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Né orizzontale né verticale di Rodrigo Nunes
S crivo questo testo mentre nelle piazze italiane – e, a intensità variabile, di altri Paesi europei – divampano mobilitazioni moltitudinarie e scioperi massicci in sostegno alla liberazione del popolo palestinese, segnalando una forte crisi di consenso e di legittimità delle classi dirigenti europee, complici ed ipocrite di fronte al genocidio, ma prone alla corsa generale al riarmo. Potrebbe profilarsi all’orizzonte lo spazio per un’alternativa antifascista ed emancipatrice contro di esse. Tattiche e pratiche eterogenee, unite via terra e via mare da un unico obiettivo comune, ma indipendenti le une dalle altre – flash mob, blocchi dei nodi logistici dell’invio di armi, boicottaggio delle università e delle aziende israeliane, blocchi delle infrastrutture della riproduzione, disobbedienza civile, aiuti umanitari, mozioni popolari, minuti di silenzio, minuti di urla, digiuno degli operatori sanitari – si rafforzano reciprocamente e si compongono all’interno di un movimento plurale e diversificato. Già nel triennio 2019-2022, anche il movimento per la giustizia climatica – non a caso oggi “confluito” nel movimento di solidarietà internazionalista pro-Pal – aveva saputo combinare pratiche differenti all’interno di una lotta politica, poi polverizzata dalle impasse della congiuntura di guerra successiva al 25 febbraio 2022. Le “fiammate” degli ultimi mesi non sarebbero certo possibili senza il lavoro costante e paziente di collettivi, sindacati e associazioni che, da molti decenni e negli ultimi due anni, hanno tenacemente insistito sulla lotta al fianco della Palestina, anche quando le manifestazioni rimanevano isolate, scarsamente partecipate e quando su di esse calava lo stigma dell’antisemitismo, nell’ambiguità e nei silenzi dei cosiddetti progressisti. La potenza accumulata nelle piazze dovrà ora costruire una propria continuità, coniugando l’allargamento con la capacità organizzativa, nella speranza di incidere sul lungo periodo e nella consapevolezza che in Palestina si consuma, accelerandola, una tappa di una tendenza imperialistica alla conquista militare di territori e risorse, sostenuta dalla riconversione bellica delle economie mondiali. > La potenza accumulata nelle piazze dovrà ora coniugare l’allargamento con la > capacità organizzativa, nella consapevolezza che in Palestina si assiste a una > tendenza sostenuta dalla riconversione bellica delle economie mondiali. È una “bella” coincidenza che, proprio in questi giorni, sia arrivata nelle librerie la traduzione italiana di un libro che ci costringe a riflettere in questa direzione: Né verticale né orizzontale. Verso una teoria dell’organizzazione politica, di Rodrigo Nunes, pubblicato nel 2021 in lingua inglese per Verso Books e tradotto da Enrico Gullo per Edizioni Alegre. È possibile concepire e costruire una dimensione organizzativa che – mimando l’eterogeneità dei movimenti sopra menzionati – possa combinare tattiche e strumenti differenti, che si rafforzano a vicenda invece di competere, e includere molteplici “anime” in tensione tra loro, ma che condividono un obiettivo strategico di medio periodo? Per l’autore il passaggio teorico-pratico necessario è quello di “pensare all’organizzazione come a un’ecologia”, in cui tutte le componenti, ciascuna nella sua autonomia, condividono un medesimo ambiente e possono così plasmare e favorire il campo d’azione delle altre. Solo così sarà forse possibile integrare a livello organizzativo quella molteplicità che può convivere (e litigare) in un movimento, ma che solitamente si dà forme organizzative separate e concorrenti. La diagnosi di Nunes muove dall’evanescenza dello straordinario ciclo di mobilitazioni globali del 2011 contro l’austerity e la rendita finanziaria, defluito velocemente, incapace di costruire una durata all’interno delle piazze occupate, indifeso di fronte alla torsione reazionaria e securitaria che gli si è poi contrapposta. La sua sensazione – scrive – è quella di aver mancato una grande e storica opportunità nel 2011, da cui è poi derivato un progressivo ridimensionamento dell’orizzonte e un senso di impotenza collettiva. Non a caso, nel decennio successivo, da più parti sia a livello teorico sia a quello pratico, è stata riproposta la questione dell’organizzazione, dell’articolazione e della durata. Da angolature eterogenee, irriducibili e talvolta in contrasto tra loro, si è discusso negli ultimi anni di “crisi dell’immanenza” e di “istituzioni plebee” (da una prospettiva neomachiavelliana), di “auto-affezione mediata della moltitudine” e di “effetto di trascendenza nell’immanenza” (da una prospettiva neospinoziana), di “insurrezione democratica” e di “dualismo di potere” (da una dichiaratamente neomarxista). L’esigenza del nostro tempo, approfondita certo dalla crisi della pandemia e dalla dispersione che ne è succeduta, pare quella di “articolare” quei termini che, in altre epoche storico-filosofiche, sono stati invece separati: natura e politica, immanenza e trascendenza, orizzontale e verticale, unità e molteplicità, insurrezione e democrazia, autonomia ed egemonia, micropolitica e macropolitica. La gradazione di questo dosaggio, nonché la concettualità più idonea a esprimerla, resta questione viva e aperta, discutibile più nella pratica che nella teoria. Ed è all’interno di questo dibattito, che si colloca il libro di Nunes, redatto proprio tra la fine degli anni Dieci e la pandemia da Covid-19. > Per l’autore è necessario “pensare all’organizzazione come a un’ecologia”, in > cui tutte le componenti, ciascuna nella sua autonomia, condividono un medesimo > ambiente e possono così plasmare e favorire il campo d’azione delle altre. Nunes non si abbandona a fantasticherie o idealizzazioni sulla creazione di una “nuova organizzazione” ma, con un approccio mirabilmente pragmatico, è piuttosto impegnato a ripensare relazioni più virtuose ed efficaci tra le organizzazioni già esistenti. Non si tratta, infatti, di “creare” ex novo un’ecologia, perché – aderendo all’ontologia relazionale di Spinoza – ogni soggetto (individuale o collettivo) esiste e agisce sempre e soltanto all’interno di una rete di interdipendenze, attraversato e influenzato dalle affezioni esterne e dall’ambiente circostante più prossimo, che lo arricchiscono o lo contengono. Ciascuna cosa consiste, infatti, in un’integrazione di molteplici parti entro e attraverso una struttura di relazioni che stabilisce l’equilibrio e i limiti di quella composizione, e che a sua volta è parte di una composizione a un livello ulteriore. La proposta teorica di Nunes è allora quella di trasformare questa ontologia transindividuale in azione politica e ripensare a ciò che già esiste (in primis noi stessi e i gruppi di cui siamo parte) in termini ecologici, dunque nutrire cooperazione, reciprocità e condivisione di risorse tra nuclei organizzativi differenti ma accomunati da una strategia condivisa, enfatizzando i legami che connettono gli uni agli altri. Da un lato, all’interno di questa ecologia organizzativa, non vige un’orizzontalità piatta ed esasperata che annulla ogni differenza (di posizione oggettiva nella struttura sociale e di preparazione politica soggettiva) tra i nuclei, bensì vi sono prevalenti che possono (e devono) assumere la funzione di avanguardia in una data congiuntura e punti strutturalmente significativi della totalità sociale (alcuni più di altri) che possono destabilizzare il sistema. Dall’altro lato, di fronte ai limiti dell’orizzontalismo e dell’assemblearismo, non è certo sufficiente richiamare la necessità di un’ecologia organizzativa maggiormente articolata e integrata, ma vanno affrontanti anche tutti i limiti che, sull’altro versante, la dimensione organizzativa ha mostrato nel corso del Novecento, attirando su di sé sospetti e critiche. Nunes vuole dunque offrire una terapia filosofica al cosiddetto trauma dell’organizzazione: se per Nunes tale paura dell’organizzazione è storicamente legata alla torsione autoritaria dei Paesi socialisti, l’inclinazione identitaria dei vari gruppi della sinistra radicale alle nostre latitudini ha perpetuato quel trauma anche tra le più giovani generazioni. Si può allora ripensare l’organizzazione non come la cristallizzazione di un’identità omogenea, da difendere dalle minacce esterne, ma come l’assemblaggio di parti molteplici in una potenza collettiva e la concentrazione di questa potenza su dei punti strategici condivisi. Obiettivi comuni e strategia condivisa segnano dunque un perimetro entro cui tattiche e “anime” differenti possono non solo coesistere, bensì arricchirsi reciprocamente: convergere. Per quanto nell’astrattezza di un libro teorico – il metodo di Nunes suggerisce il netto realismo di partire dalle forze già esistenti e dalla pratica dell’obiettivo comune. All’interno di un’ecologia organizzativa, l’agire