntata si
conferma una delle serie animate per adulti di maggior successo negli Stati
Uniti, archetipo, insieme all’opera di Groening di una nuova forma di animazione
per adulti, che verrà sviluppata da South Park (1997) e dai Griffin (1999).
> La serie di animazione Beavis and Butt-Head di Mike Judge, che dal 1993 va in
> onda su MTV, diviene la risposta hardcore punk del network al recente successo
> dei Simpson di Matt Groening.
Nel 1996 Judge si confronta con il cinema, scrive e dirige il film d’animazione
Beavis and Butt-Head do America in cui partecipano anche star umane come Bruce
Willis e Demi Moore. Sessantatré milioni di dollari al box office. L’anno
successivo ritorna in TV con una nuova serie, King of the Hill, scritta insieme
a Greg Daniels (The Simpson, The Office, Park and Recreation), che continuerà ad
andare in onda su FOX per una decina di anni.
Mentre il successo gli sorride, Judge decide di abbandonare per la prima volta
l’animazione e confrontarsi con un film live action, il remake di un’opera di
animazione realizzato con attori reali. Scrive così la sceneggiatura per un
lungometraggio ispirato alla sua serie di corti ambientati in ufficio.
Riproposto con il suo nome originale, Office Space esce nei cinema nel 1999 ed è
un fiasco, rientra appena delle spese di produzione (dieci milioni contro i
dodici guadagnati). Il film è l’occasione per riproporre molte delle gag della
serie animata originale calandole in una inedita cornice politica, quasi
sindacale.
Peter Gibbons, il protagonista e collega di Milton, è anche lui un impiegato
frustrato della Initech, una software house texana. Insofferente al suo monotono
lavoro d’ufficio e costantemente sopraffatto dai rimproveri passivo-aggressivi
dei suoi otto capi, Peter viene convinto dalla sua ragazza a intraprendere delle
sedute di psicoterapia. Seduto sulla poltrona confessa allo psichiatra che da
quando ha iniziato a lavorare “ogni singolo giorno della mia vita è stato
peggiore di quello precedente; questo significa che ogni singolo giorno che ci
incontriamo qui, quello è il giorno peggiore della mia vita”. Il dottore,
impressionato dalla sua tristezza, gli propone un percorso di ipnosi, ma durante
una delle sedute, mentre cade in trance con la proposizione di “ignorare tutte
le sue preoccupazioni riguardo il suo lavoro, fino a quando non schioccherò
nuovamente le dita”, lo psichiatra muore per un attacco cardiaco. Peter, ancora
incosciente, torna a casa e si risveglia il mattino successivo in uno stato di
inedito benessere. Niente è cambiato tranne che, nonostante non si sia
presentato a lavoro, gli infiniti messaggi del capo nella segreteria telefonica
non lo turbano più.
Comincia così a ignorare completamente le preoccupazioni per il lavoro e la sua
vita si riempie nuovamente di senso: chiude la sua vecchia relazione in costante
crisi e chiede di uscire alla ragazza che ammirava da tempo. Ottiene addirittura
una promozione al lavoro quando impressiona una coppia di headhunter, chiamati a
efficientare l’azienda, confessando di “lavorare appena quindici minuti ogni
giorno e il resto del tempo fissare la sua scrivania” e che proprio alla
struttura dell’azienda si deve la sua totale assenza di motivazione sul lavoro:
“Ho otto capi. Questo significa che quando faccio un errore ci sono otto diverse
persone che vengono a farmelo notare. Questa è la mia sola motivazione: evitare
di essere scocciato”. Gibbons è insomma un impiegato in quiet quitting che,
attraverso una forma artificiale di rimozione della responsabilizzazione
introiettata sul lavoro, ritrova la libertà di affermare sé stesso in un mondo
nel quale non era che un ingranaggio anonimo.
È questo il primo distillato del cinema di Mike Judge che tornerà in ognuno dei
suoi film: prendere l’impalcatura della rom-com per sviluppare al suo interno un
tema politico. Nonostante i risultati altalenanti, l’intuizione è efficace e
permette al film di sviluppare una profonda riflessione sui i lati più
disumanizzanti dello sfruttamento lavorativo.
La svolta decisiva nel film avviene quando Gibbons e due suoi colleghi che
stanno per essere licenziati, decidono di truffare l’azienda con un virus
informatico che devia microtransazioni sul loro conto bancario, “come succede in
Superman 3, un film davvero sottovalutato”. Dopo varie peripezie e sul punto di
venire scoperti, Peter decide di restituire il denaro con un assegno e lascia
nell’ufficio del capo una lettera in cui confessa la truffa. Proprio quel
giorno, dopo l’ennesima angheria, Milton decide finalmente di dare fuoco
all’azienda, che brucerà insieme alle prove del misfatto.
> In Office Space è presente un aspetto del cinema di Mike Judge che tornerà in
> ognuno dei suoi film: prendere l’impalcatura della rom-com per sviluppare al
> suo interno un tema politico.
Sono i classici temi dell’alienazione e della reificazione, ampiamente esposti
da Karl Marx nelle sue teorizzazioni sulla struttura del lavoro nella società
capitalista quelli su cui si concentra la trama del film. L’alienazione è lo
stato in cui si trova l’uomo quando non riconosce più nel lavoro (nella sua
organizzazione, nei suoi strumenti, nei suoi prodotti) una parte di sé, una sua
creazione, ma gli appare come qualcosa che sfuggendo alla sua volontà si pone
contro di lui, un ostacolo alla spontanea ricerca di felicità e realizzazione. È
un conflitto che ricorda quello tra il dottor Frankenstein e la sua creatura, se
soltanto il primo soffrisse di un’amnesia che non gli permettesse più di
riconoscerla come un frutto del suo ingegno. La reificazione, in breve, è la
naturalizzazione di questo stato: l’uomo crede di riconoscere nello stato
transitorio imposto dalle logiche dello sfruttamento una legge di natura.
Continuando la lettura marxista, il film incappa proprio in quella che era la
maggiore forma di ribellione operaia con cui il giovane Marx si era duramente
confrontato: il luddismo. In una delle scene finali del film infatti vediamo
Peter abbandonare l’ufficio per l’ultima volta, insieme ai suoi due complici,
Michael e Samir, e portare con sé una delle fotocopiatrici. La macchina sarà la
protagonista di una lunga scena di “pestaggio luddista” con tanto di
slow-motion, mazze da baseball e gangsta rap in sottofondo.
