S e si ascolta musica con abbastanza ossessione e compulsività, può avvenire una
metamorfosi della fruizione. Non basta più solo ascoltarla, ma se ne vuole
comprendere il significato. Questa esigenza viene da un sospetto: la sensazione
che dietro ai suoni ci sia qualcosa di molto più grande, come fossero un istmo
in cui si stringe la maestà di un oceano. Allora, il fruitore scopre la critica
musicale.
Il rock criticism – per intendersi, la critica musicale rivolta alla musica pop
– è un canone di testi soprattutto anglofoni che si è sviluppato a partire dalla
nascita del rock’n’roll in America. Chi ci si immerge incontra presto un
proverbio di dubbia attribuzione che vorrebbe affossare il canone stesso:
“Writing about music is like dancing about architecture”. Oltre al fatto che un
balletto classico ispirato alla Reggia di Versailles, o una coreografia hip-hop
che imiti i volumi del MOPOP, il Museum of pop culture di Seattle, sarebbero
quantomeno una cosa interessante a cui assistere, il proverbio non considera che
questo canone vive proprio dell’impossibilità titanica di afferrare l’ineffabile
che sta tra una forma così sfuggente come la musica e una così articolata come
il linguaggio scritto.
A partire dalla fine degli anni Settanta una particolare stagione della critica
rock inizia a prendere di petto quell’impossibilità. Firme come Paul Morley, Ian
Penman, Barney Hoyskyns, poi David Stubbs, Jon Savage e il più acclamato Simon
Reynolds, si armano di apparati filosofici, sociologici, semiotici per guardare
la musica pop come un oggetto culturale complesso, che è un condensato di
circostanze storiche, umane, tecniche. L’idea è che l’oceano intravisto
riverberarsi nella goccia di una canzone sia nientemeno che il suono di un’epoca
intera.
Valerio Mattioli è tra gli autori che in Italia hanno più coltivato questo
approccio interpretativo, per cui scrivere attorno alla musica pop può diventare
un’impresa letteraria a sé stante, con una sua dignità artistica (per quanto
parassitaria rispetto all’arte di riferimento). In questa intervista traccia le
connessioni esistenti tra suoni, contesti socioeconomici, sviluppi tecnologici,
sottoculture giovanili. Il tutto seguendo le trame dei suoi libri: Superonda
(2016), una storia musicale dell’Italia fra gli anni Sessanta e i Settanta;
Remoria (2019), ritratto espressionista-surrealista delle periferie romane;
Exmachina (2022), colonna sonora della trasformazione antropologica mediante cui
l’umano si ibrida con l’agente informatico-cibernetico, e ne viene poi
fagocitato; l’ultimo Novanta (2025), resoconto della frenesia di politica e
musica passata dai centri sociali italiani nel decennio precedente all’11
settembre.
PARTIAMO DA NOVANTA. VORREI METTERLO IN PROSPETTIVA CON ALTRI LIBRI CHE HAI
SCRITTO IN CUI SI PARLA DI MUSICA. IN NOVANTA SI PARLA TANTO DI MUSICA, CI SONO
SEI CAPITOLI SU SEDICI IN CUI È PROTAGONISTA ASSOLUTA. IL TUO PRIMO LAVORO
UNITARIO DI RICERCA È STATO SUPERONDA, CHE HA UN APPROCCIO STORICO, DI STORIA
DELLA CULTURA MUSICALE. POI EXMACHINA, CHE È UNA COSA MOLTO DIVERSA. LÌ IL SUONO
È LO SFONDO, L’AMBIENTAZIONE A CUI GUARDARE PER CAPIRE UN PEZZO DI STORIA
DELL’UMANITÀ. IN NOVANTA INVECE TORNI DI NUOVO SULL’APPROCCIO STORICO, UNA
STORIA DEI MOVIMENTI E DELLE SOTTOCULTURE, IN CUI LA MUSICA È UN PERSONAGGIO –
NON PIÙ L’AMBIENTAZIONE – SEPPURE MOLTO INGOMBRANTE, CHE PERÒ VIVE ANCHE DELLE
RELAZIONI CON ALTRI PROTAGONISTI: LINGUAGGI, IMMAGINARI, MOVIMENTI POLITICI. SE
IN EXMACHINA I SUONI RACCONTANO UN’EPOCA, IN NOVANTA INVECE I SUONI STANNO
DENTRO UN’EPOCA, E INTERAGISCONO CON MOLTI ALTRI FENOMENI CULTURALI NEL CREARNE
L’AFFRESCO. LA COSA CHE AVVICINA QUESTI DUE LAVORI È CHE IN ENTRAMBI I CASI LA
MUSICA È UN PUNTO DI VISTA PRIVILEGIATO PER COMPRENDERE UNA TEMPERIE. PERCHÉ LA
MUSICA E I MODI ESPRESSIVI CHE LE GIRANO INTORNO – VESTITI, ARTI VISIVE,
ATTEGGIAMENTI, GESTI, IN SINTESI, LE CULTURE SONORE – SONO UN PUNTO DI VISTA
COSÌ PRIVILEGIATO PER COGLIERE LO SPIRITO DEL TEMPO?
La musica pop, nel senso più ampio del termine, intesa come musica non colta –
un cappello in cui ci puoi mettere tanto Taylor Swift quanto, che ne so, un
qualche rumorista giapponese che fa noise assassino – è un sensore. E anche un
laboratorio storico della modernità. Questo l’aveva già messo nero su bianco
Jacques Attali negli anni Settanta, nel suo libro che si chiamava Rumori, se non
sbaglio…
La musica lo è da tanti punti di vista. Innanzitutto per il ruolo che ha avuto
nel dopoguerra all’interno del mondo giovanile, e per via del ruolo che il mondo
giovanile ha avuto nella definizione dei meccanismi valoriali, comportamentali,
anche economici, dell’Occidente. Ovviamente stiamo parlando della sfera
occidentale. Quindi c’è questo doppio passaggio che pone la musica come
linguaggio preferenziale per capire i mutamenti del mondo in atto in Occidente
dal dopoguerra in poi. Lo è per… come dire, la sua economia politica.
Poi lo è per il fatto di assumere un linguaggio molto immediato, istintivo.
Cioè: la musica pop per lo più è il prodotto di generazioni giovani che si
mettono a fare la loro cosa senza filtri, senza dover passare per le trafile e
gli ostacoli che sovradeterminano altre forme espressive. Anche la scrittura è
un linguaggio molto istintivo, prendi e ti metti a scrivere. Ma la scrittura è,
innanzitutto, solitaria come attività, mentre la musica pop vive in un punto
strano che sta tra l’autorialità delle persone che questa musica la fanno, e il
pubblico che la riceve. La musica pop vive in questo interstizio, che è già di
per sé una posizione strana. La scrittura è solitaria e poi è descrittiva per
sua natura, mentre la musica, in qualche modo, riesce a incorporare proprio
nelle sue stesse forme il tempo presente, e lo fa in maniera non mediata. E
anche completa, perché è la forma espressiva che più di tutte si confronta con,
per esempio, i cambiamenti tecnologici.
PERCHÉ LI USA.
Sì, perché fanno proprio parte del suo armamentario, e questo è un altro punto.
Dopodiché la musica, come fatto sociale, visto il ruolo che ha sempre avuto
all’interno delle culture giovanili, riesce a coagulare attorno a sé dei
fenomeni che sono più genericamente sociali, che sono poi le varie culture e
sottoculture che vedono nella musica un perno, un punto di partenza. Poi da
questo punto di partenza si allargano per contemplare un discorso di tipo
comportamentale, attitudinale, estetico, e persino filosofico… a volte anche in
senso molto stretto. Ci sono delle culture musicali che hanno dato il la a delle
piccole filosofie, delle teorie, quasi, molto ben definite.