politico viene concepito nei termini dell’azione distribuita. Non si tratta né di un’azione aggregata, quella che viene spontaneamente ripetuta da molti soggetti senza alcun tipo di coordinamento, né di strategia comune, né di un’azione collettiva, pianificata intorno a un centro decisionale che ne stabilisce modi e tempi dell’esercizio. A lato di questi speculari eccessi – eccesso di dispersione e differenze non coordinate da un lato, di centralizzazione verticistica dall’altro – l’azione distribuita è promossa da un nucleo della rete e assunta dagli altri nuclei, ciascuno secondo le proprie caratteristiche, scale e temporalità, che in questo modo integrano e modificano lo stimolo iniziale. > Nunes non si abbandona a fantasticherie sulla creazione di una “nuova > organizzazione”, ma, con un approccio mirabilmente pragmatico, è piuttosto > impegnato a ripensare relazioni più virtuose ed efficaci tra le organizzazioni > già esistenti. Un nucleo prende un’iniziativa, lancia un percorso e delle parole d’ordine, aprendo uno spazio in cui altri nuclei posso a loro volta intervenire e contribuire. Lo stimolo iniziale “condiziona ma non determina” il processo che ne segue, secondo una logica relazionale e non proprietaria dell’azione politica. Si genera così un sistema di scambi e risonanze, in cui la funzione-di-avanguardia del nucleo che per primo innesca l’azione non è visto con sospetto o gelosia, e in cui una molteplicità di nuclei portano avanti una lotta comune in forme variegate, su una scala spaziale e temporale più ampia di quanto un singolo nodo potrebbe fare. I processi organizzativi non sono piatti e orizzontali, ma al loro interno si differenziano tempi e modi diversi di attività, funzioni e capacità differenti: tali differenze possono essere sfruttate per la crescita e l’avanzamento dell’ecologia e la leadership può circolare da un nucleo all’altro a seconda delle fasi. Porre il focus sull’azione distribuita permette di partire non da quel che ci dovrebbe essere, ma da quel che c’è già, un irriducibile dato di pluralità ecologica, e sottoporlo alla disamina dei nostri obiettivi, non delle nostre identità. Effettivamente, nelle dinamiche “orizzontaliste” del movimento, i nuclei spesso si chiudono risentiti in sé stessi quando un altro prende l’iniziativa senza previo avviso e consenso di tutti gli altri, o senza averne prima discusso insieme, e così si perdono lo spazio di opportunità e “traducibilità” che quella ha aperto. O, altrettanto spesso, i vari collettivi competono nella gara a chi per primo promuove un’iniziativa, invece di concentrarsi sulla possibile moltiplicazione e risonanza che ogni azione genera. L’azione distribuita vorrebbe dissolvere questa competizione identitaria e il tic – tipico di una condizione di impotenza – di accusarsi o sfidarsi l’un l’altro. Di fondo, l’orizzontalismo prevederebbe, nel suo ideale, che ogni decisione venga presa nell’assemblea generale alla presenza di tutte e tutti. Il principio (sano) della massima condivisione e allargamento scade nella tendenza (malsana) a rimandare le decisioni all’infinito, quando tutte/i sono presenti e vi è il tempo di discutere di tutto. Questo feticismo della presenza e sete di inclusività illimitata riproduce, secondo la critica di Nunes, quel principio di trascendenza della sovranità contro cui vorrebbe invece battersi. La presenza di tutte/i in assemblea configura infatti un’entità trascendente e separata, come se fosse qualcosa di superiore alle relazioni che la creano, che deve continuamente difendersi dalle minacce (esterne e interne) e affermare il proprio potere decisionale (fosse anche, per esempio, la decisione della data di un’iniziativa pubblica) nello spazio dell’ecologia con gli altri nodi. Come si organizzano insieme i vari nuclei, senza fare assemblea sempre tutte/i insieme? Pare questa dunque una domanda che il libro ispira, senza darvi una risposta esaustiva. O – per slittare dal “come” al “chi”, sebbene non sia certo un passaggio lineare – chi articola l’ecologia e il processo convergente? Domande che reinterrogano la necessità di una mediazione capace di tessere e articolare insieme i differenti nuclei. Nunes distingue una mediazione come forma da una mediazione come forza, e optando per questa seconda, si distanzia dalle posizioni che vorrebbero elevare una certa forma (il partito) o un certo simbolo a cerniera tra le varie parti in gioco. La mediazione non è più concepita come una sintesi superiore tra due termini contrari, bensì come un equilibrio metastabile tra forze molteplici, variabile a seconda della situazione in cui si trova ad agire, che conserva tutte le forze in gioco in una certa proporzione. Come in fisica due forze A e B che premono in direzioni opposte non si negano l’un l’altra, ma possono coesistere in un punto di equilibrio, allo stesso modo un’organizzazione politica non è chiamata a scegliere tra un picchetto, un comizio, uno spazio sociale o una petizione parlamentare, bensì può combinare differenti espressioni di una lotta a seconda delle condizioni date. “Se non è possibile avere tutto insieme (massima identità e massima apertura, massima centralizzazione e massima democrazia, massima autonomia e massimo coordinamento…), è necessario averli in misure diverse e in punti diversi, bilanciati a seconda delle esigenze dell’occasione” (p. 107). > Nunes vuole offrire una terapia filosofica al cosiddetto trauma > dell’organizzazione: se tale paura è storicamente legata alla torsione > autoritaria dei Paesi socialisti, l’inclinazione identitaria dei vari gruppi > della sinistra radicale ha perpetuato quel trauma anche tra le più giovani > generazioni. Mediazione non suona allora come compromesso tra le parti, ma come distribuzione dei ruoli e differenziazione funzionale. Senza un’assemblea generale che debba ratificare ogni passaggio e decisione, ciascun nucleo svolge le proprie funzioni (chi indice il picchetto di fronte ai luoghi di studio o lavoro, chi gestisce uno spazio sociale, chi offre supporto legale alle occupazioni abitative, chi conduce una mozione in consiglio): un nodo può svolgere più ruoli contemporaneamente, magari a intensità differenti, ma nessuno li svolgerà tutti, né ci sarebbe il bisogno di farlo. E se alcuni nuclei svolgono una medesima funzione, le loro tensioni possono anche rivelarsi generative e sane, se nessun nucleo mira a depotenziare l’altro. All’interno dell’ecologia, convivono infatti più risposte possibili: se si pensa che esista una sola risposta possibile, si compete contro gli altri nodi al fine di estirpare le false alternative; se si ammettono più soluzioni possibili, si è meno incentivati a competere e più a cooperare. “Pensare davvero le proprie azioni in termini ecologici – secondo Nunes – significa essere meno aggrappati alla propria immagine di sé” (p. 221): vale a dire, più concentrati sulle proprie funzioni che sulle proprie posizioni identitarie, e agire tenendo conto degli altri nuclei della rete, proponendosi di creare vantaggi e opportunità gli uni per gli altri. Le azioni molteplici possono rafforzarsi reciprocamente: la “differenziazione funzionale” è uno dei principi di un’ecologia, in cui ci sono diversi e vari ruoli (il rebel, azione diretta e conflitto; l’organiser, l’organizzatore politico; gli helpers; gli advocates, o figure istituzionali) e in cui maggiore è la differenziazione e la specializzazione dei singoli nuclei, più l’ecologia si espande ed è in salute. La concezione di mediazione come distribuzione equilibrata di forze non risolve, nel libro di Nunes, interamente la questione del coordinamento strategico tra le varie parti: chi coordina, se certo il coordinamento non può darsi spontaneamente, ma nemmeno può farlo un’assemblea costante di tutte le parti in gioco? Un nucleo tra gli altri dell’ecologia? Un nucleo separato dell’ecologia, deputato a questa funzione? Come si forma quell’unità di azione strategica tra nuclei che tendono alla dispersione? Un mancato chiarimento di questi interrogativi ha reso spesso precarie le ecologie che abbiamo visto formarsi. La riflessione di Nunes mette per lo meno sulla strada giusta. Cinque indicazioni, in particolare, possono essere ricavate. 