S crivo questo testo mentre nelle piazze italiane – e, a intensità variabile, di
altri Paesi europei – divampano mobilitazioni moltitudinarie e scioperi massicci
in sostegno alla liberazione del popolo palestinese, segnalando una forte crisi
di consenso e di legittimità delle classi dirigenti europee, complici ed
ipocrite di fronte al genocidio, ma prone alla corsa generale al riarmo.
Potrebbe profilarsi all’orizzonte lo spazio per un’alternativa antifascista ed
emancipatrice contro di esse.
Tattiche e pratiche eterogenee, unite via terra e via mare da un unico obiettivo
comune, ma indipendenti le une dalle altre – flash mob, blocchi dei nodi
logistici dell’invio di armi, boicottaggio delle università e delle aziende
israeliane, blocchi delle infrastrutture della riproduzione, disobbedienza
civile, aiuti umanitari, mozioni popolari, minuti di silenzio, minuti di urla,
digiuno degli operatori sanitari – si rafforzano reciprocamente e si compongono
all’interno di un movimento plurale e diversificato.
Già nel triennio 2019-2022, anche il movimento per la giustizia climatica – non
a caso oggi “confluito” nel movimento di solidarietà internazionalista pro-Pal –
aveva saputo combinare pratiche differenti all’interno di una lotta politica,
poi polverizzata dalle impasse della congiuntura di guerra successiva al 25
febbraio 2022. Le “fiammate” degli ultimi mesi non sarebbero certo possibili
senza il lavoro costante e paziente di collettivi, sindacati e associazioni che,
da molti decenni e negli ultimi due anni, hanno tenacemente insistito sulla
lotta al fianco della Palestina, anche quando le manifestazioni rimanevano
isolate, scarsamente partecipate e quando su di esse calava lo stigma
dell’antisemitismo, nell’ambiguità e nei silenzi dei cosiddetti progressisti.
La potenza accumulata nelle piazze dovrà ora costruire una propria continuità,
coniugando l’allargamento con la capacità organizzativa, nella speranza di
incidere sul lungo periodo e nella consapevolezza che in Palestina si consuma,
accelerandola, una tappa di una tendenza imperialistica alla conquista militare
di territori e risorse, sostenuta dalla riconversione bellica delle economie
mondiali.
> La potenza accumulata nelle piazze dovrà ora coniugare l’allargamento con la
> capacità organizzativa, nella consapevolezza che in Palestina si assiste a una
> tendenza sostenuta dalla riconversione bellica delle economie mondiali.
È una “bella” coincidenza che, proprio in questi giorni, sia arrivata nelle
librerie la traduzione italiana di un libro che ci costringe a riflettere in
questa direzione: Né verticale né orizzontale. Verso una teoria
dell’organizzazione politica, di Rodrigo Nunes, pubblicato nel 2021 in lingua
inglese per Verso Books e tradotto da Enrico Gullo per Edizioni Alegre. È
possibile concepire e costruire una dimensione organizzativa che – mimando
l’eterogeneità dei movimenti sopra menzionati – possa combinare tattiche e
strumenti differenti, che si rafforzano a vicenda invece di competere, e
includere molteplici “anime” in tensione tra loro, ma che condividono un
obiettivo strategico di medio periodo? Per l’autore il passaggio teorico-pratico
necessario è quello di “pensare all’organizzazione come a un’ecologia”, in cui
tutte le componenti, ciascuna nella sua autonomia, condividono un medesimo
ambiente e possono così plasmare e favorire il campo d’azione delle altre. Solo
così sarà forse possibile integrare a livello organizzativo quella molteplicità
che può convivere (e litigare) in un movimento, ma che solitamente si dà forme
organizzative separate e concorrenti.
