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Streghe, funghi e pseudoscienza
S alem Village, Massachusetts, gennaio del 1692. Due bambine di 9 e 11 anni, Betty Parris e Abigail Williams, si ammalano in modo improvviso: iniziano ad avere convulsioni, emettono strani suoni, affermano di essere pizzicate da entità invisibili. Nel giro di poche settimane il morbo sconosciuto si diffonde a Salem Village, odierna cittadina di Danvers: altre due bambine iniziano a mostrare gli stessi sintomi, poi altre ancora, fino ad arrivare a un totale di 19 persone afflitte. Medici ed esperti non riescono a concordare su una causa comune. Da pochi anni, a Salem Village, la guida spirituale è il reverendo Samuel Parris, padre della piccola Betty, uomo rigido e ferventemente religioso, che vuole ripristinare l’integrità morale del villaggio. A febbraio del 1692, Parris accetta la possibilità che le bambine siano state stregate e che le responsabili vadano cercate nel villaggio. Così iniziò il processo alle streghe più noto della storia, che si concluse a inizio 1693 con la morte di un totale di 25 persone: 19 furono impiccate, un uomo morì durante la tortura e altre cinque persone persero la vita mentre erano in carcere. Quello di Salem fu il più letale processo alle streghe avvenuto in nord America e l’ultimo evento di questo tipo nelle colonie inglesi. Per trecento anni la cittadina del Massachusetts fu ricordata per questo, finché, sorprendentemente, diventò teatro di un acceso dibattito scientifico. La tempesta di Salem A oggi si riconoscono svariate concause che hanno generato la “tempesta perfetta” a Salem e dato inizio al biennio più buio della sua storia. Scrive lo storico Emerson W. Baker nel suo libro A storm of witchcraft (2014): “Vengono regolarmente pubblicati nuovi libri, ciascuno con la propria spiegazione di cosa accadde: fu una crisi religiosa, o l’esplosione di un’epidemia di ergotismo […], il risultato di una disputa su dei terreni a Salem Village, un’ondata di isteria da guerra di frontiera, un’affermazione misogina del patriarcato”.  Ma non c’è una chiave unica che permetta di spiegare un evento di questa portata: occorre considerare tutti questi fattori contemporaneamente per comprenderne la complessità. > Salem ospitò il più letale processo alle streghe del Nord America e così fu > ricordata per oltre trecento anni. Finché non diventò teatro di un acceso > dibattito scientifico. La storia è costellata di processi per stregoneria: se guardiamo anche all’Europa, quella di Salem non fu una caccia alle streghe così imponente, né fu l’ultima, dato che nel continente europeo i processi alle streghe proseguirono fino all’illuminato diciottesimo secolo. Nonostante ciò, è principalmente riguardo a Salem che in molti cercano un perché, una causa razionale che possa spiegare l’inspiegabile: questa vicenda è stata elevata a sinonimo della lotta alla stregoneria. “Fu un processo tardo, era il 1692, nel mondo anglosassone si era agli sgoccioli del periodo della caccia alle streghe”, mi spiega Michelle Brock, insegnante di storia presso la Washington and Lee University di Lexington, in Virginia: “C’è poi il fattore dell’eccezionalità degli Stati Uniti: la storia americana viene percepita come unica e speciale, e questa era vista come la terra della libertà religiosa, del rispetto dei diritti…”. Ciò che accade in America, insomma, fa notizia, fa tendenza. La fondazione delle prime colonie americane portava con sé speranza nel nuovo mondo e Salem, dalla parola ebraica shalom, pace, fu il primo insediamento che i coloni inglesi fondarono nella baia del Massachusetts, quello che doveva essere un esempio virtuoso per tutti gli altri. Infine, a rendere quello di Salem un evento singolare è anche la natura del processo in sé: la maggior parte dei procedimenti inquisitori avvenuti fino a quel momento non implicavano casi di possessione, si basavano su accuse di malefici e sortilegi perpetrati da questo vicino di casa o quella vecchia che viveva ai margini del villaggio. In questo caso, invece, c’era da spiegare il comportamento assurdo delle bambine ‘stregate’, e per farlo i giudici di Salem fecero uso di un mezzo controverso, la prova spettrale: in tribunale si faceva affidamento sulla dichiarazione di testimoni secondo cui lo spirito o la forma spettrale dell’imputato appariva in sogno, nonostante in quel momento il corpo fisico dell’imputato si trovasse in un altro luogo. Nascita, vita e non-morte della ergot hypothesis         Tre secoli dopo il processo, nel 1976, una nuova teoria fece capolino: in un articolo pubblicato sulla rivista Science, la scienziata Linnda Caporael ipotizzò che a Salem ci fosse stata un’intossicazione alimentare dovuta al fungo Claviceps purpurea, un parassita che cresce sulla segale e che, se ingerito, può causare una malattia chiamata ergotismo (da ergot, francese per “sperone”). Questo fungo, infatti, genera sulla segale infetta delle escrescenze che ricordano degli speroni o delle corna, da cui il nome più popolare di “segale cornuta”. La segale cornuta può causare due tipi di patologia, l’ergotismo gangrenoso, che provoca cancrena delle estremità degli arti, o l’ergotismo convulsivo, che è caratterizzato da convulsioni, tremori e spasmi e può implicare anche sintomi psichici come deliri e allucinazioni (curiosità: è proprio da una molecola presente in Claviceps purpurea, l’acido lisergico, che nel 1938 a