“A ddio prince of darkness”: questo il titolo più gettonato al momento della
dipartita del grande Ozzy Osbourne, cantante emblema dei Black Sabbath, ma
soprattutto solista a tutto tondo e pioniere di un’attitudine sonora grazie alla
quale molti artisti campano e hanno campato, semplicemente dilatando frammenti
del Sabbath sound (pensiamo a tutto il movimento doom), oppure velocizzandolo
(il thrash metal tutto), distillandone l’alone oscuro (il gothic), ma anche il
noise (Helmet), e potremmo continuare per ore. Ma attenzione, Ozzy non ha
influenzato solo la zona “dura” della musica, non è solo il padrino dell’heavy
metal: lo testimoniano i peana da parte di gente come Elton John, Billie Eilish,
Lady Gaga, Cyndi Lauper, Duran Duran, Post Malone, Yungblud, insomma il suo
apporto allo scenario mondiale è stato “trasversale”, se non addirittura
“contaminante”. Ma in particolare pochi – a parte Geezer Butler, il bassista dei
Sabbath, che l’ha ricordato come “the prince of laughter” ‒ si sono soffermati
sul fatto che il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma
piuttosto è stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che
poi ha cavalcato.
E quello che ha aperto il vaso di Pandora è stato l’omaggio social che al nostro
hanno rivolto personalità notissime del pop italiano: sì, pop italiano. E la
cosa ha suscitato emozioni discordanti tra la gente: chi non crede a quello che
legge, chi deride senza mezzi termini, chi reagisce con curiosità, chi grida al
complotto e chi fa il superiore, ma pochi che abbiano colto il significato
importantissimo della cosa. Proprio per questo, passiamo in rassegna i nomi di
questi artisti italiani che hanno “osato” ricordare Ozzy senza avere ‒
apparentemente – un pedigree metal o come minimo estremo, e per questo messi
alla gogna dagli “ortodossi” del rock.
> L’omaggio social che hanno rivolto a Ozzy Osbourne personalità notissime del
> pop italiano ha suscitato emozioni discordanti.
Iniziamo dal post che ha fatto più scalpore, quello di Amedeo Minghi: il nostro
ricorda Ozzy come si ricorda un mito personale, rimembrando i momenti in cui
negli anni Settanta, da giovanissimo ‒ ancora lontano dall’exploit Sanremese –
il nostro nelle cantine suonava i Sabbath. Che c’è dei Sabbath e di Ozzy nella
musica di Amedeo, si chiederà il popolino ignaro? Ebbene basterebbe dare uno
sguardo più approfondito al repertorio di Minghi, in particolare al primo disco
del 1973: lì troverete un brano “Candida Sidelia”, il quale senza dubbio
echeggia le gesta di Ozzy. Un brano rock le cui linee vocali ‒ ma anche
l’atmosfera torbida del testo a cura della grande Carla Vistarini ‒ avrebbero
potuto essere cantate dall’artista inglese, il che mette subito Minghi nel
cerchio di chi ha cognizione di causa per parlare di hard rock e affini, a
differenza di chi lo critica e non conosce nulla, neppure di chi si ostinano ad
attaccare. Ovviamente Amedeo si è incazzato abbestia, sentendosi pressato a
dover dimostrare chissà che cosa: basterebbe ricordare ai signorini haters che
“Vattene amore”, sminuita come “Trottolino amoroso”, ha uno dei testi più
surreali che la storia della musica italiana conosca e l’autore è il geniale
Pasquale Panella, meglio conosciuto come il paroliere del periodo bianco di
Battisti, quindi non certo un’educanda.
Segue poi il cordoglio di Red Canzian, il bassista storico dei Pooh che sostituì
Riccardo Fogli e che, proprio prima di entrare nella band più famosa d’Italia,
soleva interpretare “Paranoid” con il suo primo gruppo, probabilmente i
Prototipi (effettivamente la sua voce non sfigurerebbe): anche qui commenti
perplessi ma forse meno stupore, in quanto Red negli anni Settanta suonava nei
Capsicum Red, band prog prodotta dalla Bla Bla, copertina di Gianni Sassi della
Cramps ecc.: ma ricordiamo che anche i Pooh si sono distinti nell’album Opera
prima – nel pieno periodo del successo di “Tanta voglia di lei”, 1971 –
registrando “Il primo e l’ultimo uomo”, un pezzo sfacciatamente hard rock con
delle sonorità e un andazzo vocale – lì però cantava Negrini, poiché Red entrerà
in formazione solo tre anni dopo ‒ che ricorda proprio i Sabbath e Ozzy.