1) In primo luogo, una critica dell’immediatezza, tanto delle filosofie che la sostengono, quanto di quelle pratiche che la rivendicano. Se oggi è sempre più comune affermare il primato delle relazioni (la posizione teorica secondo cui ogni ente è costituito dalle sue stesse connessioni e soltanto nelle relazioni possa esistere, esprimersi o trasformarsi) contro ogni sostanzialismo ed essenzialismo, questa posizione spesso coesiste con una forte richiesta di immediatezza: l’idea secondo cui tutte le mediazioni debbano essere eliminate e che le differenze e le singolarità debbano esprimersi così come esistono “di per sé”. Si tratta di due posizioni inconciliabili. In virtù del fatto che ogni azione ed espressione è una composizione di molteplici parti, vincolate le une alle altre in un qualche punto di equilibrio, la struttura di questi “vincoli” determina una mediazione che connette le parti tra loro ma, al tempo stesso, le limita. Non è possibile collocarsi all’interno di un’ecologia e, insieme, rivendicare la piena e istantanea espressione di sé (che sia in una chat, in un coordinamento o in un’azione). Concepirsi come parzialità significa accettarsi come parzialità, rinviare la propria espressione ai momenti e alle forme adeguati agli altri termini della relazione. Un eccesso di immediatezza determina un sovraccarico del sistema e, con esso, un effetto di entropia non desiderato. L’ecologia è quella mediazione che espande e arricchisce l’essere delle sue parti soltanto se queste ne accettano i limiti. Ne deriva quella che potremmo riassumere come la “positività del limite”: si rinuncia a una libertà parziale e immediata, per conquistare una forza maggiore. L’autolimitazione reciproca delle parti di un’ecologia è quella pratica su cui si gioca l’efficacia di una struttura: la capacità di valorizzare e non di reprimere la massima forza di ciascun nucleo che ne fa parte. > All’interno dell’ecologia convivono più risposte possibili: se si pensa che > esista una sola risposta si compete contro gli altri nodi al fine di estirpare > le false alternative; se si ammettono più soluzioni possibili, si è meno > incentivati a competere e più a cooperare. 2) Limiti interni, che sono a loro volta posti dai limiti complessivi della congiuntura: il problema machiavelliano per eccellenza di adattarsi alle circostanze esistenti e non pensare che tutto sia sempre illimitatamente possibile. Contro la melancolica difesa di una qualche purezza ideologica, la consapevolezza di agire all’interno di limiti determinati e la necessità di far presa sulla realtà esterna orienta l’azione all’efficacia e, dunque, all’esigenza    di non disperdere o allontanare le forze che condividono i nostri stessi obiettivi strategici. L’adattamento non è sinonimo né di opportunismo conciliante, né di cinismo amorale, ma si inscrive in un progetto di trasformazione della società. Come suggerisce Nunes, si tratta di “espandere il regno delle possibilità, cioè i fini, nelle condizioni date”: “non si tratta solo di agire nei limiti dati, ma di agire su quei limiti per trasformarli” (p. 328). Il comportamento collettivo o aggregato non può essere troppo lontano rispetto alle condizioni esistenti o non sarà praticabile (forse l’eccesso di soggettivismo della sinistra rivoluzionaria negli ultimi decenni), né troppo vicino da perdere ogni distanza critica e obiettivo trasformativo (il problema della sedicente sinistra tecnocratica e riformista). Si tratta di mirare al “massimo del cambiamento possibile nei limiti esistenti” (p. 344). Il realismo si traduce non in una politica della prudenza estrema e dello stare dentro limiti stabiliti, ma in una politica sperimentale: “essere radicali in rapporto a una circostanza concreta”, sostenere e amplificare ciò che già esiste nell’ecologia, facendo attenzione a non danneggiare le condizioni che rendono possibili le azioni altrui. 3) Egemonia e cura, spinta e ascolto, non sono necessariamente pratiche alternative, ma possono combinarsi all’interno di relazioni ecologiche. Ogni attore può esercitare legittimamente il massimo di egemonia di cui è capace sugli altri nuclei, ossia il proprio potere di influenzare il corso dell’ecologia, ma al tempo stesso prendersi la massima cura di non metterla a repentaglio. Da un lato, qualunque spinta deve andare nella direzione dell’obiettivo comune e sostenere il processo, senza ambire a controllarlo interamente. Dall’altro, si riconosce l’egemonia – con la correlata “funzione” di leadership – come un aspetto ineliminabile della politica. Dare avvio a un comportamento collettivo ed “essere seguiti” non si traduce nella volontà di costringere gli altri a fare una cosa, ma in quella di moltiplicare la potenza collettiva su dei punti di lotta specifici, concentrati e non eccessivamente dispersi (qui la differenza tra funzione-di-leadership e posizione-di-leadership). Spingere i nuclei di un’ecologia verso un’azione fa parte di un’ecologia in salute, attraversata da inevitabili tensioni interne, quando questo non è finalizzato alla riproduzione di un’identità, ma alla concentrazione della potenza collettiva su qualche punto strategico, e si accetta che la propagazione di quell’azione non sia interamente allineata all’input iniziale. 4) Partito ed ecologia organizzativa non sono la stessa cosa. Il partito non rappresenta né la totalità dell’ecologia, la riunione di tutte le istanze, né la forma più avanzata della coscienza (e dell’organizzazione) della molteplicità. Nunes rinuncia a queste concezioni tradizionali del partito e lo circoscrive a una funzione per lo più comunicativa: il partito come megafono mediatico, dedito alla necessità di influenzare un’opinione pubblica esterna ai circuiti dell’attivismo, all’occupazione degli spazi mediatici mainstream, ad articolare interessi differenti in un’identità comune al di là di quelle già esistenti, e dunque a guadagnarsi il sostegno di quelle parti di società non politicamente attive. Il partito raccoglie le istanze dei nuclei dell’ecologia, riceve da questi direzionalità strategica con apertura e flessibilità, al pari di ogni nucleo dell’ambiente condiviso, ma ciò che lo distingue dagli altri è la funzione precipua di comunicare quelle istanze all’esterno dell’ecologia, nei settori non-organizzati, dunque di fare mediazioni tra settori differenti e ottenere consensi trasversali. Non significa che questa funzione sia svolta solamente e interamente dal partito, ma che il partito ha questa come funzione principale, in un quadro di distribuzione delle funzioni sopra menzionato. Nunes esce dunque dallo schema tipico di un certo pensiero della sinistra radicale, quello della “verticalizzazione”: non si tratta di verticalizzare le lotte sociali nel campo della rappresentanza, ma di amplificarle nel campo della lotta mediatica e ideologica e di permettere così che queste crescano e diano maggior forza al partito stesso. > Non si tratta di verticalizzare le lotte sociali nel campo della > rappresentanza, ma di amplificarle nel campo della lotta mediatica e > ideologica e di permettere così che queste crescano e diano maggior forza al > partito stesso. Nel far menzione del partito e della sua funzione, Nunes non chiarisce né il problema del rapporto con lo Stato né propone un’analisi dei media su cui combattere la lotta ideologica. Se da un lato viene rifiutata la posizione appellista secondo cui il potere non risiede più nelle istituzioni dello Stato, dall’altro viene accolta una certa parte di questa posizione, come dimostrato dal fallimento del governo greco nel 2015 e dall’espansione globale delle catene del valore, che supera ogni spazio di sovranità politica. Per quanto limitato, il potere delle istituzioni pubbliche non è annullato e anzi ancora esercita una tutela fondamentale degli interessi del capitale e la riproduzione della forza-lavoro. Il potere dello Stato e la sua “autonomia relativa” sono emersi durante la fase più acuta della pandemia. Nell’attuale e profonda disarticolazione e competizione tra le istituzioni e i poteri dello Stato, forse bisognerebbe chiarire a quale livello istituzionale possa collocarsi una strategia della trasformazione sociale. Né, forse, si può parlarne in astratto, ma ogni Stato presenta differenti caratteristiche istituzionali e attuali condizioni di esercizio del potere. Allo stesso modo, il funzionamento dell’arena mediatica viene menzionato ma non approfondito. La discussione collettiva del libro potrà forse riprendere alcuni di questi problemi. 5) Separare interno ed esterno non pare più realmente possibile, né tanto meno utile: isolare un soggetto politico dall’ambiente esterno, o pensarlo come sovrano di quello spazio (imperium in impero) e capace di plasmarlo interamente, è fallace e illusorio. Un sistema è sempre trasformato e modificato dalle informazioni e dagli stimoli esterni. Auto-organizzazione è sempre, in parte, etero-organizzazione, se una molteplicità di elementi all’interno di un ambiente condiviso si influenzano gli uni con gli altri, aprendo o limitando il campo di possibilità degli altri. Ne risulta che l’organizzazione sia sempre un dosaggio contingente e variabile, a seconda della congiuntura, di auto- ed etero-organizzazione, non la prevalenza di un termine sull’altro. Lo spinozismo di cui abbiamo bisogno oggi ci mostra proprio questa reciprocità del dentro e del fuori: molteplicità ed eterogeneità sono punti di forza se articolate all’interno di un dispositivo di etero-determinazioni reciproche, in cui ciascuna parte è al tempo stesso arricchita e limitata dalle altre. L'articolo Né orizzontale né verticale di Rodrigo Nunes proviene da Il Tascabile.