Basilea fu per la prima volta sintetizzata l’LSD). > Nel 1976 Linnda Caporael ipotizzò che fosse colpa di un’intossicazione > alimentare dovuta al fungo Claviceps purpurea, un parassita che cresce sulla > segale e che, se ingerito, può causare tremori, spasmi, deliri e > allucinazioni. La spiegazione proposta da Linnda Caporael faceva riferimento all’ergotismo convulsivo ed era lineare, sensata e razionale. Si impose subito all’attenzione pubblica e fu ripresa da diversi giornali americani come una notizia sensazionalistica: ecco cosa aveva davvero causato il processo alle streghe. Come ricorda la storica e linguista Margo Burns nella sua conferenza The Salem Witchcraft Trials and Ergot, the “Moldy Bread” Hypothesis, c’è da considerare che in quel periodo il terreno era particolarmente fertile: erano gli anni Settanta, si arrivava da un decennio in cui la psichedelia era esplosa con il movimento hippy, e ora se ne conoscevano anche i lati oscuri. Pochi mesi dopo l’uscita del paper di Caporael, il professore di psicologia Nicholas P. Spanos pubblicò assieme a Jack Gottlieb un nuovo articolo, anche in questo caso su Science. Spanos confutava punto per punto la teoria di Caporael, definendo le sue argomentazioni inconsistenti: > Le prove disponibili non supportano l’ipotesi che l’avvelenamento da ergot > abbia avuto un ruolo nella crisi di Salem. Le caratteristiche generali della > crisi non assomigliavano a quelle di un’epidemia di ergotismo. I sintomi delle > ragazze affette e degli altri testimoni non erano quelli dell’ergotismo > convulsivo. Inoltre, la fine improvvisa della crisi, il rimorso e i > ripensamenti di coloro che giudicarono e testimoniarono contro gli accusati > possono essere spiegati senza ricorrere all’ipotesi dell’ergotismo. Tra le diverse prove a supporto della propria tesi, Spanos ricordava che le bambine possedute mostravano una sintomatologia che sembrava apparire “a comando”: stando ai numerosi documenti disponibili, sappiamo che le bambine affette presenziavano in tribunale durante i processi alle persone accusate di stregoneria, e che i loro sintomi esplodevano quando queste negavano la propria colpevolezza, mentre si acquietavano dopo una confessione. Non abbiamo una spiegazione certa di questi comportamenti: c’è chi pensa che le bambine fingessero e cercassero attenzioni, chi riconosce in loro sintomi psichiatrici o segni di traumi psicologici. Probabilmente la verità si trova, anche in questo caso, in una combinazione di fattori, tra i quali non va dimenticato il potere della mente sul corpo: le bambine di Salem erano convinte di essere state stregate, e questa convinzione può avere effetti potenti. A tal proposito, Baker scrive: “Coloro che cercano una spiegazione medica moderna tentano di guardare a un fenomeno del Diciassettesimo secolo con gli occhi del Ventunesimo secolo. Nel Diciassettesimo secolo esisteva una condizione medica perfettamente valida che spiegava il comportamento delle afflitte: erano stregate”. Nonostante le smentite, era ormai tardi per archiviare l’ipotesi di Caporael: complice la pubblicazione di un nuovo articolo della storica Mary Matossian a supporto dell’ipotesi della segale cornuta, ancora oggi in libri o siti internet questa storia viene spesso raccontata come una simpatica curiosità o un “incidente di percorso” accaduto nella terra dei liberi e patria dei coraggiosi. > Se erano davvero avvelenati da un fungo, allora possiamo spiegare quanto > accaduto come una reazione a un’intossicazione, molto più facile che ammettere > che la gente, al tempo, credeva di vivere in un mondo popolato da forze > demoniache. Secondo Michelle Brock, la popolarità della teoria di Caporael deriva dal distanziamento che ci permette di attuare dalla vicenda di Salem: “Se erano davvero avvelenati da un fungo, allora possiamo spiegare quanto accaduto come una reazione scientifica a un’intossicazione, ed è una spiegazione molto più facile e pulita dell’ammettere che, al tempo, la gente credeva di vivere in un mondo popolato da forze demoniache”, mi spiega: “Le persone erano certe che le streghe esistessero e che, in quanto pericolose e letali, dovessero essere sterminate: si trattava di credenze autentiche. Per noi è difficile comprendere appieno la realtà, il potere e la forza di quelle convinzioni […], ed è più facile liquidarle come qualcosa di bizzarro o di superstizioso”. Alicudi e la sua segale cornuta L’eco di questa storia è arrivata fino in Italia, dove una vicenda simile vede protagoniste delle strane apparizioni e una pseudospiegazione che coinvolge la segale cornuta. Alicudi è una piccola isola situata nell’arcipelago delle Eolie: qui gli anziani del posto raccontano di aver visto fantasmi aggirarsi per le strade, “femmine volare”, persone trasformarsi in animali. Una spiegazione a queste stranezze fu proposta negli anni Novanta da Elio Zagami, psichiatra e psicoanalista di origini eoliane: il pane consumato dagli isolani era stato impastato con segale parassitata da Claviceps purpurea. La teoria venne raccontata in una puntata della rubrica Mediterraneo andata in onda su Rai 3 nel 1996 e ripresa nel 2007 in un documentario dal titolo L’isola analogica: da qui, si diffuse a macchia d’olio. La vicenda ricorda molto quella di Salem: anche in questo caso una teoria scientifica sembrava risolvere il mistero, rendere possibile l’impossibile. Il problema, anche in questo caso, è che non esistono