La diagnosi di Nunes muove dall’evanescenza dello straordinario ciclo di
mobilitazioni globali del 2011 contro l’austerity e la rendita finanziaria,
defluito velocemente, incapace di costruire una durata all’interno delle piazze
occupate, indifeso di fronte alla torsione reazionaria e securitaria che gli si
è poi contrapposta. La sua sensazione – scrive – è quella di aver mancato una
grande e storica opportunità nel 2011, da cui è poi derivato un progressivo
ridimensionamento dell’orizzonte e un senso di impotenza collettiva. Non a caso,
nel decennio successivo, da più parti sia a livello teorico sia a quello
pratico, è stata riproposta la questione dell’organizzazione, dell’articolazione
e della durata. Da angolature eterogenee, irriducibili e talvolta in contrasto
tra loro, si è discusso negli ultimi anni di “crisi dell’immanenza” e di
“istituzioni plebee” (da una prospettiva neomachiavelliana), di “auto-affezione
mediata della moltitudine” e di “effetto di trascendenza nell’immanenza” (da una
prospettiva neospinoziana), di “insurrezione democratica” e di “dualismo di
potere” (da una dichiaratamente neomarxista).
L’esigenza del nostro tempo, approfondita certo dalla crisi della pandemia e
dalla dispersione che ne è succeduta, pare quella di “articolare” quei termini
che, in altre epoche storico-filosofiche, sono stati invece separati: natura e
politica, immanenza e trascendenza, orizzontale e verticale, unità e
molteplicità, insurrezione e democrazia, autonomia ed egemonia, micropolitica e
macropolitica. La gradazione di questo dosaggio, nonché la concettualità più
idonea a esprimerla, resta questione viva e aperta, discutibile più nella
pratica che nella teoria. Ed è all’interno di questo dibattito, che si colloca
il libro di Nunes, redatto proprio tra la fine degli anni Dieci e la pandemia da
Covid-19.
> Per l’autore è necessario “pensare all’organizzazione come a un’ecologia”, in
> cui tutte le componenti, ciascuna nella sua autonomia, condividono un medesimo
> ambiente e possono così plasmare e favorire il campo d’azione delle altre.
Nunes non si abbandona a fantasticherie o idealizzazioni sulla creazione di una
“nuova organizzazione” ma, con un approccio mirabilmente pragmatico, è piuttosto
impegnato a ripensare relazioni più virtuose ed efficaci tra le organizzazioni
già esistenti. Non si tratta, infatti, di “creare” ex novo un’ecologia, perché –
aderendo all’ontologia relazionale di Spinoza – ogni soggetto (individuale o
collettivo) esiste e agisce sempre e soltanto all’interno di una rete di
interdipendenze, attraversato e influenzato dalle affezioni esterne e
dall’ambiente circostante più prossimo, che lo arricchiscono o lo contengono.
Ciascuna cosa consiste, infatti, in un’integrazione di molteplici parti entro e
attraverso una struttura di relazioni che stabilisce l’equilibrio e i limiti di
quella composizione, e che a sua volta è parte di una composizione a un livello
ulteriore. La proposta teorica di Nunes è allora quella di trasformare questa
ontologia transindividuale in azione politica e ripensare a ciò che già esiste
(in primis noi stessi e i gruppi di cui siamo parte) in termini ecologici,
dunque nutrire cooperazione, reciprocità e condivisione di risorse tra nuclei
organizzativi differenti ma accomunati da una strategia condivisa, enfatizzando
i legami che connettono gli uni agli altri.
Da un lato, all’interno di questa ecologia organizzativa, non vige
un’orizzontalità piatta ed esasperata che annulla ogni differenza (di posizione
oggettiva nella struttura sociale e di preparazione politica soggettiva) tra i
nuclei, bensì vi sono prevalenti che possono (e devono) assumere la funzione di
avanguardia in una data congiuntura e punti strutturalmente significativi della
totalità sociale (alcuni più di altri) che possono destabilizzare il sistema.
