“A ddio prince of darkness”: questo il titolo più gettonato al momento della
dipartita del grande Ozzy Osbourne, cantante emblema dei Black Sabbath, ma
soprattutto solista a tutto tondo e pioniere di un’attitudine sonora grazie alla
quale molti artisti campano e hanno campato, semplicemente dilatando frammenti
del Sabbath sound (pensiamo a tutto il movimento doom), oppure velocizzandolo
(il thrash metal tutto), distillandone l’alone oscuro (il gothic), ma anche il
noise (Helmet), e potremmo continuare per ore. Ma attenzione, Ozzy non ha
influenzato solo la zona “dura” della musica, non è solo il padrino dell’heavy
metal: lo testimoniano i peana da parte di gente come Elton John, Billie Eilish,
Lady Gaga, Cyndi Lauper, Duran Duran, Post Malone, Yungblud, insomma il suo
apporto allo scenario mondiale è stato “trasversale”, se non addirittura
“contaminante”. Ma in particolare pochi – a parte Geezer Butler, il bassista dei
Sabbath, che l’ha ricordato come “the prince of laughter” ‒ si sono soffermati
sul fatto che il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma
piuttosto è stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che
poi ha cavalcato.
E quello che ha aperto il vaso di Pandora è stato l’omaggio social che al nostro
hanno rivolto personalità notissime del pop italiano: sì, pop italiano. E la
cosa ha suscitato emozioni discordanti tra la gente: chi non crede a quello che
legge, chi deride senza mezzi termini, chi reagisce con curiosità, chi grida al
complotto e chi fa il superiore, ma pochi che abbiano colto il significato
importantissimo della cosa. Proprio per questo, passiamo in rassegna i nomi di
questi artisti italiani che hanno “osato” ricordare Ozzy senza avere ‒
apparentemente – un pedigree metal o come minimo estremo, e per questo messi
alla gogna dagli “ortodossi” del rock.
> L’omaggio social che hanno rivolto a Ozzy Osbourne personalità notissime del
> pop italiano ha suscitato emozioni discordanti.
Iniziamo dal post che ha fatto più scalpore, quello di Amedeo Minghi: il nostro
ricorda Ozzy come si ricorda un mito personale, rimembrando i momenti in cui
negli anni Settanta, da giovanissimo ‒ ancora lontano dall’exploit Sanremese –
il nostro nelle cantine suonava i Sabbath. Che c’è dei Sabbath e di Ozzy nella
musica di Amedeo, si chiederà il popolino ignaro? Ebbene basterebbe dare uno
sguardo più approfondito al repertorio di Minghi, in particolare al primo disco
del 1973: lì troverete un brano “Candida Sidelia”, il quale senza dubbio
echeggia le gesta di Ozzy. Un brano rock le cui linee vocali ‒ ma anche
l’atmosfera torbida del testo a cura della grande Carla Vistarini ‒ avrebbero
potuto essere cantate dall’artista inglese, il che mette subito Minghi nel
cerchio di chi ha cognizione di causa per parlare di hard rock e affini, a
differenza di chi lo critica e non conosce nulla, neppure di chi si ostinano ad
attaccare. Ovviamente Amedeo si è incazzato abbestia, sentendosi pressato a
dover dimostrare chissà che cosa: basterebbe ricordare ai signorini haters che
“Vattene amore”, sminuita come “Trottolino amoroso”, ha uno dei testi più
surreali che la storia della musica italiana conosca e l’autore è il geniale
Pasquale Panella, meglio conosciuto come il paroliere del periodo bianco di
Battisti, quindi non certo un’educanda.
Segue poi il cordoglio di Red Canzian, il bassista storico dei Pooh che sostituì
Riccardo Fogli e che, proprio prima di entrare nella band più famosa d’Italia,
soleva interpretare “Paranoid” con il suo primo gruppo, probabilmente i
Prototipi (effettivamente la sua voce non sfigurerebbe): anche qui commenti
perplessi ma forse meno stupore, in quanto Red negli anni Settanta suonava nei
Capsicum Red, band prog prodotta dalla Bla Bla, copertina di Gianni Sassi della
Cramps ecc.: ma ricordiamo che anche i Pooh si sono distinti nell’album Opera
prima – nel pieno periodo del successo di “Tanta voglia di lei”, 1971 –
registrando “Il primo e l’ultimo uomo”, un pezzo sfacciatamente hard rock con
delle sonorità e un andazzo vocale – lì però cantava Negrini, poiché Red entrerà
in formazione solo tre anni dopo ‒ che ricorda proprio i Sabbath e Ozzy.
Nonostante questo siamo costretti a vedere Red combattere con gli arroganti
scettici del web, rispondendo a tono con un self control davvero invidiabile.