prove. Tommaso Ragonese ha raccontato questa storia nel libro Alicudi e la segale cornuta. Anche lui ha evidenziato come “la necessità di trovare a tutti i costi una spiegazione al mito, banalizzandone l’universo simbolico, in ogni epoca e luogo, segnala […] un gigantesco travisamento culturale”. Nel suo libro, Ragonese riporta i racconti ascoltati direttamente dagli isolani e le isolane di Alicudi: le apparizioni e le storie dell’isola si inseriscono in una mitologia comune all’arcipelago eoliano e al Mediterraneo tutto, e sono parte di un immaginario magico con radici antichissime. Cercarne una spiegazione scientifica, “come se oggi non fossimo intrisi di mito” mi dice Ragonese, priva questa storia della sua valenza culturale e storica nel tentativo di renderla razionale, confortevole: “Siamo pronti a consegnare il nostro immaginario mitico-magico a un’intossicazione alimentare pur di spiegarlo ed evitare di mettere in discussione l’impostazione cognitiva predominante nella nostra cultura”. > Le teorie pseudoscientifiche hanno successo perché riempiono un vuoto, danno > spiegazioni confortanti e razionali a quello che non sappiamo spiegare; vale > per la segale cornuta come per la fantomatica correlazione tra vaccini e > autismo. Anche in questo caso, la questione non è se le streghe e i fantasmi esistessero davvero, ma che, in quel contesto come in quello di Salem, erano reali per i protagonisti di queste storie, e occorre dunque ripensare le vicende partendo da questo presupposto. “Non soltanto le streghe esistevano, nell’immaginario collettivo ai tempi di Salem e in passati più remoti: esistevano divinità, spiriti, demoni e tutta una serie di concetti archetipici che mi sembra possano ancora veicolare accuratamente una descrizione del paesaggio psichico umano”, continua Ragonese, e ricordando Rosina, una delle anziane di Alicudi con cui ha parlato, aggiunge: “Mi ha detto una frase durante le nostre conversazioni su spiriti, demoni e magia: è un mistero della fede, ma è ‘a veritate. Mentre in un immaginario mitico-magico mistero e verità sono inscindibilmente legati, per la cultura contemporanea ciò ci appare paradossale e incomprensibile”. Ergotismo e streghe, vaccini e autismo La diffusione della teoria della segale cornuta a Salem, e soprattutto la mancata diffusione della sua smentita, ricordano le teorie pseudoscientifiche o complottistiche che vediamo prendere piede ancora oggi: queste teorie hanno successo perché riempiono un vuoto, danno spiegazioni confortanti e razionali a quello che non sappiamo spiegare. Un esempio su tutti è quello di Andrew Wakefield e la sua pseudocorrelazione tra vaccini e autismo. Nel 1998, Wakefield e colleghi pubblicarono un articolo su Lancet affermando che il vaccino contro morbillo, parotite e rosolia (che conosciamo come vaccino trivalente) potesse predisporre i bambini a problemi di sviluppo e comportamentali: appena pubblicata, la teoria fu enormemente pubblicizzata e spaventò i genitori a tal punto da indurli a smettere di vaccinare i propri figli. La correlazione ipotizzata da Wakefield fu immediatamente smentita: secondo studi successivi non poteva essere stabilito alcun legame causale tra la vaccinazione e l’autismo. Come afferma il medico Josh Sharfstein in un’intervista, la ricerca di Wakefield proponeva una correlazione di causa-effetto, ma era stata condotta senza un gruppo di controllo, facendo una selezione capziosa e parziale tra i pochissimi casi studiati e inventando una consequenzialità in due eventi che, durante l’infanzia, avvengono generalmente nello stesso periodo, quali le vaccinazioni e l’insorgenza dei primi sintomi dell’autismo. L’articolo, in sostanza, non dimostrava nulla. > Se una teoria fa presa sulla nostra pancia prima ancora che sulle nostre > menti, magari perché ci rassicura o perché tocca corde sensibili, diventa > difficile confutarla, perché la sua smentita non riscuote la stessa > attenzione. La rivista ha ufficialmente ritirato l’articolo nel 2010, e Wakefield e i colleghi sono stati ritenuti colpevoli di violazioni etiche compiute durante lo studio e accusati di frode per aver selezionato i dati che meglio si adattavano alla loro teoria e falsificato i fatti. In un commento alla vicenda, Stefania Salmaso, epidemiologa ed ex direttrice del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità), afferma: > Una volta che viene insinuato il dubbio, poi è difficile spazzarlo via, anche > se gli si contrappongono argomenti razionali e fondati su evidenze. Il dubbio > si basa su elementi di tipo emotivo e in genere basta che siano presenti voci > in disaccordo per provocare una crisi di fiducia. L’eco della smentita magari > non arriverà mai, ma certamente rimarrà la sensazione di una mancanza di > consenso e quindi di una potenziale pericolosità della vaccinazione offerta. Se una teoria fa presa sulla nostra pancia prima ancora che sulle nostre menti, perché ci rassicura (come nel caso della spiegazione scientifica di Salem) o perché tocca corde sensibili (come la salute dei bambini), diventa difficile confutarla, perché la sua smentita non fa notizia: il risultato è che teorie comprovatamente fallaci restano a lungo in circolazione. Guardare al passato con gli occhi del passato Quando si dà a un fenomeno una spiegazione troppo semplice, quando ci si concentra su un suo unico aspetto e si ignorano gli altri fattori in gioco, difficilmente quella