Nonostante questo siamo costretti a vedere Red combattere con gli arroganti
scettici del web, rispondendo a tono con un self control davvero invidiabile.
Poi abbiamo Drupi, che in gioventù divide il palco con Ozzy e disegna un ricordo
di lui e dei Sabbath notevolissimo: nel 1968, ingaggiati probabilmente per
sbaglio in una manifestazione per famiglie a Cesenatico, con obbligo di
abbassare i volumi a mezzanotte, i nostri ovviamente scatenano l’inferno tanto
che l’organizzatore gli toglie la spina e manco li paga. E poi ci sono quelli
che, per ragioni anagrafiche, sono più sospetti e non hanno scuse di “cantine
negli anni Sessanta” nel cassetto: ad esempio Eros Ramazzotti, che però è
effettivamente un patito di hard rock e classic rock (fa testo l’intro di “Le
cose della vita”, per fare un esempio, in cui il nostro schitarra alla grande)
e che qua e là inserisce delle strutture che arrangiate in altra guisa
porterebbero direttamente al modello di riferimento.
> Il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma piuttosto è
> stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che poi ha
> cavalcato.
Federico Zampaglione dei Tiromancino anche lui si prostra innanzi alla salma del
Maestro, con un “se nella vita suono lo devo anche a te”; a molti risulta
difficile credere a una simile cosa, ma chi è informato sa che lo Zampaglione
melenso di “Per me è importante” fece due dischi alternativi come Insisto e
Alone alieno che a tutti gli effetti hanno molti – se non moltissimi – spunti
hard rock, per non parlare del fatto che insieme al fratello Francesco
produssero nel 2011 L’inferno dei vivi, l’ultimo disco in vita di Richard
Benson, che Ozzy – istrionismi a parte – ce lo aveva nelle vene. Viene
semilinciata anche Laura Pausini, solo perché la nostra ‒ incontrandolo a una
manifestazione e scambiandoci due chiacchiere ‒ ricorda Ozzy per la sua
gentilezza, tenendo la musica da parte: ma è anche vero che in molti degli
spettacoli della cantante di Faenza i chitarristi non vengono certo dal mondo
“leggero”, ma anzi sono chiaramente di stampo metal prestato al pop, cosa tra
l’altro abbastanza comune in quel mondo a dimostrazione che le barriere sono
molto sottili.
Angelo Branduardi, dal canto suo, ricorda – in maniera ovviamente ironica ‒ come
molti dopo aver ascoltato la sua musica si siano buttati su Ozzy: noi possiamo
dire che Branduardi col discorso Blizzard aveva in comune un immaginario spesso
fatto di streghe incantesimi e – a bocce ferme – di favole nere, tra l’altro
bazzicando parecchio il mondo medievale britannico fatto di occulto e via
dicendo: ragion per cui i suoi omaggi hanno a che vedere con una chiara fonte di
ispirazione, Osbourne stesso.
Diversa la questione per Cesare Cremonini, che non scrive nulla che possa
attirare critiche ma posta solo una foto in bianco e nero del cantante
britannico. Solo un omaggio dettato dal momento? In realtà no, perché Cremonini
si è dichiaratamente fatto le ossa con l’hard rock, partendo in tenera età coi
Queen e andando poi a ritroso (e ovviamente anche Brian May ha ricordato il
grande Ozzy, senza il quale probabilmente i Queen non avrebbero neanche tirato
fuori gli strumenti dalle custodie). Ragion per cui ogni tipo di “perplessità”
può essere mandata al mittente.