Dall’altro lato, di fronte ai limiti dell’orizzontalismo e dell’assemblearismo,
non è certo sufficiente richiamare la necessità di un’ecologia organizzativa
maggiormente articolata e integrata, ma vanno affrontanti anche tutti i limiti
che, sull’altro versante, la dimensione organizzativa ha mostrato nel corso del
Novecento, attirando su di sé sospetti e critiche.
Nunes vuole dunque offrire una terapia filosofica al cosiddetto trauma
dell’organizzazione: se per Nunes tale paura dell’organizzazione è storicamente
legata alla torsione autoritaria dei Paesi socialisti, l’inclinazione
identitaria dei vari gruppi della sinistra radicale alle nostre latitudini ha
perpetuato quel trauma anche tra le più giovani generazioni. Si può allora
ripensare l’organizzazione non come la cristallizzazione di un’identità
omogenea, da difendere dalle minacce esterne, ma come l’assemblaggio di parti
molteplici in una potenza collettiva e la concentrazione di questa potenza su
dei punti strategici condivisi. Obiettivi comuni e strategia condivisa segnano
dunque un perimetro entro cui tattiche e “anime” differenti possono non solo
coesistere, bensì arricchirsi reciprocamente: convergere. Per quanto
nell’astrattezza di un libro teorico – il metodo di Nunes suggerisce il netto
realismo di partire dalle forze già esistenti e dalla pratica dell’obiettivo
comune.
All’interno di un’ecologia organizzativa, l’agire politico viene concepito nei
termini dell’azione distribuita. Non si tratta né di un’azione aggregata, quella
che viene spontaneamente ripetuta da molti soggetti senza alcun tipo di
coordinamento, né di strategia comune, né di un’azione collettiva, pianificata
intorno a un centro decisionale che ne stabilisce modi e tempi dell’esercizio. A
lato di questi speculari eccessi – eccesso di dispersione e differenze non
coordinate da un lato, di centralizzazione verticistica dall’altro – l’azione
distribuita è promossa da un nucleo della rete e assunta dagli altri nuclei,
ciascuno secondo le proprie caratteristiche, scale e temporalità, che in questo
modo integrano e modificano lo stimolo iniziale.
> Nunes non si abbandona a fantasticherie sulla creazione di una “nuova
> organizzazione”, ma, con un approccio mirabilmente pragmatico, è piuttosto
> impegnato a ripensare relazioni più virtuose ed efficaci tra le organizzazioni
> già esistenti.
Un nucleo prende un’iniziativa, lancia un percorso e delle parole d’ordine,
aprendo uno spazio in cui altri nuclei posso a loro volta intervenire e
contribuire. Lo stimolo iniziale “condiziona ma non determina” il processo che
ne segue, secondo una logica relazionale e non proprietaria dell’azione
politica. Si genera così un sistema di scambi e risonanze, in cui la
funzione-di-avanguardia del nucleo che per primo innesca l’azione non è visto
con sospetto o gelosia, e in cui una molteplicità di nuclei portano avanti una
lotta comune in forme variegate, su una scala spaziale e temporale più ampia di
quanto un singolo nodo potrebbe fare. I processi organizzativi non sono piatti e
orizzontali, ma al loro interno si differenziano tempi e modi diversi di
attività, funzioni e capacità differenti: tali differenze possono essere
sfruttate per la crescita e l’avanzamento dell’ecologia e la leadership può
circolare da un nucleo all’altro a seconda delle fasi.
Porre il focus sull’azione distribuita permette di partire non da quel che ci
dovrebbe essere, ma da quel che c’è già, un irriducibile dato di pluralità
ecologica, e sottoporlo alla disamina dei nostri obiettivi, non delle nostre
identità. Effettivamente, nelle dinamiche “orizzontaliste” del movimento, i
nuclei spesso si chiudono risentiti in sé stessi quando un altro prende
l’iniziativa senza previo avviso e consenso di tutti gli altri, o senza averne
prima discusso insieme, e così si perdono lo spazio di opportunità e
“traducibilità” che quella ha aperto. O, altrettanto spesso, i vari collettivi
competono nella gara a chi per primo promuove un’iniziativa, invece di
concentrarsi sulla possibile moltiplicazione e risonanza che ogni azione genera.