spiegazione, per quanto appaia perfetta, corrisponderà alla verità: le cause degli eventi che ricordiamo sono spesso multiple, complesse e intrecciate. Quella di Salem è davvero stata la tempesta perfetta. Ha attinto energia da ogni elemento di instabilità allora in atto e la sua potenza si è rovesciata su un villaggio. > Per comprendere davvero Salem è necessario compiere un atto di umiltà, fare i > conti con le credenze del passato e porre la vicenda nel contesto giusto, > quello in cui la stregoneria era a tutti gli effetti un reato e punirla era > considerato giusto. Pensare a questa storia come a un esperimento di laboratorio, cercarne una spiegazione razionale, unica e assoluta, sminuisce la portata storica dell’intero fenomeno della caccia alle streghe. Significa decidere di ignorare la cultura, la politica e le convinzioni religiose del tempo. “La gente, oggi, ha difficoltà nel comprendere il pensiero religioso del passato, perché è complicato”, dice sempre Brock, “È più semplice evitarlo, considerandolo come qualcosa di bizzarro, una superstizione, mentre in realtà era la normalità, è stato il modo di pensare alla realtà per secoli. Quando si studia la Storia, si parte con una domanda, ma senza una risposta precostituita, altrimenti si finisce per fare quella che io chiamo storia da colorare, dove in pratica si ha già l’immagine nella testa e basta riempirla con i colori”. Per parlare di Salem nel modo corretto è necessario compiere un atto di umiltà: spogliarsi delle proprie convinzioni e categorie: fare i conti con le credenze del passato e porre questa vicenda nel contesto giusto, quello in cui la stregoneria era a tutti gli effetti un reato e punirla era considerato giusto. Si deve mettere questa singola vicenda in continuità con i secoli di caccia alle streghe in Europa e in dialogo con tutti gli altri eventi di panico e identificazione di un nemico esterno, anche quelli più recenti. Nell’ultimo capitolo del suo libro, Emerson W. Baker ci guida in questo esercizio: immaginiamo di vivere nel 1692, di sapere che le streghe, così come Dio e il diavolo, esistono e causano morte e miseria. Chiunque può essere una strega, il nostro vicino di casa, nostro marito, nostra figlia. Immaginiamo di chiedere ai leader politici di aiutarci: loro tentano di rassicurarci, garantendo di star prendendo delle misure per affrontare questo pericolo, ma noi sappiamo, in realtà, che si tratta di un compito impossibile, perché il diavolo gioca secondo regole a noi sconosciute. Ora sostituiamo la parola strega con la parola terrorista, e osserviamo come la storia diventa più comprensibile ai nostri occhi. Salem, oggi Cercare di proteggere la propria comunità dalle minacce che vengono da “fuori” è istintivo, e questo a prescindere da quanto reali siano queste minacce, che si parli di streghe nel Seicento o di terrorismo ai giorni nostri; la paura di queste minacce può essere un motore che fa agire in modi, altrimenti, inspiegabili: è la paura l’innesco da cui nascono anche le teorie cospirazioniste, le teorie del complotto, gli episodi di panico satanico. “L’umanità è capace di autoingannarsi in molti modi, specialmente quando le persone che occupano posizioni di potere raccontano una finzione”, mi dice Brock verso la fine della nostra chiacchierata. > Il 22 settembre 2025 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha > dichiarato che l’assunzione di paracetamolo durante la gravidanza può causare > l’autismo e ha incoraggiato le donne incinte a non assumere il Tylenol. Anche oggi abbiamo i nostri miti e le nostre paure, e se pure abbiamo superato quelle che imperavano a Salem non per questo possiamo ritenerci superiori o più assennati: Salem è in realtà parte di un continuum che arriva fino ai giorni nostri, in cui di volta in volta cambia il nemico identificato, ma il sentimento di paura resta immutato e irrazionale. Un nuovo mito contemporaneo l’abbiamo visto nascere davanti ai nostri occhi in questi giorni: il 22 settembre 2025 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato che l’assunzione di paracetamolo durante la gravidanza può causare l’autismo e ha incoraggiato le donne incinte a non assumere il Tylenol, uno dei farmaci più venduti negli Stati Uniti. Anche questa volta non esistono prove a supporto della correlazione, ma queste affermazioni fanno presa sul sentimento di paura e sul senso di colpa delle future madri, generando un clima di accusa e collocandosi all’interno di una politica che da anni si arroga diritti sulla salute e sul corpo femminili. Negli anni, Salem è diventata la capitale della stregoneria, un parco divertimenti con tanto di festival autunnale, l’Haunted Happenings, che attira centinaia di migliaia di visitatori e arricchisce l’economia della città con milioni di dollari ogni anno. La città, oggi, vive anche grazie al turismo generato dagli eventi di fine Seicento. Le donne e gli uomini condannati a morte durante i processi sono stati riconosciuti ufficialmente come innocenti solo negli ultimi 70 anni, in uno sforzo della cittadinanza di venire a patti con il proprio passato e di chiedere scusa a quelle streghe accusate da concittadini che no, probabilmente non erano sotto alcun effetto allucinogeno, ma che erano mossi da una paura reale. L'articolo Streghe, funghi e pseudoscienza proviene da Il Tascabile.
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I normali e noi