Poi abbiamo Drupi, che in gioventù divide il palco con Ozzy e disegna un ricordo
di lui e dei Sabbath notevolissimo: nel 1968, ingaggiati probabilmente per
sbaglio in una manifestazione per famiglie a Cesenatico, con obbligo di
abbassare i volumi a mezzanotte, i nostri ovviamente scatenano l’inferno tanto
che l’organizzatore gli toglie la spina e manco li paga. E poi ci sono quelli
che, per ragioni anagrafiche, sono più sospetti e non hanno scuse di “cantine
negli anni Sessanta” nel cassetto: ad esempio Eros Ramazzotti, che però è
effettivamente un patito di hard rock e classic rock (fa testo l’intro di “Le
cose della vita”, per fare un esempio, in cui il nostro schitarra alla grande)
e che qua e là inserisce delle strutture che arrangiate in altra guisa
porterebbero direttamente al modello di riferimento.
> Il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma piuttosto è
> stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che poi ha
> cavalcato.
Federico Zampaglione dei Tiromancino anche lui si prostra innanzi alla salma del
Maestro, con un “se nella vita suono lo devo anche a te”; a molti risulta
difficile credere a una simile cosa, ma chi è informato sa che lo Zampaglione
melenso di “Per me è importante” fece due dischi alternativi come Insisto e
Alone alieno che a tutti gli effetti hanno molti – se non moltissimi – spunti
hard rock, per non parlare del fatto che insieme al fratello Francesco
produssero nel 2011 L’inferno dei vivi, l’ultimo disco in vita di Richard
Benson, che Ozzy – istrionismi a parte – ce lo aveva nelle vene. Viene
semilinciata anche Laura Pausini, solo perché la nostra ‒ incontrandolo a una
manifestazione e scambiandoci due chiacchiere ‒ ricorda Ozzy per la sua
gentilezza, tenendo la musica da parte: ma è anche vero che in molti degli
spettacoli della cantante di Faenza i chitarristi non vengono certo dal mondo
“leggero”, ma anzi sono chiaramente di stampo metal prestato al pop, cosa tra
l’altro abbastanza comune in quel mondo a dimostrazione che le barriere sono
molto sottili.
Angelo Branduardi, dal canto suo, ricorda – in maniera ovviamente ironica ‒ come
molti dopo aver ascoltato la sua musica si siano buttati su Ozzy: noi possiamo
dire che Branduardi col discorso Blizzard aveva in comune un immaginario spesso
fatto di streghe incantesimi e – a bocce ferme – di favole nere, tra l’altro
bazzicando parecchio il mondo medievale britannico fatto di occulto e via
dicendo: ragion per cui i suoi omaggi hanno a che vedere con una chiara fonte di
ispirazione, Osbourne stesso.
Diversa la questione per Cesare Cremonini, che non scrive nulla che possa
attirare critiche ma posta solo una foto in bianco e nero del cantante
britannico. Solo un omaggio dettato dal momento? In realtà no, perché Cremonini
si è dichiaratamente fatto le ossa con l’hard rock, partendo in tenera età coi
Queen e andando poi a ritroso (e ovviamente anche Brian May ha ricordato il
grande Ozzy, senza il quale probabilmente i Queen non avrebbero neanche tirato
fuori gli strumenti dalle custodie). Ragion per cui ogni tipo di “perplessità”
può essere mandata al mittente.
E Vasco Rossi? Beh, uno come Vasco ovviamente non poteva non omaggiare uno dei
suoi grandi maestri: per la capacità comunicativa in primis, e in secondo luogo
– musicalmente – Rossi ha preso qua e là pezzi del rock di Ozzy infilandoli
nelle sue canzoni, così come ha fatto con gli Ac/Dc, i Judas Priest e via
dicendo (a mio modesto parere anche il suo modo di stare sul palco, con quei
momenti gigioneschi e i famosi “eeeh” a braccia spalancate deve molto agli “Uh
yeah” di Ozzy e del suo trascinare la folla come un vero jester). Forse di tutti
gli epitaffi è il più scontato, d’altronde Vasco viene soprannominato “rocker di
Zocca” e negli ultimi tempi rivedeva i suoi pezzi live in chiave “metal” con in
formazione Will Hunt degli Evanescence, tanto per dire.
Enrico Ruggeri anche omaggia il Blizzard, ma nel suo caso c’è un alto tasso di
tolleranza per i trascorsi nei Decibel, che nella loro miscela di punk e hard
rock caratterizzante gli esordi avevano senza dubbio i Sabbath come riferimento
(e poi il fatto che Ruggeri abbia una cultura hard rock piuttosto ampia è cosa
risaputa). Infatti pochi se la sono presa, eppure Ruggeri è l’autore di cose
come “Quello che le donne non dicono”: strano che per questo non sia alla gogna
come i suoi sopracitati colleghi.