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Protesta senza volto
S enza volto, no face. Aleggia nella Città Incantata, nessunə sa chi è, ma solo che è lì, tra le vasche di Yubaba. Appare e sparisce, e che sia uno o siano cento, il risultato è lo stesso: denuncia la corruzione dell’oro. Chiunque e nessuno dietro la maschera: uno spirito della Città Incantata di Hayao Miyazaki, ma anche un’idea politica. Lasciare indietro il volto, travisarsi come forma di resistenza collettiva. Io traviso, tu travisi ed egli non riconosce. Non in quel noi. Non sa dove mettere le mani. Che persone pigliare. Quali perseguitare. Manifestare a volto coperto fa della sicurezza delle singole persone una possibilità ‒ seppur erosa dalla tecnologia ‒ rendendole al contempo un simbolo. A volto coperto la singola persona diventa qualcosa di più grande, e nella politica crea perturbazioni e timori. Ed è proprio per questo che fa paura. Paura persino al presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump. Le fiamme di Los Angeles, le proteste, sono racchiuse nell’immagine, diventata virale nell’arco di poco, di una persona a torso nudo. In piedi sull’auto della polizia con una bandiera del Messico tra le mani e il volto completamente coperto. Nulla urla “Fuck ICE” più di quest’immagine: la sfida all’intoccabilità della polizia. Iconica l’immagine ed iconica la reazione. Da Truth, la versione trumpiana del fu Twitter, il presidente statunitense ha ordinato agli agenti schierati di arrestare le persone a volto coperto. Letteralmente e in lettere maiuscole: “ARRESTATE TUTTE LE PERSONE MASCHERATE, ORA!”.  Per Trump, le proteste di Los Angeles sono sintomo di disordine, del controllo che sfugge. Le azioni dei manifestanti, infatti, respingono al mittente le pratiche di deportazione ‒ volute dall’attuale amministrazione ‒ compiute di notte, da agenti armati e a volto coperto. Il che potrebbe apparire assurdo considerando che la divisa mimetica in città risalta anche di più, ma in verità risponde a uno scopo: palesare una presenza militare e quindi intimorire. Per questo gli agenti della ERO (Enforcement and Removal Operations, un’unità dell’ICE, Immigration and Customs Enforcement) agiscono a volto coperto. Il corpo armato dello Stato può celarsi e tutelarsi, mentre lo stesso criterio pare non applicarsi, perlomeno in termini di legittimità, a chi è sottoposto all’autorità di quel medesimo potere.  Si svela perciò una doppia morale, che tutela il volto coperto quando a celarsi è lo Stato, ma che ne fa un atto criminale quando a usarlo è chi contesta sistemi oppressivi. Un’asimmetria che si svela e che fa, letteralmente, calare la maschera al potere. Ogni simbolo ha un significato, perciò difficilmente si può ritenere che una scelta istituzionale sia casuale. In una società che si rispetti, questi si inseriscono in una conversazione che, perciò, prevede e innesca delle risposte. In questo caso, la scelta di una mobilitazione colossale che usa la guerriglia urbana come mezzo di contenimento e minaccia nei confronti di chi sta perseguitando le persone immigrate sul territorio statunitense: le forze dell’ordine, certo, ma soprattutto chi queste procedure le ha volute implementare, e cioè le istituzioni. > A volto coperto la singola persona diventa qualcosa di più grande, e nella > politica crea perturbazioni e timori. Ovvero, proprio il cinguettante presidente Donald Trump. Forse, però, c’è anche qualcosa di più profondo nella mobilitazione di forze voluta da Trump, che ha visto lo schieramento di 2000 agenti della Guardia nazionale prima e 700 marines dopo. In essa potrebbe annidarsi la preoccupazione per la memoria storica statunitense. L’ossessione per l’identificazione non è una novità. Anche nella storia americana, l’anonimato ha rappresentato una strategia di opposizione, talvolta centrale per cambiare ‒ in parte ‒ alcuni equilibri di potere. Già nel 1773,  i membri del Boston Tea Party, hanno deciso di camuffarsi prima di andare a sversare il tè di sua maestà nella baia di Boston per protestare contro le tasse. I Bostoneers, però, indossarono abiti tradizionali delle Prime Nazioni, ovvero di alcune delle popolazioni autoctone del Nord America, appropriandosi di una cultura e di un’appartenenza che loro, per primi, avevano invaso e abusato. Quindi, il tentativo di anonimato del Boston Tea Party era lo strumento di chi protestava contro la corona, non contro l’imperialismo. Era un travestimento da oppressi per difendere il diritto a essere oppressori. Pochi anni dopo, nel 1775, nonostante i tentativi di rabbonire i coloni da parte del Regno Unito, iniziò la Guerra d’indipendenza. Proprio da quel 16 dicembre 1773 il potere inglese non si è più ripreso, messo in bilico dagli atti di persone che scelsero di nascondere, per quanto possibile, la loro identità. Se allora il volto coperto era stata una strategia di chi già aveva un potere maggiore rispetto ad altri, le proteste attuali lottano proprio contro quel medesimo potere, denunciando la matrice coloniale che nutre il razzismo sistemico negli Stati Uniti. La volontà, ora, è quella di fare dell’anonimato un atto collettivo capace di far tremare il potere, tutto. Spesso il Boston Tea Party è glorificato dagli stessi che ne temono il retaggio, senza una riflessione critica. L’inquinamento storico del volto coperto, viene perciò ribaltato, in diverse proteste, che lo reclamano ‒ a volte indossando balaclava rosa, come è accaduto poco tempo fa con l’occupazione del Pirellino a Milano ‒, perché sia un atto ribelle e non un atto a sua volta violento. Il volto coperto, quindi, può trascendere i suoi usi, in base alle rivendicazioni e alla natura delle lotte che lo indossano. Le proteste No Kings, infatti, sono state organizzate per contestare il modello imperiale voluto da Trump, e si basano sul presupposto che gli Stati Uniti sono stolen lands, terre rubate proprio alle Prime Nazioni. Territori invasi dai coloni, con una serie di strumenti che hanno marginalizzato e tentato di rimuoverne l’identità, di cancellare la loro storia e, quindi, la loro voce sul mondo. Una voce che nella protesta, invece, risuona forte e chiara. Il volto coperto ha una storia fortemente connessa all’azione contro oppressioni sistemiche. Nei primi del Novecento, le suffragette, soprattutto quelle impegnate in azioni dirette ‒ ovvero le suffragiste, per questo spesso identificate come terroriste ‒ cercavano di rendersi poco riconoscibili, modificando le proprie espressioni e posture, per sfuggire al monitoraggio fotografico costante a cui erano sottoposte. Le foto, oltretutto, erano spesso alterate dalle autorità per restituirne un’immagine  pericolosa o sciocca. Una foto di archivio del 1936, durante una protesta contro la guerra, ritrae diverse donne, suffragette, che indossano maschere antigas bianche fatte di carta. L’anonimato visivo, quindi, era ricercato come deterrente all’identificazione e come performance. Facendo un salto temporale e rincorrendo le proteste più note, il maggio francese del Sessantotto vide una quasi totale assenza di volti coperti. L’anonimato corporeo, in questo caso, passava in secondo piano in forza del numero immenso di partecipanti che, nella massa, hanno trovato la protezione necessaria per la protesta. > Il corpo armato dello Stato può celarsi e tutelarsi, mentre lo stesso criterio > pare non applicarsi, in termini di legittimità, a chi è sottoposto > all’autorità di quel medesimo potere. Caso più esplicito, a matrice profondamente decoloniale, è quello della resistenza zapatista, che tutt’oggi rivendica la maschera come strumento perché la lotta e la resistenza siano viste. A volto coperto, nel 1993, migliaia di persone zapatiste occuparono ben sette città, tra cui San Cristobal de Las Casas e al grido di “¡Ya basta!, denunciarono l’invisibilizzazione delle popolazioni originarie in Messico e l’intenzione di liberare la terra con la lotta. In Europa, e più in generale nei Paesi occidentali, il volto coperto è temuto. Una paura politica incanalata contro quella modalità di protesta in cui la copertura interessa il volto e tutto il corpo, creando un anonimato quasi integrale. La tattica di protesta black bloc è stata per la prima volta descritta nel maggio del 1980, nella Germania Ovest, nel contesto di proteste contro sgomberi, movimenti neonazisti e più in generale, contro le autorità centralizzate. Ha, quindi, una matrice identitaria profondamente antisistema e anticapitalista. L’uso della copertura permette alle persone di compiere azioni dalla grande portata dirompente in uno spazio di protezione collettiva, creata non solo dai dispositivi individuali, ma dal coordinamento del blocco. Le proteste a volto coperto si muovono su questa linea: resistere al controllo e alla cancellazione, proteggere un’identità in pericolo e portare avanti azioni e manifestazioni dalla forte capacità conflittuale. Il volto coperto crea un corpo collettivo, reattivo, che non si lascia isolare. Oggi, però tutto questo risulta sempre più difficile, e quindi rischioso, a causa di tutte le tecnologie di sorveglianza sparpagliate nelle città che stanno riducendo lo spazio dell’anonimato. Al punto che vien da chiedersi se sia ancora possibile un anonimato reale in un contesto che non solo rintraccia ‒ potenzialmente ‒ ogni persona, ma che addirittura spettacolarizza e trasforma tutto in intrattenimento. In un contesto in cui il tracciamento dei nostri percorsi è talmente pervasivo da sembrare normale, in cui c’è addirittura una spinta a trasformare la folla in contenuto individuale, si può sfuggire a quello sguardo digitalizzato? Le autorità, dopotutto, ne fanno ampio uso. Le forze dell’ordine statunitensi, ad esempio, hanno a disposizione un vasto arsenale di controllo e monitoraggio: oltre a filmare costantemente le persone manifestanti, sono dotate di dispositivi e strumenti ‒ come come Clearview AI ‒ che permettono di ricostruire, con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale, i volti delle persone manifestanti in ritratti. Efficaci, ma non infallibili e che, anzi, possono portare ad arrestare le persone sbagliate. Ma non solo, tra i rilevatori che permettono di triangolare i segnali emanati dagli smartphone ‒ detti stingray ‒, le videocamere e la