E Vasco Rossi? Beh, uno come Vasco ovviamente non poteva non omaggiare uno dei
suoi grandi maestri: per la capacità comunicativa in primis, e in secondo luogo
– musicalmente – Rossi ha preso qua e là pezzi del rock di Ozzy infilandoli
nelle sue canzoni, così come ha fatto con gli Ac/Dc, i Judas Priest e via
dicendo (a mio modesto parere anche il suo modo di stare sul palco, con quei
momenti gigioneschi e i famosi “eeeh” a braccia spalancate deve molto agli “Uh
yeah” di Ozzy e del suo trascinare la folla come un vero jester). Forse di tutti
gli epitaffi è il più scontato, d’altronde Vasco viene soprannominato “rocker di
Zocca” e negli ultimi tempi rivedeva i suoi pezzi live in chiave “metal” con in
formazione Will Hunt degli Evanescence, tanto per dire.
Enrico Ruggeri anche omaggia il Blizzard, ma nel suo caso c’è un alto tasso di
tolleranza per i trascorsi nei Decibel, che nella loro miscela di punk e hard
rock caratterizzante gli esordi avevano senza dubbio i Sabbath come riferimento
(e poi il fatto che Ruggeri abbia una cultura hard rock piuttosto ampia è cosa
risaputa). Infatti pochi se la sono presa, eppure Ruggeri è l’autore di cose
come “Quello che le donne non dicono”: strano che per questo non sia alla gogna
come i suoi sopracitati colleghi.
Ma la questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia
della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio
perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy: anche perché poi il
concetto di “pesantezza” in musica nel frattempo è mutato ed estremizzato (se
pensiamo al noise rock e derivati) e ascoltare il lavoro del fu ragazzo di
Birmingham oggi non è più respingente come agli esordi (anche se ultimamente
c’è una grande involuzione nel rock, per cui il nostro è uscito di scena
ringiovanito a livello musicale). Anzi, quello è stato il suo punto di forza,
esser riuscito a trasformare il concetto di pop, ma non a negarlo. Nel suo modo
di inseguire i riff di chitarra c’è l’essenzialità del pop: dritto alla bisogna,
niente orpelli.
> La questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia
> della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio
> perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy.
E i suoi punti di riferimento assoluti sono i Beatles: basti guardare l’incontro
tra lui e Paul McCartney nel backstage di un concerto del baronetto, anno 2001:
Ozzy per la prima volta – incredibilmente – lo incontra ed è emozionato come un
ragazzino. Tra l’altro la canzone “I want you (She’s so heavy)” dei Beatles è
incredibilmente Sabbath: esce nel 1969 e, come scritto da Josh Hart e Damian
Fanelli su Guitar World, merita il 34° posto nella loro lista delle “50 canzoni
più pesanti prima dei Black Sabbath” definendo il brano un “bluesy rock” che
“potrebbe aver inavvertitamente dato inizio al doom metal”. Qualcosa vorrà pure
dire: come qualcosa vuol dire quando il nostro interpreta brani “leggeri” nel
repertorio dei Sabbath, come le celeberrime “Changes” e “Planet Caravan”, in cui
la voce diventa espressione di tutta la fragilità e la dolcezza del caso: tant’è
che addirittura i Pantera (in fissa per il brano) praticamente si vergognarono
di includere la loro cover nell’album Far Beyond Driven, scrivendo una “lettera
aperta ai fan” che secondo loro non avrebbero apprezzato la cosa perché troppo
melodica, risolvendo il tutto mandandoli a fanculo (nel live “back to the
beginning” Phil Anselmo si sentirà finalmente libero di cantarla con tutto il
cuore).
Soprattutto nella carriera solista Ozzy darà una grande importanza alle ballad,
come nel caso della storica “Goodbye to romance” (non a caso individuata come
soft rock da vari algoritmi), la stessa “Mama I’m coming home” scritta con un
altro beatlesiano DOC, ovvero Lemmy dei Motorhead, “So tired” che in effetti,
quando fu scelta come secondo singolo per “Barking at the Moon”, vide il
disappunto di molti fans: è vero, nel metal questa cosa delle ballad è
abbastanza diffusa ma ‒ qui sta il bello ‒ è proprio Ozzy ad averne gettato le
basi coi Sabbath. Sabbath che, ricordiamolo, non sono sempre stati a schitarrare
in maniera monolitica, ma hanno anche sconfinato in cose molto più orecchiabili,
sperimentando anche coi sintetizzatori in dischi come Technical Ecstasy e Never
say die!, che se è vero che sono stati il canto del cigno della formazione
storica creandosi anche molti nemici tra la critica e il pubblico, è vero anche
che rappresentano due album coraggiosi seppur imperfetti dove la band si rifiuta
di essere il cliché di se stessa dicendo ad alta voce: “sì ok, non sappiamo dove
stiamo andando, ma sappiamo che stiamo forgiando il pop del futuro”.