Mentre in Office Space i temi dell’alienazione e della reificazione restano
confinati al mondo dell’ufficio, di cui esiste ancora un fuori, un mondo esterno
fatto di amicizie, bevute e barbecue in cui si può evadere, nella sua opera
successiva Mike Judge porterà queste minacce alle estreme conseguenze fino a
coinvolgere l’intera società e infiltrarsi profondamente nelle facoltà cognitive
dell’umanità intera.
Nel 2006, con il suo terzo film, Idiocracy, Judge si confronta per la prima
volta con la fantascienza. Il film si apre con un’epica voce fuoricampo che,
mentre assistiamo all’avvicinarsi sullo schermo del globo terrestre fluttuante
nello spazio, ci introduce alla premessa distopica:
> L’evoluzione umana era giunta a una svolta. La selezione naturale, il processo
> per cui il più forte, più intelligente, più veloce, si riproduce in maniera
> maggiore rispetto agli altri, il processo che un tempo aveva favorito gli
> aspetti più nobili dell’uomo adesso favoriva caratteristiche diverse. La
> maggior parte della fantascienza dell’epoca aveva predetto un futuro più
> civilizzato e più intelligente, ma più il tempo passava, più le cose
> sembravano andare nella direzione opposta: un istupidimento generale. Com’era
> potuto succedere? L’evoluzione non premia necessariamente l’intelligenza.
> Senza predatori naturali ad assottigliare il branco iniziò a premiare coloro
> che si riproducevano di più e lasciò che gli intelligenti diventassero una
> specie in via d’estinzione.
Non è, evidentemente, la più raffinata delle ipotesi di biologia speculativa, ma
c’è anche di peggio: il problema, in cui incappa Mike Judge al minuto uno del
film, implicito nella sua stessa premessa (darwinismo sociale), e ben più
problematico, è l’eugenetica.
Incomincia così la memorabile sequenza (un case study, ci suggerisce la scritta
in sovraimpressione) in cui vediamo due coppie confrontarsi con la propria
intenzione di procreare in un frenetico montaggio alternato: per Trevor e Carol,
dall’alto quoziente intellettivo, “avere figli è un’importante decisione”,
“aspettiamo il momento giusto” (all’unisono, guardandosi negli occhi) “non
vogliamo farlo senza riflettere”; Trish invece entra in cucina mentre Clevon sta
bevendo una birra e gli urla: “oh merda sono di nuovo incinta”; apprendiamo
dall’albero genealogico in sovraimpressione che questo è il loro quinto figlio.
Le scene continuano a susseguirsi in un’escalation grottesca che avanza di
quinquennio in quinquennio: Trevor e Carol constatano sereni che “non possiamo
permetterci un figlio adesso, non con l’attuale congiuntura finanziaria”; nel
frattempo Clevon ha avuto due figli anche con la vicina di casa Britney e uno da
Mckenzie che lo sta inseguendo con un bastone; Trevor e Carol, finalmente decisi
al grande passo, non riescono a ottenere una gravidanza e battibeccano sul
possibile ricorso all’inseminazione artificiale; intanto Clevon Jr., quarterback
della squadra locale e primogenito di Clevon, nonostante si sia impalato con i
genitali su un cancello in seguito a un incidente con una moto d’acqua, grazie
ai progressi scientifici nel campo delle cellule staminali è riuscito comunque
ad avere diversi figli con le cheerleaders del suo liceo; purtroppo Trevor è
morto per un infarto mentre si masturbava per ottenere lo sperma per
l’inseminazione artificiale, Carol incrociando le dita dice di aver congelato i
suoi ultimi ovuli, “per quando arriverà l’uomo giusto”; l’albero genealogico di
Clevon nel frattempo si espande fino a straripare dallo schermo; “andò avanti
così per generazioni” annuncia, piena di pathos, la voce fuori campo.
> In Idiocracy i due partecipanti a un esperimento segreto di ibernazione si
> ritrovano nel 2505 in un mondo dove regna la più totale stupidità. Ma quello
> in cui vediamo risvegliarsi i due protagonisti non è poi così dissimile dal
> nostro 2025.
Esposto il presupposto teorico dell’intreccio narrativo, il film si sviluppa
come una scanzonata commedia fantascientifica in cui seguiamo le avventure di
Joe Bauers, bibliotecario dell’esercito, e Rita, una prostituta, scelti per i
loro parametri cognitivi “perfettamente nella media”, per partecipare a un
esperimento segreto di ibernazione della durata di un anno. Qualcosa ovviamente
va storto e i due si ritrovano nel 2505 in un mondo dove regna la più totale
stupidità. Ma quello in cui vediamo risvegliarsi i due protagonisti non è poi
così dissimile dal nostro 2025 (di cui è pure una sorta di anagramma numerico).
Prendiamo il primo incontro di Joe, che piomba per sbaglio nella casa di Frito
Pendejo, quello che più avanti nel film diventerà il suo avvocato. Lo trova
seduto, su una poltrona con gabinetto integrato, mentre guarda un grande schermo
contornato di pubblicità su cui va in onda Ow! My balls!, una serie
interminabile di video in cui il protagonista incappa in vari incidenti che
hanno a che fare con i suoi genitali. Una situazione familiare che non può non
ricordarci quella di una seduta mattutina al bagno mentre ci frastorniamo con
centinaia di clip su TikTok.
Joe e Frito, durante tutta la parte centrale del film, ci accompagnano in varie
peripezie, permettendoci di scoprire come funziona la società del futuro: mentre
le insegne delle attività commerciali hanno adottato nomi sempre più volgari
(bambini festeggiano il compleanno dalla famosa catena di fastfood Buttfuckers),
i vari indumenti che le persone indossano non sono che patchwork pubblicitari di
una moltitudine di brand e Joe, nonostante parli il suo inglese medio, ha grandi
difficoltà a comunicare con chiunque: ogni volta scatena una reazione violenta
in chi lo ascolta perché, come ci avverte la solita voce fuori campo, la sua
lingua rispetto a quella corrente suona davvero “pompous and faggy”. Ancora:
negli ospedali si accumulano le slot machine, il film di maggior successo
dell’anno si chiama Ass ed “è esattamente quello, per novanta minuti” (un culo
su uno schermo). Joe finirà persino per incontrare il presidente degli Stati
Uniti Dwayne Elizondo Mountain Dew Herbert Camacho, un ex wrestler che ha
trasformato la Casa bianca in una corrida di macchiette untuose da talent show.