E poi, se prendiamo gli ultimi venticinque anni, guarda caso, proprio la musica
è stata sempre il campo di sperimentazione di tutti i grandi sconvolgimenti a
cui abbiamo assistito con il dilagare dell’era informazionale. Dalle nuove
tecnologie, al file sharing, alle piattaforme, allo streaming, è sempre la
musica il banco di prova. Infatti a me che lavoro con i libri fa sempre un po’
ridere e mi cascano un po’ le braccia a vedere quanto il mondo editoriale è
sempre indietro…
GLI ARRIVANO PER ULTIMO QUESTE TRANSIZIONI?
Non solo gli arrivano per ultimo, è proprio che, essendo un mondo molto chiuso,
molto ignorante a volte, all’editore raramente gli viene in mente… come dire, il
mondo editoriale vive sempre di queste crisi, è sempre in crisi continua. “E non
si vendono i libri, e la lettura non esiste più…” ma non gli viene mai da dire:
“vediamo un po’ che è successo nel mondo della musica cinque anni fa”. Perché
quello che è successo nella musica cinque anni fa, capiterà anche a te. Ma
sicuro capita. Quindi la musica è un sensore, è un ambito che vale la pena
studiare anche per capire quali sono le forme del presente, le forme che si
stanno sperimentando sul momento e che dopo diventeranno lingua comune.
HAI USATO LA PAROLA SENSORE… È UNA PAROLA CHE HO LETTO IN NOVANTA: A UN CERTO
PUNTO, MOLTO RAPIDAMENTE, CITI QUESTA “TEORIA DEL SENSORE STORICO” DI PRIMO
MORONI, BALLERINO, STUDIOSO, SCRITTORE, LIBRAIO, AGITATORE CULTURALE, UN
PERSONAGGIO CHE POI APPROFONDISCI PIÙ AVANTI. MI È SEMBRATO CHE, DOPO AVERLA
MENZIONATA, ACCANTONASSI QUELLA TEORIA; INVECE LA TENEVI COME PRINCIPIO
ORGANIZZATIVO DEL LIBRO. NEL BELLISSIMO PASSAGGIO IN CUI INTRODUCI MILITANT A,
IL PRIMO A INCIDERE UN PEZZO RAP IN ITALIANO, SCRIVI CHE LA SUA “È LA STORIA DI
UN CATALIZZATORE – INVOLONTARIO, FORTUITO, ACCIDENTALE – LE CUI GESTA
RIUSCIRANNO NIENTEMENO A CAMBIARE L’INTERO CORSO DEGLI EVENTI”. POI CONTINUI:
“VA BENE, VA BENE: GLI EVENTI SAREBBERO CAMBIATI ANCHE SENZA DI LUI. MA, A
VOLTE, È COME SE LA STORIA AVESSE BISOGNO DI PICCOLE, SINGOLE ANTENNE CHE CON LE
LORO SEMPLICI AZIONI IMPRIMONO SVOLTE DAGLI ESITI IMPREVISTI”.
Per Primo Moroni il sensore era il Leoncavallo a Milano. Tu osservando quello
che succedeva al Leoncavallo, in teoria, secondo Moroni, potevi farti un’idea di
quale sarebbe stata la situazione complessiva nell’ambito dei movimenti. Per
quanto riguarda il discorso delle singole antenne… sai, in realtà, nonostante
possa sembrare in contraddizione con quello che hai appena letto, non sono di
mio una persona particolarmente interessata alla mitologia personale, al
personalismo che individua nella personalità X una specie di figura cristologica
che da sola cambia il percorso degli eventi. Per esempio è una figura retorica
che si usa molto spesso in buona parte della critica musicale.
TIPO JON LANDAU CON “HO VISTO IL FUTURO DEL ROCK’N’ROLL E IL SUO NOME È BRUCE
SPRINGSTEEN”.
Per esempio, certo. Hai tutta questa mitologia che ti prende Bob Dylan, Bruce
Springsteen, questi nomi “che da soli incarnano”… a me quella roba non
interessa. Penso sia una roba noiosa, che serve ad alimentare una mitologia
interna. Oltretutto è stata drammaticamente smentita proprio dalla storia: non
ti aiuta in realtà a leggere i fenomeni e gli eventi. Invece è più interessante
leggere l’evento musicale nel suo complesso, depersonalizzandolo e capendo quali
sono gli effetti che ha questo fenomeno musicale sul mondo, come si intreccia
con le forme e le lingue che il mondo sta sperimentando in quel dato momento in
cui quella forma musicale emerge. Detto ciò, questo contraddice quello che dico
a proposito di Militant A o quello che, qualche capitolo prima, dico a proposito
di Angela Valcavi, la fondatrice della fanzine dark e goth Amen negli anni
Ottanta. Un giorno entra al Leoncavallo e chiede se possono organizzare un
concerto lì dentro ed è da quel primo contatto che il Leoncavallo, che fino a
quel momento – metà degli anni Ottanta – era un posto di reduci sconfitti dalla
storia, ridiventa il centro del radicalismo estetico-politico milanese. Quindi,
se non fosse stata Angela Valcavi, probabilmente sarebbe stata qualcun’altra, o
qualcun altro. Non fosse stato Militant A a fare Batti il tuo tempo, sarebbe
stato qualcun’altra, qualcun altro. Non voglio personalizzare, però quegli
esempi, in qualche modo, sono dei piccoli glitch. Quello che mi interessa semmai
è come un semplice, piccolo gesto provochi il famoso effetto farfalla. La
lezione che mi piace prendere da cose del genere, è che a volte basta solo un
piccolo passetto oltre, per poi produrre delle conseguenze che sulle prime non
ci si aspetta.
IL TUO STILE DI SCRITTURA E DI PENSIERO, QUESTO MODO DI STUDIARE LE MUSICHE E LE
CULTURE SONORE, GUARDANDO A COME PARLANO CON IL MONDO FONDENDO STORIA,
FILOSOFIA, RIFLESSIONE PERSONALE, CON NEL TUO CASO – PENSO A EXMACHINA – ANCHE
UNA COMPONENTE ROMANZESCA DI ALLUCINAZIONI IMMAGINIFICHE UN PO’ OSCURE… È UNO
STILE CHE DEVE MOLTO A TUTTO UN FILONE DI GIORNALISTI-TEORICI, OVVIAMENTE
REYNOLDS, MA ANCHE TUTTO IL GRUPPO CHE CON LUI HA INVASO LA RIVISTA NEW MUSICAL
EXPRESS TRA FINE ANNI SETTANTA E INIZIO OTTANTA: STUBBS, PRIMA ANCORA PAUL
MORLEY, IAN PENNIMAN, BARNEY HOSKYNS. QUESTI AUTORI HANNO CREATO UNA VISIONE
SPECIFICA DELLA CRITICA MUSICALE, IL CUI CREDO SUONA PIÙ O MENO COME: LA CRITICA
MUSICALE SCONFINA E STRABORDA PER FORZA NELL’ANALISI E NELLA CRITICA CULTURALE A
TUTTO TONDO, NEL MOMENTO IN CUI SI RENDE CONTO CHE LA MUSICA POP È TALMENTE
INVISCHIATA NEL RIBOLLIRE DEL MONDO CHE VA STUDIATA PER FORZA INSIEME AL MONDO.