> Basta guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza
> di evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente,
> per parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class
> hero”.
Quello della contaminazione tra generi, quello degli esperimenti più o meno
riusciti, quello che sì, abbiamo cantato di temi oscuri ma da sempre questi temi
fanno parte di un discorso popolare, e non ci siamo limitati a quelli; dovevamo
farlo perché, come ricordava Ozzy stesso “Eravamo io e cinque bambini, i miei
fratelli, che vivevamo in una casa con due camere da letto. Mio padre lavorava
di notte, mia madre di giorno, non avevamo soldi, non avevamo mai avuto una
macchina, andavamo raramente in vacanza… E all’improvviso, sai, sentiamo dire
‘Se vai a San Francisco assicurati di mettere un fiore tra i capelli’. E
pensiamo (con disprezzo) ‘Che cazzo è San Francisco? Da dove spunta fuori? Cos’è
questa stronzata dei fiori? Io non ho neanche le scarpe ai piedi!’”. E basta
guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza di
evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente, per
parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class hero”. Dal
pop(olo) veniva, al pop(olo) è tornato. Gli altri continuino pure a guardare la
luna senza abbaiarle contro.
Listen in awe and you’ll hear him
Bark at the moon
L'articolo Ozzy Pop proviene da Il Tascabile.
Tag - rock
I nutile dire che fosse un eccellente bassista. Senza stilare classifiche
approssimative, Jack Bruce è stato semplicemente tra i bassisti più importanti
della storia della musica. Ha ispirato milioni di persone. I suoi giri di basso
resteranno per sempre fonte di ispirazione per chiunque tenti di approcciarsi a
quello strumento così ritmico, ma anche così melodico. “Era un grande musicista
e compositore, e una fonte di enorme ispirazione per me”, ha scritto il suo ex
compagno dei Cream, Eric Clapton, in ricordo di Jack Bruce. Questa frase di
Clapton – notoriamente parsimonioso di elogi – racchiude già l’essenza di Jack
Bruce: un bassista incredibile, e, al contempo, pilastro creativo spesso
nascosto dietro le quinte. Roger Waters, fondatore dei Pink Floyd, lo ha
definito “probabilmente il bassista musicalmente più dotato di sempre”. Tony
Iommi dei Black Sabbath, ha detto che “è stato un eroe per molti”. Alcuni tra i
bassisti più virtuosi del rock si sono ispirati a lui: Geddy Lee, Sting, Geezer
Butler, Flea, Billy Sheehan, Jack Cassidy, solo per citarne alcuni. Per quale
motivo?
Perché Jack Bruce ha ridefinito il ruolo del basso elettrico nel rock,
trasformandolo da semplice sostegno ritmico a voce solista e melodica. La sua
peculiarità più evidente era l’uso del basso come strumento indipendente, con
linee fluide, spesso in contrappunto alla voce o alla chitarra. Non si limitava
a seguire gli accordi: li ampliava, li complicava, spesso introducendo note di
passaggio cromatiche o scelte armoniche audaci che lo avvicinavano più al jazz
che al blues-rock canonico. Bruce proveniva da una formazione classica (aveva
studiato violoncello) e jazzistica, e questo influenzava sia il suo tocco –
molto articolato e dinamico – sia il suo senso dell’armonia. Nei Cream, ad
esempio, distorceva con un fuzz pieno e saturo, che gli permetteva di occupare
frequenze più alte e di emergere anche in un contesto di power trio, senza mai
perdere precisione o musicalità.