Una classe politica non dissimile da quella che è possibile ammirare oggi nel
secondo governo Trump.
Ogni azione (ricordiamolo: siamo nel futuro) è tecnologicamente determinata,
dalle diagnosi negli ospedali, alla videosorveglianza onnipervasiva, dalla
gestione carceraria fino alla identità stessa dell’individuo, esposta
costantemente al controllo delle forze dell’ordine tramite un codice a barre
tatuato sul polso. Tutto così assurdo eppure stranamente familiare, come nella
migliore fantascienza. Con una forzatura ermeneutica possiamo provare a
ipotizzare, con il senno di poi, che un così plateale declino cognitivo, invece
che da una selezione genetica, potrebbe essere stato causato proprio dall’uso di
quelle tecnologie compiacenti che, in Idiocracy, vediamo radicate profondamente
nella vita quotidiana della società.
Tanto nella fantascienza di Judge, quanto nel nostro presente, viviamo in una
società ipertecnologica che, deresponsabilizzando l’individuo in ogni sua
mansione pratica e lo porta a un inaridimento cognitivo dovuto all’oblio del
processo stesso, demandato ormai da tempo, soltanto alla macchina. È la
situazione che André Gorz, filosofo francese, in L’immateriale (2003),
interrogandosi se l’umanità sia ancora soggetto o oggetto della propria
evoluzione tecnologica, rintraccia nelle nuove forme di capitalismo cognitivo:
> gli apparati megatecnologici, ritenuti dominare la natura e sottometterla al
> potere degli uomini, assoggettano gli uomini agli strumenti di quel potere. Il
> soggetto sono loro: questa megamacchina tecnoscientifica che ha abolito la
> natura per dominarla e che costringe l’umanità a mettersi al servizio di
> questo dominio. Lo sviluppo delle conoscenze tecnoscientifiche cristallizzate
> nel macchinario del capitale, non ha generato una società dell’intelligenza ma
> una società dell’ignoranza. La grande maggioranza conosce sempre più cose, ma
> ne sa e ne comprende sempre meno.
In Idiocracy le piante vengono annaffiate da anni con una bevanda energetica
chiamata Brawndo – The thirst mutilator. Lo scopriamo quasi alla fine del film,
quando realizziamo che tutto il mondo è preda di una carestia di cui non si
conoscono le cause. Nel frattempo Joe aveva aperto un lavandino e visto uscire
la bevanda verde fluorescente invece dell’acqua, una tra le tante stranezze.
Tutto il mondo in realtà ha sostituito da tempo e ovunque l’acqua col Brawndo;
quando Joe chiede dell’acqua gli viene risposto ridendo “quale? quella del
cesso?”; quando chiede il perché di questa sostituzione gli viene risposto
“perché Brawndo ha gli elettroliti!”, ma nessuno, Joe compreso, sa cosa siano
questi elettroliti.
> Tanto nella fantascienza di Judge, quanto nel nostro presente, viviamo in una
> società ipertecnologica che, deresponsabilizzando l’individuo in ogni sua
> mansione pratica e lo porta a un inaridimento cognitivo dovuto all’oblio del
> processo stesso, demandato ormai da tempo, soltanto alla macchina.
Torna, come in Office Space, il tema dell’alienazione e della reificazione, ma
in Idiocracy la sua pervasività è completa, l’ottusità tecnocratica della
software house ha infiltrato l’intera società e come l’ufficio era destinato a
bruciare alla fine del film precedente, qui il mondo, reso sterile dall’eccesso
di sali minerali contenuti nella Brawndo sembra destinato a inaridirsi e
collassare.
L’apocalisse appare imminente perché anche il bene primario alla base della vita
terrestre, l’acqua, ha subito un processo di completa risignificazione
mercantile, è mancante di una qualche proprietà fondamentale (i decantati
elettroliti) e, in quanto gratuita e disponibile, non può avere valore, o se lo
ha deve essere regolamentata. È proprio questo il modo in cui Gorz illustra il
rapporto fagocitante tra capitalismo e natura: “l’abolizione della natura ha
come motore non il progetto demiurgico della scienza, ma il progetto del
capitale di sostituire alle ricchezze prime, che la natura offre gratuitamente e
che sono accessibili a tutti, delle ricchezze artificiali e mercantili:
trasformare il mondo in merci di cui il capitale monopolizza la produzione,
ponendosi in tal modo come padrone dell’umanità”.
Quando Joe viene infine riconosciuto come l’uomo più intelligente del mondo e
assoldato dal presidente Camacho come ministro degli Interni per risolvere il
problema della siccità, propone banalmente di sostituire della semplice acqua
alla bevanda energetica usata nell’irrigazione dei campi ormai infertili. Prima
che, tra lo sgomento di tutti, la soluzione si riveli efficace, il presidente
viene contattato dal CEO della Brawndo Corporation in preda al panico, le azioni
stanno crollando e il computer ha eseguito autonomamente i licenziamenti
necessari a riassestare la società, metà della popolazione del Paese si ritrova
disoccupata e inferocita invade la Casa bianca: vogliono la testa di Joe. La
messa in scena del film è decisamente più sobria rispetto all’attacco a Capitol
Hill del 2021.
Lo scambio reciproco di soggetto e oggetto che Gorz vede nel rapporto odierno
tra esseri umani e tecnologia digitale non determina soltanto un inedito
slittamento di potere ma anche un capovolgimento delle influenze ideologiche
attive in questo campo di forze. Quella che Marcuse definiva la razionalità
tecnologica, l’ideologia della classe dominante di cui è imbevuto ogni prodotto
tecnologico da questa progettato, in una società in cui la tecnologia è ormai
soggetto autonomo dell’esistente, da strumento del potere diventa essa stessa
creatrice di una propria ideologia autonoma che l’uomo subisce passivamente.
L’umanità aspira infine a quell’assenza di pensiero (istupidimento), a
quell’automatismo freddo (deresponsabilizzazione) che è una caratteristica
intrinseca della macchina.
Non stiamo già decantando tutti da anni le virtù sorprendenti dell’Intelligenza
artificiale? Sentendoci in pericolo, dipendenti, aspirando infine alla sua
velocità e abilità tecnica? Quanto abbiamo dovuto sminuire la vita umana in sé
per paragonarci a efficienti dispositivi digitali e quanto della visione attuale
dell’uomo come semplice macchina pensante è implicita in questo schema di
pensiero? Continua Gorz: “l’uomo è ‘obsoleto’, bisogna dotarlo di protesi
chimiche per ‘tranquillizzare’ il suo sistema nervoso stressato dalle
aggressioni che subisce e di protesi elettroniche per aumentare le capacità del
suo cervello”.
