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Il perturbante, il femminismo, l’io e tutto il resto
S uperato da poco il trentennale della sua prima pubblicazione – e il decennale dalla riedizione, insieme a Un dolore normale (1999) e Troppi paradisi (2006) col titolo Il dio impossibile (2014) –, Scuola di nudo (1994) di Walter Siti appare ancora come uno tra i testi più rilevanti della letteratura italiana contemporanea: il rapporto tra finzione, autobiografia e autofiction, le diverse manifestazioni del desiderio e la dimensione del lavoro culturale occupano tuttora uno spazio centrale nel dibattito e nella produzione letteraria, influenzando voci talvolta anche molto distanti dallo scrittore modenese. È questo il caso di Lavinia Mannelli, che dopo l’esordio con L’amore è un atto senza importanza (2023) torna con un nuovo romanzo d’ambientazione accademica e pisana dal titolo Storia dei miei peli (2025), raccontato in prima persona da una protagonista con cui condivide, oltre al nome e al cognome, più di un particolare autobiografico. A contraddistinguere l’autrice è soprattutto il gusto per la sperimentazione sull’io narrante: se nel suo nuovo lavoro ha scelto di virare con decisione verso l’autofinzione, fino a ora aveva preferito adottare punti di vista lontanissimi dal proprio, tentando di immedesimarsi – e di far immedesimare lettori e lettrici ideali – in soggettività appartenenti al mondo animale come in Pasta madre. Un pranzo di Natale (2023), pubblicato su Snaporaz, o dedicandosi alla riscrittura della figura dell’automa e del burattino, come in Stampino, inserito nel volume Il tempo è un altro. Dialoghi con Anna Maria Ortese (2025), oltre che nel suo romanzo d’esordio. Pur mantenendo per tutta la narrazione l’uso della terza persona, in L’amore è un atto senza importanza si dà infatti ampio spazio alla voce interiore della sex-doll Tamara, che osserva con tragicomica ingenuità il mondo degli umani, in particolare quello della coppia che l’ha acquistata, dal cui appartamento Ikea prova a ricostruire il funzionamento delle dinamiche relazionali contemporanee, aiutata soltanto dalle analisi proposte da Maria De Filippi nei suoi programmi televisivi, arrivando a desiderare di diventare una tronista di Uomini e donne. > A contraddistinguere l’autrice è soprattutto il gusto per la sperimentazione > sull’io narrante: se nel suo nuovo lavoro ha scelto di virare con decisione > verso l’autofinzione, fino a ora aveva preferito adottare punti di vista > lontanissimi dal proprio. Nel dar voce alla bambola, l’autrice non si limita però a mettere in scena una mera rivisitazione della figura dell’automa — un topos che nel corso dei secoli ha suscitato stupori positivi così come negativi, ma che il filtro romantico ha finito per tramandare come inevitabilmente legato al perturbante — ma, suggerendo che Tamara sia in realtà un problema per la coppia, riesce a costruire una peculiare forma di narrazione in cui lo sguardo rappresentato non appartiene a uno dei personaggi o a un soggetto del tutto esterno alla storia, ma al motore stesso della trama. Mentre il primo romanzo sembra così inscriversi nella schiera di quelle narrazioni che, nel corso dell’ultimo quindicennio, hanno rinnovato il fantastico italiano, ora inserendosi nel solco della sua tradizione, come nei romanzi di Veronica Galletta (Malotempo, 2025), ora provando a importare categorie e modelli letterari anglofoni, come nel Southern Gothic adattato al contesto meridionale da Orazio Labbate (Cravuni, 2025), le premesse autofinzionali di Storia dei miei peli sembrerebbero collocarlo fra le variegate declinazioni delle letterature del lavoro, un altro filone che negli ultimi anni ha avuto fortuna tanto sul piano critico quanto su quello editoriale. La Lavinia Mannelli protagonista è infatti una dottoranda senza borsa che per mantenersi nei tre anni di lavoro non pagato decide, pur facendo parte di un collettivo femminista contrario alla depilazione, di iniziare a vendere i suoi peli al misterioso Daniel85; il desiderio, che da Siti in poi si è guadagnato il posto di tema ricorrente nei romanzi accademici italiani, da istanza puramente liberatoria e salvifica rispetto all’alienazione del lavoro di ricerca, assume così un valore più ambiguo in quanto comunque soggetto alle