Il suo basso non accompagna: improvvisa, reagisce quasi, e spesso guida. Essendo
anche un ottimo cantante, riusciva a cantare su linee intricate e sincopate,
cosa rarissima tra i bassisti. Ma forse la sua dote più sottovalutata era il
senso della forma: anche nei pezzi più liberi, Bruce costruiva sempre un
discorso compiuto, con un inizio, uno sviluppo e una fine, quasi come se
scrivesse melodie parallele alla voce. In “Politician” (Wheels of Fire, con i
Cream, 1968) il basso è al centro del pezzo: non si limita a sostenere
l’armonia, ma la spezza e ricompone con continui anticipi, ritardi e variazioni.
Ogni strofa presenta piccoli spostamenti ritmici e melodici, che danno l’idea di
un discorso in evoluzione, non ripetitivo. Nella sua carriera solista, questa
caratteristica viene ancor più approfondita. “Smiles and Grins” (Harmony Row,
1971) si profonde in otto minuti in cui il basso assume un ruolo strutturale,
alternando riff, pause e armonizzazioni. Bruce modula, varia, riprende temi come
in una composizione da camera, il tutto attraverso uno sviluppo coerente,
persino architettonico. In “Pieces of Mind” (Out of the Storm, 1974) il basso
lavora in dialettica col piano, disegnando una linea tesa, frammentata, che solo
a tratti si scontra con l’armonia. Un perfetto esempio di come costruire frasi
aperte e narrative, e non meri accompagnamenti. Eppure, anche se sembra assurdo,
limitarsi al suo lavoro al basso significherebbe sminuire la sua figura: Jack
Bruce ha scritto grandissime canzoni, rivelandosi un autore di rara versatilità.
> Jack Bruce ha ridefinito il ruolo del basso elettrico nel rock, trasformandolo
> da semplice sostegno ritmico a voce solista e melodica. La sua peculiarità più
> evidente era l’uso del basso come strumento indipendente, con linee fluide,
> spesso in contrappunto alla voce o alla chitarra.
Nato in Scozia nel 1943, ebbe sin da giovanissimo una formazione eclettica.
Prima di sfondare con i Cream, era un violoncellista che aspirava a fare jazz.
Un’impronta poliedrica che non lo abbandonerà più. Quando nel 1966 si unì a Eric
Clapton e Ginger Baker per formare i Cream, Bruce portò con sé un bagaglio
musicale vastissimo; non a caso nel power trio fu lui a cantare la maggior parte
dei brani e a scriverne la musica, spesso in coppia con il paroliere Pete Brown.
I riff e le melodie di classici come “Sunshine of Your Love”, “White Room” e “I
Feel Free” nascevano dal suo estro, con Brown a fornire testi visionari. Bruce
era di fatto la mente creativa dei Cream, tanto che già all’epoca veniva
riconosciuto come principale autore e voce primaria del gruppo, al pari – se non
più – del celeberrimo Clapton. La sua voce quasi operistica e il suo basso
melodico diedero ai Cream un sound inconfondibile, fondendo potenza blues e
raffinatezza armonica.
Anche all’apice del successo con i Cream, non si adagiò mai sugli allori. Anzi,
la sua curiosità musicale lo portò a spingersi oltre i confini del rock. Nei
pochi anni di attività della band, infuse nei brani elementi di jazz e
improvvisazione, influenze psichedeliche e persino spunti di musica colta.
Questa apertura mentale gettò le basi di tutta la sua carriera successiva: “i
Cream suonavano blues-rock e rock jazzato”, ricordò Bruce, “io ho sempre pensato
al gruppo quasi come a una band jazz, solo che non l’abbiamo mai detto a Eric”.
La battuta tradisce la verità di fondo: Bruce portò nel rock la mentalità libera
del jazzista. Non sorprende quindi che, scioltisi i Cream nel 1968, preferisca
intraprendere strade musicali molto diverse.