Come si esce da tutto ciò? Un testo recente, Hacking del sé (2024), l’ultimo
contributo del lavoro ormai decennale del collettivo Ippolita, un centro di
ricerca indipendente che si occupa di filosofia dell’informatica e
tecnopolitica, può essere una guida utile. Il libro, raccogliendo una
miscellanea di interventi del collettivo (prefazioni, postfazione, articoli e
cut-up) pubblicati in varie sedi, si interroga proprio su “l’impatto che le
tecnologia commerciali hanno sui loro utenti e come influiscano sulla
costituzione della loro soggettività, sulla loro formazione e sul loro vivere
comune”.
> Secondo il collettivo Ippolita è in atto una sempre maggiore “delega reiterata
> dei desideri e delle capacità cognitive a procedure algoritmiche. Ma se le
> tecnologie non sono neutre, bensì incarnano e configurano mondi, la delega
> tecnica si rivela per quello che è: delega sociale e politica”.
Analizzando la delega tecnologica che mette in atto l’umanità nei confronti
delle tecnologie digitali, Ippolita scandaglia le conseguenze di quel processo
per cui “milioni di utenti si servono di app e servizi per il monitoraggio e la
gestione di aspetti sempre più numerosi della vita quotidiana”; è in atto una
sempre maggiore “delega reiterata dei desideri e delle capacità cognitive a
procedure algoritmiche. Ma se le tecnologie non sono neutre, bensì incarnano e
configurano mondi, la delega tecnica si rivela per quello che è: delega sociale
e politica”.
L’obiettivo delle grandi corporation tecnologiche, si spiega nel testo, è
proprio quello “di rendere comune e abituale un numero crescente di azioni e
relazioni cui viene riconosciuto valore in quanto profittevole, secondo l’etica
del consumo incarnata appunto dall’utente, che è paradossalmente al servizio del
fornitore del servizio”. È lo stesso ribaltamento di prospettiva di cui parla
Gorz riguardo il progresso tecnologico. È lo stesso procedimento che, fuori
dall’ambito tecnologico, è attuato dalla Brawndo Corporation nel film, che è
riuscita a sostituire l’acqua con la sua bevanda energetica.
Per Ippolita la soluzione non passa per un intervento correttivo sociale (che
oggi nessuno, nemmeno gli Stati, se volessero, avrebbero la forza di effettuare)
ma da una disciplina del soggetto, una routine che coinvolga tanto il nostro
corpo quanto la nostra mente. Il concetto è espresso fin dal titolo del volume:
> per hacking del sé, ispirandoci ai lavori dell’ultimo Foucault, intendiamo un
> esercizio di cura del sé che inizia con il comprendere quale tipo di norma le
> megamacchine sono capaci di farci assumere, per capire come disinnescarla
> prima che la sua forza ci renda conformi e oppressi. Avere riguardo per il
> proprio corpo digitale, proteggerlo perché si emancipi dall’informatica
> commerciale, riconoscere l’importanza che ha nella nostra vita, significa fare
> un passo di consapevolezza tecnica e nel contempo di responsabilità etica
> verso noi stessi e verso la comunità. Per questo secondo noi il campo della
> battaglia si gioca sulla cura di sé, tra addestramento e consapevolezza, ed è
> qui che si aprono margini possibili di emancipazione e coscientizzazione.
Il lavoro che bisognerà fare – qui e ora – è esposto nel libro in maniera piana
e pragmatica, sono semplici propositi che provano a illuminare una via
possibile, di cui non conosciamo gli ostacoli futuri ma di cui possiamo già
intuire chiaramente la direzione: “comprendere che tipo di riconfigurazione sta
avvenendo e agire una decodifica delle norme che tentano di scriverci addosso: è
questo l’esercizio e l’abito che stiamo ricercando. Osservare e osservarsi,
andare domandando, sperimentare e verificare nuove individuazioni psichiche e
collettive”.
L'articolo Idiocracy now proviene da Il Tascabile.
N el 2014, la campagna/performance Wages for Facebook denunciava il nostro
essere lavoratorə sfruttatə dalle compagnie tech che possiedono i social network
che utilizziamo quotidianamente.
> La chiamano amicizia, noi lo chiamiamo lavoro non retribuito. Con ogni like,
> chat, tag o poke la nostra soggettività li fa guadagnare. Loro la chiamano
> condivisione. Noi lo chiamiamo furto. […]
> Chiedere un salario per Facebook significa rendere visibile il fatto che le
> nostre opinioni ed emozioni sono state distorte per una specifica funzione
> online, per poi esserci riproposte come un modello a cui tuttə dovremmo
> conformarci se vogliamo essere accettati in questa società.
Traslando le rivendicazioni emerse negli anni Settanta da Wages for housework
(Retribuzione per il lavoro domestico), la campagna portava alla luce le
condizioni materiali di un mondo in apparenza totalmente astratto, quello della
rete. Ma in che senso non siamo semplici utenti, ma siamo ormai soprattutto
lavoratorə sfruttatə per il profitto delle aziende tech?
Nel suo libro Il lato oscuro dei social network. Come la rete ci controlla e
manipola (2025), Serena Mazzini ci spiega questo e altri meccanismi che si
celano dietro agli scroll, ai click e ai post che produciamo quotidianamente. In
questo suo primo saggio, che ha il pregio di essere estremamente comprensibile e
scorrevole, Mazzini, la quale ha lavorato a lungo nell’ambito della
comunicazione come strategist, racconta di aver analizzato i dati delle
piattaforme quotidianamente, per servirsene per aiutare influencer a creare
contenuti “affinché apparissero più sinceri, autentici e credibili”. Diviso in
capitoli che si soffermano su vari aspetti delle dinamiche social, il libro è la
breve storia di come la rete è passata dall’essere un sogno di comunità e
collaborazione globale, a diventare uno strumento di controllo, manipolazione e
potere, portandoci a vivere e creare un mondo in cui tutto è sintetico e
artificiale, mentre si impegna ad apparire autentico; che si tratti di prodotti,
mete turistiche, hobby, i nostri rapporti o la nostra stessa identità.
> La rete è diventato un mondo in cui tutto è sintetico e artificiale, mentre si
> impegna ad apparire autentico; si tratti di prodotti, mete turistiche, hobby,
> i nostri rapporti o la nostra stessa identità.
