L’amore è una casa stregata

Il Tascabile - Thursday, September 18, 2025

“D ieci red flag a cui prestare attenzione quando inizi una relazione”, “i cinque segnali per capire se stai vivendo un rapporto disfunzionale”, “Come riconoscere un partner narcisista in tre mosse”: non passa giorno in cui non mi imbatta, dentro e fuori dai social, in un discorso che evoca questi scenari. Nonostante conosca, per motivi professali e personali, la pericolosità implicita alle relazioni d’amore, non ho mai apprezzato molto l’idea di affiancare a questo sentimento l’aggettivo “tossico” come si tende a fare sempre più spesso.

Se è vero che “pharmakon”, etimologicamente, descrive al tempo stesso un rimedio e un veleno, allora bisognerebbe accettare che separare ciò che fa bene da ciò che fa male non è mai un’operazione banale o definitiva. Paragonare l’amore a una sostanza chimica che può essere dosata male rischia di essere una semplificazione. L’amore è un’esperienza situata, che prende forma dentro un contesto specifico e cambia a seconda di come ci è stato insegnato a viverlo. Come tutte le forme apprese, può contenere insieme il sollievo e la ferita.

Se dovessi usare un’immagine, una metafora, per raccontare la complessità ambivalente dell’amore, userei quella della casa stregata. Un luogo che conosciamo bene, perché lo attraversiamo ogni giorno, in cui sappiamo muoverci a occhi chiusi tra le stanze di cui ricordiamo anche il più piccolo dettaglio, ma dove accadono cose che non riusciamo a spiegare del tutto. In quegli ambienti, alcune presenze si manifestano con forza: la gelosia, la paura dell’abbandono, il desiderio di controllo.

Altre si insinuano più silenziosamente: la convinzione che amare significhi sacrificarsi, che la fusione sia il segno di un legame riuscito, che la solitudine sia una colpa da redimere dentro il perimetro della coppia. Viviamo in questa casa da sempre, ci è familiare, ci protegge e ci spaventa contemporaneamente. Ci hanno insegnato che è lì che si compie l’amore, che lì va cercata la felicità, e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma forse non tutto ciò che ci sembra normale è davvero innocuo. E non tutte le stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre.

Viviamo in questa casa da sempre. Ci hanno insegnato che è lì che si compie l’amore e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma forse non tutte le stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre.

La casa dell’amore che conosciamo è costruita su fondamenta antiche, spesso confuse tra loro: da un lato l’idea dell’amour-passion, dall’altro quella dell’amore romantico. Secondo il sociologo Anthony Giddens, l’amore-passione nasce nei miti tragici e nella letteratura cortese, e ha la forma dell’assoluto: un desiderio che non conosce misura, che consuma chi lo prova e, spesso, anche chi lo riceve. La passione assume così i contorni di una vocazione, una febbre, una forma nobile di follia. L’amore romantico, invece, è una costruzione più recente, modellata all’interno della cultura borghese, che lo organizza secondo criteri di ordine, durata e riconoscimento sociale. Se l’amore-passione è un abisso, quello romantico è una struttura: contiene il desiderio e lo disciplina, lo rende narrabile, possibilmente felice. All’interno di questa organizzazione, l’amore non è fine a sé stesso ma deve produrre qualcosa: una coppia, una casa, un futuro.

Anche Michela Murgia, a modo suo, ci ha offerto una metafora per descrivere l’esperienza amorosa. In un’intervista rilasciata a Vanity Fair poco prima di morire, la scrittrice paragonava l’amore a una malattia esantematica, a un virus, a una forma di psicosi temporanea. Raccontava, con sollievo, di quanto fosse felice di poter amare senza più attraversare quello stato di alterazione, e invitava chi la ascoltava a fare lo stesso: liberarsi dell’idea che l’amore debba per forza coincidere con la perdita di sé.

In questa definizione così radicale ‒ l’amore come malattia fisica e mentale ‒ sembra affiorare una certa confusione di piani. Murgia descrive lo stato di alterazione tipico dell’innamoramento, ma lo attribuisce all’amore nel suo insieme, come se l’intera esperienza relazionale fosse contaminata da quella forma estrema, acuta, che è solo una delle sue fasi. È una sovrapposizione comprensibile, e in parte inevitabile, perché l’idea di amore che ci è stata trasmessa tende a fondere i due modelli.

Ci muoviamo dentro questa ambiguità senza quasi accorgercene: desideriamo relazioni sicure, affidabili, ma ci aspettiamo che conservino l’incandescenza del primo incontro. Vogliamo che durino, ma anche che ci travolgano. E quando questo equilibrio non si realizza ‒ perché non può realizzarsi ‒ finiamo per leggere ogni scarto, ogni crisi, come un segno che qualcosa in noi (o nell’altra persona) non funziona. Come se fosse sempre una questione di dosaggio sbagliato, e mai di struttura.

