“D ieci red flag a cui prestare attenzione quando inizi una relazione”, “i
cinque segnali per capire se stai vivendo un rapporto disfunzionale”, “Come
riconoscere un partner narcisista in tre mosse”: non passa giorno in cui non mi
imbatta, dentro e fuori dai social, in un discorso che evoca questi scenari.
Nonostante conosca, per motivi professali e personali, la pericolosità implicita
alle relazioni d’amore, non ho mai apprezzato molto l’idea di affiancare a
questo sentimento l’aggettivo “tossico” come si tende a fare sempre più spesso.
Se è vero che “pharmakon”, etimologicamente, descrive al tempo stesso un rimedio
e un veleno, allora bisognerebbe accettare che separare ciò che fa bene da ciò
che fa male non è mai un’operazione banale o definitiva. Paragonare l’amore a
una sostanza chimica che può essere dosata male rischia di essere una
semplificazione. L’amore è un’esperienza situata, che prende forma dentro un
contesto specifico e cambia a seconda di come ci è stato insegnato a viverlo.
Come tutte le forme apprese, può contenere insieme il sollievo e la ferita.
Se dovessi usare un’immagine, una metafora, per raccontare la complessità
ambivalente dell’amore, userei quella della casa stregata. Un luogo che
conosciamo bene, perché lo attraversiamo ogni giorno, in cui sappiamo muoverci a
occhi chiusi tra le stanze di cui ricordiamo anche il più piccolo dettaglio, ma
dove accadono cose che non riusciamo a spiegare del tutto. In quegli ambienti,
alcune presenze si manifestano con forza: la gelosia, la paura dell’abbandono,
il desiderio di controllo.
Altre si insinuano più silenziosamente: la convinzione che amare significhi
sacrificarsi, che la fusione sia il segno di un legame riuscito, che la
solitudine sia una colpa da redimere dentro il perimetro della coppia. Viviamo
in questa casa da sempre, ci è familiare, ci protegge e ci spaventa
contemporaneamente. Ci hanno insegnato che è lì che si compie l’amore, che lì va
cercata la felicità, e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma
forse non tutto ciò che ci sembra normale è davvero innocuo. E non tutte le
stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre.
> Viviamo in questa casa da sempre. Ci hanno insegnato che è lì che si compie
> l’amore e che ogni scricchiolio va considerato come inevitabile. Ma forse non
> tutte le stanze in cui siamo cresciuti meritano di essere abitate per sempre.
La casa dell’amore che conosciamo è costruita su fondamenta antiche, spesso
confuse tra loro: da un lato l’idea dell’amour-passion, dall’altro quella
dell’amore romantico. Secondo il sociologo Anthony Giddens, l’amore-passione
nasce nei miti tragici e nella letteratura cortese, e ha la forma dell’assoluto:
un desiderio che non conosce misura, che consuma chi lo prova e, spesso, anche
chi lo riceve. La passione assume così i contorni di una vocazione, una febbre,
una forma nobile di follia. L’amore romantico, invece, è una costruzione più
recente, modellata all’interno della cultura borghese, che lo organizza secondo
criteri di ordine, durata e riconoscimento sociale. Se l’amore-passione è un
abisso, quello romantico è una struttura: contiene il desiderio e lo disciplina,
lo rende narrabile, possibilmente felice. All’interno di questa organizzazione,
l’amore non è fine a sé stesso ma deve produrre qualcosa: una coppia, una casa,
un futuro.
Anche Michela Murgia, a modo suo, ci ha offerto una metafora per descrivere
l’esperienza amorosa. In un’intervista rilasciata a Vanity Fair poco prima di
morire, la scrittrice paragonava l’amore a una malattia esantematica, a un
virus, a una forma di psicosi temporanea. Raccontava, con sollievo, di quanto
fosse felice di poter amare senza più attraversare quello stato di alterazione,
e invitava chi la ascoltava a fare lo stesso: liberarsi dell’idea che l’amore
debba per forza coincidere con la perdita di sé.
In questa definizione così radicale ‒ l’amore come malattia fisica e mentale ‒
sembra affiorare una certa confusione di piani. Murgia descrive lo stato di
alterazione tipico dell’innamoramento, ma lo attribuisce all’amore nel suo
insieme, come se l’intera esperienza relazionale fosse contaminata da quella
forma estrema, acuta, che è solo una delle sue fasi. È una sovrapposizione
comprensibile, e in parte inevitabile, perché l’idea di amore che ci è stata
trasmessa tende a fondere i due modelli.
Ci muoviamo dentro questa ambiguità senza quasi accorgercene: desideriamo
relazioni sicure, affidabili, ma ci aspettiamo che conservino l’incandescenza
del primo incontro. Vogliamo che durino, ma anche che ci travolgano. E quando
questo equilibrio non si realizza ‒ perché non può realizzarsi ‒ finiamo per
leggere ogni scarto, ogni crisi, come un segno che qualcosa in noi (o nell’altra
persona) non funziona. Come se fosse sempre una questione di dosaggio sbagliato,
e mai di struttura.
> Se l’amore-passione è un abisso, quello romantico è una struttura: contiene il
> desiderio e lo disciplina, lo rende narrabile, possibilmente felice.
Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso (1977), ci ricorda che
quando parliamo d’amore, raramente siamo davvero noi a parlare. “L’innamorato è
colui che parla”, afferma, ma quel discorso non gli appartiene del tutto: è una
costellazione di frasi già dette, già pensate, già sentite altrove. Un archivio
culturale in cui il soggetto che ama cerca appigli per spiegarsi, per
giustificarsi, per esistere. In questo senso, non è solo l’amore a essere
confuso: è il linguaggio stesso con cui lo raccontiamo a confonderci.
In una delle interviste che accompagnano il volume, lo scrittore sottolinea come
la società non metta mai in scena l’amore inteso come sentimento, ma solo degli
episodi, dei racconti in soggettiva: “raccontare fa parte delle grandi
costrizioni sociali […] con la storia d’amore, la società ammansisce
l’innamorato”. Barthes ci mostra che il soggetto amoroso è, in fondo, una figura
letteraria: vive attraverso formule, si definisce attraverso cliché, ripete
gesti che ha visto rappresentati mille volte. E non perché manchi di
autenticità, ma perché l’amore ‒ nella forma in cui lo conosciamo ‒ è prima di
tutto un discorso appreso.
Se Barthes, da teorico, si concentrava soprattutto sull’amore inteso in quanto
discorso, nel recente L’amore è cambiato Annalisa Ambrosio prova a indagare gli
stereotipi culturali che lo attraversano. La scrittrice definisce l’amore
romantico richiamando la nozione foucaultiana di dispositivo. Non un sentimento,
ma una costruzione collettiva, una forma appresa che continua a modellare il
nostro modo di stare in relazione. È attraverso l’amore, ci ricorda, che
trasmettiamo ruoli, aspettative, immagini fisse di ciò che significa essere
desiderabili, affidabili, degni di legame.
A essere tossici, dunque, non sono tanto gli individui quanto le immagini che
abbiamo interiorizzato: l’idea che amare significhi annullarsi, che la gelosia
sia una prova di coinvolgimento, che la coppia debba collocarsi gerarchicamente
al di sopra qualsiasi altro legame. Questi assunti dipendono largamente dalle
norme culturali di genere, che stabiliscono cosa sia accettabile, desiderabile o
legittimo nei comportamenti affettivi e sessuali a seconda che siano agiti da
uomini o donne. Occupandosi di seguire il processo contro gli strupratori di
Gisèle Pelicot, la filosofa Manon Garcia osserva come la cultura eterosessuale
sia ancora regolata da una serie di aspettative asimmetriche: agli uomini è
concesso il desiderio (anche quando, manifestandosi nei confronti di una donna
sedata, dovrebbe assumere i contorni della violenza); alle donne solo la
passività, la disponibilità, l’adattamento.
> Il soggetto amoroso è, in fondo, una figura letteraria. E non perché manchi di
> autenticità, ma perché l’amore è prima di tutto un discorso appreso.
Riprendendo il concetto di “impalcatura sociale dello stupro”, definito dalla
psicologa neozelandese Nicola Gavey agli inizi degli anni Duemila, Garcia
sottolinea come quell’insieme di rappresentazioni e norme implicite non solo
renda pensabile la violenza, ma contribuisca anche a definire il suo opposto:
ciò che una società ritiene accettabile, desiderabile, o “giusto” in una
relazione affettiva o sessuale. Molte delle strutture che rendono il sentimento
d’amore un’interazione in qualche modo “leggibile” ‒ attraverso i ruoli, le
modalità, i tempi in cui si sviluppa ‒ derivano da quella stessa impalcatura.
Si tratta di un sistema in cui l’iniziativa è spesso considerata maschile e il
rifiuto (la cui soglia appare flessibile e negoziabile in ragione di ulteriori
variabili quali lo status sociale, la natura del legame o il contesto in cui
avviene l’interazione) tipicamente femminile. In questo quadro, l’amore diventa
il luogo in cui si impara a leggere la disparità come gioco delle parti e il
silenzio come reciproca intesa.
Stando così le cose, chiedersi se l’amore sia o meno “tossico” rischia di essere
una domanda mal posta. Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere
come le parole che usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole
proteggono ‒ contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali.
Ambrosio, con la sua analisi degli stereotipi culturali, e Barthes, che si
concentra sul discorso amoroso, ci indicano la stessa direzione: per cambiare il
modo in cui pensiamo all’amore abbiamo bisogno anche di un’altra lingua, di un
altro repertorio di immagini, di altri scenari cui attingere per descrivere il
nostro sentimento. Tuttavia, se vogliamo davvero trasformare il modo in cui
stiamo nelle relazioni, non possiamo fermarci al linguaggio: dobbiamo
intervenire anche sulle architetture culturali che quel linguaggio sostiene e
naturalizza.