Il suo primo album solista, Songs for a Tailor (1969), spiazzò chi si aspettava
un’altra “Sunshine”: niente power trio o lunghe jam, ma canzoni raffinate, dagli
arrangiamenti sofisticati e quasi impossibili da etichettare. Tutti i brani
furono scritti da Bruce insieme a Pete Brown, e mescolavano Canterbury, venature
prog, jazz, accenni folk e barlumi di musica classica. Per alcuni addirittura
troppo eclettico; sicuramente un po’ acerbo nel complesso. Eppure basta
ascoltare “Theme for an Imaginary Western”, probabilmente una delle canzoni più
belle di sempre, per capire che il tentativo non era quello di stupire con
l’eclettismo, ma di scrivere una canzone che avesse il respiro di un paesaggio
interiore. È infatti un brano che sembra esistere fuori dal tempo: lirico,
dolente, epico, eppure contenuto, con cambi di accordo mai prevedibili, e la
voce di Jack – piena, vibrante, malinconica – attraversa tutto con un’intensità
che fa pensare più a Mahler che al rock. È un altro di quei brani in cui emerge,
tra le altre cose, la sua genialità al basso, nel quale costruisce una melodia
indipendente dal basso, che si muove sotto la voce come una seconda linea
narrativa. Non c’è nulla di virtuosistico: tutto è fatto per accompagnare la
drammaticità della canzone, con un senso del pathos che richiama davvero il lied
classico.
> Anche all’apice del successo con i Cream, non si adagiò mai sugli allori.
> Anzi, la sua curiosità musicale lo portò a spingersi oltre i confini del rock.
> Nei pochi anni di attività della band, infuse nei brani elementi di jazz e
> improvvisazione, influenze psichedeliche e persino spunti di musica colta.
Negli anni Settanta Bruce continuò a seguire il suo istinto musicale eclettico.
Harmony Row (1971), il suo terzo album solista, spinse ancora più in là la
ricerca artistica: un’opera intimista, quasi cameristica nel suo intreccio di
pianoforte, basso e batteria, lontana anni luce dal blues-rock mainstream. Si
apre con “Can You Follow?”, una ballata brevissima, appena un minuto e mezzo,
costruita quasi solo su voce e pianoforte, con un arrangiamento essenziale e
malinconico. Il titolo stesso – una domanda semplice, “Can you follow?” – dà il
tono alla canzone: un invito fragile, esitante, sembra parlare del bisogno di
connessione, della paura di restare soli, della difficoltà di comunicare
qualcosa di vero. La voce di Bruce è calda, tremolante, vulnerabile; non c’è
virtuosismo, ma un’intensità quasi struggente. Molti fan la considerano una
delle sue canzoni più emozionanti, anche perché arriva dopo un periodo difficile
della sua vita (problemi di salute, depressione, isolamento, molta droga e molto
alcool). È come se Bruce, da solo al piano, chiedesse a chi ascolta: “Puoi
seguirmi in questo stato d’animo?”.
Segue “Escape to the Royal Wood (On Ice)”, uno dei brani più ermetici della
collaborazione tra Bruce e i testi di Pete Brown. Il titolo stesso – “ Fuga nel
bosco reale (sul ghiaccio)” – è una metafora ambigua, dal sapore mitico.
Potrebbe alludere a una fuga dalla civiltà verso un altrove primitivo o onirico,
ma “on ice” suggerisce qualcosa di instabile, fragile, a rischio di rompersi.
L’immaginario è ricchissimo: si passa da elementi naturali a visioni urbane, da
riflessioni metafisiche a dettagli concreti, con un tono insieme epico e intimo.
Il disco prosegue con splendidi intermezzi con voce e piano (“There’s a
Forest”), sfuriate quasi prog (“Smiles and Grins”) e ballate nostalgiche, ai
limiti del cinematico, come nel caso di “Folk Song”.
La critica britannica gridò al capolavoro – Melody Maker uscì con il titolo “Il
genio di Jack” nelle recensioni – e ancora oggi molti fan lo indicano come
l’album più bello di Bruce. Eppure Harmony Row, a cui l’artista era
personalmente legatissimo, fallì nelle classifiche e rimase un cult per pochi
intenditori. Accadde lo stesso con il successivo, e altrettanto bello, Out of
the Storm (1974). In realtà questo divario tra acclamazione artistica e successo
commerciale fu un leitmotiv della carriera di Bruce. Dopo lo scioglimento dei
Cream, infatti, non riuscì a tradurre la fama iniziale in uno status da rockstar
universale. Mentre Clapton riempiva arene, Bruce pubblicava dischi innovativi
che però vendevano ogni volta meno del precedente, faticando spesso a trovare
supporto dall’industria musicale. Parte della colpa fu di manager e discografici
poco lungimiranti, ma in gioco c’era sicuramente anche la personalità
controcorrente di Bruce.