capacità di identificare una persona addirittura dall’andatura, la possibilità dell’anonimato sembra restringersi con ogni aggiornamento. Ogni persona, infatti, è potenzialmente rintracciabile. E non serve nemmeno essere in prima linea. Una storia su Instagram o un passaggio in metro con la carta, lasciano tracce, disegnando la geografia dei nostri movimenti. E sebbene in Italia, al momento, non vengano usati gli stessi dispositivi statunitensi, l’impegno delle forze dell’ordine per identificare i manifestanti non è meno strenuo e non lesina a ricorrere alle tecnologie di tracciamento o monitoraggio. > Il volto coperto crea un corpo collettivo, reattivo, che non si lascia > isolare. Nel nostro ordinamento, l’atto di coprirsi il volto durante le manifestazioni viene definito travisamento, ed è considerato un illecito amministrativo. Il termine stesso con cui viene descritto rivela una postura repressiva: il termine evoca l’inganno, la distorsione, e non la possibilità di autodifesa o di anonimato politico. E, in effetti, può diventare un’aggravante, come dimostrato nella recente sentenza in primo grado contro dieci persone manifestanti solidali con Alfredo Cospito. Il tutto, in un concerto di riprese e identificazioni con cui l’anonimato della persona manifestante viene eroso. Chi manifesta viene continuamente filmato, archiviato nelle memorie della sorveglianza statale. Volti, date, cortei. E durante le proteste non sono rari i tentativi delle forze dell’ordine di abbassare le maschere ai manifestanti, come accaduto nel corteo pro-Palestina del 12 aprile a Milano. Quello che in teoria non è reato, qui, viene comunque punito, anche solo con l’aumento di attenzione riservata a quella presenza. Con la presa dello spazio e la conseguente intossicazione del margine politico. In Italia come negli Stati Uniti, alla repressione materiale si accompagna quella culturale: chi copre il volto viene raccontato come un pericolo sociale, isolato narrativamente dal resto della piazza, dipinto come facinoroso e infiltrato. Uno spirito malvagio pronto a distruggere la ‒ apparente ‒ quiete sociale, senza un perché. La sovranarrazione, in questi casi, protegge lo status quo, che diventa vittima di un attacco immotivato. La protesta, e le azioni che può comprendere, viene collocata su un asse immaginario, ad un estremo la narrazione di un profilo, all’altro la totale cancellazione, per evitare che venga raccontata. Quale che sia la scelta, però, si attiva un meccanismo di tone policing che insegna quale modo di manifestare sia “giusto”, perché più controllabile e meno minaccioso, e quale sia “sbagliato” e, per questo, punibile. Una protesta decaffeinata. Altamente digeribile. L’ostinazione di alcunə deve essere corrosa: a questo serve l’intento di rendere criminali agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale non schierata ‒ o già schierata contro ‒ chi si copre il volto in piazza. Un processo immediato che risponde in maniera quasi meccanica alla minaccia percepita. Dare l’allarme e tratteggiare il volto coperto come un pericolo per l’ordine pubblico ‒ quindi collettivo, cittadino ed ordinario ‒ mette le persone nella condizione di percepire a loro volta quella minaccia. Come se fosse rivolta direttamente contro di loro. La speranza di questo tipo di descrizione è che si inneschi un rifiuto assoluto. Ostile. Una contrapposizione che poi permetta di punire chi ha manifestato e di intimidire le altre persone evitando che possano anche solo pensare di fare una cosa del genere. > Chi manifesta viene continuamente filmato, archiviato nelle memorie della > sorveglianza statale. Annidarsi nella mente sociale è il miglior meccanismo di sorveglianza, perché sono le singole persone a diventare le prime controllore di sé stesse e delle altre. Diventano loro le voci che richiedono repressione e militarismo, che invocano divieti contro il diritto di coprirsi il volto ‒ con una deriva volutamente islamofoba ‒ prima ancora che gli organi repressivi si mettano in moto da soli, agendo senza chiedersi nemmeno un perché, mossi dall’idea che lo stato delle cose sia un ordine sacro.  E il problema, forse, si annida anche qui. Perché quando è “l’ordine pubblico” a dover essere messo in discussione – per ottenere libertà, protezione, giustizia o quant’altro – e quando farlo comporta gravi rischi individuali e collettivi, coprirsi il volto non è forse uno strumento di sopravvivenza? E non solo per celare i tratti riconoscibili e, quindi, rintracciabili del viso (occhi, naso, forma del viso ecc.), ma anche per proteggersi dai dispositivi di controllo della folla impiegati dalle forze dell’ordine come i gas lacrimogeni, contro cui una maschera filtrante può essere effettivamente efficace, ma per esserlo deve necessariamente coprire il viso. Nasconderlo, tutelarlo. E se non dai deterrenti urticanti, dal diventare un bersaglio, perseguibile, rintracciabile, con una vita che può essere sbriciolata sotto il peso della burocrazia punitiva. Da Occupy Wall street alle rivolte contro i proprietari terrieri della metà dell’Ottocento, passando per la demonizzata tattica dei black bloc, il volto coperto cancella la vulnerabilità individuale creando una grande identità plurale in divenire. In cui nessunə è protagonista e nessunə viene lasciato indietro, proprio perché, a volto coperto, si entra in un’identità plurale. Si diventa innesti in un’entità multipla, parti essenziali che si aggiungono e muovono individualmente ma nella stessa direzione: la ribellione. La paura del volto coperto è anche paura dell’ignoto, di un’identità collettiva che sfugge al controllo. Non sapere chi ci sia dietro impedisce di prendere di mira la singola persona, di isolarla. Il volto coperto protegge idee e corpi, crea un grande territorio politico in cui nessunə è protagonista e nessunə è lasciato indietro. Gli zapatisti scelgono di mostrarsi sempre a volto coperto, in modo da proteggere tanto l’identità quanto l’ideale. Con una serie dì strategie anti gerarchiche, per cui non ci sono capi, ma subcomandanti che si pongono dopo e per il popolo, che garantiscono la natura decentralizzata della lotta. Il volto coperto è perciò un simbolo di umiltà che non conosce le limitazioni dei confini e degli interessi statali. È il potenziale contenitore per la ricerca di un modo diverso di vivere, in cui si abbandonano le velleità di successo personali e si abbraccia l’idea ‒ perlomeno la possibilità ‒ di un benessere reale, per tuttə.  Insomma, è il contrario della tutina di un supereroe, quella che mette in mostra e diventa riconoscibile, un brand. Mentre il volto coperto è così banale da non potere appartenere a nessuno. Anche quando vi si appone un logo davanti, è troppo forte per essere totalmente cooptato. Oggi, in un’epoca in cui il panopticon digitale dilaga, in cui condividiamo e siamo sorvegliati allo stesso tempo, la pratica del volto coperto rappresenta una forma di protezione e resistenza. Per questo, il volto coperto non è solo difesa. È anche attacco, sabotaggio, creazione. È la possibilità di essere parte di qualcosa senza essere consumatə da quello sguardo che vuole schedare, isolare, colpire. Perché un volto nascosto può custodire tutto: una vita, una storia, una ribellione. E, forse più di ogni altra cosa, un ideale. La minaccia contro chi si copre il volto ci ricorda che in effetti, ogni regime, non teme tanto la singola persona con la sua storia e le sue azioni, quanto piuttosto l’insieme di quelle persone, quelle storie e quelle azioni. Le idee che si portano dentro. Che sa cosa vuol dire vedere una persona che ha scelto di essere parte di una causa, sventolare una bandiera senza reclamare qualcosa di materiale per sé: una sfida aperta allo status quo a volto coperto. Senza volto e con mille facce. L'articolo Protesta senza volto proviene da Il Tascabile.
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A69: l’autostrada della discordia
L a prima volta che ho notato il nome Pierre Fabre non è stato su un cartellone pubblicitario o su un titolo di giornale, ma sul bordo di un lavandino. Era nella casa dei miei zii di Lione, sul tubetto di un dentifricio. Stava lì, con una grossa impronta nel mezzo, e la scritta Laboratoire Pierre Fabre sbiadita dall’uso. Perciò, quando anni dopo mi sono ritrovata a leggere del coinvolgimento della Pierre Fabre nella costruzione di un’autostrada molto contestata nella regione di Castres, non ho potuto non provare un distratto senso di familiarità. Nelle case francesi, Pierre Fabre potrebbe essere ovunque e da nessuna parte, considerato appena eppure ben conosciuto. L’imprenditore da cui prende il nome la casa farmaceutica è infatti un volto noto per la Francia, Pierre Jacques Louis Fabre ha aperto il suo primo laboratorio nel 1961 e ha un curriculum abbastanza tipico della grande imprenditoria di quegli anni: un impero in crescita, la proprietà temporanea di un club di Rugby e un’attività di beneficenza. Magnate, mecenate e filantropo. Nel 1999 l’imprenditore ha infatti prestato il proprio nome a un’altra entità, la Fondation Pierre Fabre il cui scopo è la diffusione di medicine di qualità nei Paesi del Sud del mondo. Non sembra perciò così assurdo immaginare in che modo il desiderio di Fabre di lasciare il proprio nome inciso nella storia possa essere stato solleticato dall’idea di estenderlo a un’opera infrastrutturale, qualcosa di monumentale e tangibile come quella di un’autostrada. L’occasione si è presentata negli anni Novanta, quando la posizione dell’azienda era già più che salda nell’imprenditoria francese, con il completamento della A680. Fabre ha quindi proposto la costruzione di un altro tratto autostradale di circa 53 km che connettesse Tolosa e Castres, collegando direttamente la A680 alla A68, la A69. Un nuovo raccordo autostradale, quindi, che prevede la conversione di parte di una strada nazionale (la N126) in una a pedaggio e che avrebbe come beneficio stimato la capacità di ottimizzare di un quarto d’ora il percorso. Quindi, velocizzare l’arrivo agli stabilimenti Fabre della zona. Per trasformare l’idea in realtà, l’iter progettuale di Fabre si è concentrato sin dall’inizio su un’intensa campagna lobbistica, sfruttando le proprie conoscenze nell’alta politica francese. Così, quei 53 km