> Il punto non è giudicare l’amore in sé, ma comprendere come le parole che
> usiamo per raccontarlo ‒ e le strutture che quelle parole proteggono ‒
> contribuiscano a mantenerlo dentro logiche di potere diseguali.
Insomma, il discorso deve farsi politico. Proprio su questo tema ruota la
riflessione di Victoire Tauillon. In Il cuore scoperto (2025), l’autrice
sostiene la tesi secondo cui l’amore non sia soltanto un sentimento funzionale a
descrivere la nostra individualità: è, soprattutto, un sentimento politico. Le
parole nuove per descriverlo, pertanto, non vanno cercate in astratto: è
necessario invece interrogarsi su come stiamo dentro le relazioni, quali gesti,
attese, silenzi mettiamo in circolo. Nel cuore del dispositivo amoroso, i
modelli da rivedere sono il frutto di abitudini quotidiane reiterate, da
riconsiderare nella loro veste ideologica: chi chiede, chi impone, chi si assume
l’onere di aspettare o rinunciare a qualcosa, dentro le relazioni che
costruiamo? Quanto impattano, in tutto ciò, le aspettative di genere?
Tuaillon ci invita a spostare l’attenzione dall’amore in astratto al modo in cui
lo abitiamo. Un invito che risuona anche nelle parole di Brigitte Vasallo,
secondo cui l’amore non può essere rivoluzionario se non lo sono anche le nostre
pratiche affettive. Per Vasallo, la vera rivoluzione degli affetti non consiste
solo nel moltiplicare i modelli relazionali, ma nell’abbattere la struttura
gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il
desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa
dell’amore.
Una prospettiva diversa, ma complementare, è anche quella che propone Geoffroy
de Lagasnerie: il filosofo suggerisce di sottrarsi a tutto ciò che l’amore
comporta in termini di vincoli, centralità e aspettative, sostituendolo col
paradigma dell’amicizia. A differenza del sentimento amoroso, l’amicizia può
generare un legame che non pretende esclusività, non si fonda sulla reciprocità
obbligata, e permette di pensare la prossimità come una scelta quotidiana, non
come un destino o un dovere. In questa visione, il “fuori” a cui si aspira non è
un altrove sentimentale ma un modo altro di stare in relazione, liberato dalle
gerarchie emotive e dal peso simbolico dell’amore romantico. Ripensare il
discorso amoroso, in questa prospettiva, significa in particolare rifiutare
l’idea che questo sentimento debba esaurire la nostra identità: smettere di
considerarlo il luogo dove ci si realizza o ci si completa a vicenda e
cominciare a viverlo come uno spazio condiviso ma non totalizzante, dove si può
essere interi senza che il partner colmi le nostre mancanze.
> La vera rivoluzione degli affetti consiste nell’abbattere la struttura
> gerarchica con cui cresciamo, rendendo possibile uno spazio in cui la cura, il
> desiderio e la reciprocità non siano legati a un’idea proprietaria o normativa
> dell’amore.
Che cosa resta, in definitiva, del legame d’amore quando si rinuncia a
controllarlo? Quando non è più un patto di fedeltà né un progetto di vita, ma
una forma di relazione nuova, che assume i contorni di un’esplorazione
condivisa? Quando smette di funzionare come garanzia e comincia a somigliare a
un terreno da attraversare, anche senza una meta precisa? Trovare,
concretamente, spazi che incarnino il cambiamento auspicato da Brigitte Vasallo
o Geoffroy de Lagasnerie è ancora difficile. Le pratiche relazionali restano in
larga parte vincolate a schemi normativi, ruoli rigidi aspettative di coppia
sedimentate. Per questo, forse, è verso la letteratura che dobbiamo rivolgere lo
sguardo per sovvertire il nostro immaginario.
In Negli universi (2025), Emet North racconta una storia che non è una “storia
d’amore” nel senso tradizionale: è il racconto di un desiderio che, per restare
vivo, cambia la propria forma. Raffi, una persona queer specializzata in
cosmologia, attraversa molteplici realtà alternative inseguendo una relazione,
quella con l’amata Britt, che si trasforma a ogni passaggio. Nessuna di queste
versioni è rassicurante, definitiva, ordinata. Eppure, ciascuna interroga
profondamente che cosa intendiamo per legame, per presenza, per possibilità di
stare con qualcuno. Forse è questo, oggi, il gesto fondativo: accettare che
l’amore non sia una risposta, ma una lingua da disimparare, un sistema da
disarticolare. Non basta ridipingere le pareti o cambiare l’arredamento: quella
casa va demolita. Solo allora, forse, potremo cominciare a immaginare ‒ e
abitare ‒ qualcosa di davvero diverso.
L'articolo L’amore è una casa stregata proviene da Il Tascabile.
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È un’esperienza strana: leggere un romanzo ambientato in Sicilia e avere
l’impressione che la Sicilia sia altrove. Non in un altrove immaginario, ma
proprio in un altro libro, uscito quasi in contemporanea. Mi è successo con
L’isola e il tempo, esordio di Claudia Lanteri nella collana Unici di Einaudi,
in libreria da poco più di un anno, e con Mare aperto, reportage narrativo di
Luca Misculin uscito di recente nella collana Maverick della stessa casa
editrice. Entrambi raccontano, a modo loro, l’arcipelago siciliano: il primo è
un romanzo letterario e introspettivo, l’altro un saggio narrativo attraversato
da storie di scienza, politica, migrazioni e mito. A sorprendere non è solo il
confronto tra i generi ‒ già di per sé interessante ‒ ma il fatto che sia Mare
aperto, firmato da un giornalista milanese, a offrire la visione più ampia, più
precisa, a tratti più lirica di un Sud spesso ridotto a cartolina.
Lanteri e Misculin scrivono libri molto diversi, ma si trovano a interrogare lo
stesso spazio: un Mediterraneo ambivalente, pieno di storia e di dolori, di luce
e di fantasmi. Uno spazio che, come la berta maggiore ‒ l’uccello raro che
ancora nidifica a Linosa ‒ si lascia osservare solo a distanza, e solo con
pazienza. Per motivi e con esiti diversi, entrambi i libri ne inseguono il
canto.
La berta maggiore (Calonectris diomedea, secondo i tecnici) è un uccello marino
della famiglia delle Procellariidae. Alto circa 50 centimetri, ha un’apertura
alare che sfiora il metro. Ha piume grigie sulla testa, dorso bruno, ventre e
collo bianchi; becco giallo e zampe rosate. È conosciuto per la sua voce che,
come quella di Nonò, il protagonista della storia di Lanteri (vagamente ispirato
all’Arturo morantiano), può essere facilmente scambiata per quella di un
bambino. Secondo alcuni studiosi potrebbe essere proprio il canto della berta ad
aver ispirato il mito delle sirene. In Italia la berta nidifica soprattutto
sulle isole, anche se alcune piccole colonie si trovano lungo le coste. La
colonia più numerosa d’Europa è a Linosa, dove si stima vivano circa 10.000
coppie. Come le berte, anche il tipo di romanzo scritto da Lanteri (che a Linosa
è ambientato) si presenta come una specie marginale, difficile da avvistare. Per
la sua scrittura complessa, nutrita di sicilianismi rari, e per il lavoro
sperimentale sulla struttura del giallo e sul punto di vista inattendibile, ha
molti tratti di quella che Gianluigi Simonetti ha chiamato, con un misto di
nostalgia e ironia, “la letteratura di una volta”. Lo dimostra bene quel piccolo
capolavoro di virtuosismo che è, verso l’inizio della storia, la descrizione
ironica e macabra del cadavere di Daisy, la moglie dello skipper Bruno Surico:
> La morta non è più abbigliata come prima, come per una gita al mare. Le
> spalle, denudate delle capricciose bretelline, ora sono coperte da una casacca
> di mussola dove sono di piú i bottoni che mancano di quelli presenti
> all’appello. Nell’ombra non si nota neppure la stoffa consumata sotto le
> ascelle né i gomiti bucati. L’orlo della gonna sì, quello è tutto
> sbrindellato. I fili spenzolano a centinaia verso il piano del tavolo, sui
> piedi un poco discosti, ricadono in su, si radunano in piccole pozzanghere. È
> una pupidda imbiancata, odorosa del talco prestato da qualche vicina; ha i
> capelli ordinati, solo qualche peluzzo scappa dalle crocchie che le hanno
> intrecciato, e le dà un’aria allegra, impertinente. Non so dire quanti anni
> ha: da come la linea del collo scivola verso le piccole ossa potrebbe essere
> una ragazzina, scattosa come una stampella, ma la faccia è tonda, di pesca
> matura da mordere. L’abitino modesto glielo ha imprestato per l’ultimo sonno
> mia madre Angelina: non lo metteva piú da quando io, l’ultima infornata, le
> avevo fatto crescere il culo come una mezza patata lessa fa con l’impasto del
> pane, come ripete ogni volta mio padre prima di pizzicarglielo. Dalle ciglia
> lunghe e distese potrebbe arrivare un fremito di minuto in minuto, quasi
> stesse sognando. La fronte pare affollata di pensieri, la bocca è piena, una
> festa di rose e di fiori.
Questo lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di
essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina di
letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista: complice,
anche, dell’idea, di fatto conservatrice, che il Sud possa essere raccontato
solo come un’eccezione, come un’“isola”, appunto, al di fuori della portata
della razionalità (e invece ha ragione Mario Fillioley quando sostiene che la
Sicilia è “un’isola per modo di dire”). Del resto, molte narrazioni
contemporanee, non solo letterarie ma anche audiovisive, scelgono questa strada.