Ma la questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia
della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio
perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy: anche perché poi il
concetto di “pesantezza” in musica nel frattempo è mutato ed estremizzato (se
pensiamo al noise rock e derivati) e ascoltare il lavoro del fu ragazzo di
Birmingham oggi non è più respingente come agli esordi (anche se ultimamente
c’è una grande involuzione nel rock, per cui il nostro è uscito di scena
ringiovanito a livello musicale). Anzi, quello è stato il suo punto di forza,
esser riuscito a trasformare il concetto di pop, ma non a negarlo. Nel suo modo
di inseguire i riff di chitarra c’è l’essenzialità del pop: dritto alla bisogna,
niente orpelli.
> La questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia
> della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio
> perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy.
E i suoi punti di riferimento assoluti sono i Beatles: basti guardare l’incontro
tra lui e Paul McCartney nel backstage di un concerto del baronetto, anno 2001:
Ozzy per la prima volta – incredibilmente – lo incontra ed è emozionato come un
ragazzino. Tra l’altro la canzone “I want you (She’s so heavy)” dei Beatles è
incredibilmente Sabbath: esce nel 1969 e, come scritto da Josh Hart e Damian
Fanelli su Guitar World, merita il 34° posto nella loro lista delle “50 canzoni
più pesanti prima dei Black Sabbath” definendo il brano un “bluesy rock” che
“potrebbe aver inavvertitamente dato inizio al doom metal”. Qualcosa vorrà pure
dire: come qualcosa vuol dire quando il nostro interpreta brani “leggeri” nel
repertorio dei Sabbath, come le celeberrime “Changes” e “Planet Caravan”, in cui
la voce diventa espressione di tutta la fragilità e la dolcezza del caso: tant’è
che addirittura i Pantera (in fissa per il brano) praticamente si vergognarono
di includere la loro cover nell’album Far Beyond Driven, scrivendo una “lettera
aperta ai fan” che secondo loro non avrebbero apprezzato la cosa perché troppo
melodica, risolvendo il tutto mandandoli a fanculo (nel live “back to the
beginning” Phil Anselmo si sentirà finalmente libero di cantarla con tutto il
cuore).
Soprattutto nella carriera solista Ozzy darà una grande importanza alle ballad,
come nel caso della storica “Goodbye to romance” (non a caso individuata come
soft rock da vari algoritmi), la stessa “Mama I’m coming home” scritta con un
altro beatlesiano DOC, ovvero Lemmy dei Motorhead, “So tired” che in effetti,
quando fu scelta come secondo singolo per “Barking at the Moon”, vide il
disappunto di molti fans: è vero, nel metal questa cosa delle ballad è
abbastanza diffusa ma ‒ qui sta il bello ‒ è proprio Ozzy ad averne gettato le
basi coi Sabbath. Sabbath che, ricordiamolo, non sono sempre stati a schitarrare
in maniera monolitica, ma hanno anche sconfinato in cose molto più orecchiabili,
sperimentando anche coi sintetizzatori in dischi come Technical Ecstasy e Never
say die!, che se è vero che sono stati il canto del cigno della formazione
storica creandosi anche molti nemici tra la critica e il pubblico, è vero anche
che rappresentano due album coraggiosi seppur imperfetti dove la band si rifiuta
di essere il cliché di se stessa dicendo ad alta voce: “sì ok, non sappiamo dove
stiamo andando, ma sappiamo che stiamo forgiando il pop del futuro”.
> Basta guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza
> di evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente,
> per parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class
> hero”.
Quello della contaminazione tra generi, quello degli esperimenti più o meno
riusciti, quello che sì, abbiamo cantato di temi oscuri ma da sempre questi temi
fanno parte di un discorso popolare, e non ci siamo limitati a quelli; dovevamo
farlo perché, come ricordava Ozzy stesso “Eravamo io e cinque bambini, i miei
fratelli, che vivevamo in una casa con due camere da letto. Mio padre lavorava
di notte, mia madre di giorno, non avevamo soldi, non avevamo mai avuto una
macchina, andavamo raramente in vacanza… E all’improvviso, sai, sentiamo dire
‘Se vai a San Francisco assicurati di mettere un fiore tra i capelli’. E
pensiamo (con disprezzo) ‘Che cazzo è San Francisco? Da dove spunta fuori? Cos’è
questa stronzata dei fiori? Io non ho neanche le scarpe ai piedi!’”. E basta
guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza di
evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente, per
parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class hero”. Dal
pop(olo) veniva, al pop(olo) è tornato. Gli altri continuino pure a guardare la
luna senza abbaiarle contro.
Listen in awe and you’ll hear him
Bark at the moon
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