CIOÈ SE PARLI DI MUSICA, DEVI PER FORZA PARLARE DI TUTTO IL MONDO. SECONDO ME
QUESTO È PROPRIO UN GENERE LETTERARIO A SÉ STANTE CHE DÀ UNA CERTA COMPRENSIONE
DEL MONDO. ANCHE TU ALLA FINE PARLI DEL MONDO: IN EXMACHINA I CAPITOLI SONO
DEDICATI A APHEX TWIN, AUTECHRE E BOARDS OF CANADA, MA IL TEMA VERO È LA
RIVOLUZIONE INFORMATICA. PERÒ NE PARLI IN MODO DIVERSO DA QUELLO CHE FA UN LIBRO
DI STORIA NORMALE. SECONDO ME, QUESTO GENERE LETTERARIO DÀ UN MODO DI
COMPRENDERE LE COSE ECCEZIONALE, PERÒ MOLTO OBLIQUO, UN PO’ INIZIATICO, PERCHÉ
NOI – NOI CON LA NOSTRA FORMAZIONE SCIENTIFICA – NON SIAMO ABITUATI A RAGIONARE
COSÌ. SE PENSO “VOGLIO COMPRENDERE ‒ CHE NE SO ‒ LA RIVOLUZIONE INFORMATICA,
DEVO STUDIARE DEI DATI, DEI FATTI FISICI ED ECONOMICI, MAGARI. CI SEMBRA STRANO
DI POTERNE CARPIRE DEGLI ASPETTI IMPORTANTI A PARTIRE DALLA DESCRIZIONE DEI
SUONI NEI DISCHI PUBBLICATI IN QUEL PERIODO. UNA DESCRIZIONE SPESSO FANTASIOSA E
PERSONALE. PERDONAMI SE È UNO SVARIONE, MA MI FA PENSARE A QUELLO CHE DARIO
FABBRI – NON SO SE SEI FAN…
Per niente!
BENE. MA, DICEVO, MI RICORDA QUELLO CHE LUI, NEL SUO AMBITO, DICE DI FARE CON LA
“GEOPOLITICA UMANA”; LUI DICE CHE QUELLO CHE GLI INTERESSA NON È SPIEGARE GLI
SCENARI INTERNAZIONALI A PARTIRE DAI RAPPORTI ECONOMICI TRA GLI STATI, GLI
ARSENALI MILITARI, MA A PARTIRE DAL SENTIRE COMUNE DELLE POPOLAZIONI, DAI LORO
APPETITI, LE LORO PAURE… È UNA COSA CHE A LIVELLO DI RIGORE SCIENTIFICO È MOLTO
LABILE.
È “molto zero”, direi, più che labile. Ma non è solo un discorso di rigore
scientifico. Ad esempio lui oggettifica determinate sensazioni, traslandole in
un piano deterministico, si può dire.
ESATTO. PERÒ IL PARAGONE LO FACEVO PERCHÉ MI SEMBRA CHE IN QUESTA DECLINAZIONE
MOLTO AMBIZIOSA DELLA CRITICA MUSICALE LA SCOMMESSA È PRENDERE PROPRIO DELLE
SENSAZIONI, QUELLE LEGATE AI SUONI – CHE OVVIAMENTE NON SONO SOLO SENSAZIONI
SOGGETTIVE PERCHÉ SONO INSERITE IN DEI CODICI E ANCHE IN DELLE CONDIZIONI
MATERIALI – E, SÌ, OGGETTIFICARLE IN UNA CERTA MISURA.
Allora, innanzitutto, c’è da fare un distinguo tra i miei libri di cui stiamo
parlando. Superonda che era, diciamo, una storia degli anni Sessanta e Settanta
in Italia proprio a partire dalle musiche, è il libro che è più parente di
quest’ultimo, Novanta. Sono i miei due saggi, ecco, saggi di… boh, storia
culturale, senza voler sembrare troppo roboante. Mentre Exmachina, come il
precedente Remoria, per me sono due romanzi.
REMORIA NON L’HO CITATO PROPRIO PERCHÉ LO CONSIDERAVO UN CASO A PARTE INFATTI,
NARRATIVA PURA.
Remoria è un romanzo fantasy, Exmachina è un romanzo di fantascienza. Poi
purtroppo l’editore… ho provato a insistere con Minimum Fax, a dire “mettiamoli
tra i romanzi!”, però capisco che la forma e il fatto che si agganciassero a
delle cose reali, troppo reali, li hanno condannati alla saggistica, e vabbè.
Però, di fatto, si tratta di due libri molto allucinatori. Da un punto di vista
scientifico sono smontabili in due minuti, entrambi i libri. Nell’ambito
mitopoietico, magari no. Quello che mi interessava era più un discorso di tipo
mitopoietico rispetto sia al tema di Remoria, che era la periferia romana, sia
al tema dell’Intelligenza artificiale, che in realtà era il tema per me alla
base di Exmachina. In Exmachina però c’è anche un dato storico, reale, concreto
e molto dimostrabile, cioè il ruolo che un certo tipo di musica elettronica ha
avuto nella definizione dell’immaginario e dello sguardo sul mondo della Silicon
Valley, banalmente.
SÌ, INFATTI, SI AGGANCIA ANCHE A DEI RAPPORTI ESISTITI TRA PERSONE.
È un legame che secondo me andava indagato. È stato indagato già all’epoca.
Prendi dei testi cruciali degli anni Novanta, per esempio Techgnosis di Erik
Davis, che abbiamo ristampato nel 2023 con Nero: è fondamentale lo sguardo che
Davis ha nel capire la preoccupante ideologia che stava prendendo forma nella
Silicon Valley proprio negli anni Novanta, e l’analisi di Davis delle musiche
elettroniche che costituiscono l’ambiente umorale immersivo dell’epoca. O se
prendi degli autori stracitati adesso, Mark Fisher, tutto il giro CCRU –
Cybernetic Culture Research Unit – ancora negli anni Novanta, nomi che hanno
analizzato in grandissima profondità l’impatto delle tecnologie informatiche dal
loro apparire fino a oggi… Di quelli, chi è sopravvissuto continua a indagare
quell’ambito là, a volte su posizioni preoccupanti, come Nick Land che è
diventato, come sappiamo, un filosofo di estrema destra.
Se tu ti guardi i loro materiali, di quando nacque la CCRU, l’unità di ricerca
sulla cultura cibernetica nata a Warwick in Inghilterra, praticamente tre quarti
dei materiali su cui loro lavorano sono le musiche della cultura elettronica del
periodo, la jungle, la techno e così via. Quindi effettivamente c’è un legame
molto stretto, per quanto Exmachina sia un romanzo di fantascienza. Studiando
l’evoluzione di quel suono, puoi trarre delle indicazioni su cosa, diciamo, la
civiltà delle macchine cela dietro di sé, o quantomeno di qual è l’ideologia che
la muove. Per me è molto importante in Exmachina la parte in cui io prendo gli
Autechre come esempio – e altri avrebbero potuto prendere altri musicisti – ma
tramite loro parlo dell’idea che le macchine abbiano una loro agentività e che
siano delle entità… non è giusto dire entità senzienti, perché appunto sarebbe
ricondurle a una visione antropocentrica. Diciamo, esce fuori l’idea che la
logica generativa che sta dietro la Macchina è destinata a ingigantirsi sempre
più fino a soverchiare, a prendere il sopravvento sull’elemento umano. Questa è
una cosa che tu hai già in quelle musiche là, e che adesso ti ritrovi a
dibattere nei post, su Instagram, di questo problema dell’Intelligenza
artificiale di queste cagate che ci troviamo davanti.