Citare la serie tratta dal Gattopardo sarebbe in questo senso fin troppo facile.
> Il lavoro sulla lingua è il principale pregio del romanzo, ma rischia di
> essere anche il suo difetto, perché leggendolo si avverte a tratti una patina
> di letterarietà convenzionale, novecentesca, in definitiva manierista.
Di questa estetizzazione senza redenzione, dove la bellezza non salva ma vela,
un caso esemplare è anche un prodotto per molti versi di alto livello come la
seconda stagione di The White Lotus, ambientata in un resort di lusso sulla
costa siciliana. Tutto, lì, è pensato per produrre piacere: il mare, i mosaici,
i limoni, i corpi. Ma dietro la cartolina, la serie mostra un Mediterraneo
finto-autentico, addomesticato per lo sguardo del turista globale, che consuma
l’ambiente e le persone come esperienze da collezionare, metonimie per un safari
nel Nulla da sperimentare in infradito. I corpi delle ragazze siciliane
diventano così dispositivi di accesso a un paesaggio assai più ampio: vendono
sesso, ma offrono anche un’idea di “sicilianità” esotica, permeabile, in cui il
godimento mai pieno, mai innocente, è parte del pacchetto. Anche qui la bellezza
è porosa, ma la porosità è un sintomo, non una virtù: è il segno di una
vulnerabilità strutturale, di un Sud che si offre come incanto ma anche come
ostaggio; una superficie desiderabile, sì, ma non raccontabile.
Dal canto suo, L’isola e il tempo riattiva alcuni tratti di una tradizione
letteraria che in Sicilia ha una storia lunga, non meno nobile nella forma e non
meno ambigua nei suoi esiti; né è un caso, quindi, che tra le parole chiave per
comprendere il romanzo ci sia la memoria: “L’invenzione dà forma al disordine”,
scrive Lanteri, “oppure s’impazzisce, ci si perde a inseguire i fili spersi
nella memoria: nel raccomodare la trama, quello che è stato nel passato non è
tanto diverso da quello che non è stato”. La memoria, insieme a ciò che essa
conserva e a ciò che invece non riesce (o non vuole) conservare, è uno dei temi
ricorrenti nella poetica di molti scrittori siciliani. Già Luigi Pirandello
metteva in scena nella pièce Enrico IV un personaggio che preferisce abitare
un’identità fittizia piuttosto che affrontare la realtà dolorosa della propria
vita. L’incapacità di fare i conti col passato e il rischio di restarne
intrappolati è anche uno dei motivi cardine di quel che Leonardo Sciascia ha
definito col termine “sicilitudine” (una parola che, fondendo Sicilia e
solitudine con un tocco di ironia, mira a descrivere una presunta condizione
esistenziale isolana). Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a
corpo col passato si svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma
anche nella forma di un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una
tradizione abbastanza diffusa tra gli autori siciliani (“– Le berte, vedi? / È
così che in lingua italiana lui nomina quelle che noi diciamo le turriàche, e io
lo lascio nella sua ignoranza perché non è bello star sempre lì a correggere
tutti per ogni minima cosa”, dice nelle pagine iniziali il narratore, prendendo
in giro l’italiano pulito del professor Dalmasso).
Negli ultimi decenni sono stati i gialli di Andrea Camilleri a rendere popolare
questo particolare tipo di espressionismo stilistico, sfruttandolo a fini
comici, ma esso esisteva già in opere sperimentali come Il sorriso dell’ignoto
marinaio (1976) di Vincenzo Consolo e Horcynus Orca (1975) di Stefano D’Arrigo
(quest’ultimo è stato da poco ripubblicato da Rizzoli in un’edizione elegante,
con una bella prefazione di Giorgio Vasta). Secondo Margherita Ganeri, l’opera
di Consolo “affronta la rievocazione del passato alla luce di una notevole
tensione attualizzante che investe il rapporto tra la memoria e il linguaggio,
con la sua sedimentazione e stratificazione”, e questa memoria è anche e
innanzitutto un resoconto di conflitti, incroci e migrazioni dovuti alla
peculiare posizione dell’isola al centro del Mediterraneo (“Questo luogo
d’incrocio d’ogni vento e assalto”. Vincenzo Consolo e la cultura del
Mediterraneo, fra conflitto e integrazione è il significativo titolo di una
ricca raccolta di saggi curata nel 2021 da Gianni Turchetta). Mentre,
interpretando Horcynus Orca come un’epopea della memoria, Marco Trainito
intitolava una sua monografia del 2004 su D’Arrigo Il mare immane del male.
> Nel romanzo di Lanteri, come in Pirandello, il corpo a corpo col passato si
> svolge in un senso perlopiù individuale e psicologico, ma anche nella forma di
> un recupero in chiave preziosa del dialetto, seguendo una tradizione
> abbastanza diffusa tra gli autori siciliani.
La memoria, secondo questa tradizione, può essere anche memoria dei luoghi e dei
popoli, ma non necessariamente, viene da dire, per raccoglierne le tracce
bisogna appiattirsi sulle parole di chi i posti li vive. Racconta Consolo in
un’intervista alla Rai che, presentando a Palermo la prima edizione de Il
sorriso dell’ignoto marinaio, Sciascia parlò del suo romanzo come di un
“parricidio”. Consolo ha infatti ricordato più volte che negli anni della sua
formazione si sentiva indeciso tra due modelli di intellettuale molto diversi,
se non opposti, ma che conosceva entrambi di persona. Uno era proprio Sciascia,
fautore dell’impegno e di una lingua comunicativa e cristallina, discendente
della grande tradizione dell’Illuminismo; l’altro il poeta barocco Lucio
Piccolo, coltissimo bibliomane, appassionato di cultura esoterica, che amava
soprattutto i versi di W.B. Yeats. Secondo Sciascia (che pure non è esente dal
rischio di derive mistiche, specie in alcuni degli ultimi libri), adottando una
lingua espressionista carica di un ricco bagaglio dialettale Consolo aveva
intrapreso una volta per tutte la via della bella pagina e del manierismo.
Del resto, la tensione tra uno stile razionale e comunicativo e uno invece più
stratificato e virtuosistico, tra l’italiano standard e quello influenzato da
tratti regionali, coinvolge gli scrittori del Sud in generale (in realtà
l’affermazione è vera, con intensità variabile, per gli scrittori italiani tout
court). Si tratta di una querelle tutt’altro che chiusa, che continua a offrire
modelli alternativi e vitali. Basti pensare al modo differente con cui
fronteggiano la questione i due più famosi cicli narrativi della letteratura
italiana degli ultimi decenni: il già citato Camilleri, da una parte, e,
dall’altra, L’amica geniale di Elena Ferrante, il cui successo (almeno se ci
fermiamo al campo letterario) si deve senz’altro anche alla scelta di evitare un
impianto linguistico marcato da esotismi, in favore di una vocazione alla
narratività pura. Tra questi due estremi, lo spettro delle possibilità
stilistiche è naturalmente ampio e variegato e, pur compiendo molti prelievi dal
dialetto, il libro di Lanteri non rinuncia affatto a un’impressione complessiva
di chiarezza e fluidità, che lo rende se non altro assai godibile.
> Reportage, memoir, inchieste narrative sanno talvolta essere più ariosi, più
> porosi, più attenti al mondo di quanto lo siano in media i romanzi. Guai agli
> scrittori che leggono solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria
> invenzione con il liquido di contrasto di altri generi.
E tuttavia, che si possano scrivere pagine importanti su un luogo anche senza
imitare la lingua di chi ci abita (in fondo, un’ovvietà) è testimoniato ancora
una volta dal fatto che uno dei libri più belli sulla Sicilia usciti quest’anno
è stato da scritto da un milanese: Luca Misculin, appunto. In realtà, Mare
aperto parla anche della Sicilia, ma lo fa con così tanta passione documentaria
che non si può non restare ammirati. Del resto, non bisogna nemmeno sorprendersi
troppo. In una tradizione letteraria vitale, narrativa e saggistica non
dovrebbero marcare le distanze, ma cooperare ‒ come due lenti diverse puntate
sullo stesso paesaggio ‒ alla costruzione, magari sfumata e plurale, ma
condivisa, di un’idea di verità; illuminare, anche solo per qualche istante,
invece di aggiungere buio al buio.
Eppure capita che la narrativa più colta, facendo Arcadia di modelli
novecenteschi ormai quasi del tutto svuotati della loro originaria carica
polemica, si attardi in una retorica del mistero, dell’opacità, della noluntas
sciendi, nella quale il trauma, da impasse produttrice, rischia di divenire
alibi per sospendere il desiderio di conoscere. A questo cedimento talvolta
risponde, in controtendenza, una certa saggistica: più libera, forse, dai canoni
e dalle richieste implicite del mercato letterario; più audace nell’osservare,
nel domandare, nel tracciare nessi imprevedibili. Reportage, memoir, inchieste
narrative sanno talvolta essere più ariosi, più porosi, più attenti al mondo di
quanto lo siano in media i romanzi. Guai, insomma, agli scrittori che leggono
solo narrativa. E viva quelli che nutrono la propria invenzione con il liquido
di contrasto di altri generi.
> Mare aperto esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un
> come crocevia di storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e
> tragedia.
Nel panorama affollato della saggistica narrativa italiana, il libro di Misculin
si distingue per l’equilibrio tra la precisione e l’accessibilità. Mare aperto
esplora il canale di Sicilia non come un semplice sfondo, ma un come crocevia di
storie, tensioni e memorie, sospeso tra meraviglia e tragedia. Misculin,
giornalista del Post già autore di podcast piuttosto seguiti (per esempio sulla
nave Geo Barents e sull’indoeuropeo), guida il lettore tra isole e relitti,
pescatori tunisini e miti antichi, alternando con maestria le fonti accademiche
più disparate (dalla paleontologia alla biologia marina, dalla glottologia alla
storia dei pirati) con le interviste agli abitanti condotte sul posto. È anche
questo un libro a suo modo turistico, con una singolare struttura ad arcipelago.