Se l’amore-passione è un abisso, quello romantico è una struttura: contiene il desiderio e lo disciplina, lo rende narrabile, possibilmente felice.

Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso (1977), ci ricorda che quando parliamo d’amore, raramente siamo davvero noi a parlare. “L’innamorato è colui che parla”, afferma, ma quel discorso non gli appartiene del tutto: è una costellazione di frasi già dette, già pensate, già sentite altrove. Un archivio culturale in cui il soggetto che ama cerca appigli per spiegarsi, per giustificarsi, per esistere. In questo senso, non è solo l’amore a essere confuso: è il linguaggio stesso con cui lo raccontiamo a confonderci.

In una delle interviste che accompagnano il volume, lo scrittore sottolinea come la società non metta mai in scena l’amore inteso come sentimento, ma solo degli episodi, dei racconti in soggettiva: “raccontare fa parte delle grandi costrizioni sociali […] con la storia d’amore, la società ammansisce l’innamorato”. Barthes ci mostra che il soggetto amoroso è, in fondo, una figura letteraria: vive attraverso formule, si definisce attraverso cliché, ripete gesti che ha visto rappresentati mille volte. E non perché manchi di autenticità, ma perché l’amore ‒ nella forma in cui lo conosciamo ‒ è prima di tutto un discorso appreso.

Se Barthes, da teorico, si concentrava soprattutto sull’amore inteso in quanto discorso,  nel recente L’amore è cambiato Annalisa Ambrosio prova a indagare gli stereotipi culturali che lo attraversano. La scrittrice definisce l’amore romantico richiamando la nozione foucaultiana di dispositivo. Non un sentimento, ma una costruzione collettiva, una forma appresa che continua a modellare il nostro modo di stare in relazione. È attraverso l’amore, ci ricorda, che trasmettiamo ruoli, aspettative, immagini fisse di ciò che significa essere desiderabili, affidabili, degni di legame.

A essere tossici, dunque, non sono tanto gli individui quanto le immagini che abbiamo interiorizzato: l’idea che amare significhi annullarsi, che la gelosia sia una prova di coinvolgimento, che la coppia debba collocarsi gerarchicamente al di sopra qualsiasi altro legame. Questi assunti dipendono largamente dalle norme culturali di genere, che stabiliscono cosa sia accettabile, desiderabile o legittimo nei comportamenti affettivi e sessuali a seconda che siano agiti da uomini o donne. Occupandosi di seguire il processo contro gli strupratori di Gisèle Pelicot, la filosofa Manon Garcia osserva come la cultura eterosessuale sia ancora regolata da una serie di aspettative asimmetriche: agli uomini è concesso il desiderio (anche quando, manifestandosi nei confronti di una donna sedata, dovrebbe assumere i contorni della violenza); alle donne solo la passività, la disponibilità, l’adattamento.

Il soggetto amoroso è, in fondo, una figura letteraria. E non perché manchi di autenticità, ma perché l’amore è prima di tutto un discorso appreso.

Riprendendo il concetto di “impalcatura sociale dello stupro”, definito dalla psicologa neozelandese Nicola Gavey agli inizi degli anni Duemila, Garcia sottolinea come quell’insieme di rappresentazioni e norme implicite non solo renda pensabile la violenza, ma contribuisca anche a definire il suo opposto: ciò che una società ritiene accettabile, desiderabile, o “giusto” in una relazione affettiva o sessuale. Molte delle strutture che rendono il sentimento d’amore un’interazione in qualche modo “leggibile” ‒ attraverso i ruoli, le modalità, i tempi in cui si sviluppa ‒ derivano da quella stessa impalcatura.

Si tratta di un sistema in cui l’iniziativa è spesso considerata maschile e il rifiuto (la cui soglia appare flessibile e negoziabile in ragione di ulteriori variabili quali lo status sociale, la natura del legame o il contesto in cui avviene l’interazione) tipicamente femminile. In questo quadro, l’amore diventa il luogo in cui si impara a leggere la disparità come gioco delle parti e il silenzio come reciproca intesa.
Stando così le cose, chiedersi se l’amore sia o meno “tossico” rischia di essere una domanda mal posta. Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere come le parole che usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole proteggono ‒ contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali.