Il dibattito attorno a questi temi adesso è veramente indietro rispetto a quello
che già era stato instillato in maniera poetica, visionaria dai musicisti
elettronici che per primi si interfacciarono al linguaggio della Macchina e che
lo presero sul serio. Questa roba l’aveva intuita bene proprio tutto il giro di
CCRU, per esempio una figura come Kodwo Eshun, il cui Più brillante del sole
abbiamo ripubblicato sempre con Nero nel 2021. Era una roba che nella critica
musicale dell’epoca già era molto presente. Adesso sono passati trent’anni e
probabilmente se uno riprendesse alcune di quelle fonti capirebbe qualcosa di
più. Ti dico, il mio grande dispiacere ‒ a cui però sapevo che sarei andato
incontro ‒ è che Exmachina per me era un libro sull’Intelligenza artificiale,
quindi alla gente che conosco che si occupa di questi temi dico, “Ma sai che ho
scritto un libro su questo? Leggitelo!”; ma chiaramente essendo un libro che
parte dalla musica è stato considerato solo da quelli che seguono la musica.
Questo è lo scotto che devi pagare quando parli di musica. La musica è un
linguaggio sempre un po’ guardato con sufficienza dagli altri ambiti culturali.
Non da tutti, però per esempio nel mondo delle lettere c’è una presunzione di
partenza che è nei libri che tu trovi il cuore, la verità… ecco, la riflessione.
PERCHÉ CI SONO LE PAROLE CHE SONO IL CONCETTO, INVECE IL SUONO È UNA COSA
AMORFA.
È amorfa, però al tempo stesso il suono ha questa capacità di essere totalmente
immateriale ed estremamente materiale, cioè definisce e costruisce un ambiente
all’interno del quale tu ti ritrovi immerso. Questo potere è strano se ci pensi.
Non puoi toccare il suono, però se io adesso accendo quella cassa e metto una
musica a palla, noi siamo dentro un ambiente, siamo intrappolati dentro una
quinta, definita da questo banale spostamento.
COME DICEVI È IMMEDIATO, DICIAMO, NON C’È UN DISTACCO, NON C’È UN FILTRO, NON
PUOI DIRE “IO SONO IO E CAPISCO QUESTA COSA CHE STA FUORI DI ME”.
Esatto, arriva contemporaneamente al corpo, alle membra, e poi al cervello. In
alcuni casi anche allo sguardo, c’è una qualità sinestetica della musica che a
volte è indagata, a volte sottovalutata, però è un’altra delle sue qualità.
SULLA SOTTOVALUTAZIONE DELLA MUSICA NEGLI AMBITI CULTURALI, C’È UN LIBRO DI CUI
VOI AVETE SCRITTO SU NOT, DIALECTIC OF POP DI AGNÈS GAYRAUD. LÌ LEI, CONTRO
ADORNO, PROPONE UNA DIFESA DEL POP COME LINGUAGGIO ESTETICO UNIVERSALE, CAPACE
DI ARTICOLARE UNA RIFLESSIONE SUL MONDO TECNOLOGICO E SULLE FORME DELLA VITA
CONTEMPORANEA – NON SOLO COME PRODOTTO STANDARDIZZATO DELL’INDUSTRIA CULTURALE,
MA COME LUOGO IN CUI SI MANIFESTANO UNA SERIE DI TENSIONI: TRA INDIVIDUO E
COLLETTIVITÀ, TECNICA E SENSIBILITÀ, MATERIA E FORMA… PER LEI IL POP NON È
L’OPPOSTO DELLA TEORIA, MA È GIÀ UNA TEORIA IN ATTO, È FILOSOFIA CHE PASSA
ATTRAVERSO IL SUONO E IL CORPO. IN EXMACHINA, IN MODO SIMILE, TRATTI L’IDM
(INTELLIGENT DANCE MUSIC) COME UN PENSIERO INCARNATO, UNA FILOSOFIA DELLE
MACCHINE. PENSI CHE IN ITALIA ESISTA UN PREGIUDIZIO ADORNIANO CONTRO LA
RILEVANZA CULTURALE E POLITICA DEL POP? HO L’IMPRESSIONE CHE ALTROVE, IN AMBITO
ANGLOFONO AD ESEMPIO, I POPULAR MUSIC STUDIES ABBIANO CONQUISTATO SPAZIO E
DIGNITÀ ACCADEMICA, MENTRE QUI IL POP SEMBRA RESTARE CONFINATO A UN IMMAGINARIO
DI CONSUMO O DI COSTUME.
È chiaro che nel mondo anglofono il pop ha una sua rilevanza perché l’hanno
inventata loro la cultura pop come la conosciamo oggi… ma non ti pensare, nel
senso che se senti lo stesso Simon Reynolds, ti direbbe anche lui che, trattando
di musica, è considerato un autore di serie B. Però è vero che senz’altro nel
mondo anglofono l’attenzione è maggiore, ma anche in Francia, ma anche nella
stessa Spagna. L’Italia è veramente…
NON ERA PER FARE GLI ESTEROFILI COSÌ GRATIS EH, È UN’OSSERVAZIONE.
No, no, senz’altro in Italia più che un pregiudizio c’è una certa… arretratezza.
Poi pare che stai a fare la cantilena “l’Italia rimane sempre indietro”, ma è
vero. C’è un discorso a monte su come è strutturata la cultura italiana, con
l’imprinting classico idealista. E un discorso su come poi questo è stato messo
in discussione da tutta una serie di nomi: il più famoso è Umberto Eco, che
invece prende e ti analizza anche i fumetti. Ma anche Eco muove da una posizione
che distingue i famosi “alto” e “basso”. Non è che ci si deve mettere a litigare
con una figura come Eco, un gigante del Novecento, ma al tempo stesso anche Eco
si muove all’interno di un panorama culturale ancora segnato da
quell’imprinting.
Su Adorno, in realtà, non so quanto ci sia di adorniano nella diffidenza
italiana verso il pop. Anzi, recuperiamolo un po’. Adorno prese senz’altro delle
cantonate micidiali, cioè le sue pagine sul jazz sono comiche sostanzialmente,
perché ti fanno vedere quanto veramente lui non avesse colto, non capisse di
cosa stava parlando. Al tempo stesso Adorno diceva una cosa non sbagliata, cioè
che le musiche popular sono parte di un’economia capitalistica che è fondata
sulla merce e quindi sono anche merce. Questa merce ha anche un valore
filosofico, come dice Dialectics of Pop, ma ce l’ha proprio perché è interna al
meccanismo merce, non si chiama fuori da quel contesto. Recupererei una briciola
adorniana.
In Superonda, si parla un po’ di questo: l’Italia è un Paese strano, perché uno
dei maggiori eventi socialmediatici, sociologici, che arrivano ogni anno, è il
Festival di Sanremo, basato sulla musica, sulle canzonette. Eppure proprio il
modo in cui viene interpretata la presenza della canzonetta in Italia è sempre
qualcosa a metà tra l’epifenomeno e il guizzo folcloristico, cioè non vale mai
la pena prenderla troppo sul serio.
CHE INTENDI PER EPIFENOMENO?
Un fenomeno secondario, un’espressione secondaria di una cultura. E questo poi
si riflette anche nel modo in cui la canzone italiana viene concepita, cioè ha
delle regole molto ferree, molto rigide, un melodismo esasperato, le produzioni.
Sì, l’Italia non è il caso di scuola.