dinamiche oppressive dell’economia neoliberista, in cui una ricercatrice non pagata non conta né più né meno di un pelo incarnito in attesa d’essere estratto: > L’università è una coperta e la coperta, si sa, è sempre troppo corta. > L’università è una seconda pelle, ma il dottorando medio è un pelo incarnito: > preme, preme, si gonfia, si infetta – e spera. Soprattutto se si occupa di > discipline umanistiche, sperare è l’unica cosa che gli resta. […] E se non ce > la fa? Se non ce la fa significa che non aveva la coperta giusta sopra di sé, > e allora l’università lo assorbe, lo espelle, se lo mastica e se lo dimentica. > Si assottiglia, sbiadisce, smette persino di salutarlo. Se le responsabilità principali delle sventure della protagonista sono così attribuite, come anche nei romanzi di ambientazione universitaria di Raffaele Donnarumma (La vita nascosta, 2022) e Dario Ferrari (La ricreazione è finita, 2023), all’organizzazione generale del sistema socioeconomico, l’autrice non manca di sottolineare il peso che le azioni individuali possono esercitare nel quotidiano, focalizzando la narrazione ancora una volta sui possibili motivi di scontro all’interno un contesto apparentemente confortevole. Rispetto ad altre autrici che, dedicandosi all’adattamento del campus novel al mondo universitario italiano, hanno comunque scelto una voce narrante maschile – come Silvana La Spina in Morte a Palermo (1987) o Laura Benedetti in Secondo piano (2017) – o, come Cecilia Ghidotti in Il pieno di felicità (2019), non hanno dedicato particolare spazio alla questione di genere, Mannelli non soltanto pone il dibattito femminista al centro della narrazione, ma soprattutto, a differenza di quanto accade in Sotto (2013) di Gilda Policastro, in cui si racconta il passaggio dalla rivalità alla solidarietà femminile in un contesto in cui vige un potere vistosamente patriarcale, ne scandaglia le contraddizioni e gli inevitabili conflitti interni, incarnati dal rapporto con la saccente amica Valeria. Certo, i personaggi maschili assumono un ruolo perlopiù negativo nell’evolversi della trama, ma a condurre la protagonista verso l’isolamento è soprattutto la consapevolezza che, al netto dell’ostentata empatia, confidandosi con le compagne del collettivo, non troverebbe altro che un moralismo non meno asfissiante di quello esercitato dal sistema patriarcale, che pure si manifesta in tutta la sua violenza in uno degli snodi finali del romanzo. È anche per questo che Lavinia finisce per rinnegare la sua formazione un libro alla volta, usando i testi della sua biblioteca femminista per confezionare i peli da inviare a Daniel85. > Mannelli non soltanto pone il dibattito femminista al centro della narrazione, > ma soprattutto ne scandaglia le contraddizioni e gli inevitabili conflitti > interni. Nuovi e vecchi classici del femminismo italiano – i cui titoli vengono citati con precisione e con tanto di indicazioni bibliografiche e note a piè pagina, in una prosa dal ritmo incessante che ricorda i primi lavori di Tondelli (Altri libertini, 1980) e dei cosiddetti cannibali, dal Brizzi di Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994) ai racconti di Silvia Ballestra (Gli orsi, 1996) – vengono così fatti a brandelli e rimpastati per creare dei bizzarri pacchi regalo: “Ho sbudellato Lea Melandri, macerato Jennifer Guerra e Silvia Federici. Mischiato Murgia, Lonzi, Butler e Despentes. […] Forse non sono stata brava come il dottor Frankenstein; forse non ho scelto bene i pezzi e questi libri non erano davvero cadaveri, ma corpi ancora vivi. Dove finisce il rito e inizia la profanazione?” Il riferimento allo scienziato inventato da Mary Shelley non deve stupire: accanto alla saggistica femminista e ai romanzi sulla Resistenza studiati dalla giovane ricercatrice per la sua tesi sulla rappresentazione delle partigiane, tra le opere letterarie citate figurano anche Dr Jekyll e Mr Hyde di Stevenson e soprattutto La metamorfosi di Kafka, indizio principale sull’imprevedibile finale insieme alla dimensiona quasi di possessione che caratterizza il rapporto con Daniel85, all’atmosfera oscura, dai tratti gotici, che connota le descrizioni degli interni e in particolar modo della stanza in cui Lavinia può dedicarsi a tempo pieno agli scambi virtuali e ai suoi