I l cemento grigio sotto i piedi, la palla di gommapiuma che mi centra in faccia, la mia maglietta rossa. E poi la vergogna – anche lei rossa, ma non rossa come le guance dei pudici. Rossa come una piaga o un organo genitale. Nulla di grazioso: un tocco di carne da tener ben nascosto. Ero piccolo la prima volta in cui ho smesso di sentirmi normale, ma sono certo di essermi sentito diverso prima di allora. Il modo in cui muovevo le braccia non passava inosservato: ogni volta che il mio sistema nervoso veniva assalito da una grande emozione, le mie mani iniziavano a battere a mezz’aria come ali. Su e giù e su e giù. Per alcuni era strano, per altri inquietante – il mio viso diventava una parata di smorfie, e le mie braccia strapazzavano l’aria come le zampe di un insetto a pancia in su. Questo movimento era vistoso, rumoroso: quando potevo, tenevo in mano un fazzoletto di stoffa leggera. La sensazione della trama sulla mia pelle amplificava il senso di liberazione che mi attraversava. Le persone intorno a me, ovviamente, non avevano certo lesinato i commenti. Mio padre mi profetizzava una litania di fallimenti futuri: vai avanti così e non troverai mai una fidanzatina, un lavoro, un posto nel mondo. Ed effettivamente la mia prima cotta, una bambina bionda figlia di due tristezze provinciali, mi rifiutò dicendo che non voleva stringere la mano di un “handicappato” davanti a tutti. Se ne parlava spesso tra adulti, spesso anche con preoccupazione, ma io mi sentivo al massimo un po’ spostato. Niente di più. Diverso, ma nulla di particolarmente sofferto. E come darmi torto! Le mie ali non facevano del male a nessuno, né a me né agli altri. Non era un gesto offensivo o allusivo. Sarà pure strano, ma sarà poi un crimine essere strani? Per di più, io sapevo di non poter farne a meno. Se m’avessero tarpato, tutta quella energia mi sarebbe rimasta piantata in gola – e quando gli adulti cercavano di fermarmi la sensazione era davvero molto simile a un soffocamento. Il mio dimenarmi aveva una funzione tutto sommato semplice: dare forma esteriore alla sensazione che mi stava attraversando – proprio come un sorriso o una lacrima o un’erezione. Mi permetteva di sfogare la gioia o la rabbia o l’eccitazione che mi stava ingolfando l’animo. In un modo atipico, certo, ma affatto diverso dalle altre reazioni fisiologiche che abbiamo tutti di fronte a una sensazione che ci travolge. Il consenso generale era, però, che non poteva che essere un tic passeggero, da sradicare con la disciplina o il tempo o la cura. “Lo fanno tutti i bambini piccoli. Enrico continua a farlo, ma smetterà”, ricordo questa frase anche se non so a chi attribuirla. Eppure, non smettevo e non volevo smettere. Io non ci soffrivo, ero fatto così e basta. Andavo avanti a essere fatto com’era fatto il mio corpo, finché non ci fu uno strappo. > Il mio dimenarmi aveva una funzione tutto sommato semplice: dare forma > esteriore alla sensazione che mi stava attraversando – proprio come un sorriso > o una lacrima o un’erezione. Mi permetteva di sfogare la gioia o la rabbia o > l’eccitazione che mi stava ingolfando l’animo. Era l’ultimo giorno del penultimo anno di elementari. Per festeggiare l’inizio dell’estate, le classi venivano divise in quattro squadre e si giocava a palla prigioniera. La gente di paese si assiepava intorno al campo per vedere noi bambini sfidarci all’ultimo colpo. Ogni squadra aveva il nome di una bestia, come gli evangelisti. La mia era le Aquile – ironia della sorte o delle maestre, avere nella rosa uno che dimenava le braccia come un volatile. La nostra uniforme era una maglietta rossa. Le regole principali della nostra palla prigioniera erano due: colpisci qualcuno ed eliminalo, prendi la palla al volo ed elimina chi vuole colpirti. Facile. Quel giorno lanciai subito la palla e feci fuori un avversario. Non era la mia prima partita e sapevo di non essere un asso. Eppure, contro ogni pronostico, fuori uno. Mi sentii la testa sprofondare sotto quest’onda altissima di euforia. Le mie mani partirono. Iniziai a svolazzare da solo in mezzo al campo. E in quel momento mi colpì il pallone in pieno viso. La mia testa si voltò verso i limiti del campo per l’urto. Vidi la gente con le mani sulla ringhiera azzurra che divideva il campo dal resto del mondo. Guardavano me e per la prima volta io mi sentii un mostro. Non diverso, ma proprio ributtante. Ero al centro dei loro sguardi e nessuno di loro mi sorrideva. Vedevo la pena, lo stupore, la pietà. Non osavano ridere di una bestia tanto piccola, ma non potevano nascondere il fatto che non mi guardassero come guardavano gli altri. Eccolo, per la prima volta, il mondo degli altri. E io non ho immagini più affilate per descrivere come mi sentii: il mostro delle fiabe e dei cartoni. In cima alla collina come il mostro di Frankenstein, accerchiato. Cosa accadde dopo non lo ricordo con chiarezza. Mentre quell’evento è montato nella mia testa in modo da creare un racconto coerente e liscio ‒ forse in un modo talmente liscio e senza intoppi da farmi sospettare che sia una ricostruzione fatta ad hoc per dare un senso allo strappo ‒ ciò che segue si interrompe come una pellicola mangiata dal fuoco o dall’usura. Posso ricostruire gli eventi successivi solo attraverso i racconti di chi era lì con me o facendo un taglia-e-cuci di ricordi sconnessi. Man mano imparai a nascondere quel movimento delle braccia. Dalla prima media, iniziai ad abituarmi a stare in