Lui stesso ammise di aver commesso errori e di non essere “uno facile” nel music
business. Schivo, testardo e perfezionista, preferiva seguire la propria strada
piuttosto che le mode, pagando questa integrità con un relativo isolamento dal
grande pubblico. Era, in fondo, un bassista ammirato dai colleghi, un
professionista instancabile, sempre alla ricerca della perfezione e mai del
tutto soddisfatto, poco incline ai compromessi richiesti dal mercato. Solo per
capire la caratura, suonò con alcuni tra i più grandi, tra cui Jimi Hendrix, Kip
Hanrahan (con il quale produsse alcuni dei suoi dischi più belli), John
McLaughlin, John Mayall, Carla Bley, Tony Williams, Lou Reed (suonando in quasi
tutti i brani dell’iconico Berlin), Billy Cobham, Soft Machine, Frank Zappa (è
suo il basso magmatico nell’incendiaria “Apostrophe’”), Jaco Pastorius, Joe
Bonamassa e molti, molti altri.
> Mentre Clapton riempiva arene, Bruce pubblicava dischi innovativi che però
> vendevano ogni volta meno del precedente, faticando spesso a trovare supporto
> dall’industria musicale.
Anche in mezzo a così tante esplorazioni, Bruce non perse mai di vista la
canzone. Al contrario, anche nei brani più complessi cercava la melodia
memorabile e l’emozione sincera. Il suo perfezionismo era al servizio
dell’espressione artistica, e uno degli strumenti principali di questa
espressione fu la sua voce potente e vibrante; in un’epoca in cui molti bassisti
lasciavano ad altri il ruolo di cantante, Jack Bruce sfoderò un talento vocale
pari al suo virtuosismo strumentale. La sua voce aveva radici nel blues ma
formazione nel canto classico: un timbro tenorile capace di salire in acuto con
intensità soul e al tempo stesso di piegarsi a sfumature delicate. E avere una
voce del genere aiuta molto a scrivere canzoni memorabili: pensiamo a gruppi
come Procol Harum e The Moody Blues, che osavano sperimentare, ma restavano
saldissimi alla solidità della forma canzone.
Queste caratteristiche apparivano già in alcuni brani creamiani come “White
Room”, che devono molto della loro forza emotiva all’interpretazione vocale di
Bruce, drammatica e insieme raffinata. “Aveva una voce incredibile, unica” ha
ricordato il suo amico e collega paroliere Pete Brown, sottolineando come Jack
sapesse passare da toni graffianti a passaggi dolcissimi con una naturalezza
disarmante. In effetti, riascoltando oggi le sue performance, colpisce la
modernità del suo cantato: Bruce poteva essere aggressivo senza mai perdere il
controllo tecnico, e allo stesso tempo comunicare vulnerabilità. Questo è
facilmente riscontrabile nella splendida tripletta iniziale di Out of the Storm
(l’insistente basso di “Pieces of Mind”; la gemma nostalgica “Golden Days”, che
insegna su come trattenere dentro di sé i ricordi più felici, trasformandoli in
guida interiore, attraverso cori e melodie d’altri tempi; la solenne psichedelia
di “Running Trough Our Hands”), un quarto d’ora di magia melodica. Accordi
pianistici sinistramente romantici, arpeggi che provengono dalle più sperdute
vallate del Suffolk e la sua voce, che quasi fanno dimenticare il bassista
eccezionale che è per evocare un polistrumentista completo al servizio della
canzone.
La capacità di scrittura di Jack Bruce non era di certo limitata ai crismi degli
anni Sessanta e Settanta. Adattabilissima ogni volta al suo contesto storico, ma
mai penetrata dalla moda. Un disco come il raffinatissimo I’ve Always Wanted to
Do This (1980) lo avrebbe potuto scrivere Peter Gabriel, con i suoi ritornelli
quasi funk e la sua produzione pomp da arena. Eppure neanche gli Ottanta lo
portarono al successo, tanto che quasi per una decina d’anni non pubblicò i suoi
album con major. L’industria lo voleva a fare bizzarie al basso con qualche
chitarrista energico, sulla scia dei Cream. Non che lui si tirasse indietro, il
Bruce “da circo”, il bassista leggendario da piazzare accanto a una chitarra
ruggente, restava forse l’unico modo per fare soldi in una carriera che aveva
aspettative da rockstar, ma il conto in banca non troppo più alto di quello di
un tournista.