esperimenti, rifugio da una dimensione pubblica con cui la dottoranda evita il più possibile di fare i conti. Non trovando alcuna via d’uscita dalle sue ansie negli scritti delle sue maestre né nelle mediazioni col conformismo scelte dalla ex radicale Valeria, a Lavinia non resta che diventare, come Gregor Samsa, qualcosa di completamente altro: un essere interamente ricoperto di peli, irriconoscibile ma proprio per questo libero da qualsivoglia aspettativa, che provenga da voci interiori o da pressioni esterne. Sul finale, Mannelli torna quindi ai toni perturbanti presenti nei racconti e nel primo romanzo, avvicinandosi così ad altri autori che hanno giocato con gli stilemi del fantastico e in particolare del gotico nelle loro narrazioni accademiche, come Gianfranco Manfredi in Magia rossa (1983) e Cromantica (1985), Anna Maria Ortese in Alonso e i visionari (1996) e, più di recente, Marco Malvestio con il romanzo La scrittrice nel buio (2024) o nel racconto Il rito (2025), in cui sex-work e lavoro di ricerca tornano a intrecciarsi, seguendo però il punto di vista del consumatore invece che quello del performer. > Sul finale, Mannelli torna ai toni perturbanti presenti nei racconti e nel > primo romanzo, avvicinandosi così ad altri autori che hanno giocato con gli > stilemi del fantastico e in particolare del gotico nelle loro narrazioni > accademiche. È difficile dire se l’epilogo del romanzo vada letto in senso positivo, accettando che il mutamento abbia un valore in sé, oppure come un’ulteriore caduta nel baratro in cui la protagonista è precipitata: la libertà dalle incombenze relazionali e lavorative, la possibilità di rinunciare a quell’io che, citando El especialista de Barcelona (2012) di Aldo Busi, viene definito “solo un colabrodo, utile per capire a che punto della tua vita sei se provi a setacciare una zuppa pronta andata a male”, si scoprono infine controbilanciate dall’esposizione di Lavinia nello zoo di Pistoia, dove può venire additata come cattivo esempio da anziane nonnine in visita coi nipoti. Del resto, ad animare il romanzo – e più in generale la produzione narrativa della scrittrice –  sembra essere, più che una qualche morale tratta dall’ampia bibliografia militante e accademica citata, una forte volontà di scalfire il peso che, se divorata senza avere il tempo di costruire ed esercitare il proprio spirito critico, questa può assumere sul piano personale oltre che letterario e politico, come conferma la stessa autrice: Ho iniziato la stesura di questo romanzo su suggestione dell’editor del mio primo libro, Alessandro Gazoia. Lui pensava che avrei potuto scrivere bene una specie di personal essay a tema libero per una nuova collana della casa editrice 66thand2nd (Astratto / Concreto), io volevo fare la femminista pop incazzata e parlare dei peli delle donne. Quando ho iniziato a buttare giù le prime pagine ho capito però che la dimensione saggistica mi suonava falsa. Così, un po’ paradossalmente, i peli si sono intrecciati al romanzo e all’autofiction: quindi potrei dire che hanno incontrato per caso il campus novel. All’inizio il testo era esplicitamente monolitico e saggistico. Poi è stato soprattutto perché mi è venuta voglia (ho sentito il bisogno) di fare del male a quel monolite: scheggiarlo, graffiarlo, frantumarlo mi è sembrato l’unico modo intelligente e interessante per parlare del mio bisogno di essere intelligente e interessante a tutti i costi. Esibire delle note bibliografiche e narrative all’interno di un testo finzionale frenetico è il modo che ho trovato per raccontare (per fare e disfare) la mia ansia di aver letto tutto, di citare sempre il libro giusto, di essere sempre “brava” se non “bravissima” perché altrimenti esistere non ha alcun senso. Un’ansia che un certo modo di vivere l’accademia certamente incoraggia (ai fini concorsuali pubblicare numerosi articoli premia mediamente più che dire cose nuove e appassionate), e che si insinua dovunque, persino tra i sogni che in realtà sono incubi, persino tra quelle logiche di sorellanza che diventano allora vettore di infiniti sensi di colpa e fantasie di persecuzione. Così, almeno, capita a Lavinia Mannelli. L'articolo Il perturbante, il femminismo, l’io e tutto il resto proviene da Il Tascabile.
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