La penna dell’autore scorre con gusto e brillantezza da una curiosità alla
successiva, ottenendo un effetto che i latini avrebbero chiamato di satura lanx.
Cito, tra i tanti, due esempi diversissimi, ma egualmente rappresentativi di una
ricerca metodica della storia poco raccontata. Il primo, sulla logistica del
calcio di provincia: “In teoria il Lampedusa dovrebbe giocare nel girone A,
quello della provincia di Agrigento: in realtà viene sempre assegnato al girone
B, cioè quello di Palermo, perché ad Agrigento non c’è un aeroporto e le
trasferte sarebbero di fatto impossibili”. Il secondo, sull’harissa, una pasta
di peperoncini tipica delle coste della Tunisia: “In Italia è ormai nota fra i
vegetariani come la ‘nduja-senza-carne, ed esistono chat sotterranee su Telegram
in cui ci si scambia ricette e consigli su dove acquistarla online”. C’è,
insomma, una quota di intrattenimento colto, insieme a una passione genuina per
la ricerca del dettaglio inaspettato, della prospettiva inedita su fatti e
questioni (una su tutte la tragedia dei migranti) che sembrano ormai saturati da
un ingorgo di narrazioni. Mare aperto è però anche un libro etico, che eredita
dallo stile del Post la programmatica, quasi polemica rinuncia all’io, e un’idea
della scrittura come lavoro innanzitutto di servizio, nel senso alto e nobile
del termine, nei confronti di chi vuole capire di più.
C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto.
Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua filosofia,
così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti storici,
squarci di bellezza quasi cinematografica. Eppure, dietro l’apparente levità
della scrittura, il libro ha un sottotesto che si fa via via più cupo. Un
esempio emblematico è il racconto della “deportazione” in Libia di decine di
migliaia di italiani ai tempi del fascismo. Il capitolo si apre con una serie di
testimonianze che sembrano tratte da un documentario sui migranti che arrivano
oggi in Italia. Questo crea uno straniamento che ribalta le nostre percezioni
ossificate:
> “Quando arrivammo al porto c’era tutto un formicolio di persone, chi con la
> valigia, chi con sacchetti stracolmi di indumenti, bimbi che piangevano, molto
> probabilmente avevano dormito poco e male. Certamente molti di noi vedevano il
> mare per la prima volta”, scrisse E. nel suo diario.
> La traversata, aggiunse E., durò diversi giorni, a bordo di un’imbarcazione
> stracarica di persone: “La mamma e I. soffrivano il mal di mare e molto spesso
> erano costretti a rimanere in coperta per non stare male”.
> All’arrivo, raccontò invece N., “ci misero in fila e ad ogni capofamiglia
> diedero una sporta piena di viveri”. Laggiù “c’erano ad aspettarci cento
> camion, me li ricordo bene, pronti a portarci a destinazione. Su ogni camion
> erano stipate due famiglie. […] Siamo stati i primi a partire; ricordo che la
> mamma disse: ‘Vuoi vedere che siamo i primi a partire e saremo gli ultimi ad
> arrivare?’ Infatti così è stato: ricordo i suoi pianti”.
> G., che vide sbarcare questa enorme “colonna” di persone, la descrisse così:
> “donne incinte, bambini lattanti, ragazzi; tutti hanno qualche necessità e a
> tutto occorre pensare e provvedere”.
Misculin costruisce senso anche attraverso una serie di rimandi interni,
impliciti o espliciti, ed è interessante e paradossale che le affermazioni più
rilevanti sul piano politico e ideologico non compaiano nei capitoli, al
contrario molto sobri, dedicati ai temi scottanti dell’attualità. Quando scrive
“[c]i piaccia o no, siamo tutti figli e discendenti di stranieri, genitori di
persone che saranno considerate straniere da qualcun altro, o stranieri noi
stessi, nel posto in cui viviamo”, non sta parlando dei morti in mare o di un
referendum sulla cittadinanza, ma di archeogenetica e dei rapporti tra i sardi e
i cartaginesi. È un espediente narrativo efficace, che dimostra come il libro
non sia solo una raccolta di storie, ma anche un esercizio di sguardo che ci fa
capire che le cose, spesso, si vedono meglio allontanandole, collocandole su uno
sfondo più ampio e articolato.
> C’è qualcosa di lucreziano nel modo in cui Misculin struttura il suo racconto.
> Come il poeta latino mescolava il miele alla medicina amara della sua
> filosofia, così qui l’autore dissemina il testo di episodi singolari, aneddoti
> storici, squarci di bellezza quasi cinematografica.
“Fino al 1846 a Linosa c’erano solo le berte”, racconta il ricercatore Giacomo
Dell’Omo in uno dei capitoli più belli. Leggendolo, scopriamo che sull’isola ci
sono più gatti che persone e che questo è un pericolo per la sopravvivenza di
molte specie endemiche, che si sono abituate a prosperare in un ambiente privo
di predatori. Tra queste specie ci sono, appunto, le berte. Per salvarle,
Dell’Omo promuove da tre anni una campagna di sterilizzazione dei gatti
linosani: è solo uno dei tanti episodi, tra quelli citati nel libro, che
dimostrano che la realtà è sempre più complessa delle opposizioni binarie con
cui siamo soliti schematizzarla, e che “stare dalla parte degli animali” è
un’espressione che presa a sé rischia di risultare priva di significato. Le
berte, come i libri belli, sono in pericolo, ma ancora per un po’ possiamo
tirare un sospiro di sollievo.
L'articolo La Sicilia, ricordata bene proviene da Il Tascabile.
P arto dichiarando un’intenzione: voglio scrivere a proposito del saggio come
genere letterario. So che non sarò esaustivo, perché l’oggetto stesso me lo
vieta: il saggio esiste nella sua resistenza alle definizioni definitive. Tiene
sempre aperta la possibilità di scartare rispetto a ogni classificazione. Senza
questa libertà di movimento verrebbe meno la fedeltà al nome con cui lo battezzò
Montaigne: essai, cioè prova, esperimento. Pertanto, su di esso si possono fare
solo ricognizioni che accettino in partenza di essere parziali. Si possono fare
solo dei tentativi. Non è, quindi, solo per gusto delle strutture ricorsive che
si può affermare che parlando di forme del saggio è inevitabile mantenere un
atteggiamento saggistico.
Ciò implica che non posso premettere (o promettere) molto su ciò che seguirà:
non so dove arriverò, ma solo da dove parto. Tanto vale, dunque, usare queste
righe introduttive per esplicitare il punto di partenza, che consiste
essenzialmente in una cartella sul mio computer dove ho salvato un gran numero
di appunti presi nelle settimane scorse per preparare questo articolo. Sono per
lo più citazioni tratte da autori che hanno affrontato il mio stesso problema,
cioè che hanno ragionato in chiave teorica del saggio. Inoltre, sulla mia
scrivania, accanto al pc, ci sono tre libri: tre saggi, che ho scelto (in base a
criteri arbitrari su cui tornerò più avanti) da usare come campione per provare
a dare un po’ di sostanza alla riflessione teorica. Sulle loro pagine mi sono
segnato i brani che mi potranno tornare utili per questo pezzo. Il mio piano è
quello di assemblare insieme questi appunti e queste citazioni attraverso un
ragionamento che tenga tutto assieme, per creare qualcosa che non sarà
certamente esauriente, ma che abbia un senso. Cioè che non dica tutto sul
saggio, ma che dica comunque qualcosa.
E il primo pezzo che riprendo dalla mia cartella degli appunti per provare a
montare questo qualcosa è una citazione di Jean Starobinsky: “il saggio è il
genere letterario più libero che ci sia”. Mi sembra sia questo concetto il primo
punto da mettere in chiaro parlando di saggistica: non esistono generi letterari
che hanno lo stesso grado di libertà. La narrativa ha le sue strutture, le sue
regole profonde, che uno scrittore può anche sovvertire dall’interno o rompere
platealmente, ma con cui non può non confrontarsi nel momento in cui si dedica a
qualcosa che possa essere riconosciuto come una narrazione. Per questo può
esistere la narratologia, una disciplina che studia quelle regole, mentre è
difficile immaginare l’esistenza di una “saggiologia” che descriva una
grammatica fondamentale degli essais.
Il punto della libertà è determinante per risolvere una certa ambiguità
dell’italiano e distinguere il saggio letterario (uso questa formula per
indicare “il saggio come genere letterario”) da altre forme che nel linguaggio
corrente sono ugualmente chiamate “saggi”, ma che nei fatti sono cose molto
diverse e per certi versi opposte: lo scritto accademico e il testo divulgativo.
La scrittura accademica è evidentemente caratterizzata dall’obbligo di
rispettare rigidi protocolli, dunque non essendo libera non può essere
considerata saggistica. Nonostante l’essai possa occuparsi degli stessi oggetti
di cui si occupa la ricerca accademica o anche includerla tra le sue fonti, il
saggio continuerà a distinguersi nettamente dalla scrittura accademica per il
rifiuto di qualunque metodologia che lo riconduca alle prescrizioni e ai confini
di una specifica disciplina, procedendo, come scriveva Adorno in Il saggio come
forma, “con metodica non metodicità”. L’approccio del saggista rispetto al
sapere accademico è ben sintetizzato da Geoff Dyer che nell’introduzione della
raccolta Il sesso nelle camere d’albergo: saggi (1989-2010) (2014) scrive
appunto come “parte cruciale di una vita simile sta nel bighellonare, senza la
minima intenzione di entrarci, fuori dall’accademia, non intralciato da
specializzazioni (ovviamente) e dai rigori del metodo imposto”.