di raccordo sono entrati nell’agenda politica della Francia, diventando oggetto di un dibattito che, più di tutto, sembra aver confermato il supporto all’imprenditoria in generale, e a Fabre in particolare, più che un reale interesse nella A69. Tant’è che nel 2010, sotto la presidenza Sarkozy, è arrivata la concessione ufficiale a firma dell’allora ministro per l’Ecologia Jean-Louis Borloo, su intercessione dello stesso primo ministro François Fillon. Addirittura, dopo la morte di Fabre, nel 2013, il presidente François Hollande ha espresso rammarico per la mancata ultimazione dei lavori. A suo dire, la A69 avrebbe già dovuto essere inaugurata. Completata prima che il suo ideatore morisse. I lavori, infatti, hanno incontrato sin dall’inizio ostacoli difficilmente sormontabili e che, ancora oggi, non hanno permesso che la A69 superasse lo stadio di cantiere. Autorizzazione e delibere, infatti, sono state valutate e concesse senza tener conto di un elemento cruciale, ovvero la volontà degli abitanti della zona. Dalla loro prospettiva, ad esempio, anche il guadagno temporale ha un risvolto insostenibile proprio perché, oltre a prevedere un pedaggio pari a 17 euro, sembrerebbe riguardare non tanto le singole persone cittadine, né tantomeno quelle che lavorano negli stabilimenti, quanto piuttosto i trasporti industriali da e per gli stabilimenti. > Quei 53 km di raccordo sono entrati nell’agenda politica di Francia, > confermando il supporto all’imprenditoria in generale, e a Fabre in > particolare, più che un reale interesse nella A69. Lo scontento locale non si limita alla singola spesa, ma all’impatto complessivo della costruzione: eppure, non ha trovato riverbero nelle autorità politiche che, anzi, nel 2018, già nel mandato presidenziale di Emmanuel Macron, hanno dichiarato l’autostrada un progetto di pubblica utilità per poi aprire la gara d’appalto. Il bando è stato aggiudicato a NGE group, che ha creato la società Atosca per portare a compimento questo specifico progetto, il cui costo complessivo è stato stimato in circa 450 milioni di euro, di cui 23 in fondi pubblici. Il piano di lavoro, però, per quanto apparecchiato, è ancora in stallo. Diverse associazioni, tra cui Les amis de la Terre, France nature environnement, Extinction rébellion France, sono intervenute e altre si sono formate, come il Collectif a69-Non à l’autoroute!, per denunciare l’impatto ambientale del progetto e difendere il territorio. Uno degli effetti immediati della costruzione, infatti, prevede la deforestazione di circa 400 ettari di foresta che, oltre a essere una perdita immediata in termini di salute ambientale, costituiscono ‒ come tutto l’ambiente intorno al cantiere ‒ l’habitat di circa 157 specie di animali non umani, di cui 23 protette, che saranno, inevitabilmente, a rischio. L’abbattimento preventivato di circa 200-260 alberi e la distruzione di circa 22 zone umide comportano serie modificazioni idrogeologiche, tali per cui la compensazione promessa risulta poco credibile ed efficace, in quanto non in grado, in effetti, di restituire la complessità di un ecosistema che risulterebbe fisicamente rimosso. Nel 2023 lo sciopero della fame ‒ e poi della sete ‒, durato complessivamente 39 giorni indetto da Thomas Brail del National Tree Surveillance Group e da altre persone attiviste che avevano occupato gli alberi per evitarne l’abbattimento, culminato con l’ospedalizzazione di Brail, ha portato a una sospensione effettiva dell’ordine di abbattimento. Ma non solo: la presenza massiccia di gruppi ambientalisti, come Soulèvements de la Terre, ha permesso un lavoro che, partendo dalle proteste è potuto intervenire a più livelli, compresi quelli istituzionali, con la presentazione di ricorsi e richieste formali di sospensione dei lavori. L’eco generata dal gesto di Brail e delle altre persone scioperanti aveva interessato i media nazionali, portando alla ribalta le proteste e i motivi per cui si sono rese necessarie. Al punto che, sempre nel 2023, le motivazioni delle autorità a favore della costruzione della A69 sono state addirittura soppesate da 1500 scienziati, tra cui alcuni membri dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), che con un articolo apparso su L’obs si sono schierati a favore dei gruppi in protesta definendo l’A69 “uno di quei progetti che devono essere abbandonati”.   (fot. Saverio Nichetti) Infatti, i guadagni promessi sono piuttosto aleatori. In primo luogo; la A69 non rappresenta un valido modello per ridurre il traffico e quindi le emissioni, proprio perché incentiva il trasporto privato a discapito di quello pubblico. Secondariamente, sempre secondo le analisi presentate nell’articolo, la strada viene definita come “un progetto socialmente ingiusto”, in quanto andrebbe a costituire la seconda autostrada più costosa di Francia. Infine, gli scienziati hanno fatto presente che il disboscamento con successiva compensazione non può essere considerato un modello valido. La piantumazione di alberi giovani in un altro ambiente non è materialmente in grado di compensare per l’equilibrio ambientale generato da una foresta di alberi adulti, ma soprattutto, per la capacità degli ambienti selvatici di preservare la biodiversità di un territorio. Ma non solo: l’autorità ambientale e il CNPN (Conseil National de Protection de la Nature) hanno dichiarato il progetto ampiamente incompatibile con gli obiettivi della Francia in materia di emissioni e neutralità climatica. Nonostante le obiezioni scientifiche e l’opposizione crescente, la repressione non è arretrata, anzi. > L’autostrada sarebbe la seconda più costosa in Francia, definita per questo > “un progetto socialmente ingiusto”. Ma non solo: l’autorità ambientale e il > CNPN hanno dichiarato il progetto ampiamente incompatibile con gli obiettivi > della Francia in materia di emissioni e neutralità climatica. Lo scorso anno, ad esempio, gli scontri sono stati prolungati e mal incassati dalla polizia antisommossa francese, il CRS (Compagnies Républicaines de Sécurité), che si è trovato con qualche camionetta in fiamme, nonostante l’impiego ingente della forza bruta. Quest’anno, per evitare lo scontro ravvicinato e diretto con le persone manifestanti, oltre allo schieramento massiccio di agenti, con annessi controlli e perquisizioni costanti in tutta la zona limitrofa al campeggio, le forze dell’ordine francesi hanno utilizzato metodi di repressione della folla a lungo raggio con un’assiduità che ha trasformato la marcia, la turbo teuf, in una resistenza a un assedio. La manifestazione è stata dapprima circondata su tre lati, per poi essere colpita da una pioggia di dissuasori urticanti, irritanti e da shock, e infine attaccata alle spalle, passando proprio dal bosco che costituiva l’unico spazio non occupato dalle forze dell’ordine. L’impiego di lacrimogeni e granate stordenti si è protratto per diverse ore, rendendo l’aria più che irrespirabile persino nei giorni successivi e lasciando uno strascico che avrà, inevitabilmente, effetti sulla fauna che abita i boschi limitrofi agli scontri. Un aumento della tensione e del tentativo di reprimere le proteste, resosi necessario per l’efficacia delle proteste stesse e per la validità delle rivendicazioni supportate dalle autorità scientifiche. Eppure, nemmeno il parere degli esperti sembra poter essere decisivo. Il via libera ai lavori era rimasto in essere fino alle proteste del 2024, dopo le quali era stato preso in esame. In particolare, il 27 febbraio di quest’anno, il Tribunale amministrativo di Tolosa ne ha annullato l’autorizzazione esprimendosi in merito al ricorso presentato dalle associazioni ambientaliste e ritenendo che i benefici del progetto fossero insufficienti rispetto ai danni ambientali prospettati. Il governo francese si è quindi trovato a rilanciare un appello sostenendo con forza la presenza di un interesse nazionale di forza maggiore ‒ lo stesso contestato dai 1500 scienziati su L’obs ‒ e sostenendo che l’annullamento definitivo dei lavori avrebbe potuto compromettere future implementazioni della rete infrastrutturale francese. Quindi, il 28 maggio, lo stesso tribunale amministrativo ha concesso una “sursis à exécution”, cioè una sospensione dell’esecuzione della sentenza. Il Tribunale ha convenuto sul fatto che l’interesse di forza maggiore sia sufficiente a ripristinare le concessioni ambientali annullate, permettendo, di fatto, la ripresa dei lavori. Le pressioni governative hanno quindi avuto la meglio, al momento, sulle valutazioni territoriali. L’opposizione, però rimane forte. La zona contesa, infatti, è una ZAD (Zone Á Défendre), e cioè una zona in cui agiscono persone contrarie alla devastazione ambientale provocata dai grandi progetti infrastrutturali e dai loro cantieri. Il nome deriva dall’acronimo usato in campo edile per designare un cantiere: Zone d’aménagement différée, letteralmente zona di sfruttamento differita. Il termine è stato quindi ripreso e rivendicato da gruppi di persone attiviste ‒ dette zadiste ‒ il cui obiettivo è reclamare territori e spazi sottraendoli alla speculazione economica e risparmiando loro il danno ambientale, sociale e politico. Le ZAD non hanno come unico scopo la preservazione dell’ambiente, ma anche la rivendicazione dell’umanità come parte integrante di questa natura. La tradizione delle Zone difese in Francia è molto lunga, sintomo di una lotta ecologista profondamente radicata nel territorio, ma anche nel futuro. La ZAD più celebre è quella che, nel 2018, ha impedito la costruzione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes nei pressi di Nantes, riuscendo a preservare circa 1650 ettari di foresta. Lo slogan che nel 2018 ha accompagnato manifestazioni e azioni rimane tuttora presente nelle varie zone di mobilitazione, dai megabassines all’A69, arrivando fino alla resistenza No TAV in Valsusa: “Siamo la natura che si difende”. La ZAD di Nantes, è stata molto più che un luogo di resistenza alla devastazione. Sin dall’inizio si è caratterizzata per la sua volontà trasformativa. La ZAD, infatti è più di tutto un luogo di comunità. A Nantes, l’occupazione ha permesso di creare coesistenze alternative, inframmezzate e aggredite dagli sgomberi della gendarmerie. In particolare, nel 2012 è stata colpita dall’operazione