Quando Internet ha cominciato a diffondersi nelle nostre case, quasi nessunə si
sarebbe aspettatə che cosa sarebbe diventato. Sebbene le dinamiche che adesso
vediamo esplose fossero contenute in nuce in quei primi esperimenti di
connessione globale – da subito, per esempio, la creazione di una identità
virtuale parallela in cui nascondersi/rifugiarsi caratterizzava l’esperienza dei
forum e delle chat – ci sono alcune tappe che hanno segnato in maniera
irreversibile il nostro rapporto con il digitale, ma che soprattutto hanno
permesso al digitale di instaurare quella che nel libro è definita come una vera
e propria “mutazione antropologica”.
Chi si ricorda Indymedia tra gli anni Novanta e i Duemila, non poteva immaginare
cosa sarebbe accaduto con l’avvento di Facebook nel 2004, che Mazzini indica
giustamente come una delle tappe principali di questa mutazione. Nel 2010, la
nascita di Instagram e l’inserimento della fotocamera anteriore nell’iPhone,
hanno marcato in maniera definitiva l’impatto del visivo come dominio
inscalfibile delle nostre quotidianità. Se all’inizio di Facebook postavamo
degli “aggiornamenti” un po’ goffi, in seguito all’avvento di queste novità “lo
smartphone divenne un dispositivo per la condivisione immediata di esperienze
personali; e i social network, da piattaforme web, divennero applicazioni
accessibili sempre e ovunque, capaci di trattenere l’attenzione degli utenti e
di integrarsi in maniera capillare nella vita quotidiana”. Difficile pensare,
nella storia recente, a un cambiamento così drastico ed enorme nei modi in cui
percepiamo noi stessi, le altre persone e il mondo circostante, difficile
pensare a qualcosa che più di questo ha modificato le nostre abitudini e i
nostri modi di vivere le relazioni e gli spazi.
Ma torniamo ai salari: in che senso siamo lavoratorə sfruttatə? I sensi sono in
realtà molteplici. Wages for Facebook affermava che “quando parliamo di Facebook
non stiamo parlando di un lavoro come gli altri, ma della manipolazione più
pervasiva, della violenza più sottile e mistificata che il capitalismo ha
recentemente perpetrato contro di noi”. La nostra presenza sui social network,
ormai dovremmo saperlo, non è neutra. Qualunque nostra attività è registrata e
utilizzata come dato, merce preziosissima nell’economia tecnocapitalista. I
nostri like, le nostre interazioni con post, reel, video, gli articoli che
leggiamo, le pagine che seguiamo, i prodotti che cerchiamo online, tutto serve
ad alimentare quell’enorme tesoro che sono i dataset, che le aziende utilizzano
per creare il loro profitto e per alimentarlo, propinandoci, attraverso gli
algoritmi, contenuti sempre più mirati e sempre più targettizzati, creando bolle
e realtà parallele che contribuiscono a dividere e parcellizzare le popolazioni
(e che contribuiscono inoltre allo sviluppo dei software di Intelligenza
artificiale). Questa visione non è semplicemente riflesso di un timore legato
alla paura del “progresso” o alla demonizzazione degli strumenti digitali, ma è
piuttosto, come afferma anche Mazzini, l’osservazione di una realtà fattuale:
siamo prodotti, e al contempo lavoriamo gratuitamente.
Uno dei modi in cui l’utilizzo dei social ha completamente plasmato la nostra
realtà è esemplificato in maniera estremamente evidente dalla maniera in cui la
politica istituzionale se ne è servita per creare bolle di opinione e
polarizzare l’opinione pubblica. Mazzini riassume bene il modo in cui Donald
Trump se ne è servito per raccogliere un consenso sempre maggiore, coalizzandosi
anche con i proprietari delle aziende tech. Stiamo assistendo proprio in questi
mesi alle dinamiche (e ai teatrini) fra Trump ed Elon Musk, personaggio sempre
più al centro della politica statunitense. Un esempio più circoscritto, ma anche
più vicino geograficamente, è la cosiddetta Bestia, il meccanismo
propagandistico ideato da Luca Morisi per sostenere Matteo Salvini
nell’acquisizione di consenso e voti a partire dal 2017.
> Non si tratta di paura del “progresso” o di demonizzazione degli strumenti
> digitali, è l’osservazione di una realtà fattuale: siamo prodotti, e al
> contempo lavoriamo gratuitamente.
Mazzini dedica un lungo capitolo al fenomeno dello sharenting – termine coniato
dalla crasi tra share (condividere) e parenting (genitorialità) – nel quale
racconta, attraverso numerosi esempi, di come le bambine e i bambini vengano
usati da alcune famiglie per produrre alti profitti, talvolta in grado di
mantenere l’intera famiglia e permettere una vita agiata. Ma a che prezzo? Come
zia di due nipoti molto piccole mi interrogo moltissimo, così come i loro
genitori, sul modo in cui le forme sociali influenzano i loro comportamenti, il
loro umore, i loro gusti in quanto persone socializzate come donne. Ancor di
più, lo faccio in relazione all’influenza che hanno i social network nella
creazione di un immaginario sessualizzante e sessualizzato anche per bambine
molto piccole. Ma la questione non è individuale. Prima di tutto, il prezzo che
lə bambinə soggette allo sharenting pagano è quello di non avere un’infanzia
libera, soprattutto libera dallo sguardo altrui. Queste bambine e questi bambini
vengono ripresi in ogni momento della loro quotidianità (mentre mangiano,
giocano, fanno il bagno, si vestono), esposti in momenti di vulnerabilità (quei
reel che ci fanno tanto ridere con i bambini che piangono disperati perché
sgridati o perché si sono fatti male giocando), utilizzati come fenomeni da
baraccone o, peggio ancora, fatti recitare una parte.
Un esempio estremamente inquietante che viene fatto nel libro è quello di Wren
Eleanor, una bambina che fin dai tre anni è stata mostrata su un profilo TikTok
gestito dalla madre, che la esponeva anche attraverso video ambigui e
sessualizzanti, in cui la bambina mangiava cibi di forma fallica o aveva
atteggiamenti provocatori. Analizzando l’account era evidente che quei video
fossero i contenuti con più visualizzazioni del profilo, e che fossero anche
molto spesso pieni di commenti riconducibili a reti di pornografia infantile. Il
caso Wren ha fatto emergere un movimento spontaneo, con molte persone che hanno
chiesto alla madre di cancellare i video e che hanno cominciato a parlare dei
problemi legati a questo tipo di account.