apnea quando uscivo dalla ristretta cerchia familiare: quel gesto divenne un fatto totalmente privato, come un kink particolarmente imbarazzante. Ad oggi, la cosa non è cambiata. Continuo a farlo e il mio gesto mi libera ancora oggi da una tensione con cui non potrei sopportare di vivere, ma lo nascondo anche alla mia compagna che vive in una casa molto piccola con me. Dopo lo strappo divenni più strano, represso, in alcuni punti direi addirittura menomato. Lo sono ancora. Che cosa fosse quel gesto che facevo con le mani è rimasto un mistero per tutta la mia vita. Un arcano che ha lasciato un segno profondo – una traccia che mi ha impedito per lungo tempo di esplorare più a fondo che cosa quel movimento dicesse di me e del mio corpo. Fino a pochissimo tempo fa, non mi è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello di strappare la benda e capire cosa fosse quella roba. Solo di recente, con un certo sforzo, la natura di quel battito di braccia è uscita dall’anonimato e si è vestita di un nome nuovo, scientifico. Dopo un processo diagnostico durante un mese o poco più ho scoperto che il mio svolazzare è una stereotipia e che io sono una persona autistica. Le stereotipie sono movimenti ripetitivi che molte persone sullo spettro dell’autismo fanno per tenere a bada il mondo che le sta intorno e le emozioni che provano. Su Wikipedia c’è una frase che spiega il fenomeno in maniera tanto clinica quanto poetica: “Il bambino con autismo, dato il suo stato di notevole ansia e, spesso, confusione interiore, a volte utilizza le stereotipie per cercare di mettere ordine e capire ciò che sente e ciò che prova”. Questi movimenti possono interessare il viso, le braccia, il torso, le gambe, gli interessi astratti, la musica che si ascolta, i libri che si leggono, le parole che si dicono o i versi che si gorgogliano in gola. Le stereotipie non hanno, insomma, un ambito specifico o una forma univoca, ma hanno come tratto comune quello di essere degli esercizi involontari e ripetitivi con cui il corpo autistico tiene a bada quello che gli capita dentro e attorno. > Solo di recente, con un certo sforzo, la natura di quel battito di braccia è > uscita dall’anonimato e si è vestita di un nome nuovo, scientifico. Dopo un > processo diagnostico durante un mese o poco più ho scoperto che il mio > svolazzare è una stereotipia e che io sono una persona autistica. Le stereotipie, nel grande schema delle cose autistiche, non sono davvero poi granché: non fanno male né al soggetto interessato né agli altri, non limitano l’apprendimento, non alludono a fatti osceni, non hanno alcun tipo di conseguenza reale. Sono un sintomo trascurabile in un quadro più complesso. Quel movimento che mi fece sentire tanto ributtante agli occhi degli adulti assiepati intorno al campetto è, davanti al banco della ragione clinica, un esserino del tutto innocuo – se non addirittura benefico. E quindi, perché un comportamento tanto banale è diventato la fonte di tanto clamore? Perché accanirsi su un movimento delle braccia privo di conseguenze? Che cosa distingue quel comportamento dal resto delle cose fuori dalla norma che certamente facevo e percepivo e dicevo e pensavo? Non che volessi essere disciplinato di più, sia chiaro, ma perché il peso pendeva tanto da quella parte? Credo che per tutti la diagnosi sia un’esperienza di intensa ridefinizione del proprio posto nel mondo e della propria storia personale. Scrive in un post Fiore Manni, autrice che, come me, ha scoperto di essere autistica in età adulta: “In questi mesi ho subito un drastico peggioramento. Sono diventata ‘più autistica’, ma è normale: per la prima volta, ‘mi hanno dato il permesso’ di essere me stessa. Ho iniziato a smontarmi, pezzo dopo pezzo, scoprendomi per la prima volta per quello che sono davvero”. Ed è difficile non empatizzare con le sue parole. Anch’io nei giorni della diagnosi mi sono sentito cadere a pezzi. Perdere le difese, le abitudini coercitive, i movimenti preimpostati. Un’esperienza a tratti psichedelica e in altri terrificante. Eppure, non mi ha più abbandonato la sensazione che ci fosse di più. In un questionario mi si chiedeva se avessi mai avuto l’impressione di fingere di essere “normale” durante la mia vita. È stata una delle domande a cui ho risposto senza pensarci affatto. Sì, ovviamente sì. Da quando le mie stereotipie sono diventate un problema, ho passato la vita a fingere di essere normale – una condizione che non è mai stata mia. Dopo la mia diagnosi, l’idea di normalità è diventata un pensiero pressante. Un problema da affrontare. Principalmente perché credo che la risposta alle domande che le mie braccia hanno sollevato nel corso della mia vita sia legata a stretto giro con il concetto di normalità. Le mie stereotipie furono un enorme problema per me e per le persone che mi circondavano perché erano vistosamente fuori dalla norma. In fondo è semplice: i corpi normali non si comportano così in pubblico e fuoriuscire vistosamente dalla normalità, specialmente all’interno di strutture di disciplinamento psicologico e corporeo come la scuola, è una divergenza che si paga caro ancora oggi, a discapito di tutte le politiche di diversità e inclusione che la nostra parte di mondo porta al petto come una medaglia al valore. > Dopo la mia diagnosi, l’idea di normalità è diventata un pensiero pressante. > Un problema da affrontare. Principalmente perché credo che la risposta alle > domande che le mie braccia hanno sollevato nel corso della mia vita sia legata > a stretto giro con il concetto di normalità. Nel turbine postdiagnostico, ho iniziato a prendere in mano libri che non leggevo dai tempi dell’università per trovare alleati in questa nuova convinzione e mi sono imbattuto in una stringa di frasi che mi hanno colpito per quanto rendono la direzione in cui vanno i miei pensieri: “La rilevanza di Freud ai nostri tempi è per la maggior parte dovuta alla sua intuizione e […] dimostrazione scientifica che la persona comune è un frammento martoriato, moscio di quello che una persona potrebbe essere davvero”. È un passaggio di un eretico della psicologia, Ronald David Laing, e viene da un libro che ho letto in inglese data la completa assenza di un’edizione italiana facilmente reperibile: La politica dell’esperienza (1967, trad. it. 1968). Dopo la mia diagnosi la sensazione che mi ha perseguitato è che la mia esperienza del mondo sia stata radicalmente ridotta per rientrare in un codice invisibile che regola ogni nostro movimento nello spazio pubblico, proprio come dice Laing. Il mio modo di fare esperienza del mondo era ed è tuttora troppo e ho dovuto farne a meno nel corso della mia vita. Un’idea che ho sempre covato, credo, ma che ora diventa una questione biografica e un fatto di benessere personale. Sembra e probabilmente è banale, ma quando lo si dice senza girarci troppo attorno è un’idea dalla portata enorme: la mia vita è stata un lungo, interminabile apprendistato alla normalità. Un allenamento informale e raramente esplicitato che permea ancora oggi ogni angolo della mia vita e che, in generale, impedisce alle persone eccessive come me di poter disporre liberamente dei propri nervi. La potenza delle parole di Laing, e di questo menar pugni contro la normalità, sta però altrove, nel suo risvolto meno palese e meno solitario, per così dire. Il passo di Laing continua così: > Da adulti dimentichiamo la nostra infanzia, non solo i suoi contenuti ma anche > il suo sapore; come uomini di mondo, consideriamo quasi niente l’esistenza del > mondo interiore; raramente ricordiamo i nostri sogni, e ce ne facciamo ben > poco quando ce li ricordiamo; per quanto riguarda i nostri corpi, invece, > conserviamo solo le sensazioni propriocettive per coordinare i nostri > movimenti e per assicurarci i requisiti minimi per la nostra sopravvivenza > biosociale – registrare la fatica, la presenza di cibo, sesso, defecazione, > sonno; al di là di questo, poco o nulla […]. Anche solo la nostra capacità di > vedere, sentire, toccare, assaporare e annusare è così velata da strati e > strati di mistificazione che per tutti è necessaria una disciplina di > diseducazione, affinché si possa fare nuovamente esperienza del mondo con > innocenza, verità e amore. Il mio caso era ovvio, manifesto: ero facile da riconoscere nella folla e la mia normalizzazione fu un processo molto chiassoso. Mi muovevo in una maniera vistosamente anormale. Ma, seguendo la logica di questo passo, non ero certo una minoranza o la vittima prescelta di questa mutilazione: ogni bambino esperiva il mondo come me in maniere variamente non-normali e ognuno di loro veniva tarpato affinché la sua esperienza si riducesse al minimo comun denominatore. Io ero appariscente nel mio modo autistico di usare il corpo, ma non ero assolutamente solo nel mio trauma. Nessuno su quel campo si comportava già in un modo perfettamente normale: chi mal gestiva i propri fluidi corporei, chi si lasciava trasportare eccessivamente dalla rabbia o dalla gioia e chi non riusciva a entrare nelle regole del gioco per un motivo o per un altro. Eravamo tutti coercitivamente normalizzati e tutti fallivamo nel tentativo di tenere il passo che ci veniva imposto. Non c’era un singolo bambino che non fosse in qualche misura indocile – io, mio malgrado, lo ero solo in maniera più eclatante. > La sensazione che mi ha perseguitato è che la mia esperienza del mondo sia > stata radicalmente ridotta per rientrare in un codice invisibile che regola > ogni nostro movimento nello spazio pubblico. La conclusione viene naturale: il problema non ero io e non eravamo tutti noi, ma la struttura del mondo a cui ci dovevamo adeguare tutti quanti. Una prospettiva rinvigorente, per quanto mi riguarda: la mia condizione e tutta questa mia sofferenza superflua passano, sotto la lente di Laing, dall’essere un fatto privato all’essere una questione pubblica, universalmente condivisa. Riguarda tutti, non solo me in quanto neurodivergente. Inutile piangersi addosso o cercare di rendersi speciali nel proprio dolore: diventare persone normali è uno strappo doloroso per ogni singolo individuo – un affronto alla varietà di tutte le nostre biologie private. Questo tipo di approccio – vedere la normalità come un problema che colpisce tutti indistintamente, in un modo o nell’altro – era relativamente diffuso fra le controculture quando Laing scriveva il suo libro. Esistevano collettivi come l’SPK (Sozialistisches Patientenkollektiv, il Collettivo socialista dei pazienti), ad esempio, che sostenevano che la malattia, l’invalidità e la divergenza erano il risultato diretto della normalità imposta e difesa dal blocco capitalista. Ogni persona, per l’SPK, è fisicamente costretta a comportarsi in maniere innaturali: strisciare al lavoro ogni giorno e restarci docile per otto o più ore, condurre il proprio corpo in un certo