L’azione distribuita vorrebbe dissolvere questa competizione identitaria e il
tic – tipico di una condizione di impotenza – di accusarsi o sfidarsi l’un
l’altro.
Di fondo, l’orizzontalismo prevederebbe, nel suo ideale, che ogni decisione
venga presa nell’assemblea generale alla presenza di tutte e tutti. Il principio
(sano) della massima condivisione e allargamento scade nella tendenza (malsana)
a rimandare le decisioni all’infinito, quando tutte/i sono presenti e vi è il
tempo di discutere di tutto. Questo feticismo della presenza e sete di
inclusività illimitata riproduce, secondo la critica di Nunes, quel principio di
trascendenza della sovranità contro cui vorrebbe invece battersi. La presenza di
tutte/i in assemblea configura infatti un’entità trascendente e separata, come
se fosse qualcosa di superiore alle relazioni che la creano, che deve
continuamente difendersi dalle minacce (esterne e interne) e affermare il
proprio potere decisionale (fosse anche, per esempio, la decisione della data di
un’iniziativa pubblica) nello spazio dell’ecologia con gli altri nodi.
Come si organizzano insieme i vari nuclei, senza fare assemblea sempre tutte/i
insieme? Pare questa dunque una domanda che il libro ispira, senza darvi una
risposta esaustiva. O – per slittare dal “come” al “chi”, sebbene non sia certo
un passaggio lineare – chi articola l’ecologia e il processo convergente?
Domande che reinterrogano la necessità di una mediazione capace di tessere e
articolare insieme i differenti nuclei. Nunes distingue una mediazione come
forma da una mediazione come forza, e optando per questa seconda, si distanzia
dalle posizioni che vorrebbero elevare una certa forma (il partito) o un certo
simbolo a cerniera tra le varie parti in gioco. La mediazione non è più
concepita come una sintesi superiore tra due termini contrari, bensì come un
equilibrio metastabile tra forze molteplici, variabile a seconda della
situazione in cui si trova ad agire, che conserva tutte le forze in gioco in una
certa proporzione.
Come in fisica due forze A e B che premono in direzioni opposte non si negano
l’un l’altra, ma possono coesistere in un punto di equilibrio, allo stesso modo
un’organizzazione politica non è chiamata a scegliere tra un picchetto, un
comizio, uno spazio sociale o una petizione parlamentare, bensì può combinare
differenti espressioni di una lotta a seconda delle condizioni date. “Se non è
possibile avere tutto insieme (massima identità e massima apertura, massima
centralizzazione e massima democrazia, massima autonomia e massimo
coordinamento…), è necessario averli in misure diverse e in punti diversi,
bilanciati a seconda delle esigenze dell’occasione” (p. 107).
> Nunes vuole offrire una terapia filosofica al cosiddetto trauma
> dell’organizzazione: se tale paura è storicamente legata alla torsione
> autoritaria dei Paesi socialisti, l’inclinazione identitaria dei vari gruppi
> della sinistra radicale ha perpetuato quel trauma anche tra le più giovani
> generazioni.
Mediazione non suona allora come compromesso tra le parti, ma come distribuzione
dei ruoli e differenziazione funzionale. Senza un’assemblea generale che debba
ratificare ogni passaggio e decisione, ciascun nucleo svolge le proprie funzioni
(chi indice il picchetto di fronte ai luoghi di studio o lavoro, chi gestisce
uno spazio sociale, chi offre supporto legale alle occupazioni abitative, chi
conduce una mozione in consiglio): un nodo può svolgere più ruoli
contemporaneamente, magari a intensità differenti, ma nessuno li svolgerà tutti,
né ci sarebbe il bisogno di farlo. E se alcuni nuclei svolgono una medesima
funzione, le loro tensioni possono anche rivelarsi generative e sane, se nessun
nucleo mira a depotenziare l’altro. All’interno dell’ecologia, convivono infatti
più risposte possibili: se si pensa che esista una sola risposta possibile, si
compete contro gli altri nodi al fine di estirpare le false alternative; se si
ammettono più soluzioni possibili, si è meno incentivati a competere e più a
cooperare.