Ma il fenomeno è enorme ed estremamente produttivo e sono numerosi i genitori
che non rispettano il consenso delle loro figlie, pensando evidentemente di
possederle, al punto da utilizzare la loro infanzia come merce. Il canale
Fantastic Adventures, per esempio, era gestito da una madre che sottoponeva i
figli a privazioni di cibo e violenze di altro genere per obbligarli a
partecipare ai video. Oppure il caso emerso l’anno scorso in cui la figlia
dell’influencer Ruby Franke ha testimoniato nel processo in cui la madre è stata
accusata per abusi su minori, raccontando l’esperienza di chi cresce come
vittima del family vlogging.
Casi come questi, ci dice Mazzini, “ci mostrano come dietro i contenuti
apparentemente innocui e divertenti, in cui i bambini sembrano sempre felici,
spensierati e amati, possa nascondersi una realtà ben diversa”. Pensiamo che sia
divertente vedere il video di un bambino che fa qualcosa di buffo, o che sia
innocuo l’utilizzare i propri figli per produrre canali YouTube pieni di
contenuti di intrattenimento, ma “ignoriamo che quei bambini, che vediamo
sorridere per intrattenere i nostri, potrebbero essere costretti a ripetere le
stesse scene decine di volte, imparare copioni precisi […] per assecondare i
desideri di genitori inebriati dall’algoritmo”. Questi fenomeni, che sembrano
riguardare solo chi lavora effettivamente con l’immagine della propria famiglia
e dei propri figli, sono in realtà estremamente pervasivi della quotidianità di
molte persone, e si concretizzano per esempio nel caricamento costante di foto e
video che ritraggono bambinə anche molto piccolə senza oscurare il volto;
pratica che, dice anche Mazzini, fino a un certo punto era una prassi delle
regole non scritte dei social.
> Il prezzo che lə bambinə soggette allo sharenting pagano è quello di non avere
> un’infanzia libera dallo sguardo altrui.
Il capitolo sullo sharenting è seguito da una riflessione molto interessante sul
modo in cui i social hanno modificato il nostro rapporto con la morte –
argomento affrontato in maniera puntuale anche dal tanatologo Davide Sisto – al
punto da permetterci di scrivere dei messaggi che potranno poi essere pubblicati
sui nostri profili alla nostra morte. Anche quello che Mazzini chiama
“capitalismo della pietà” – che consiste in video di persone che vanno in giro a
regalare soldi a chi si dimostra “buono” – ha molto spazio nel libro, così come
il “reality show della malattia”, per cui vengono messe in mostra malattie,
disabilità, situazioni di disagio sociale e psicologico al fine di guadagnare
visualizzazioni (e quindi denaro).
Messa in questi termini, verrebbe voglia di scappare da ogni forma di socialità
digitale. Forse, in parte, sarebbe auspicabile, ma la realtà è che per molte di
noi utilizzare questi strumenti è ancora utile (per alcune persone necessario) e
che, afferma Mazzini, disertare completamente da alcuni spazi sociali online –
come è stato fatto nella disiscrizione di massa da Twitter, ora X, dopo
l’acquisto della piattaforma da parte di Elon Musk – può portare alla creazione
di bolle di violenza e radicalizzazione di destra inscalfibili. Al contempo,
boicottare alcune piattaforme e cercare forme di socialità online alternative è
più che positivo. I social network si sono succeduti nel tempo e se alcuni hanno
avuto la meglio sugli altri è stato per la loro capacità di rispondere ad alcune
esigenze, ma queste esigenze possono cambiare.
Alla fine del saggio Mazzini riflette anche su questo e, pur senza fornire
esplicitamente delle alternative precise, evidenzia la necessità di smettere di
accettare passivamente un sistema che in realtà non ci sta facendo del bene, e
di concedere così tanto potere a queste piattaforme sulle nostre vite.
Servirebbero, anche, delle azioni di politica istituzionale che invece tardano
ad arrivare, per proteggere i dati dellə utenti, per limitare la possibilità di
utilizzo da parte delle aziende, per informare le persone piccole e giovani
riguardo al funzionamento delle tecnologie e dei social network. Serve però
soprattutto, a suo avviso, un cambiamento di immaginario e di cultura in cui
“piattaforme, brand, agenzie, creator e utenti” lavorino in direzione comune, ma
anche e principalmente che la comunicazione abbandoni la sua ossessione per la
viralità, cercando modalità che avvicinino utenti e creator, che
responsabilizzino lə utenti e non li trattino da oggetti passivi.
Mazzini ci invita a chiederci:
> Vogliamo davvero accettare di essere parte di un meccanismo che si nutre di
> noi, trasformando le nostre vite in semplici dati per macchine insaziabili?
> […] Per anni abbiamo lavorato gratuitamente, in silenzio, trasformando la
> nostra presenza digitale in una merce da vendere al miglior offerente. […]
> Riprenderci il controllo significa soprattutto guardare oltre gli schermi,
> ritrovando valore nelle comunità fisiche che spesso abbiamo trascurato. Questi
> spazi, fragili ma preziosi, offrono la possibilità di costruire relazioni
> autentiche, dove l’interazione non è filtrata da algoritmi o metriche di
> successo.
Il primo passo per uscire dagli schermi forse è ricordarci che tutto quello che
vediamo delle vite altrui attraverso i social è una costruzione fatta per
mostrarsi migliore, per raccontare un’idea di vita e, molto più di frequente,
venderci qualcosa.
L'articolo Il lato oscuro dei social network di Serena Mazzini proviene da Il
Tascabile.
N el 1956 il sociologo russo-americano Pitirim Sorokin coniava il termine
quantofrenia per denunciare un fenomeno che, a suo dire, rischiava di svuotare
le scienze sociali di ogni profondità: l’ossessione per la misurazione numerica
della realtà. In un momento storico segnato dalla volontà di rendere
scientificamente affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica
strada per la legittimazione. Eppure, Sorokin vedeva in questa tendenza un
pericolo: ridurre la complessità dell’esperienza umana a semplici dati
significava sacrificare la qualità alla contabilità, la comprensione profonda
alla superficie della cifra.
Quella che Sorokin descriveva come una deriva potenziale è oggi diventata
sistema. Viviamo immersi in un ambiente culturale che ha fatto della
datificazione la sua ideologia dominante. Ogni gesto, emozione, desiderio e
pensiero può (e deve) essere tracciato, misurato, confrontato. L’essere umano
contemporaneo si muove in un ecosistema fatto di tracker, dashboard, KPI (Key
Performance Indicator), insight, analytics, convinto che ogni aspetto della sua
esistenza sia più vero quanto più numericamente rappresentabile.