NEL CAPITOLO DI NOVANTA INTITOLATO UNDERGROUND, OVERGROUND, MAINSTREAM, PARLANDO
DI QUELLO CHE ALL’EPOCA NEL ROCK ITALIANO SI CHIAMAVA “CROSSOVER”, CIOÈ BAND
COME BLUVERTIGO E SUBSONICA, SCRIVI CHE QUEI GRUPPI SAREBBERO STATI
INCONCEPIBILI SENZA IL LAVORO PREPARATORIO DEI CENTRI SOCIALI, E IL FATTO CHE
SIANO ARRIVATI DA LÌ A SANREMO “MOSTRA LA FACILITÀ CON CUI IL SISTEMA SAPEVA
ASSORBIRE QUALSIASI SPINTA PROPULSIVA DAL BASSO PER TRASFORMARLA IN MERA MERCE
STERILIZZATA”, E CHE QUINDI “IL CROSSOVER ERA UN MODO COME UN ALTRO DA PARTE
DELL’INDUSTRIA DI COPRIRE UNA FETTA NUOVA DI MERCATO VENENDO INCONTRO AI GUSTI
DI UN PUBBLICO ‘MIDBROW’, TROPPO GIOVANE PER ACCONTENTARSI, MA TROPPO TIMOROSO
PER SPINGERSI DOVE LA RIVOLUZIONE COLAVA DAVVERO”. ALLA LUCE DEL FATTO CHE
ESISTONO QUESTI MECCANISMI TRAMITE CUI IL MERCATO VAMPIRIZZA I SUOI POTENZIALI
NEMICI UNDERGROUND E LI ASSORBE, SECONDO TE È POSSIBILE UNA CONTROCULTURA OGGI?
IN REALTÀ TI HO SENTITO DIRE CHE PREFERISCI USARE IL TERMINE SOTTOCULTURA,
MAGARI MI SPIEGHERAI PERCHÉ. IN QUESTO CASO LA DOMANDA DIVENTA: È POSSIBILE UNA
SOTTOCULTURA CON UNA CARICA ANTAGONISTICA? SECONDO ME QUELLO CHE ACCADE CON I
SOCIAL MEDIA E GLI ALGORITMI È CHE LE SOTTOCULTURE CHE UN TEMPO, FINO AGLI ANNI
NOVANTA, ERANO MOVIMENTI FONDATI SU DEI VALORI, INTERESSI CONDIVISI E DELLE
COMUNITÀ CONCRETE, SOLIDE E CEMENTATE, INVECE ADESSO SEMBRANO INNANZITUTTO
RIDOTTE AL LORO ASPETTO ESTETICO; IN PIÙ SONO DELLE ESTETICHE EFFIMERE E
DECORATIVE, TANT’È CHE SPESSO VENGONO PRESE DI PESO E USATE A FINI DI MARKETING.
NON È RARO VEDERE UN TIPO DI ESTETICA SOTTOCULTURALE CHE DIVENTA LA MOODBOARD DI
UNA CAMPAGNA PUBBLICITARIA, O PROPRIO DI UN PRODOTTO. POI C’È UN ALTRO ASPETTO:
UN ANTROPOLOGO CHE SI CHIAMA TED POLHEMUS SOSTIENE CHE I GIOVANI NON CREANO PIÙ
SOTTOCULTURE, MA SI MUOVONO COME IN UN SUPERMERCATO, ARRAFFANDO E MESCOLANDO
STILI E SIMBOLI PRESI DA SOTTOCULTURE DIVERSE, PASSATE E PRESENTI, SENZA LEGAMI,
RIDUCENDO LE COMUNITÀ A UN INSIEME DI ELEMENTI VISIVI PRIVI DI IDEOLOGIA
CONDIVISA. ALTRI INVECE, COME TIM STOCK, OSSERVANO LA NASCITA DI NUOVE
MICROSOTTOCULTURE ONLINE, MENO LEGATE A ESTETICHE E PIÙ A DETERMINATE NARRAZIONI
O OPINIONI CONDIVISE… TU COME LA PENSI?
Non conosco Ted Polhemus, è importante?
NON LO SO SE È IMPORTANTE, L’HO TROVATO SU INTERNET COME QUALSIASI COSA.
“Ted Polhemus, antropologo americano…” c’è anche la pagina Wikipedia, è del
1947, insomma… In realtà, quello che dici tu, mettendolo in bocca Ted Polhemus,
ricorda molto quello che dice Hiroki Azuma, un teorico giapponese, di cui Nero
ha pubblicato nel 2024 un altro testo dei primi anni Duemila, Otaku. Tu sai
cos’è un otaku?
NO, E NON CONOSCO AZUMA.
Beh, gli otaku di base… Ma che è ’sta foto qua… di Ted Polhemus dico. No, perché
sembra una rock star…
È LUI DA GIOVANE, FORSE? UN MEZZO HIPPIE.
Sì… comunque, in Giappone gli otaku vengono descritti come giovani ragazzi,
perlopiù maschi, appassionati in maniera maniacale di anime, manga e
videogiochi. Costruiscono la loro totale identità sulla passione maniacale per
questi linguaggi della cultura pop. Azuma notava come gli otaku non fossero
soltanto dei ricettori passivi di questi prodotti, ma adottassero uno spirito
che trasformava questi prodotti culturali in data base, cioè degli archivi dove
ci sono diverse tipologie di personaggi, di storie, di estetiche, che poi
venivano assemblati e riutilizzati dagli otaku stessi, secondo una logica che
Azuma chiama di “accumuladati”. Questo effettivamente è l’approccio che trovi
nelle sottoculture online contemporanee che descrivi anche tu, dove c’è questo
prendere di qua e di là per costruire… e non è una logica passiva. In questo
senso l’elemento sottoculturale c’è, è il patchwork… ed è una pratica attiva,
non la svilirei.
Io preferisco il termine sottocultura a controcultura perché l’unico periodo
storico in cui probabilmente ha senso parlare di controcultura, con la C
maiuscola, è quello in cui proprio la stessa controcultura è nata, cioè negli
anni Sessanta e Settanta, in cui, appunto, la cultura giovanile ha preso delle
strade, e dei linguaggi, la musica rock di allora su tutti, interfacciandosi con
l’epoca delle contestazioni giovanili… La controcultura lì si configurava – come
il nome stesso dice – come una cultura contro e alternativa a quella ufficiale.
La guardava da pari a pari, proponendosi come avversaria alla stessa, quindi con
una funzione dialettica rispetto alla cultura ufficiale, alla quale però,
evidentemente, riconosceva uno statuto ineludibile di interlocuzione. Il
paradosso della controcultura, se vogliamo, è che definendosi come cultura
alternativa a quella ufficiale, finiva per ribadire lo statuto della cultura
ufficiale. In quel momento il mondo giovanile contestatario era talmente forte
che poteva effettivamente proporsi come polo alternativo, polo opposto. Di là ci
siete voi, i vecchi, la cultura ufficiale; di qua ci siamo noi, i giovani, con
la cultura nuova basata su valori alternativi e differenti da quelli che ci
propinate voi.
E questo è un discorso che si esaurisce già con lo spegnersi di quella stagione.
Già il punk, per esempio, è una storia diversa, e tutto quello che è emerso
dagli anni Ottanta in poi difficilmente acquisisce quei crismi così
onnicomprensivi della controcultura degli anni Sessanta e dei primi Settanta. La
sottocultura è diversa perché ragiona soprattutto per logiche tribali, cioè: noi
siamo un gruppo piccolo, medio, grande, ma comunque un gruppo che lavora sotto…
ecco, mi piace prendere l’espressione sotto-culturale in termini non svilenti,
ma concentrandoci su quel “sotto”. Non come subcultura, quindi cultura derivata,
ma cultura che opera sotto quella ufficiale, in maniera totalmente slegata: la
cultura ufficiale può avere i suoi valori, a noi non ce ne frega niente, noi
abbiamo i nostri, siamo totalmente autosufficienti e dobbiamo rispondere solo
alle altre persone che condividono questi codici assieme a noi, quindi agli
altri membri interni della tribù. In questo senso il punk era molto più una
sottocultura che una controcultura. Poi le sottoculture, dal punto di vista –
per così dire – ideologico, naturalmente sono molto più ambigue che la
controcultura, la nobile controcultura di un tempo. Ci sono delle sottoculture
che sono profondamente, apertamente reazionarie. Ce ne sono altre, invece, più
ambigue, in cui magari esteriormente le forme sono reazionarie, conservatrici,
preoccupanti, predatorie, ma poi se vai a vedere i codici interni tutto diventa
più scivoloso e complesso.