“Pensare davvero le proprie azioni in termini ecologici – secondo Nunes –
significa essere meno aggrappati alla propria immagine di sé” (p. 221): vale a
dire, più concentrati sulle proprie funzioni che sulle proprie posizioni
identitarie, e agire tenendo conto degli altri nuclei della rete, proponendosi
di creare vantaggi e opportunità gli uni per gli altri. Le azioni molteplici
possono rafforzarsi reciprocamente: la “differenziazione funzionale” è uno dei
principi di un’ecologia, in cui ci sono diversi e vari ruoli (il rebel, azione
diretta e conflitto; l’organiser, l’organizzatore politico; gli helpers; gli
advocates, o figure istituzionali) e in cui maggiore è la differenziazione e la
specializzazione dei singoli nuclei, più l’ecologia si espande ed è in salute.
La concezione di mediazione come distribuzione equilibrata di forze non risolve,
nel libro di Nunes, interamente la questione del coordinamento strategico tra le
varie parti: chi coordina, se certo il coordinamento non può darsi
spontaneamente, ma nemmeno può farlo un’assemblea costante di tutte le parti in
gioco? Un nucleo tra gli altri dell’ecologia? Un nucleo separato dell’ecologia,
deputato a questa funzione? Come si forma quell’unità di azione strategica tra
nuclei che tendono alla dispersione? Un mancato chiarimento di questi
interrogativi ha reso spesso precarie le ecologie che abbiamo visto formarsi. La
riflessione di Nunes mette per lo meno sulla strada giusta. Cinque indicazioni,
in particolare, possono essere ricavate.
1) In primo luogo, una critica dell’immediatezza, tanto delle filosofie che la
sostengono, quanto di quelle pratiche che la rivendicano. Se oggi è sempre più
comune affermare il primato delle relazioni (la posizione teorica secondo cui
ogni ente è costituito dalle sue stesse connessioni e soltanto nelle relazioni
possa esistere, esprimersi o trasformarsi) contro ogni sostanzialismo ed
essenzialismo, questa posizione spesso coesiste con una forte richiesta di
immediatezza: l’idea secondo cui tutte le mediazioni debbano essere eliminate e
che le differenze e le singolarità debbano esprimersi così come esistono “di per
sé”. Si tratta di due posizioni inconciliabili. In virtù del fatto che ogni
azione ed espressione è una composizione di molteplici parti, vincolate le une
alle altre in un qualche punto di equilibrio, la struttura di questi “vincoli”
determina una mediazione che connette le parti tra loro ma, al tempo stesso, le
limita. Non è possibile collocarsi all’interno di un’ecologia e, insieme,
rivendicare la piena e istantanea espressione di sé (che sia in una chat, in un
coordinamento o in un’azione). Concepirsi come parzialità significa accettarsi
come parzialità, rinviare la propria espressione ai momenti e alle forme
adeguati agli altri termini della relazione. Un eccesso di immediatezza
determina un sovraccarico del sistema e, con esso, un effetto di entropia non
desiderato. L’ecologia è quella mediazione che espande e arricchisce l’essere
delle sue parti soltanto se queste ne accettano i limiti. Ne deriva quella che
potremmo riassumere come la “positività del limite”: si rinuncia a una libertà
parziale e immediata, per conquistare una forza maggiore. L’autolimitazione
reciproca delle parti di un’ecologia è quella pratica su cui si gioca
l’efficacia di una struttura: la capacità di valorizzare e non di reprimere la
massima forza di ciascun nucleo che ne fa parte.