Cesar, la più grande mobilitazione poliziesca dal 1968, a cui la comunità ha risposto con una presenza di 40.000 volontari impegnati per ricostruire le abitazioni e i luoghi condivisi. La tradizione della ZAD guarda molto più avanti rispetto alla singola emergenza, per quanto drammatica, cercando di renderla uno spazio per costruire un’alternativa. > Un aumento della tensione e del tentativo di reprimere le proteste, resosi > necessario per l’efficacia delle proteste stesse e per la validità delle > rivendicazioni supportate dalle autorità scientifiche. E infatti, quale che sia la mobilitazione, negli spazi condivisi ‒ temporanei o meno ‒ si respira un’aria totalmente diversa. Prima di tutto, la volontà di essere spazi di convivenza sicuri per chi li attraversa. Il che avviene sì con appositi servizi dedicati e una continua opera di informazione ‒ non è insolito trovare cartelli che spiegano cosa sia il consenso, e, soprattutto cosa significa estorcerlo ‒ ma più di tutto con una cultura interna estremamente ricettiva che unisce l’ascolto di chi attraversa la ZAD alla necessità che sia consapevole che comportamenti coerenti con il modello oppressivo esterno non sono benaccetti. Un esempio banale ma non troppo: durante le grandi mobilitazioni estive, chi organizza si premura di fornire un servizio pasto che garantisca alle persone la possibilità di mangiare ed essere in forze prima delle lunghe manifestazioni. I pasti serviti sono semplici, poveri, a offerta libera. Negli ultimi due anni, poi, le cucine hanno sempre proposto cibo vegano e senza glutine rendendo più facile per le persone che prendevano parte alle manifestazioni accedervi e avere la certezza che non sarebbero rimaste per ore sotto il sole a stomaco vuoto. Elementi di cura collettiva, questi, che si sommano creando una dimensione antitetica rispetto a quella esterna, informata dall’attuale stadio del capitalismo in cui tutto è merce e consumo, dissenso compreso. (fot. Martina Micciché). Quindi, oltre a essere una zona occupata per evitare che grandi opere infrastrutturali devastino l’ambiente, è anche il punto di partenza per la costruzione di una comunità. La ZAD A69 si inserisce in questa cornice. Infatti, la rivendicazione sul territorio non riguarda solo qualcosa di misurabile, come la metratura di foresta che verrebbe irrimediabilmente distrutta, ma anche qualcosa di più inafferrabile: l’idea per un modo diverso di vivere e convivere. Nelle ZAD si propone qualcosa di diverso, di nuovo e antico insieme, che parte dalla collettività. Essere parte della natura, significa anche questo: inserirsi in un ambiente come parte dello stesso e non come proprietari occupanti. Una prospettiva ben diversa da quella che, normalmente, disciplina i rapporti tra umanità e ambiente solitamente incentrati sull’utile e l’uso. Disporre di ciò su cui si può imporre un diritto di proprietà, ad esempio acquistando un terreno, in maniera arbitraria e individualistica genera inevitabilmente un incremento del danno ambientale proprio perché, in prima istanza, l’ambiente diventa un oggetto inerte, un bene. Una volta depauperato della sua identità, svuotato della sua complessità e rimosse tutte le soggettività, umane e non, che vi entrano in relazione per vivere ‒ e, magari, vivervi bene ‒, questo territorio viene plasmato dalla tendenza alloplastica delle relazioni economiche che intervengono strutturalmente su tutto ciò in cui vengono intessute per metterlo a reddito. E quindi, una ZAD ne costituisce il contrappunto. Un rigetto del dogma produttivo e dell’interesse speculativo dei singoli a favore di un approccio alla terra più ampio, comunitario e non solo. Perché non si tratta solo di preservare un territorio e di costruirci benessere per chi vi è immediatamente prossimo, ma anche di creare delle reali alternative che diano garanzie a chi è lontano e a chi verrà dopo. Una ZAD potrebbe sorgere ovunque, contro il progetto di un traforo, di un’autostrada o di un allevamento intensivo. Ciò che la caratterizza e la rende possibile è la presenza di una comunità attiva, interna ed esterna al territorio: cooperativa ed attenta alle reali esigenze di chi abita e attraversa quei luoghi. Ecco perché non è raro che anche chi non partecipa direttamente alle mobilitazioni si renda in qualche modo utile. Lo scorso anno, a La Rochelle, gli abitanti della città che avevano case al pianterreno hanno aperto i cancelli alle oltre 20.000 persone manifestanti, per garantire loro la possibilità di riempire le borracce, sciacquare le ferite o ripulirsi dalle sostanze urticanti. La ZAD si propaga anche così, di casa in casa. Diventando memoria organica del fatto che la terra è vita, comunità e memoria. E forse, è proprio questo che spaventa di più. > La zona contesa, oltre ad essere occupata per evitare che grandi opere > infrastrutturali devastino l’ambiente, è anche il punto di partenza per la > costruzione di una comunità. Il passaggio dagli scaffali alla casa è ciò che traghetta la produzione nella normalità, i grandi nomi nelle dispense e nei cassetti, appesi negli armadi o dimenticati in giro. Etichette. Familiari in modo sinistro, amichevoli in modo impensato. I nomi del consumo sono ovunque, ciò che vi si nasconde dietro, per qualche motivo invece no. Rimane impigliato alle pieghe della routine, esterno. Appeso ai luoghi della devastazione, incernierato nella terra divelta, inciso sui tronchi degli alberi morti, passa sopra i cadaveri degli animali intossicati dai miasmi, disidratati dalla siccità, scardinati dalle tane dalle benne delle ruspe. Inciso nella memoria di chi ricorda che lì, proprio lì, stava un bosco. La traccia indelebile lasciata da certi nomi, la devastazione, su quel lavandino, non arriva. Là dove Pierre Fabre sembra semplicemente una firma, non certo la presa di un’industria e di un industriale su un territorio. L'articolo A69: l’autostrada della discordia proviene da Il Tascabile.
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Morto un bosco (non) se ne fa un altro
I n Puglia, tra i comuni di Nardò e Porto Cesareo, perfettamente tracciato nel bel mezzo di un’estesa macchia verde, si sviluppa un anello di asfalto e cemento lungo quasi tredici chilometri: si tratta del ring del Nardò Technical Centre (NTC), la pista di collaudo dal 2012 proprietà della Porsche Engineering, assieme a circa un terzo dell’area interna alla circonferenza, quella più a sud. Dentro al cerchio, su una superficie pari a 7 milioni di m², si snodano 20 circuiti minori e diversi impianti di prova, dove vengono testate non solo autovetture del gruppo tedesco ma anche prototipi di altri brand di lusso, come McLaren, Aston Martin, Ferrari, Audi e Mercedes. L’indotto generato dal NTC si estende ben oltre i confini della pista: esercizi commerciali, attività di ristorazione e strutture ricettive della costa beneficiano delle trasferte di ingegneri, piloti e meccanici anche in bassa stagione, garantendo alla Regione Puglia un introito che si attesterebbe attorno ai 10 milioni di euro l’anno. Fin qui tutto bene, o, almeno, così pare. Secondo Antonio Gratis, dal 2018 il direttore generale del NTC, originario di Ugento (Lecce), ci troveremmo di fronte a un caso di “unione ideale tra sviluppo e tradizione”, un matrimonio all’apparenza felice tra “il mondo tecnologico di Porsche” e “quello rurale della campagna salentina”, che sarebbe proseguito senza grandi clamori fino a quando, nel corso del 2023, non è cominciata a trapelare la notizia relativa al piano d’ampliamento del centro, confermata dall’avviso, nell’agosto dello stesso anno, dell’imminente esproprio “per pubblica utilità” ai danni dei 134 proprietari dei 351 ettari di terreno interessati dal progetto: ancora una volta, il Capitale colpisce d’estate, quando l’Italia è assopita e la distensione massima. Era già successo ai 421 operai e lavoratori delle ditte in appalto dell’ex GKN Driveline di Campi Bisenzio nella piana fiorentina, che a luglio 2021, a pochi giorni dallo sblocco dei licenziamenti, ricevettero una mail che li lasciava da un giorno all’altro di fatto senza lavoro. Iniziava così l’assemblea permanente più lunga nella storia delle lotte operaie, che ha portato il Collettivo di fabbrica a presidiare ininterrottamente lo stabilimento per impedirne la delocalizzazione e la definitiva dismissione, richiedendo, al loro posto, un intervento pubblico per reindustrializzarla e trasformarla in un polo delle energie rinnovabili e della mobilità sostenibile. Anche nel caso di Nardò, la risposta non tarda ad arrivare. In poco tempo si costituisce il Comitato custodi del Bosco d’Arneo, composto di cittadini, attivisti e solidali, che si oppongono alla costruzione delle 9 piste aggiuntive, oltre alla modernizzazione di quelle esistenti, e soprattutto all’abbattimento di 200 ettari (l’equivalente di 300 campi da calcio) di vegetazione; un’operazione quanto mai necessaria, a detta di Porsche, per adattare il NTC alle esigenze delle nuove frontiere dell’automotive, tra cui la guida autonoma e connessa, per un investimento complessivo di circa 450 milioni di euro (l’area in questione era stata strategicamente dotata di rete 5G giusto qualche tempo prima). > Ancora una volta, il Capitale colpisce d’estate, quando l’Italia è assopita e > la distensione massima. Peccato che il cosiddetto Bosco d’Arneo compaia tra i siti protetti di importanza comunitaria secondo la rete Natura 2000 e la Direttiva Habitat dell’Unione Europea relativa alla conservazione degli habitat naturali e semi-naturali e della flora e della fauna selvatiche. Anche la valutazione ambientale svolta dalla Regione Puglia ha riconosciuto come “negativi” e “significativi” gli eventuali impatti sul bosco di lecci di quasi 40 ettari e su una piccola porzione di prateria mediterranea, definendo dunque l’intervento di Porsche altamente invasivo nei confronti della struttura paesaggistica locale. È successo, però, che il vincolo è stato aggirato, facendo leva sul presunto valore di interesse pubblico del piano, sia per la salute dell’uomo, sia per la sicurezza pubblica: il primo punto era  motivabile grazie alla realizzazione di un centro medico con elisoccorso all’interno del circuito, integrato al sistema sanitario pugliese, nonostante gli ospedali della