> Il punto della libertà è determinante per risolvere una certa ambiguità
> dell’italiano e distinguere il saggio letterario (“il saggio come genere
> letterario”) da altre forme ugualmente chiamate “saggi”, ma che nei fatti sono
> cose molto diverse e per certi versi opposte: lo scritto accademico e il testo
> divulgativo.
Anche la divulgazione non è saggistica, perché la libertà del saggio implica
l’incertezza: non si conosce a priori dove si arriverà. In questo senso ogni
saggio potrebbe essere descritto come una “avventura conoscitiva”. Tale
componente avventurosa non è presente nella divulgazione, che sa benissimo, nel
momento in cui si mette in moto, dove arriverà, poiché parte da un insieme di
conoscenze già date e fissate e il suo scopo principale è quella di adattarle o
tradurle, o se vogliamo, impacchettarle (in fondo la divulgazione altro non è
che una arte del packaging), per renderle comprensibili a un pubblico di
riferimento. Poi, certamente, la divulgazione mantiene un certo grado di
libertà, dato che una stessa cosa può essere spiegata in maniere diverse. Ma si
tratta di una libertà relativa considerando che si limita al poter scegliere la
strada per arrivare a una destinazione già stabilita e soprattutto che la
riuscita o meno del viaggio si giudicherà secondo criteri di efficienza (con
quanta più efficacia – in maniera più chiara, più esaustiva, più coinvolgente –
il testo divulgativo riesce a consegnare ai suoi lettori le nozioni che si
proponeva di portargli, tanto meglio avrà fatto oggettivamente il proprio
lavoro), il che lascia poco spazio alla possibilità di, come direbbe Dyer,
bighellonare.
Libertà saggistica significa, dunque, mancanza di vincoli esterni che orientino,
nella forma o nel contenuto, la scrittura. Ciò significa che la scrittura deve
orientarsi da sé. Il saggista non ricevendo delle regole a priori, si trova
nella situazione di doversele creare da capo ogni volta. Il che rende un saggio,
preso dal lato di chi lo scrive, qualcosa di simile a un gioco, se con gioco si
intende un’attività regolata, ma le cui regole sono non necessarie.
L’accostamento tra saggio e gioco non è nuova: già Adorno scriveva che “gioia e
gioco sono per il saggio essenziali”. Mentre la studiosa di letteratura Marine
Aubry-Morici in Dico a te, lettore (2023) – uno studio sulla forma del saggio
narrativo contemporaneo – fin dalla prefazione scrive che “il saggismo è una
disposizione d’animo e un atteggiamento” e che questo atteggiamento, tra le
altre cose, comporta che “il narratore-saggista veda il mondo come un terreno di
gioco”.
Ogni saggio è una partita a un gioco che è lo stesso saggista a inventarsi. La
libertà del saggista si manifesta prima di tutto nella possibilità di tracciare
il campo e delineare le regole che seguirà al suo interno. Da qui la forte
ricorrenza negli essais di ciò che Aubry-Morici chiama “modalità metadiscorsiva”
e che inserisce tra i “crismi principali” della scrittura saggistica. Il saggio
porta spesso avanti un metadiscorso su sé stesso, perché deve elaborare le
proprie regole, le deve chiarire con sé stesso e presentarle al lettore;
talvolta le riprende in corso d’opera per rivederle, ricontrattarle,
modificarle. In questo modo il saggio diviene, come scriveva Adorno, immune al
rischio di “procedere alla cieca, da automa”, perché “deve a ogni istante
riflettere su se stesso”.
Questi momenti metadiscorsivi, in cui il saggio riflette su sé stesso e così
facendo si dà una forma, possono essere più o meno espliciti: dipende da quanto
lo scrittore decida di lasciare visibili le impalcature che circondando la
costruzione. Del resto, tenere le porte aperte sul retrobottega, mostrare il
lavoro che dà origine alla scrittura, è perfettamente coerente con la natura del
saggio, che spesso trova nella storia del suo stesso formarsi la propria trama
nascosta (ma spesso neppure tanto nascosta). Perché l’essai non è solo pensiero,
ma anche messa in scena di come il pensiero funziona. Adorno parla in termini di
“teatro dell’esperienza intellettuale”, mentre Marc Angenot, in La parole
pamphlétaire (1982), sintetizza la peculiarità dello stile saggistico parlando
della registrazione di “un pensiero nell’atto del suo formarsi”. Il saggio,
dunque, si fa narrazione che segue passo passo le tappe di una riflessione, non
seguendo un percorso lineare, ma piuttosto riproducendo l’andamento caotico del
pensiero, compresi i salti logici, gli errori, le false piste, le correzioni in
corsa.
Ogni saggio ha un tema, cioè un proprio oggetto (un’opera d’arte, un libro, un
luogo, un evento storico, una persona, un concetto, un’esperienza o qualunque
altra cosa possa essere appunto tematizzato), ma ciò che il saggio racconta
davvero non è quell’oggetto in sé (per cui l’atteggiamento saggistico –
fondamentalmente scettico – è quasi sempre disposto ad accettarne la non
conoscibilità assoluta), quanto il rapporto che si instaura tra esso e il
soggetto che scrive: come l’oggetto entri nei pensieri dell’autore e come quei
pensieri si trasformino in scrittura.
Sebbene, dunque, il saggio sia un genere letterario che mette il fine
conoscitivo al primo posto (scrive Aubry-Morici che “per il narratore-saggista
la funzione conoscitiva della letteratura prevale su tutte le altre
dimensioni”), per conoscere adotta una strategia del tutto peculiare: le cose
non si conoscono direttamente, ma attraverso le reazioni (e la registrazione di
tali reazioni) di un io particolare a esse. È qui che sta la natura di
“esperimento” dell’essai. Considerazioni simili attraversano la storia delle
riflessioni sul genere. Ad esempio annotava Max Bense in Sulla prosa del saggio:
“È qui che un saggio si distingue da un trattato. Scrive con lo stile tipico del
saggio colui che compone sperimentalmente, volta e rivolta il suo oggetto, lo
interroga, lo palpa, lo esamina, lo penetra con la riflessione; colui che lo
affronta da angolature diverse, raccoglie entro la propria vista spirituale ciò
che vede e traduce in parole quanto l’oggetto mostra di sé nelle condizioni
create dalla scrittura”. Mentre Alfonso Berardinelli, in un altro libro
importante di studio teorico del genere come La forma del saggio (2002), scrive:
“Il tema di un saggio più che essere un oggetto è un rapporto: cioè il rapporto
in atto fra quello stesso oggetto di conoscenza e di riflessione e un soggetto
pensante con il suo particolare punto di vista e la sua particolare esperienza”.
> Sebbene, dunque, il saggio sia un genere letterario che mette il fine
> conoscitivo al primo posto, per conoscere adotta una strategia del tutto
> peculiare: le cose non si conoscono direttamente, ma attraverso le reazioni (e
> la registrazione di tali reazioni) di un io particolare a esse.
Qui chiudiamo il cerchio e torniamo al punto della libertà del saggio. Poiché se
il fine dell’essai è conoscere qualcosa attraverso lo specifico rapporto che si
va costruendo tra oggetto e un certo soggetto, è chiaro che quel rapporto non
può essere determinato o vincolato da regole esterne. Si può dire che nel saggio
libertà e autoriflessività (o metadiscorsività, che dir si voglia) siano due
facce della stessa medaglia: la libertà spinge il saggio a essere autoriflessivo
per elaborare quelle forme che necessariamente deve crearsi da sé; d’altra parte
l’autoriflessività alimenta e permette la libertà del saggio perché gli consente
di autoplasmarsi.
Ma, arrivati a questo punto, credo che sia arrivato il momento di mettere da
parte la teoria e iniziare a indicare esempi significativi di scrittura
saggistica in cui questa tendenza alla autoriflessività si manifesta. Nella fase
in cui progettavo questo articolo la mia prima preoccupazione era quella di
limitare il campione dei testi da prendere in considerazione. Ho deciso quasi
subito che i libri sarebbero stati tre, che mi pare un numero più che adeguato
per un semplice articolo che, temo, diventerà comunque troppo lungo. Sul
criterio con cui scegliere questi tre saggi sono stato a lungo incerto, sapendo
che sarebbe stato per forza di cose arbitrario, ma non volendo che fosse pure
totalmente casuale.
Alla fine mi sono deciso per tre saggi che si articolano intorno a racconti di
viaggi. Perché mi sembra che il viaggio sia una situazione che mette
particolarmente in rilievo le modalità con cui opera la scrittura saggistica.
Scrivevo poco sopra come il vero contenuto di un saggio sia il racconto del
rapporto che va creandosi tra un soggetto che scrive e un oggetto con cui viene
in contatto: il viaggio è precisamente il momento in cui il soggetto entra in
contatto con qualcosa di nuovo e deve iniziare a crearci un rapporto, quello in
cui si può manifestare l’ignoto e l’inatteso su cui il saggista è chiamato a
esercitare la propria arte, esplorandolo con il pensiero e con la scrittura.
Inoltre il racconto saggistico di viaggio fa emergere la differenza tra il
saggio e forme con cui si potrebbe superficialmente confonderlo, come i racconti
di viaggio con intenti divulgativi (o addirittura da guida turistica). In questi
ultimi tutto ruota attorno al fine informativo (far arrivare una serie di
nozioni il più possibile utili e complete sul luogo visitato) che nel saggio è
assente, o per lo meno non è primaria. Anche in un essai, ovviamente, possono
essere presenti informazioni dettagliate sui luoghi, ma non sono il fine, semmai
sono solo uno degli ingredienti con cui il saggista va costruendo quella
relazione con il luogo dal quale potrà emergere un altro tipo di conoscenza,
contemporaneamente più parziale e più profonda, che è il suo vero scopo.