> All’interno dell’ecologia convivono più risposte possibili: se si pensa che
> esista una sola risposta si compete contro gli altri nodi al fine di estirpare
> le false alternative; se si ammettono più soluzioni possibili, si è meno
> incentivati a competere e più a cooperare.
2) Limiti interni, che sono a loro volta posti dai limiti complessivi della
congiuntura: il problema machiavelliano per eccellenza di adattarsi alle
circostanze esistenti e non pensare che tutto sia sempre illimitatamente
possibile. Contro la melancolica difesa di una qualche purezza ideologica, la
consapevolezza di agire all’interno di limiti determinati e la necessità di far
presa sulla realtà esterna orienta l’azione all’efficacia e, dunque,
all’esigenza di non disperdere o allontanare le forze che condividono i
nostri stessi obiettivi strategici. L’adattamento non è sinonimo né di
opportunismo conciliante, né di cinismo amorale, ma si inscrive in un progetto
di trasformazione della società. Come suggerisce Nunes, si tratta di “espandere
il regno delle possibilità, cioè i fini, nelle condizioni date”: “non si tratta
solo di agire nei limiti dati, ma di agire su quei limiti per trasformarli” (p.
328). Il comportamento collettivo o aggregato non può essere troppo lontano
rispetto alle condizioni esistenti o non sarà praticabile (forse l’eccesso di
soggettivismo della sinistra rivoluzionaria negli ultimi decenni), né troppo
vicino da perdere ogni distanza critica e obiettivo trasformativo (il problema
della sedicente sinistra tecnocratica e riformista). Si tratta di mirare al
“massimo del cambiamento possibile nei limiti esistenti” (p. 344). Il realismo
si traduce non in una politica della prudenza estrema e dello stare dentro
limiti stabiliti, ma in una politica sperimentale: “essere radicali in rapporto
a una circostanza concreta”, sostenere e amplificare ciò che già esiste
nell’ecologia, facendo attenzione a non danneggiare le condizioni che rendono
possibili le azioni altrui.
3) Egemonia e cura, spinta e ascolto, non sono necessariamente pratiche
alternative, ma possono combinarsi all’interno di relazioni ecologiche. Ogni
attore può esercitare legittimamente il massimo di egemonia di cui è capace
sugli altri nuclei, ossia il proprio potere di influenzare il corso
dell’ecologia, ma al tempo stesso prendersi la massima cura di non metterla a
repentaglio. Da un lato, qualunque spinta deve andare nella direzione
dell’obiettivo comune e sostenere il processo, senza ambire a controllarlo
interamente. Dall’altro, si riconosce l’egemonia – con la correlata “funzione”
di leadership – come un aspetto ineliminabile della politica. Dare avvio a un
comportamento collettivo ed “essere seguiti” non si traduce nella volontà di
costringere gli altri a fare una cosa, ma in quella di moltiplicare la potenza
collettiva su dei punti di lotta specifici, concentrati e non eccessivamente
dispersi (qui la differenza tra funzione-di-leadership e
posizione-di-leadership). Spingere i nuclei di un’ecologia verso un’azione fa
parte di un’ecologia in salute, attraversata da inevitabili tensioni interne,
quando questo non è finalizzato alla riproduzione di un’identità, ma alla
concentrazione della potenza collettiva su qualche punto strategico, e si
accetta che la propagazione di quell’azione non sia interamente allineata
all’input iniziale.
4) Partito ed ecologia organizzativa non sono la stessa cosa. Il partito non
rappresenta né la totalità dell’ecologia, la riunione di tutte le istanze, né la
forma più avanzata della coscienza (e dell’organizzazione) della molteplicità.
Nunes rinuncia a queste concezioni tradizionali del partito e lo circoscrive a
una funzione per lo più comunicativa: il partito come megafono mediatico, dedito
alla necessità di influenzare un’opinione pubblica esterna ai circuiti
dell’attivismo, all’occupazione degli spazi mediatici mainstream, ad articolare
interessi differenti in un’identità comune al di là di quelle già esistenti, e
dunque a guadagnarsi il sostegno di quelle parti di società non politicamente
attive.