modo, eliminare o nascondere ogni comportamento improduttivo o alieno. Per l’SPK essere malati o comunque in qualche misura divergenti è la risposta più naturale davanti a un regime tanto pervasivo e totalizzante. L’eliminazione di tutte le sofferenze non poteva passare attraverso la cura di questo o quel malanno o divergenza, ma esclusivamente attraverso l’eliminazione del regime in quanto tale. Ogni riconoscimento o agevolazione o concessione sono, per loro, semplicemente dei palliativi volti a nascondere il fatto che il funzionamento del nostro sistema dipende da questa disciplina che tutti devono sopportare. Jean-Paul Sartre commentava così le loro posizioni in una lettera indirizzata al collettivo: “La malattia […] è l’unica forma di vita possibile nel capitalismo. In effetti, lo psichiatra, che dipende dal salario, è un malato come ognuno di noi. Le classi dominanti gli conferiscono semplicemente il potere di “curare” o di ricoverare. Curare ‒ questo è evidente ‒ non può essere inteso nel nostro sistema come l’eliminazione della malattia: serve esclusivamente a mantenere la capacità di andare a lavorare dove si rimane malati. Nella nostra società ci sono solo i guariti e i curati”. Il fuoco dell’attenzione passa, anche qui, dalla particolarità del caso individuale alla generalità della politica e della gestione della cosa pubblica. La mia diagnosi, ad esempio, non è più una questione solo mia, ma un fatto politico a pieno titolo: l’ispirazione a praticare un mondo diverso. Un mondo in cui punizioni, costrizioni e ortopedie fisiche o spirituali diventino semplicemente impensabili per tutti, non solo per coloro che ne vengono colpiti in maniera più evidente. Un invito a fare a meno del mondo per come l’abbiamo conosciuto finora. La mia diagnosi e la mia biografia mettono in crisi la normalità che mi ‒ e soprattutto ci ‒ è stata imposta, rendendo manifesto il torto che questo processo fa a tutti. > La mia diagnosi non è più una questione solo mia, ma un fatto politico: > l’ispirazione a praticare un mondo diverso, in cui punizioni, costrizioni e > ortopedie fisiche o spirituali diventino semplicemente impensabili per tutti, > non solo per coloro che ne vengono colpiti in maniera più evidente. Un’intuizione che, fra l’altro, non ha colpito solo me nei miei giorni postdiagnostici. Testimone inatteso della potenza di tutto questo è certamente Robert Kennedy Jr., attuale segretario della Salute e dei Servizi umani degli Stati Uniti d’America. Nei giorni della mia diagnosi, Kennedy ha destato un certo scandalo con delle affermazioni che sembrano un sinistro controcanto alle mie conclusioni e sensazioni dopo la diagnosi. Secondo Kennedy siamo nel pieno di una epidemia di autismo. Kennedy lo descrive come una vera e propria catastrofe naturale: “L’autismo distrugge famiglie, ma peggio ancora distrugge la nostra risorsa più grande: i bambini”. Per il segretario l’autismo è una malattia che colpisce i bambini nell’età dello sviluppo. Sarebbe dovuto a una contaminazione, stando a lui: nell’ambiente aleggia una misteriosa tossina che rende la nostra gioventù autistica. Gli effetti, sempre secondo Kennedy, sono devastanti: “questi sono bambini che non dovrebbero soffrire in questo modo. Questi sono bambini che erano perfettamente funzionanti e che sono regrediti a causa di un’esposizione tossica che li ha resi autistici quando avevano due anni. Sono bambini che non pagheranno mai le tasse, che non avranno mai un lavoro, non giocheranno mai a baseball, non scriveranno mai una poesia, non avranno mai un appuntamento romantico. Molti di loro non potranno andare in bagno senza essere assistiti”. Insomma, sono bambini che non saranno mai normali. E, in un certo senso, è bello dargli corda. Le diagnosi di autismo sono effettivamente in aumento e per alcuni, me compreso, queste diagnosi significano davvero un rifiuto o comunque una crisi della normalità. In alcuni casi – quelli più fortunati, in cui la diagnosi non è il prologo di una futura condanna, reclusione in cella, in camera o su un lettino d’ospedale – queste rivelazioni sono il momento di rottura che ti costringe a riappropriarti della tua biologia e rifiutare, per quanto possibile, quella marcia forzata che costringe i corpi a comportarsi in un modo tanto meccanico quanto innaturale. > Che fioriscano mille diagnosi, allora, e che per ognuno siano una rivelazione. > E che tutti gli altri si uniscano agli insani, perversi, inadeguati: la > normalità ferisce tutti. Ovviamente, il discorso di Kennedy è apertamente antiscientifico e mal cela sotto la veste della difesa del bene comune la volontà di sterminare coloro che escono dalla norma. Ma l’immagine di un’epidemia di divergenti un po’ mi fa sognare. È la descrizione un po’ pulp di una normalità sotto assedio, lì lì per crollare sotto il peso di tutti i nostri corpi fatti in modi tanto diversi e così sprezzanti delle ragioni di questo mondo in cui ci tocca vivere. Sembra l’inizio di un’utopia: un mondo pieno di persone pronte a vivere la propria esperienza appieno, sancendo davvero la fine della normalità. Che fioriscano mille diagnosi, allora, e che per ognuno siano una rivelazione. E che tutti gli altri si uniscano agli insani, perversi, inadeguati: la normalità ferisce tutti. Ovunque la normalità perde terreno, guadagniamo spazio noi. L'articolo I normali e noi proviene da Il Tascabile.
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