Questo non vale solo per le aziende o le istituzioni, ma per la vita quotidiana.
Il nostro sonno, il battito cardiaco, la produttività, le emozioni: tutto viene
tradotto in dati. Il filosofo sudcoreano-tedesco Byung-Chul Han in La società
della trasparenza (2014) ha scritto che “oggi tutto dev’essere trasparente,
tutto deve essere visibile, misurabile”. Ma la trasparenza, apparentemente virtù
democratica, si rivela così una forma subdola di controllo: l’efficienza che
diventa valore morale. Sempre secondo Byung-Chul Han, “la società della
trasparenza è una società della sorveglianza che si maschera da libertà”. Se in
teoria sapere tutto di sé dovrebbe renderci più liberi e consapevoli, in pratica
ci consegna a un’autosorveglianza continua. La quantità crescente di dati a
nostra disposizione non ci rende affatto più lucidi: ci sovraccarica. L’accesso
all’informazione è individuale, ma l’elaborazione è lasciata al singolo, senza
strumenti, senza tempo, senza tregua. Non è tanto una questione di opacità, ma
di asfissia cognitiva.
David Brooks, editorialista del New York Times, in L’animale sociale. Alle
origini dell’amore, della personalità e del successo (2012) esplora le radici
emotive e inconsce del comportamento umano, contestando l’idea che siamo guidati
da scelte razionali e misurabili: “La mente inconscia si occupa di gran parte
del lavoro della vita. È come un presidente che prende decisioni ma che non ha
idea di come le sue politiche vengano attuate”. L’ossessione per i dati,
confrontandosi solo con la razionalità misurabile, ignora la complessità delle
motivazioni umane. Brooks mostra come la vera formazione del carattere, della
moralità, della felicità non sia misurabile: “Ciò che rende la vita
significativa sono le relazioni intime, il senso di appartenenza, la gratitudine
– tutte cose che sfuggono al numero”.
> In un momento storico segnato dalla volontà di rendere scientificamente
> affidabili le scienze umane, la quantità sembrava l’unica strada per la
> legittimazione.
La tendenza a ridurre la realtà a ciò che è misurabile non è solo una strategia
cognitiva, ma un vero e proprio paradigma ideologico che si nutre di una falsa
promessa: che i dati possano raccontare il reale in modo oggettivo. Come notava
Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, in Pensieri lenti e veloci (2012),
invece, gran parte delle nostre decisioni è guidata da processi intuitivi,
emotivi, non razionali. E là dove il dato pretende di spiegare tutto, finisce
spesso per mascherare la complessità. Lo stesso Kahneman ha messo in guardia
contro l’eccessiva fiducia nella coerenza statistica, evidenziando il ruolo
centrale del contesto e delle euristiche.
Più ci affidiamo ai numeri, più ci deresponsabilizziamo. Un effetto paradossale,
dal momento che è proprio l’ansia di controllo che alimenta la smania di
misurare tutto a portarci a delegare le decisioni ai dati, spogliandoci della
responsabilità. Il numero rassicura, ci assolve: “lo dice l’algoritmo”, “è un
dato oggettivo”, ma il controllo così perseguito si rivela illusorio: invece di
decidere, lasciamo che una finta certezza decida per noi. Se un progetto
fallisce, si incolpano i dati; se una decisione si rivela errata, era comunque
“data-driven”. In questo modo, come ha osservato Herbert Simon, teorico
dell’automazione e padre del concetto di “razionalità limitata”, in La ragione
nelle vicende umane (1984), il dato diventa alibi e non strumento di
comprensione.
La distorsione non è solo cognitiva, ma anche narrativa. Isaac Asimov lo aveva
intuito già nel 1955 con il racconto Diritto di voto (pubblicato per la prima
volta in Italia nel 1962 sulla rivista Galaxy): in un futuro ipertecnologico,
l’esercizio democratico viene rimpiazzato da un supercomputer, Multivac, in
grado di prevedere il voto di tutta la popolazione intervistando un solo
cittadino rappresentativo. Non importa più cosa si pensa o cosa si vuole:
importa solo che i dati funzionino. L’immaginazione cede il passo all’inferenza
statistica.
> – Multivac possiede già la maggior parte delle informazioni necessarie per
> decidere quali saranno i risultati delle elezioni nazionali, statali e locali.
> […] Non possiamo prevedere quali domande le farà, ma sappiamo che forse non
> avranno senso, né per lei né per noi. […] Durante il colloquio dovremo
> ricorrere a qualche semplice dispositivo che le terrà sotto controllo
> pressione sanguigna, il battito cardiaco, la conduttività della pelle e le
> onde cerebrali. […]
> – Questa roba serve per controllare se dico la verità? – chiese Norman.
> – Nient’affatto, signor Muller. Non ha importanza che lei menta o dica la
> verità.
Nel momento in cui Multivac afferma che “non ha importanza che lei menta o dica
la verità”, Asimov ci mostra una distopia dove la soggettività non ha più peso.
Non conta cosa credi o cosa pensi, perché l’infrastruttura algoritmica ha già
deciso chi sei e cosa farai. È una prefigurazione inquietante del nostro
presente: i dati raccolti, incrociati e analizzati ci assegnano una “verità”
algoritmica, spesso più influente delle nostre reali intenzioni o convinzioni.
La verità, come l’intenzione politica, diventa ridondante. L’intelligenza
artificiale generativa ha accelerato ulteriormente questa logica, rendendo
possibile la creazione automatica di contenuti visivamente attraenti ma
stilisticamente omologati. Emblematico il caso delle illustrazioni ispirate allo
Studio Ghibli: la bellezza è replicabile, ma l’originalità è sacrificata.
> Il numero rassicura, ci assolve: “lo dice l’algoritmo”, “è un dato oggettivo”,
> ma il controllo così perseguito si rivela illusorio: invece di decidere,
> lasciamo che una finta certezza decida per noi.
La cultura digitale ha così internalizzato la quantofrenia. Le metriche sono
diventate una seconda pelle: i like, le condivisioni, le visualizzazioni hanno
sostituito il giudizio critico. La comunicazione si adatta alle logiche degli
algoritmi e non alle esigenze del contenuto. Come osserva Evgeny Morozov in To
Save Everything, Click Here (2013), l’uso strumentale della tecnologia tende a
risolvere problemi complessi con soluzioni semplicistiche, nascondendo
implicazioni politiche e culturali.