Per esempio in Remoria io mi concentravo molto sui coatti come sottocultura,
perché da una parte sono questa specie di esaltazione iperviolenta, machista
della vita di borgata, dall’altra se vai a vedere dentro i comportamenti delle
stesse tribù di coatti, scopri un mondo molto più ambiguo, in termini di
relazioni tra sessi per esempio, in termini di come veniva esplicitata la
mascolinità. L’apparenza esteriore celava un rapporto maschio-femmina molto più
articolato di quello che poteva sembrare a uno sguardo esterno. E poi ci sono le
sottoculture che, a partire dalla logica tribale, si impossessano anche di una
critica radicale all’esistente, e là assomigliano più alla controcultura. Anche
negli anni Novanta possiamo parlare di controcultura in questo senso qua. Poi
negli anni Novanta anche in Italia c’era chi continuamente gettava il ponte tra
gli anni Sessanta degli hippie e gli anni Novanta degli hacker cyberpunk. Io,
nel libro penso sia chiaro, trovo poco precisa questa lettura.
Però perché siamo arrivati a parlare di questo? Parlando dell’oggi, senz’altro
ci sono sottoculture. Fino a tempi recentissimi quella memetica era una
sottocultura. Dico fino a tempi recentissimi perché ormai c’è fior fiore di
critica interna alla sottocultura memer stessa su cosa è diventata da qualche
tempo a questa parte, sul fatto che ormai è pura maniera, è tutto troppo
codificato… però se ci pensi quella dei memer è stata una sottocultura che in
alcuni ambiti ha avuto anche, sia da un lato che dall’altro, delle svolte
radicali. C’è stata la cultura memer di destra, che ha definito tutti gli
immaginari dell’alt-right. Però c’è stato anche il suo contraltare. Non lo so, è
strano, perché quello che definiva una sottocultura tribale fino a non molto
tempo fa era anche l’aspetto molto fisico di condivisione degli spazi, dei
corpi. Naturalmente l’online smaterializza tutto e quindi si diluisce anche il
recinto che definisce. Puoi scivolare da un recinto all’altro senza farlo sapere
agli altri. Le sottoculture aiutavano molto anche a definire l’individuo tra sé
e sé, erano uno strumento di empowerment, adesso invece l’identità è sfumata…
però non so dove si può arrivare con questo discorso. Non mi starei a
preoccupare. Ogni stagione ha bisogno dei propri linguaggi.
UN’ULTIMA DOMANDA, SEMPRE SULLE PROSPETTIVE FUTURE, MA IN QUESTO CASO DELLA
MUSICA. IN FUTUROMANIA, SIMON REYNOLDS PERCORRE TUTTI I SUONI CHE HANNO VISTO
LONTANO, LE MUSICHE DEL PASSATO E DEL PRESENTE CHE HANNO EVOCATO IL FUTURO.
NELLA CONTEMPORANEITÀ, AD ESEMPIO, INDIVIDUA ALCUNI ARTISTI DELLA TRAP AMERICANA
ESEMPI ANCORA FUNZIONANTI DI QUESTA SPINTA INNOVATIVA. IL LIBRO SI PONE COME
CONTROCANTO A RETROMANIA, CHE INVECE MOSTRAVA LA TENDENZA DELLA MUSICA POP A
GUARDARE OSSESSIVAMENTE AL SUO PASSATO – E ALLA HAUNTOLOGY DI FISCHER, CHE
DESCRIVE COME CERTI GENERI MUSICALI SIANO PERSEGUITATI DA FANTASMI DEL PASSATO O
DALLA NOSTALGIA PER UN FUTURO NEGATO. SECONDO TE, QUALI SONO OGGI I SUONI DEL
FUTURO? LA MUSICA CONTEMPORANEA RIESCE ANCORA A PROIETTARSI IN AVANTI?
Beh, è un altro discorso molto scivoloso. Empatizzo con Reynolds: così come
altri autori è cresciuto e si è formato in un periodo storico in cui le musiche
pop sembravano seguire un percorso di progressione continua e quindi c’era
evoluzione costante, secondo un moto lineare. Era una freccia che puntava sempre
avanti, che era poi il moto lineare tipico dello sguardo occidentale e del
progresso come ideologia dell’Occidente. Questa freccia a un certo punto è
entrata in un ambiente alieno, straniero, che è appunto quello della Macchina.
L’esito ultimo dello spingere avanti, avanti, avanti, avanti: alla fine si è
oltrepassata una membrana, una soglia che è quella della Macchina, dove questo
moto lineare del tempo non ha più senso, non ha più senso per come ragiona la
Macchina stessa. Quindi anche i prodotti culturali che nascono dal relazionarsi
con la Macchina lo riflettono.
PERCHÉ LA MACCHINA ASSEMBLA COSE CHE GIÀ ESISTEVANO IN PRECEDENZA?
La temporalità della Macchina è diversa. C’è il fatto di assemblare quello che è
stato fatto in precedenza ma c’è anche un moto più spiraliforme in cui elementi
del futuro vengono proiettati dal passato e viceversa. Da qua si è aperto un
dibattito che ci accompagna da vent’anni: dalla lenta cancellazione del futuro
di cui parlava Mark Fisher alla retromania di Simon Reynolds. Qual è la causa?
Il fatto che Internet permette la compresenza di tanti materiali del passato;
poi c’è una sovrapproduzione di materiali e quindi annaspiamo nella
sovrabbondanza di immaginari che produciamo e abbiamo prodotto nei decenni
passati; c’è il realismo capitalista che, certificando che “there is no
alternative” non lascia spazio al nuovo…
Non lo so, io ad esempio in Exmachina mi concentro più su come la Macchina
stessa opera. Siamo in una temporalità di tipo diverso e quindi ragionare sui
suoni del futuro lascia un po’ il tempo che trova. Cioè, se pensi ai suoni, alle
musiche che negli ultimi anni più sono state considerate futuribili, che siano
la trap, la drill, l’hyperpop o le forme di musica da club decostruita, sono in
realtà dei suoni che riflettono un tempo presente. È difficile paragonarle a
quel future shock che poteva avere l’avvento di un genere nuovo nel 1992, quando
arriva la jungle, una roba mai sentita prima. Fino alla settimana prima quel
suono non c’era, la settimana dopo era ovunque, era qualcosa di totalmente
diverso. Di per sé ti faceva dire: “questa è musica del futuro”. Negli anni
Novanta hai tutti questi linguaggi musicali che solleticano il gusto per la
costante tensione verso l’avvenire che, ripeto, ha un’impostazione da sguardo
sul tempo assoluto occidentale. Se prendi altre tradizioni, lo sguardo sul tempo
è diverso e quindi anche quest’ansia che abbiamo sui suoni del futuro viene
meno, non è un motivo di preoccupazione.
Mi chiederei piuttosto quali sono i suoni più “utili” al presente, quelli che ti
aiutano a decodificare meglio il tempo in cui li trovi. Se domani, per
paradosso, capiamo che la musica fatta a voce e chitarra acustica, la forma più
passatista e retrò immaginabile, è importante per noi, ci sarà un motivo e va
preso sul serio proprio perché la musica è, dicevamo all’inizio, un prodotto
immediato e non mediato di circostanze più ampie.
GIÀ È IMPORTANTE LA FORMULA CHITARRA E VOCE, PER ESEMPIO NELLA LO-FI.