> Il viaggio è precisamente il momento in cui il soggetto entra in contatto con
> qualcosa di nuovo e deve iniziare a crearci un rapporto, quello in cui si può
> manifestare l’ignoto e l’inatteso su cui il saggista è chiamato a esercitare
> la propria arte, esplorandolo con il pensiero e con la scrittura.
Prendiamo Sabbie bianche (2017) di Geoff Dyer (tradotto da Katia Bagnoli): una
raccolta di saggi brevi che raccontano di viaggi compiuti dall’autore, dove
emerge un atteggiamento pienamente saggistico. È da saggista, ad esempio, la
maniera con cui Dyer registra le potenzialità deludenti di qualunque viaggio. In
Dove? Che cosa? Dove? racconta di un viaggio in Polinesia, nei luoghi abitati da
Paul Gauguin nei suoi ultimi anni, per preparare un libro sull’artista. Ma la
descrizione dei luoghi e del loro rapporto con la vita e l’opera di Gauguin
lascia presto spazio al senso di fallimento sperimentato dall’autore nel cercare
di estrarre un maggior significato da quelli stessi luoghi e di avvicinarsi
all’esperienza del pittore francese (“Non riuscivo a mettermi nei panni di
Gauguin, non riuscivo a vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Me ne stavo lì
a guardare quel che guardava lui, senza nemmeno avvicinarmi a vedere come vedeva
lui”). In compenso l’esperienza fa scattare la presa di coscienza che un viaggio
può sempre essere deludente, ma insieme di come viaggiare (e forse anche vivere)
ha un senso solo fintanto che la possibilità di essere delusi resta aperta:
> Ecco la sostanziale differenza fra il pellegrinaggio religioso e il
> pellegrinaggio laico: il secondo ha sempre in sé la potenzialità di deludere.
> A questa rivelazione ne seguì un’altra fulminea: che la mia enorme capacità di
> restare deluso fosse in realtà una conquista, una vittoria. La misura e la
> frequenza devastante delle mie delusioni (“in ginocchio, ma non ancora
> sconfitto” è il lamento vanaglorioso di Gauguin) erano la prova di quanto mi
> aspettavo e desideravo dal mondo, di quanta speranza vi riponessi ancora.
> Quando non sarò più capace di restare deluso l’avventura sarà finita: tanto
> vale essere morti.
È questo un passo squisitamente saggistico perché si tratta di un momento di
autoriflessione che sblocca nuove possibilità alla scrittura: quella di
registrare e dare un valore alle delusioni che tanto spesso accompagnano il
viaggiare. Possibilità a cui Dyer farà ampiamente ricorso anche nel resto della
raccolta. Ad esempio in Notte boreale, cronaca di un viaggio insieme alla moglie
fino alle Svalbard per vedere l’aurora boreale che si rivela un completo
fallimento: non riescono a vedere l’aurora e tutta l’esperienza è un susseguirsi
di malumori e disagi.
> In Sabbie bianche di Geoff Dyer si accetta che la delusione, il fallimento, il
> disagio possano essere la più autentica verità di un viaggio. Una verità che
> si può cogliere solamente per via saggistica: nella messa in scrittura del
> rapporto tra un io e l’esperienza del viaggio.
Perché se si intende genuinamente il viaggiare come un’apertura al non
prevedibile, allora bisogna accettare che la delusione, il fallimento, il
disagio possano essere la più autentica verità di un viaggio. Una verità che si
può cogliere solamente per via saggistica: nella messa in scrittura del rapporto
tra un io e l’esperienza del viaggio. Di certo non è il tipo di contenuto che si
può trovare in una guida turistica o in qualche altra forma di scrittura
divulgativa. Un modo di raccontare i luoghi verso cui Dyer esprime
programmaticamente la sua avversione fin dal primo saggio della raccolta, Città
Proibita. La situazione è questa: l’autore si trova a Pechino per promuovere un
libro; una mattina è prevista per lui una gita alla Città Proibita, ma viene
preso dall’avvilimento quando viene informato dalla sua accompagnatrice che la
visita sarebbe stata condotta da una guida:
> Aveva procurato una guida, mi disse, che ci accompagnasse nella visita della
> Città Proibita. Fui assalito dallo sconforto. Ho una certa propensione ad
> essere assalito dallo sconforto, e benché poche parole abbiano la capacità di
> sconfortarmi rapidamente e profondamente come “guida”, molte altre mi
> sconfortano al rallentatore come se stessi affondando con una pietra legata al
> collo, e sono le parole “dovere” e “ascoltare”, per esempio nella frase !dover
> ascoltare una guida” che mi racconta cose sulla Città Proibita che potrei
> leggermi a casa in un libro, con la conseguenza che qualsiasi desiderio di
> ascoltarla scompare senza lasciare traccia.
È il rifiuto del sapere antisaggistico della divulgazione: un sapere da fruire
passivamente, prefabbricato (“l’idea della verità come qualcosa di ‘bell’e
pronto’” che il saggio rifiuta, diceva Adorno), appiccicato sopra le cose, che
non nasce dall’interazione diretta fra sé e quelle cose e che infatti potrebbe
essere recepito anche in loro assenza.
Una visita guidata imposta è presente anche in uno degli ultimi saggi di Sabbie
bianche, ovvero La ballata di Jimmy Garrison. A essere raccontata questa volta è
una gita alle Watts Towers a Los Angeles. Le torri sono delle grandi strutture
costruite con materiali di recupero tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta da
una sola persona: l’immigrato italiano Sabato Rodia. Ma le torri non sono
liberamente visitabili: sono circondate da un recinto metallico e l’unico modo
per accedervi è comprare un biglietto per la visita guidata. La guida, dopo aver
esordito ricordando la “regola più importante della visita”, ovvero “non salire
sulle torri” (“Giusto – non puoi permettere alla gente di arrampicarsi sulle
torri come se si trovasse in un parco avventura – però mi sembra lo stesso un
po’ deprimente, come sono sempre deprimenti i divieti”, chiosa Dyer), procede
raccontando una biografia del creatore delle torri che “concordava
essenzialmente con la versione online della vita di Rodia”.
La visita risulta quindi accuratamente irregimentata nella prassi del tour
guidato, anche temporalmente delimitata dalla rigidità della tabella oraria, che
non ammette deroghe (“Benché iniziato tardi, il nostro giro finì puntualmente,
al fine di impedire ritardi a catena”). Una limitazione dell’esperienza delle
torri che ha il suo correlativo nella recinzione che le circonda (“È davvero un
peccato che per la protezione e la conservazione delle torri sia stata eretta
una recinzione d’acciaio impossibile da scavalcare”; “Il danno arrecato da
questa recinzione non finisce qui. La recinzione che annette le torri le
rimpicciolisce, ne riduce le dimensioni. Si ha la sensazione che siano
confinate, ghettizzate”).
Un confinamento che le Watts Towers tollerano poco, perché il loro fascino
dipende proprio dal loro “eccedere” rispetto a qualunque incasellamento di
significato, dall’”impossibilità di identificarne la vera natura, di dire di
cosa siano o cosa sembrino”. Sono dotate di un “fascino ecumenico” che fa
“affluire miriadi di significati e di associazioni privi di ostacoli, liberi”. E
ancora: “È quasi un corollario che le torri ci ricordano sempre qualcos’altro:
qualunque cosa uno dica è sempre necessaria una precisazione”; “La loro capacità
di generare miti su se stesse è endogena e inesauribile”. Le Watts Towers,
insomma, sono un perfetto oggetto saggistico, che rifiuta la spiegazione
definitiva, ma dotato di una “malleabilità” per cui si presta a un infinito e
libero gioco delle interpretazioni.
> Le Watt Towers di Los Angeles diventano metafora della scrittura saggistica,
> nelle sue caratteristiche di rendere visibili i processi del suo stesso farsi
> e di procedere in maniera non lineare, per tentativi, errori, improvvisazioni.
Ma le affinità delle torri con il saggismo non riguardano solo la loro
interpretazione, ma anche la loro costruzione. Dyer, nel descrivere la solitaria
impresa di Rodia, sembra suggerire una metafora della scrittura saggistica,
nelle caratteristiche di cui abbiamo già palato: il rendere visibili i processi
del suo stesso farsi (“Sono state costruite con attrezzi rudimentali, dalle mani
di Rodia, e con materiali spartani – todini, acciaio ritorto e piegato insieme
senza saldatura, bulloni e rivetti – in modo che i segreti e le complessità
della costruzione fossero esibiti, anziché nascosti”; “Se le torri sono templi,
allora sono templi dedicati alla costruzione di se stessi”), il procedere in
maniera non lineare, per tentativi, errori, improvvisazioni (“Il carattere
improvvisato dell’impresa, quell’imparare man mano che si fa – immersi in
qualcosa senza necessariamente essere sicuri di quale sarà il risultato”;
“Intoppi, errori e vicoli ciechi diventavano il presupposto inderogabile per
continuare, per fare qualcosa”).
Che il parallelismo tra il lavoro di Rodia e la scrittura non sia solo una
suggestione diventa evidente nel momento in cui Dyer esplicitamente passa dal
descrivere la costruzione delle Watts Towers a trattare dei processi della
scrittura, aprendo una digressione (innescata, per contrasto, dalla riflessione
sulla tenacia quasi punitiva con cui Rodia portò a termine la sua impresa) sul
momento in cui un autore rinuncia a scrivere un libro (ribadendo che il
fallimento e la delusione, o perlomeno la loro possibilità, sono uno dei temi
che percorrono tutti i saggi di Sabbie bianche).