Ambrosio, con la sua analisi degli stereotipi culturali, e Barthes, che si concentra sul discorso amoroso, ci indicano la stessa direzione: per cambiare il modo in cui pensiamo all’amore abbiamo bisogno anche di un’altra lingua, di un altro repertorio di immagini, di altri scenari cui attingere per descrivere il nostro sentimento. Tuttavia, se vogliamo davvero trasformare il modo in cui stiamo nelle relazioni, non possiamo fermarci al linguaggio: dobbiamo intervenire anche sulle architetture culturali che quel linguaggio sostiene e naturalizza.

Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere come le parole che usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole proteggono ‒ contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali.

Insomma, il discorso deve farsi politico. Proprio su questo tema ruota la riflessione di Victoire Tauillon. In Il cuore scoperto (2025), l’autrice sostiene la tesi secondo cui l’amore non sia soltanto un sentimento funzionale a descrivere la nostra individualità: è, soprattutto, un sentimento politico. Le parole nuove per descriverlo, pertanto, non vanno cercate in astratto: è necessario invece interrogarsi su come stiamo dentro le relazioni, quali gesti, attese, silenzi mettiamo in circolo. Nel cuore del dispositivo amoroso, i modelli da rivedere sono il frutto di abitudini quotidiane reiterate, da riconsiderare nella loro veste ideologica: chi chiede, chi impone, chi si assume l’onere di aspettare o rinunciare a qualcosa, dentro le relazioni che costruiamo? Quanto impattano, in tutto ciò, le aspettative di genere?

Tuaillon ci invita a spostare l’attenzione dall’amore in astratto al modo in cui lo abitiamo. Un invito che risuona anche nelle parole di Brigitte Vasallo, secondo cui l’amore non può essere rivoluzionario se non lo sono anche le nostre pratiche affettive. Per Vasallo, la vera rivoluzione degli affetti non consiste solo nel moltiplicare i modelli relazionali, ma nell’abbattere la struttura gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa dell’amore.

Una prospettiva diversa, ma complementare, è anche quella che propone Geoffroy de Lagasnerie: il filosofo suggerisce di sottrarsi a tutto ciò che l’amore comporta in termini di vincoli, centralità e aspettative, sostituendolo col paradigma dell’amicizia. A differenza del sentimento amoroso, l’amicizia può generare un legame che non pretende esclusività, non si fonda sulla reciprocità obbligata, e permette di pensare la prossimità come una scelta quotidiana, non come un destino o un dovere. In questa visione, il “fuori” a cui si aspira non è un altrove sentimentale ma un modo altro di stare in relazione, liberato dalle gerarchie emotive e dal peso simbolico dell’amore romantico. Ripensare il discorso amoroso, in questa prospettiva, significa in particolare rifiutare l’idea che questo sentimento debba esaurire la nostra identità: smettere di considerarlo il luogo dove ci si realizza o ci si completa a vicenda e cominciare a viverlo come uno spazio condiviso ma non totalizzante, dove si può essere interi senza che il partner colmi le nostre mancanze.

La vera rivoluzione degli affetti consiste nell’abbattere la struttura gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa dell’amore.

Che cosa resta, in definitiva, del legame d’amore quando si rinuncia a controllarlo? Quando non è più un patto di fedeltà né un progetto di vita, ma una forma di relazione nuova, che assume i contorni di un’esplorazione condivisa? Quando smette di funzionare come garanzia e comincia a somigliare a un terreno da attraversare, anche senza una meta precisa? Trovare, concretamente, spazi che incarnino il cambiamento auspicato da Brigitte Vasallo o Geoffroy de Lagasnerie è ancora difficile. Le pratiche relazionali restano in larga parte vincolate a schemi normativi, ruoli rigidi aspettative di coppia sedimentate. Per questo, forse, è verso la letteratura che dobbiamo rivolgere lo sguardo per sovvertire il nostro immaginario.

In Negli universi (2025), Emet North racconta una storia che non è una “storia d’amore” nel senso tradizionale: è il racconto di un desiderio che, per restare vivo, cambia la propria forma. Raffi, una persona queer specializzata in cosmologia, attraversa molteplici realtà alternative inseguendo una relazione, quella con l’amata Britt, che si trasforma a ogni passaggio. Nessuna di queste versioni è rassicurante, definitiva, ordinata. Eppure, ciascuna interroga profondamente che cosa intendiamo per legame, per presenza, per possibilità di stare con qualcuno. Forse è questo, oggi, il gesto fondativo: accettare che l’amore non sia una risposta, ma una lingua da disimparare, un sistema da disarticolare. Non basta ridipingere le pareti o cambiare l’arredamento: quella casa va demolita. Solo allora, forse, potremo cominciare a immaginare ‒ e abitare ‒ qualcosa di davvero diverso.

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