Il partito raccoglie le istanze dei nuclei dell’ecologia, riceve da questi
direzionalità strategica con apertura e flessibilità, al pari di ogni nucleo
dell’ambiente condiviso, ma ciò che lo distingue dagli altri è la funzione
precipua di comunicare quelle istanze all’esterno dell’ecologia, nei settori
non-organizzati, dunque di fare mediazioni tra settori differenti e ottenere
consensi trasversali. Non significa che questa funzione sia svolta solamente e
interamente dal partito, ma che il partito ha questa come funzione principale,
in un quadro di distribuzione delle funzioni sopra menzionato. Nunes esce dunque
dallo schema tipico di un certo pensiero della sinistra radicale, quello della
“verticalizzazione”: non si tratta di verticalizzare le lotte sociali nel campo
della rappresentanza, ma di amplificarle nel campo della lotta mediatica e
ideologica e di permettere così che queste crescano e diano maggior forza al
partito stesso.
> Non si tratta di verticalizzare le lotte sociali nel campo della
> rappresentanza, ma di amplificarle nel campo della lotta mediatica e
> ideologica e di permettere così che queste crescano e diano maggior forza al
> partito stesso.
Nel far menzione del partito e della sua funzione, Nunes non chiarisce né il
problema del rapporto con lo Stato né propone un’analisi dei media su cui
combattere la lotta ideologica. Se da un lato viene rifiutata la posizione
appellista secondo cui il potere non risiede più nelle istituzioni dello Stato,
dall’altro viene accolta una certa parte di questa posizione, come dimostrato
dal fallimento del governo greco nel 2015 e dall’espansione globale delle catene
del valore, che supera ogni spazio di sovranità politica. Per quanto limitato,
il potere delle istituzioni pubbliche non è annullato e anzi ancora esercita una
tutela fondamentale degli interessi del capitale e la riproduzione della
forza-lavoro. Il potere dello Stato e la sua “autonomia relativa” sono emersi
durante la fase più acuta della pandemia. Nell’attuale e profonda
disarticolazione e competizione tra le istituzioni e i poteri dello Stato, forse
bisognerebbe chiarire a quale livello istituzionale possa collocarsi una
strategia della trasformazione sociale. Né, forse, si può parlarne in astratto,
ma ogni Stato presenta differenti caratteristiche istituzionali e attuali
condizioni di esercizio del potere. Allo stesso modo, il funzionamento
dell’arena mediatica viene menzionato ma non approfondito. La discussione
collettiva del libro potrà forse riprendere alcuni di questi problemi.
5) Separare interno ed esterno non pare più realmente possibile, né tanto meno
utile: isolare un soggetto politico dall’ambiente esterno, o pensarlo come
sovrano di quello spazio (imperium in impero) e capace di plasmarlo interamente,
è fallace e illusorio. Un sistema è sempre trasformato e modificato dalle
informazioni e dagli stimoli esterni. Auto-organizzazione è sempre, in parte,
etero-organizzazione, se una molteplicità di elementi all’interno di un ambiente
condiviso si influenzano gli uni con gli altri, aprendo o limitando il campo di
possibilità degli altri. Ne risulta che l’organizzazione sia sempre un dosaggio
contingente e variabile, a seconda della congiuntura, di auto- ed
etero-organizzazione, non la prevalenza di un termine sull’altro. Lo spinozismo
di cui abbiamo bisogno oggi ci mostra proprio questa reciprocità del dentro e
del fuori: molteplicità ed eterogeneità sono punti di forza se articolate
all’interno di un dispositivo di etero-determinazioni reciproche, in cui
ciascuna parte è al tempo stesso arricchita e limitata dalle altre.
L'articolo Né orizzontale né verticale di Rodrigo Nunes proviene da Il
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