Ma restiamo sulla scrittura che riflette su sé stessa mentre cambiamo libro.
Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani (2016) di Giorgio
Vasta, è un perfetto esempio di saggio che sfrutta ampiamente la propria
libertà. In sintesi, il libro racconta di un viaggio negli Stati Uniti per
visitare città fantasma e altri luoghi abbandonati nei deserti dell’Ovest
americano. Riassunti così i contenuti potrebbero adattarsi perfettamente a un
reportage narrativo o a un diario di viaggio (e, in parte, effettivamente ne ha
la forma), ma a dare al tutto una decisa piega saggistica è la facoltà che Vasta
si tiene aperta di ridiscutere il senso e lo scopo di quello che sta scrivendo.
Il libro è iniziato da poche pagine e già l’autore fa sapere che il piano è
cambiato rispetto alle intenzioni iniziali: “E questa dovrebbe essere – doveva
essere – una guida di viaggio: narrativa, letteraria, ma una scrittura anche di
servizio che traccia itinerari e fornisce informazioni mantenendo chi ha
compiuto il viaggio se non sullo sfondo almeno in secondo piano”, scrive; ma
quando incontra Ramak Fazel (il fotografo autore delle foto che accompagnano il
volume) “l’asse di questo libro si modifica. Le persone si fanno personaggi, la
tortuosità si innalza a metodo e la carrozza del baedeker si trasforma nella
zucca di una scrittura che soprattutto suppone, finge, si arrangia, mente”.
> La riflessione sulla natura del libro stesso percorre, più o meno
> sottotraccia, tutto Absolutely Nothing e lo fa ricorrendo anche a strategie
> romanzesche, come trasformare i due compagni di viaggio (Silva – editrice e
> organizzatrice del viaggio – e Ramak) in personaggi che incarnano gli spiriti
> contrapposti che muovono il saggio.
La libertà che trasforma la guida in un saggio è appunto quella di poter
modificare “l’asse del libro” a scrittura in corso. Che è poi è anche la libertà
di continuare a utilizzare modalità di altri generi più codificati (appunto la
guida, il reportage, il diario di viaggio), ma sovvertendone le regole. Del
diario mantiene la scansione per giorni, indicati precisamente con le date a
inizio di ogni capitolo, ma contemporaneamente rinuncia all’ordine cronologico,
per un montaggio degli avvenimenti non lineare, che segue logiche proprie.
L’andamento da reportage di alcuni passi, invece, è contraddetto in altri dove
vengono inseriti elementi di finzione o troppo palesemente romanzati per essere
credibili, che rendono incerto lo statuto di verità di tutto quello che viene
raccontato e quindi annullano qualunque possibile intento documentaristico.
La riflessione sulla natura del libro stesso percorre, più o meno sottotraccia,
tutto Absolutely Nothing e lo fa ricorrendo anche a strategie romanzesche, come
trasformare i due compagni di viaggio (Silva – editrice e organizzatrice del
viaggio – e il già citato Ramak) in personaggi che incarnano gli spiriti
contrapposti che muovono il saggio. Silva è l’anima razionale ed esplicativa
della scrittura saggistica. Non solo è colei che organizza le tappe del viaggio,
dandogli un ordine e una forma, ma svolge la funzione di dare informazioni, di
convertire la muta fenomenicità delle cose in spiegazioni: “Silva parla
concentrata, in trance agonistica, preda dell’enciclopedismo. In parte legge
dalle sue schede, ma soprattutto racconta guardando fuori, lo sfondo senza
figure, dando l’impressione di trovare frasi lì, nel deserto, come se fossero
sottili perturbazioni nello spazio, lingua mimetizzata nel paesaggio”.
All’interno della narrazione di Vasta, Silva rappresenta la possibilità della
scrittura di produrre chiarezza, di ricondurre il caos e l’opacità del mondo
così come ci viene incontro a costruzioni intellegibili di significato e di
poterlo fare attraverso un lavoro attivo di ricerca e “ricomposizione” delle
informazioni disponibili. Un lavoro che salva dallo spaesamento in cui invece
trascina l’indolenza che l’autore riconosce in sé stesso:
> Da quando questo viaggio è iniziato so che in qualsiasi circostanza, persino
> sperduti ai bordi di un lago marcio, Silva attende sempre il momento in cui le
> domanderò dove siamo, cos’è successo, e come e per quale ragione. Perché
> domandando ammetto la mia inadeguatezza, dunque quell’indolenza che non mi ha
> fatto preoccupare di informarmi sulle tappe del viaggio; ma soprattutto perché
> c’è in lei un’ossessione nei confronti di tutto ciò che è dato, notizia,
> spiegazione, rapporto. Come se l’esistente dovesse in primo luogo declinare le
> proprie generalità. La sensazione è che nel ricomporre tramite Google o
> Wikipedia la storia di un luogo e di chi lo ha fondato, abitato e poi
> abbandonato, Silva dia forma a un metodo: salda il mondo – in apparenza
> chiaro, in realtà labile – alle parole che nel descriverlo lo sostengono e lo
> proteggono. Questa è la sua conoscenza delle cose.
Questa conoscenza delle cose è certamente uno degli strumenti di cui si può
avvalere la scrittura saggistica, ma nella quale non può esaurirsi. E infatti,
nel viaggio raccontato da Vasta, a equilibrare l’organizzazione e la precisione
informativa di Silva c’è la “cialtroneria” di Ramak:
> Parlo della cialtroneria smisurata e immaginifica di chi dice le cose senza
> esitazioni e senza porsi il problema di mettere alla prova credulità (quella
> altrui) e credibilità (la propria). L’eccesso che snerva il principio di
> verosimiglianza è parte integrante di tutto ciò che Ramak racconta, la
> furfanteria è in lui naturalmente estranea a qualsiasi giudizio morale. Una
> forma di prossimità ai fenomeni, di dimestichezza e di intraprendenza, che né
> io né Silva possediamo.
Quella di Ramak è un tipo di conoscenza tutta fondata sulla “prossimità” alle
cose, sulla “dimestichezza” con esse. Pertanto è non regolata, non riconducibile
a forme razionali o già legittimate di sapere, neppure a quelle della
credibilità, ma tende sempre all’“eccesso”. Perché “nel suo stile sempre mite e
ragionevole, Ramak è per l’esondazione”. È una modalità di conoscere che non
accetta piani, o per lo meno che è sempre disponibile a rimetterli in
discussione davanti all’inatteso (“Lasciare che l’imprevisto faccia irruzione
nel progetto, accettare che le cose vadano in modo diverso per il semplice fatto
che sono diverse: ecco il manifesto di Ramak”); che non necessariamente
semplifica o chiarifica, ma che ingloba la complessità anche al costo di
“ingarbugliare” le cose invece che scioglierle (“In compagnia di Ramak, ciò
attraverso cui si procede è vortice e garbuglio”). Un modo di procedere che
ammette di potersi perdere, perché anche l’apparente spreco di tempo che
comporta vagare da smarriti (e ritorniamo all’idea del “bighellonare” come
movimento tipico del saggio) ha un suo senso, dice qualcosa su ciò che si sta
cercando (“E dunque, mentre abita l’inconcludenza, Ramak canta, canticchia,
fischietta, fabbricando un frattempo da riempire con le immaginazioni di quello
che ognuno presume di cercare”).
> Vasta parte dal presupposto “che il paesaggio artificiale, dunque quello
> fabbricato dall’uomo, è un testo che è necessario imparare a leggere”. Ciò che
> viene raccontato è il tentativo di imparare o inventare il linguaggio giusto
> per leggere (e riscrivere) quel testo.
Il fine di questa doppia strategia di conoscenza è la scrittura, cioè
trasformare le cose che si incontrano in linguaggio. Anche questo processo è più
volte tematizzato nel corso del libro. “Mi ritrovo a pensare che da un viaggio
desidero soprattutto questo, percezione e inventario, vita sensoriale che
diventa linguaggio”, scrive Vasta in uno dei primi capitoli, avendo affermato
poco prima che “il presupposto da cui parte è che il paesaggio artificiale,
dunque quello fabbricato dall’uomo, è un testo che è necessario imparare a
leggere”. Ciò che viene raccontato è il tentativo di imparare o inventare il
linguaggio giusto per leggere (e riscrivere) quel testo. Un tentativo
particolarmente difficile vista la natura dei posti visitati: luoghi
abbandonati, svuotati del significato che avevano un tempo e quindi che si
ritrovano privati anche delle parole adatti per descriverli (“Ed è anche, penso,
la didascalia di questo viaggio: andare a vedere cosa succede negli spazi da cui
le parole sono andate via”). E se un saggio di viaggio fa la cronaca della
creazione di un rapporto con dei luoghi attraverso la scrittura, diventa
inevitabile che tali difficoltà linguistiche si prendano la scena, che la
descrizione dei luoghi passi attraverso momenti in cui la scrittura riflette su
sé stessa, prende consapevolezza dei propri limiti e, come sempre, procede per
tentativi:
> Scorgo un nesso tra gli abandoned places e le parole. A ogni passo che muovo
> fuori e dentro queste vecchie abitazioni, il mio sguardo sfida il linguaggio.
> Lo interroga, vuole sapere se ha da mettergli a disposizione qualcosa di buono
> per nominare, per fare frasi, vuole misurarne limiti e risorse. Del resto
> individuare le parole per dire un posto come Daggett non è semplice, le
> sfumature sono minime ma fondamentali. Per esempio, se anche mi piacerebbe
> descriverlo come smantellato, so di non poterlo fare. Perché smantellato
> presume un ordine logico, una procedura che qui è mancata; sfasciato oppure
> scassato sarebbero più adatti proprio perché più grossolani, così come il
> palermitano scafazzato, che vuol dire schiacciato, ma in una forma triviale;
> deperito medicalizza il fenomeno, deturpato lo moralizza, demolito rimanda a
> una intenzione, spaccato lo riconosce nella sua connessione a una materia
> divisibile: sgangherato semplicemente lo motteggia.