La tendenza alla misurazione si è infiltrata anche nelle istituzioni educative.
Le scuole e le università, sempre più soggette a ranking e valutazioni
standardizzate, sono costrette a misurare l’impatto della ricerca e
dell’insegnamento in termini di produttività. Ma come si misura una buona
lezione? Come si quantifica l’effetto trasformativo della cultura su una
persona? La valutazione dell’apprendimento rischia di diventare una caricatura
di sé, come ha argomentato Martha Nussbaum in Non per profitto. Perché le
democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2014). Nussbaum critica
l’educazione orientata ai test e ai numeri perché sacrifica le capacità
critiche, empatiche ed etiche, cioè quelle fondamentali per una cittadinanza
attiva. “Una democrazia – scrive – richiede cittadini che non solo abbiano
capacità tecniche, ma che possano pensare criticamente, esaminare le tradizioni,
comprendere il significato della sofferenza e dell’ingiustizia”. Ridurre tutto a
metriche (valutazioni PISA, crediti, output di ricerca) snatura l’educazione: la
trasforma in addestramento. La cultura, invece, dovrebbe formare esseri umani
completi, non solo lavoratori efficienti.
Eppure, i dati non sono il male. Come sottolineano anche Harvard Business
Publishing e Forbes in numerosi contributi sul management, affidarsi
esclusivamente alla quantificazione rischia di semplificare eccessivamente
fenomeni complessi, conducendo a decisioni paradossalmente meno informate, ma le
metriche possono aiutarci a identificare delle opportunità che sarà l’intuizione
a tradurre in scelte realmente efficaci. I numeri non provano gioia, dolore,
entusiasmo: sono strumenti, non fini. Un esempio virtuoso fu House of Cards
(2013-2018), prima produzione originale Netflix basata su dati di fruizione che
indicavano una domanda per contenuti politici. Ma non furono i numeri a
decretarne il successo: fu l’intuizione creativa, il cast d’eccezione, la cura
narrativa. Oggi, invece, la stessa piattaforma viene criticata per puntare su
formule prevedibili e produzioni a basso rischio.
La crisi della narrazione si accompagna a una crisi del senso. Se ogni scelta è
calcolata, ogni comportamento previsto, che spazio resta per l’incertezza, per
l’imprevisto, per l’errore creativo? Come possiamo ancora raccontare storie che
aprano mondi, invece di ridurli a ciò che è già noto? In Contro i numeri. Perché
l’ossessione per dati e quantità sta rallentando il mondo (2019), lo storico
Jerry Z. Muller mostra come l’ossessione per la misurazione danneggi i contesti
che vorrebbe migliorare. Il problema, secondo Muller, è che “quando una metrica
diventa un obiettivo, smette di essere una buona metrica”. Succede nella sanità
(dove si punta a ridurre i tempi d’attesa a scapito della qualità della cura),
nell’istruzione (dove si insegna “per il test” anziché per formare pensiero
critico), nella ricerca (dove si pubblica molto ma si scopre poco). Muller parla
di “perversione dei segnali”: i numeri nascono come indicatori, ma finiscono per
sostituire i fini ultimi delle istituzioni.
> La nostra è l’epoca della datificazione della realtà, dove tutto deve essere
> misurabile e misurato.
I dati, insomma, possono ispirare, ma non devono dettare. Come ha scritto
Shoshana Zuboff in Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità
nell’era dei nuovi poteri (2019), “l’esperienza umana è diventata materia prima
gratuita per le pratiche commerciali nascoste di estrazione, previsione e
vendita”. La logica predittiva, secondo Zuboff, sottrae all’individuo il diritto
di definire la propria identità e i propri fini. L’azione spontanea, la
creatività, la decisione etica vengono erose da modelli che anticipano e
condizionano il comportamento. “Questa non è automazione – scrive – è
espropriazione”. Il soggetto viene dissolto nella previsione: non siamo più chi
scegliamo di essere, ma chi il sistema calcola che saremo.
Ed è qui che, infine, la riflessione si fa personale. Ho visto alcune delle
menti migliori della mia generazione struggersi di fronte a serie di dati
impazziti. Rifiutare cene a base di pizze lievitate naturalmente per più di
ventiquattr’ore per sacrificare la vista su metriche svuotate di significato e
fogli Excel troppo luminosi, animate dall’isteria per la consegna del prossimo
report trimestrale. Percorrere i pochi metri quadri di casa con una tazza di
caffè filtrato, cuffie noise-cancelling e felpa oversize di cotone biologico
alla ricerca della formula definitiva per il successo in dieci semplici mosse,
se sintetizzabili in cinque anche meglio. I pollici incollati allo schermo in
cerca di una validazione numerica a sé stessa.
Siamo social media manager, data analyst, SEO specialist, ricercatori. Apostoli
del dato, cavalieri della tabella pivot, eminenze grigie dell’analytics. Con
montature da intellettuale non praticante e outfit business casual calibrati al
millimetro, perché nulla dice “basato su dati significativi” come un look
azzurrino ben stirato. Abbiamo smesso di parlare di idee: meglio restare
ancorati alle metriche di performance, all’eventuale ritorno sull’investimento,
di percentuali, tante percentuali. Sempre del “cosa”, mai del “perché”.
La nostra è l’epoca della datificazione della realtà, dove tutto deve essere
misurabile e misurato. Ogni respiro, ogni passo, ogni sbuffo viene tradotto in
un grafico a torta o in una linea preferibilmente ascendente. Mi sono appena
svegliata: Fitbit ci tiene a dirmi che ho dormito il 13% in meno rispetto alla
media della popolazione degli altri millennial ansiosi. Ordino un cappuccino e
c’è un’app che mi informa che ho speso il 22% in più rispetto al budget mensile
per le mie bevande a base di latte d’avena. Il mio smartwatch registra
un’accelerazione del battito cardiaco: inquietudine da overspending. Voglio lo
zucchero, voglio il cacao? Consulto l’app delle calorie. Non me lo godo, ma
almeno so quanto mi è costato in termini finanziari e metabolici: è fantastico.
Se vado a correre e scordo di avviare l’app, semplicemente la mia corsa non
esiste. Ogni decisione, ogni singolo, microscopico gesto è misurato, analizzato,
comunicato e archiviato. Quand’è che ho smesso di raccontare storie per
limitarmi a ricevere e distribuire dati? Quand’è che sono diventata un’anima
misurata?
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