Certo. Naturalmente quello che c’è adesso è una parcellizzazione estrema in
microscene minuscole. Però al tempo stesso hai dei linguaggi diventati così
tanto mainstream… ad esempio il rap nelle sue mille sfaccettature ora è una
lingua franca che può mettere d’accordo dalla ragazzina di undici anni che
guarda, che ne so, Soy Luna in televisione – a undici anni magari non se lo
guarda più – al teppista di strada, il maranza.
Bisogna tenere a mente poi che anche quelli che una volta chiamavano suoni del
futuro erano suoni del presente. Non esistono i suoni del futuro. Come sola idea
è strana: da dove arriverebbe un suono del futuro? Negli anni Novanta questo
suono del presente veniva considerato del futuro perché il futuro stesso era un
tema nel presente dei Novanta. Andrebbe un po’ attorcigliata la questione.
Comunque, la Macchina ragiona diversamente.
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“A ddio prince of darkness”: questo il titolo più gettonato al momento della
dipartita del grande Ozzy Osbourne, cantante emblema dei Black Sabbath, ma
soprattutto solista a tutto tondo e pioniere di un’attitudine sonora grazie alla
quale molti artisti campano e hanno campato, semplicemente dilatando frammenti
del Sabbath sound (pensiamo a tutto il movimento doom), oppure velocizzandolo
(il thrash metal tutto), distillandone l’alone oscuro (il gothic), ma anche il
noise (Helmet), e potremmo continuare per ore. Ma attenzione, Ozzy non ha
influenzato solo la zona “dura” della musica, non è solo il padrino dell’heavy
metal: lo testimoniano i peana da parte di gente come Elton John, Billie Eilish,
Lady Gaga, Cyndi Lauper, Duran Duran, Post Malone, Yungblud, insomma il suo
apporto allo scenario mondiale è stato “trasversale”, se non addirittura
“contaminante”. Ma in particolare pochi – a parte Geezer Butler, il bassista dei
Sabbath, che l’ha ricordato come “the prince of laughter” ‒ si sono soffermati
sul fatto che il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma
piuttosto è stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che
poi ha cavalcato.
E quello che ha aperto il vaso di Pandora è stato l’omaggio social che al nostro
hanno rivolto personalità notissime del pop italiano: sì, pop italiano. E la
cosa ha suscitato emozioni discordanti tra la gente: chi non crede a quello che
legge, chi deride senza mezzi termini, chi reagisce con curiosità, chi grida al
complotto e chi fa il superiore, ma pochi che abbiano colto il significato
importantissimo della cosa. Proprio per questo, passiamo in rassegna i nomi di
questi artisti italiani che hanno “osato” ricordare Ozzy senza avere ‒
apparentemente – un pedigree metal o come minimo estremo, e per questo messi
alla gogna dagli “ortodossi” del rock.
> L’omaggio social che hanno rivolto a Ozzy Osbourne personalità notissime del
> pop italiano ha suscitato emozioni discordanti.
Iniziamo dal post che ha fatto più scalpore, quello di Amedeo Minghi: il nostro
ricorda Ozzy come si ricorda un mito personale, rimembrando i momenti in cui
negli anni Settanta, da giovanissimo ‒ ancora lontano dall’exploit Sanremese –
il nostro nelle cantine suonava i Sabbath. Che c’è dei Sabbath e di Ozzy nella
musica di Amedeo, si chiederà il popolino ignaro? Ebbene basterebbe dare uno
sguardo più approfondito al repertorio di Minghi, in particolare al primo disco
del 1973: lì troverete un brano “Candida Sidelia”, il quale senza dubbio
echeggia le gesta di Ozzy. Un brano rock le cui linee vocali ‒ ma anche
l’atmosfera torbida del testo a cura della grande Carla Vistarini ‒ avrebbero
potuto essere cantate dall’artista inglese, il che mette subito Minghi nel
cerchio di chi ha cognizione di causa per parlare di hard rock e affini, a
differenza di chi lo critica e non conosce nulla, neppure di chi si ostinano ad
attaccare. Ovviamente Amedeo si è incazzato abbestia, sentendosi pressato a
dover dimostrare chissà che cosa: basterebbe ricordare ai signorini haters che
“Vattene amore”, sminuita come “Trottolino amoroso”, ha uno dei testi più
surreali che la storia della musica italiana conosca e l’autore è il geniale
Pasquale Panella, meglio conosciuto come il paroliere del periodo bianco di
Battisti, quindi non certo un’educanda.
Segue poi il cordoglio di Red Canzian, il bassista storico dei Pooh che sostituì
Riccardo Fogli e che, proprio prima di entrare nella band più famosa d’Italia,
soleva interpretare “Paranoid” con il suo primo gruppo, probabilmente i
Prototipi (effettivamente la sua voce non sfigurerebbe): anche qui commenti
perplessi ma forse meno stupore, in quanto Red negli anni Settanta suonava nei
Capsicum Red, band prog prodotta dalla Bla Bla, copertina di Gianni Sassi della
Cramps ecc.: ma ricordiamo che anche i Pooh si sono distinti nell’album Opera
prima – nel pieno periodo del successo di “Tanta voglia di lei”, 1971 –
registrando “Il primo e l’ultimo uomo”, un pezzo sfacciatamente hard rock con
delle sonorità e un andazzo vocale – lì però cantava Negrini, poiché Red entrerà
in formazione solo tre anni dopo ‒ che ricorda proprio i Sabbath e Ozzy.
Nonostante questo siamo costretti a vedere Red combattere con gli arroganti
scettici del web, rispondendo a tono con un self control davvero invidiabile.
Poi abbiamo Drupi, che in gioventù divide il palco con Ozzy e disegna un ricordo
di lui e dei Sabbath notevolissimo: nel 1968, ingaggiati probabilmente per
sbaglio in una manifestazione per famiglie a Cesenatico, con obbligo di
abbassare i volumi a mezzanotte, i nostri ovviamente scatenano l’inferno tanto
che l’organizzatore gli toglie la spina e manco li paga. E poi ci sono quelli
che, per ragioni anagrafiche, sono più sospetti e non hanno scuse di “cantine
negli anni Sessanta” nel cassetto: ad esempio Eros Ramazzotti, che però è
effettivamente un patito di hard rock e classic rock (fa testo l’intro di “Le
cose della vita”, per fare un esempio, in cui il nostro schitarra alla grande)
e che qua e là inserisce delle strutture che arrangiate in altra guisa
porterebbero direttamente al modello di riferimento.
> Il “principe delle tenebre” forse non era esattamente così, ma piuttosto è
> stato infilato a forza da stampa e addetti ai lavori in un ruolo che poi ha
> cavalcato.
Federico Zampaglione dei Tiromancino anche lui si prostra innanzi alla salma del
Maestro, con un “se nella vita suono lo devo anche a te”; a molti risulta
difficile credere a una simile cosa, ma chi è informato sa che lo Zampaglione
melenso di “Per me è importante” fece due dischi alternativi come Insisto e
Alone alieno che a tutti gli effetti hanno molti – se non moltissimi – spunti
hard rock, per non parlare del fatto che insieme al fratello Francesco
produssero nel 2011 L’inferno dei vivi, l’ultimo disco in vita di Richard
Benson, che Ozzy – istrionismi a parte – ce lo aveva nelle vene. Viene
semilinciata anche Laura Pausini, solo perché la nostra ‒ incontrandolo a una
manifestazione e scambiandoci due chiacchiere ‒ ricorda Ozzy per la sua
gentilezza, tenendo la musica da parte: ma è anche vero che in molti degli
spettacoli della cantante di Faenza i chitarristi non vengono certo dal mondo
“leggero”, ma anzi sono chiaramente di stampo metal prestato al pop, cosa tra
l’altro abbastanza comune in quel mondo a dimostrazione che le barriere sono
molto sottili.