Ma andiamo all’ultimo libro che ho selezionato per questa ricognizione. Si
tratta de Il senso della natura. Sette sentieri per la Terra (2024) di Paolo
Pecere. In questo caso il racconto dei viaggi compiuti dall’autore in giro per
il mondo (Galapagos, Amazzonia, Ruanda, Indonesia, Tibet, per dirne alcuni) è
soprattutto un mezzo per trattare il vero oggetto del saggio, che va ben oltre i
singoli luoghi visitati, cioè la natura stessa. Scrivere un “saggio sulla
natura” può sembrare frutto di una ambizione smisurata, ma in realtà la natura è
un oggetto perfetto per la scrittura saggistica, proprio perché è qualcosa di
cui si riconosce immediatamente l’inesauribilità. “La realtà naturale è ciò che
rende i fatti in certa misura resistenti alle umane interpretazioni”, viene
detto esplicitamente, lasciando intendere che per definizione la natura è
qualcosa di cui non è possibile trovare un “senso” definitivo. Date queste
premesse, se la natura non può essere totalmente spiegata o interpretata, non
resta che esplorarla, sondarla con gli strumenti umani a disposizione.
Abbiamo ribadito più volte che la scrittura saggistica è quella che racconta la
relazione tra il soggetto che scrive e il suo oggetto. Nel libro di Pecere
questo legame contiene sempre un margine di incomprensione e spaesamento. Ad
esempio, a più riprese nel libro si descrive l’avventurarsi in ambienti naturali
come un evento intrinsecamente disorientante, dove l’essere umano perde i punti
di riferimento noti ed è costretto a un impegno cognitivo (ma anche linguistico)
supplementare per riuscire a comprendere ciò che lo circonda (“Bastano poche ore
nella foresta per suscitare una transizione cognitiva. Nella città mi oriento
con le mie categorie – case e strade, negozi e bagni – che qui non valgono. […]
Invece qui i miei sensi sono tesi e attenti, ma stanno muti, incapaci di
analizzare il cosmo di colori, suoni, odori e sensazioni tattili”; “Nel
paesaggio della foresta primaria, la vista è ovunque ostacolata dai tessuti
verdi, ed è sovente ingannata dal mimetismo e da codici cromatici ignoti. Gli
animali vivono nascosti. Per orientarsi serve l’udito. Con i suoni i viventi
comunicano e si localizzano tra loro. Ma la nostra lingua è uno strumento
inadeguato per decifrare questo concerto, e il nostro udito è disabituato a
questo ambiente sonoro”).
> In Il senso della natura. Sette sentieri per la Terra di Pecere il legame tra
> il soggetto che scrive e il suo oggetto contiene sempre un margine di
> incomprensione e spaesamento.
Proprio questo sforzo cognitivo e linguistico straordinario che la realtà
naturale richiede per essere compresa un po’ di più, è ciò che la scrittura
saggistica di Pecere mette su carta in Il senso della natura. Perché se non
possiamo davvero conoscere la natura in sé, quello che invece possiamo conoscere
e da cui possiamo estrarre un senso è la nostra relazione con essa. In questa
presa di coscienza lo spirito saggistico trova una inaspettata somiglianza con
l’animismo, che non è – come potrebbero suggerire le descrizioni puramente
etnologiche – una “teoria che si sviluppa sul piano discorsivo”, quanto
piuttosto un’esperienza che si fa della natura, “un’intuizione che attinge a
dimensioni non-umane della realtà”. L’animismo è un tipo di conoscenza che
“trova nelle sensazioni e nei sentimenti una relazione personale con l’ambiente
e ne ricava un senso”.
Ma la relazione con le cose che registra l’approccio saggistico non si esaurisce
“nelle sensazioni e nei sentimenti” o negli altri dati esperienziali. Il saggio
tiene ben presente che i nostri rapporti con il mondo non sono determinati solo
da quello che viviamo, ma anche da quello che sappiamo. Pertanto è necessario un
continuo dialogo tra livelli diversi: quello dell’esperienza e quello della
teoria, in cui si chiamano in causa, si rielaborano, si discutono, le conoscenze
filosofiche e scientifiche già acquisite. È una dinamica che innerva tutto il
libro e che (come da prassi saggistica) viene meta-discorsivamente esibita in
passi come questo:
> Mi trovo nella foresta amazzonica, ma non posso fare a meno di disputare su
> Bruno e Spinoza! È inevitabile, dopotutto, poiché insieme a me ‒ oltre a
> batteri, libri e apparecchi fotografici ‒ viaggia un bagaglio di idee. Anche a
> volersi disfare dei pregiudizi che impediscono di ripensare un equilibrio
> cosmico, bisogna esaminare le idee altrui e, non accoglierle
> indiscriminatamente.
Questa modalità di conoscere le cose attraverso la relazione che si può
stabilire con esse diviene particolarmente intensa quando si tratta di
raccontare gli incontri e i tentativi di comprensione con gli animali. Provare a
capire gli animali significa superare sia qualunque forma di reificazione che
liquida le vite non-umane come alterità assolute rispetto a noi, sia le
forzature antropomorfiche che li trasforma in nostri simulacri. Bisogna
piuttosto adottare quella che l’etologia cognitiva chiama “visione gradualista”:
partire dal riconoscimento di una connessione tra noi e loro, da ciò che ci
accomuna, ma continuando a tenere presente le differenze e le specificità. Si
tratta, insomma, ancora una volta di una modalità di comprensione saggistica:
che avanza per tentativi, che deve trovare una strada sua peculiare ogni volta,
che deve anche accettare la possibilità del fallimento (“Spesso ho sperimentato
il fallimento della comunicazione con i non-umani”) e che in ogni caso sa che a
un certo punto dovrà fermarsi e rimanere parziale, perché rimane consapevole che
in presenza di animali “siamo circondati da confini di senso e di vita che ci
sfuggono”.
> Se la scrittura saggistica è in un certo senso un gioco, allora è un gioco
> votato alla sconfitta, o per lo meno che non ha nella vittoria (il venire
> davvero a capo del proprio oggetto) il suo reale scopo.
Un esempio di questo modo di procedere lo troviamo nel capitolo del libro
dedicato all’oceano (dove “esistono altre menti, remote e intelligenti, con cui
capitano complessi scambi di attenzioni”), nel momento in cui l’autore si
interroga sulla maniera di percepire il mondo di un polpo incontrato in una
immersione notturna. A mediare il tentativo di comprendere l’animale sono prima
di tutto le conoscenze scientifiche, che ce lo descrivono come essere
radicalmente diverso da noi, dotato di un sistema nervoso decentrato, che rende
la sua coscienza qualcosa di difficile da immaginare per gli umani.
Dunque, scrive Pecere, “il polpo impone una massima che vale per ogni vivente:
non proiettare la tua immagine”. Ma questa alterità che è obbligatorio
riconoscere non è assoluta, se subito dopo aggiunge: “immaginare la mente
disunita del polpo e della sua coscienza corporea non ci pone di fronte a
qualcosa di totalmente altro. Piuttosto ci mette a confronto con qualcosa che ci
riguarda”. Anche nella mente del polpo c’è “qualcosa che ci riguarda”, cioè che
ci accomuna, e che può essere il punto di partenza per muoversi verso una
relativa comprensione. Ad esempio, certi stati di coscienza anomali che gli
uomini sono in grado di sperimentare potrebbero essere simili alla “mente
disunita” del polpo.
Assumere questa postura – cioè partire da ciò che una persona può conoscere per
andare verso ciò che non può conoscere direttamente – significa inizia a
compiere passi che aiutano a mettere l’animale “in una luce familiare”, pur non
annullando le diversità, cioè non facendo cessare “lo sforzo di congetturare,
leggere segni, interpretare ciò che non è trasparente e che la coscienza non
padroneggia”. La messa in scrittura di tale sforzo, con tutti gli azzardi, i
dubbi, le aporie, le intuizioni e le fantasie che possono scaturire, è la
sostanza del saggio. E così, dopo molte pagine dedicate al tentativo di
comprendere cosa sta percependo quel polpo, arriviamo qui:
> Ma la storia del mio incontro con il polpo continua: di tutto questo scriverò,
> la memoria del mio incontro con il polpo sarà tracciata con l’inchiostro. Da
> narratore starò dietro questa nube d’inchiostro, come il polpo nascosto. Ecco:
> continuo ostinato con le proiezioni, con le fantasie di vicinanza, che in
> certi istanti decisivi si realizzano. Ma il mio racconto deve includere
> l’incomprensione, e la mancanza.
Ecco, non vedo modo migliore per chiudere questa esplorazione della scrittura
saggistica che farlo nel segno di quel margine di incomprensione e di mancanza
che le cose, davanti alle pretese di conoscerle, insistono a conservare e che a
sua volta il saggista insiste a includere nel proprio resoconto. Se la scrittura
saggistica è in un certo senso un gioco, allora è un gioco votato alla
sconfitta, o per lo meno che non ha nella vittoria (il venire davvero a capo del
proprio oggetto) il suo reale scopo. Ci sono giochi che si giocano per vincere e
altri per continuare a giocare. Per il saggista l’accettare (e talvolta
l’esibire) l’incomprensione, la mancanza, il fallimento, la delusione, la
parzialità, non è soltanto un arrendersi, ma anche un mantenere la partita
sempre aperta.
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