> La sua voce aveva radici nel blues ma formazione nel canto classico: un timbro
> tenorile capace di salire in acuto con intensità soul e al tempo stesso di
> piegarsi a sfumature delicate.
Da questo punto di vista, Around the Next Dream, sotto il nome BBM (Baker,
Bruce, Moore) del 1994 resta una delle operazioni più emblematiche. Venduta come
una sorta di reunion dei Cream, con Bruce al basso, Ginger Baker alla batteria e
Gary Moore alla chitarra (in sostituzione a Clapton) – e Kip Hanrahan alle
percussioni –, nonostante la qualità dei musicisti, il progetto appare costruito
su misura per il pubblico classic rock, e Bruce sembra relegato a replicare sé
stesso. Nel 2005 arriva invece la vera e propria live reunion dei Cream con
Clapton e Baker al Royal Albert Hall. Benché avvenuta molto decenni dopo lo
scioglimento del gruppo, evidenzia come il brand Cream avesse sempre più valore
dell’identità artistica di Bruce. Nel live risulta impeccabile, ma ingabbiato:
la performance è celebrativa, ma poco rischiosa o creativa. La stampa ovviamente
lo riconosce, ma in termini retrospettivi.
Jack Bruce, quindi, non si tirò mai indietro dall’accontentare questa esigenza
dell’industria discografica. Fece quello per tutta la sua carriera, ma anche più
o meno il contrario. I suoi dischi solisti sono abbastanza anarchici e
riflettono le sue idiosincrasie. L’esempio eclatante è rappresentato da
Automatic (1983), gemma synth-pop in cui il nostro si cimenta con il Fairlight,
senza l’ausilio di altri musicisti. Il risultato è un capolavoro sconosciuto.
Solo per il mercato tedesco, prodotto dalla Intercord. Bruce scopre i
sintetizzatori e la loro incredibile potenzialità. Dirà di questo strumento:
“Ero affascinato da quella cosa – era una macchina delle meraviglie che poteva
fare tutto. Potevi avere un’intera orchestra, suoni strani.” Infatti Automatic
inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi One Man And His Box. Anche qui, Bruce non
decide di prodigarsi in dionisiaci smanopolamenti sperimentali, ma di costruire
canzoni vere e proprie, con una struttura geometrica. Ne esce un album almeno
musicalmente variegato, e sintomatico del periodo nero che stava vivendo – in
passato era stato dipendente dall’eroina e da altre sostanze. “Travelling Child”
e “New World” (soprattutto), sono due brani che fanno piangere. Pop perfetto.
> In un mondo musicale sempre più segmentato per generi, la figura di Jack Bruce
> – musicista senza frontiere, autore sofisticato e anima inquieta – risplende
> come quella di un autentico innovatore.
Quella di Jack Bruce è infatti davvero un’esplorazione topografica di ogni
territorio della canzone: le vette elettroniche di Automatic, così distanti dai
Cream e dai suoi primi dischi solisti, ma anche tutto quello che c’è nel mezzo,
per arrivare alle canzoni di sola voce, piano e organo di Monkjack (1995).
Quando si parla di Jack Bruce, tutti pensano al bassista, uno dei più grandi di
sempre. È giusto, ma io, personalmente, penso anche ad altre cose. Oltre a
quelle già citate, penso a canzoni come “Into the Storm”, “Without a Word”,
“Lost Inside a Song”, “Mickey the Fiddler”, “Jet Set Jewel”, “Waiting on a
Word”, “Kelly’s Blues” e tante, tante altre. In un mondo musicale sempre più
segmentato per generi, la figura di Jack Bruce – musicista senza frontiere,
autore sofisticato e anima inquieta – risplende come quella di un autentico
innovatore. Riascoltarlo significa non solo rendere omaggio a uno dei grandi del
rock, ma anche riscoprire canzoni di straordinaria modernità, in bilico perfetto
tra intelletto e cuore.
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Tascabile.