Angelo Branduardi, dal canto suo, ricorda – in maniera ovviamente ironica ‒ come
molti dopo aver ascoltato la sua musica si siano buttati su Ozzy: noi possiamo
dire che Branduardi col discorso Blizzard aveva in comune un immaginario spesso
fatto di streghe incantesimi e – a bocce ferme – di favole nere, tra l’altro
bazzicando parecchio il mondo medievale britannico fatto di occulto e via
dicendo: ragion per cui i suoi omaggi hanno a che vedere con una chiara fonte di
ispirazione, Osbourne stesso.
Diversa la questione per Cesare Cremonini, che non scrive nulla che possa
attirare critiche ma posta solo una foto in bianco e nero del cantante
britannico. Solo un omaggio dettato dal momento? In realtà no, perché Cremonini
si è dichiaratamente fatto le ossa con l’hard rock, partendo in tenera età coi
Queen e andando poi a ritroso (e ovviamente anche Brian May ha ricordato il
grande Ozzy, senza il quale probabilmente i Queen non avrebbero neanche tirato
fuori gli strumenti dalle custodie). Ragion per cui ogni tipo di “perplessità”
può essere mandata al mittente.
E Vasco Rossi? Beh, uno come Vasco ovviamente non poteva non omaggiare uno dei
suoi grandi maestri: per la capacità comunicativa in primis, e in secondo luogo
– musicalmente – Rossi ha preso qua e là pezzi del rock di Ozzy infilandoli
nelle sue canzoni, così come ha fatto con gli Ac/Dc, i Judas Priest e via
dicendo (a mio modesto parere anche il suo modo di stare sul palco, con quei
momenti gigioneschi e i famosi “eeeh” a braccia spalancate deve molto agli “Uh
yeah” di Ozzy e del suo trascinare la folla come un vero jester). Forse di tutti
gli epitaffi è il più scontato, d’altronde Vasco viene soprannominato “rocker di
Zocca” e negli ultimi tempi rivedeva i suoi pezzi live in chiave “metal” con in
formazione Will Hunt degli Evanescence, tanto per dire.
Enrico Ruggeri anche omaggia il Blizzard, ma nel suo caso c’è un alto tasso di
tolleranza per i trascorsi nei Decibel, che nella loro miscela di punk e hard
rock caratterizzante gli esordi avevano senza dubbio i Sabbath come riferimento
(e poi il fatto che Ruggeri abbia una cultura hard rock piuttosto ampia è cosa
risaputa). Infatti pochi se la sono presa, eppure Ruggeri è l’autore di cose
come “Quello che le donne non dicono”: strano che per questo non sia alla gogna
come i suoi sopracitati colleghi.
Ma la questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia
della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio
perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy: anche perché poi il
concetto di “pesantezza” in musica nel frattempo è mutato ed estremizzato (se
pensiamo al noise rock e derivati) e ascoltare il lavoro del fu ragazzo di
Birmingham oggi non è più respingente come agli esordi (anche se ultimamente
c’è una grande involuzione nel rock, per cui il nostro è uscito di scena
ringiovanito a livello musicale). Anzi, quello è stato il suo punto di forza,
esser riuscito a trasformare il concetto di pop, ma non a negarlo. Nel suo modo
di inseguire i riff di chitarra c’è l’essenzialità del pop: dritto alla bisogna,
niente orpelli.
> La questione di fondo è che Ozzy Osbourne ha sempre fatto pop: la melodia
> della voce è fondamentale, avvinghiante, è la cosa principale anche e proprio
> perché all’interno di un contesto dalle sonorità heavy.
E i suoi punti di riferimento assoluti sono i Beatles: basti guardare l’incontro
tra lui e Paul McCartney nel backstage di un concerto del baronetto, anno 2001:
Ozzy per la prima volta – incredibilmente – lo incontra ed è emozionato come un
ragazzino. Tra l’altro la canzone “I want you (She’s so heavy)” dei Beatles è
incredibilmente Sabbath: esce nel 1969 e, come scritto da Josh Hart e Damian
Fanelli su Guitar World, merita il 34° posto nella loro lista delle “50 canzoni
più pesanti prima dei Black Sabbath” definendo il brano un “bluesy rock” che
“potrebbe aver inavvertitamente dato inizio al doom metal”. Qualcosa vorrà pure
dire: come qualcosa vuol dire quando il nostro interpreta brani “leggeri” nel
repertorio dei Sabbath, come le celeberrime “Changes” e “Planet Caravan”, in cui
la voce diventa espressione di tutta la fragilità e la dolcezza del caso: tant’è
che addirittura i Pantera (in fissa per il brano) praticamente si vergognarono
di includere la loro cover nell’album Far Beyond Driven, scrivendo una “lettera
aperta ai fan” che secondo loro non avrebbero apprezzato la cosa perché troppo
melodica, risolvendo il tutto mandandoli a fanculo (nel live “back to the
beginning” Phil Anselmo si sentirà finalmente libero di cantarla con tutto il
cuore).
Soprattutto nella carriera solista Ozzy darà una grande importanza alle ballad,
come nel caso della storica “Goodbye to romance” (non a caso individuata come
soft rock da vari algoritmi), la stessa “Mama I’m coming home” scritta con un
altro beatlesiano DOC, ovvero Lemmy dei Motorhead, “So tired” che in effetti,
quando fu scelta come secondo singolo per “Barking at the Moon”, vide il
disappunto di molti fans: è vero, nel metal questa cosa delle ballad è
abbastanza diffusa ma ‒ qui sta il bello ‒ è proprio Ozzy ad averne gettato le
basi coi Sabbath. Sabbath che, ricordiamolo, non sono sempre stati a schitarrare
in maniera monolitica, ma hanno anche sconfinato in cose molto più orecchiabili,
sperimentando anche coi sintetizzatori in dischi come Technical Ecstasy e Never
say die!, che se è vero che sono stati il canto del cigno della formazione
storica creandosi anche molti nemici tra la critica e il pubblico, è vero anche
che rappresentano due album coraggiosi seppur imperfetti dove la band si rifiuta
di essere il cliché di se stessa dicendo ad alta voce: “sì ok, non sappiamo dove
stiamo andando, ma sappiamo che stiamo forgiando il pop del futuro”.
> Basta guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza
> di evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente,
> per parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class
> hero”.
Quello della contaminazione tra generi, quello degli esperimenti più o meno
riusciti, quello che sì, abbiamo cantato di temi oscuri ma da sempre questi temi
fanno parte di un discorso popolare, e non ci siamo limitati a quelli; dovevamo
farlo perché, come ricordava Ozzy stesso “Eravamo io e cinque bambini, i miei
fratelli, che vivevamo in una casa con due camere da letto. Mio padre lavorava
di notte, mia madre di giorno, non avevamo soldi, non avevamo mai avuto una
macchina, andavamo raramente in vacanza… E all’improvviso, sai, sentiamo dire
‘Se vai a San Francisco assicurati di mettere un fiore tra i capelli’. E
pensiamo (con disprezzo) ‘Che cazzo è San Francisco? Da dove spunta fuori? Cos’è
questa stronzata dei fiori? Io non ho neanche le scarpe ai piedi!’”. E basta
guardare i funerali di Ozzy in streaming per rendersi conto di che razza di
evento pop sia stato: migliaia di persone a ricordare quello che veramente, per
parafrasare la canzone manifesto di Lennon, è stato un “working class hero”. Dal
pop(olo) veniva, al pop(olo) è tornato. Gli altri continuino pure a guardare la
luna senza abbaiarle contro.
Listen in awe and you’ll hear him
Bark at the moon
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