zona – in primis il Vito Fazzi di Lecce e il Centro grandi ustionati di Brindisi – siano sprovvisti di eliporti, e i costi di equipaggio, del personale medico, degli elicotteri stessi e della loro manutenzione peserebbero sulle tasche della regione, che ad oggi non riesce ad assicurare il servizio neanche laddove esistono le infrastrutture necessarie; il secondo punto prevedeva invece l’impegno di Porsche nel mettere a disposizione della collettività il servizio antincendio, lo stesso che avrebbe tra l’altro consentito al bosco di crescere così rigoglioso, dal momento che, sostiene Gratis, “le nostre termocamere individuano anche la più piccola fiamma”. Con una mossa inaspettata, il paradosso è finalmente compiuto: è Porsche il vero custode del Bosco. E continuerebbe a esserlo anche qualora portasse effettivamente a termine la deforestazione, a patto che sappia compensare la perdita, anzi “sovracompensarla”, come se la natura fosse il frutto di un’equazione. A questo scopo, il colosso tedesco – la cui sede, come nota Marc Beise, si trova in Svevia, un distretto in cui non a caso i Verdi sono al potere da una decina d’anni – ha acquistato terreni dentro e fuori al cerchio, per un totale di 600 ettari, destinati a ospitare 1,2 milioni di giovani alberelli bisognosi di cure e acqua in un Salento sempre più desertificato e dalle falde pericolosamente salinizzate. La manovra si rivela quantomeno ad alto tasso di rischio, un rischio che, forse, la Puglia ora come ora non può permettersi di correre, dopo anni di inveterate “monoculture della mente”, per citare Vandana Shiva, che hanno drammaticamente impoverito il suolo del profondo tacco dello stivale, rendendolo facile preda di speculazione e privatizzazione selvaggia, e meno reattivo nel fronteggiare minacce quali l’epidemia da xylella fastidiosa che ne ha contribuito a distruggere la biodiversità. Una rete virtuosa, fatta di realtà che da tempo investono con convinzione nella possibilità di riscattare un paesaggio fortemente traumatizzato, cerca di invertire la rotta: tra queste, Casa delle Agriculture a Castiglione d’Otranto, nel versante Adriatico, promuove un’idea di “restanza” attraverso l’azione sinergica di un’agricoltura rigenerata e di un’arte pubblica che rafforza i vincoli di comunità e tenta di arginare l’esodo di risorse naturali e umane dalla regione. > Il paradosso è finalmente compiuto: è Porsche il vero custode del Bosco. O la Free Home University, dove impegno pedagogico e artistico convergono nella prefigurazione di nuovi modi di condividere e creare conoscenza, sperimentando modelli di vita in comune e forme di ricerca-azione nel territorio assieme alle comunità di pratica e di lotta. Per la recente mostra Learning Intentions/Learning in Tensions allestita in occasione dei 10 anni di attività nella ex chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce, i curatori Alessandra Pomarico e Nikolay Oleynikov, hanno commissionato a Oliver Ressler, artista, regista e attivista austriaco, riconosciuto per il suo trentennale impegno di documentazione dei movimenti sociali di resistenza al capitalismo globale e al cambiamento climatico, il film We Are the Forest Enclosed by the Wall, incentrato proprio sulla battaglia dei Custodi d’Arneo per difendere il Bosco dal piano ecocida del gruppo Porsche. Sostenuto dalla fondazione svizzera Tinguely, il film sarà presentato a settembre alla comunità locale e poi a quella internazionale nel circuito dei festival di cinema e in quello dell’arte contemporanea. Ad aprire il percorso espositivo della mostra, in una sorta di vero avamposto con tanto di volantini divulgativi e raccolta firme, l’installazione del collettivo di artisti e attivisti Ultra-red, chiamati a condurre un’investigazione sonora per analizzare la congiuntura politco-economica in atto in questo così come in altri territori, e le strategie di risposta per la salvaguardia della foresta. Un audio diffonde stralci di interviste ai custodi, mentre alle pareti, assieme alle mappe indicanti il livello di inquinamento acustico generato dal NTC, compaiono tracce del processo di facilitazione partecipata, registrazioni grafiche delle assemblee e le risposte dei visitatori invitati a un esercizio di riflessione sulla crisi aperta dal progetto di ampliamento. A essere esposte, anche le stampe offerte da diversi artisti a supporto della campagna (tra gli altri Ruan Grupa, Crater Invertido, Glucklya, Chto Delat, Enrie Larsen e Sherry Millner), portate in strada come stendardi e bandiere durante le manifestazioni e i picchetti. Storicamente, la contrapposizione tra arte e attivismo può dirsi riconducibile a motivazioni di carattere ideologico, funzionali innanzitutto a negare sia l’agibilità politica che la prima ambirebbe a dischiudere, sia il ruolo dell’artista come agente di cambiamento; le cosiddette pratiche “artivistiche” contemporanee – di cui Casa delle Agriculture, Free Home University, Oliver Ressler e Ultra-red sono a tutti gli effetti rappresentativi – mettono in discussione le fondamenta di tale polarizzazione, dimostrando come il medium artistico, inteso come un campo di forze generativo e non mero simulacro, in un momento in cui predomina l’urgenza, assuma una rilevanza catalizzatrice nell’ottica di una sempre maggiore emancipazione sociale. > Il medium artistico, in un momento in cui predomina l’urgenza, assume una > rilevanza catalizzatrice nell’ottica di una sempre maggiore emancipazione > sociale. Alla base della comprensione del collasso climatico in corso e delle possibili modalità di fronteggiarlo, risiede la questione di un immaginario ormai cristallizzato che blocca la possibilità di un’inversione di rotta. Per decostruire i paradigmi vigenti e immaginarne di nuovi o diversi, servono strategie capaci di incorporare una differente nozione di natura, non più vista come altro da noi o “risorsa” sempre a disposizione, e di promuovere politiche terrestri che strutturino, a partire da presupposti altri e valori quali l’interdipendenza e interconnessione le nostre coscienze ecologiche. All’arte, con la sua potenza anticipatrice ed evocatrice, attraverso l’abilità ricombinatoria di agire sull’immaginario, spetta dunque il compito di smuovere l’irremovibile e configurarlo diversamente, mostrando come “sia possibile invertire ciò che era ritenuto inevitabile, per quanto inimmaginabile” (da una conversazione privata tra Oliver Ressler e TJ Demos, traduzione dell’autrice). Del resto, sacche di resistenza e di creazione di alternative esistono e si organizzano da tempo anche all’interno dell’anello: a meno di due chilometri dal NTC, l’agricampeggio Le Fattizze, da tre generazioni di proprietà della famiglia Rolli, sorge su un antico podere nel cuore della Terra d’Arneo, coniugando l’agricoltura biologica all’ecoturismo in quello che assomiglia a un campo di prova per il futuro del pianeta; o ancora, il neonato bosco 209 custodito da Viola Berlanda, fotoreporter di Torino che a febbraio 2021, nel vivo delle due pandemie disastrose che hanno colpito ulivi ed esseri umani, ha lasciato la sua vita a Parigi per prendersi cura di 300 baby alberi appartenenti a 80 specie antiche e ormai dimenticate, per tentare di ristabilire la biodiversità del luogo. Queste e altre esperienze partecipano di quel fermento incessante e laborioso che, scegliendo di non abbandonare la regione, promuove strategie sempre nuove per rivitalizzare il territorio e garantire un’eredità verde alle prossime generazioni: una sorta di contraltare di ciò che avviene a pochi passi da lì, dall’altra parte del muro. Da quando è arrivata Porsche, all’inizio degli anni Dieci, la pista è stata progressivamente avvolta da un velo di mistero: protetta e nascosta dalla cinta muraria e dalla vegetazione fitta, un po’ come accade nel film La zona d’interesse (2023) di Jonathan Glazer, l’attività dei circuiti di prova, coperta com’è dal segreto aziendale, è diventata deducibile unicamente dai suoni – la legge del più forte parla il linguaggio del ronzio costante dei motori. Si tratta di luoghi inaccessibili alla collettività e alla comunità scientifica, tanto da impedire ai più di conoscere con esattezza le specificità del patrimonio floristico e faunistico al loro interno, quantificarlo o precisarne i rischi causati da un eventuale disboscamento. > La legge del più forte parla il linguaggio del ronzio costante dei motori. La > pista è inaccessibile alla collettività e alla comunità scientifica. Con l’ingresso in scena del progetto di ampliamento del NTC, la battaglia tra il gruppo automobilistico e il Comitato dei custodi si è giocata, in poche parole, sul piano dell’assenza: cosa significa proteggere un bosco che non si vede ma che indirettamente si percepisce? Come cambiano le modalità di protesta nell’epoca della finanziarizzazione della natura, dove le forze all’opera sono più che mai decentrate, smaterializzate e svincolate dal terreno (del) reale, e dove le distanze tra i “luoghi esecutivi” (Stoccarda, quartier generale di Porsche), che decidono delle sorti e degli usi di un territorio, e quelli in cui tali disposizioni vengono applicate (Terra d’Arneo) si dilatano, passando per un fitto reticolo di rimandi e differimenti in cui a perdersi, alla fine, è proprio il referente nella sua sostanziale prossimità (il bosco)? A rispondere è Alessandra Pomarico, co-founder di Free Home University e parte del Comitato custodi del Bosco d’Arneo: “L’impenetrabilità del bosco è una condizione di partenza interessante, che ha portato al centro di questa lotta tante tensioni. Intanto ha evitato il rischio di una visione ‘nimby’ (not in my backyard), invitandoci a riconsiderare il valore dei beni comuni (commons), e disattivando il paradigma antropocentrico di molti movimenti ambientalisti occidentali che continuano a considerare la natura come risorsa. Non ci siamo mobilitati per difendere un bosco ‘utilizzabile’, fruibile, o godibile in una prospettiva umana, per la nostra idea di bellezza, di paesaggio, per il bisogno o desiderio di ‘riconnetterci con la natura’; la questione è diventata inevitabilmente ecosistemica, di interrelazione e interdipendenza tra comunità umane e più-che-umane, ci ha connesso a lotte translocali e ha permesso una temporalità più estesa, che guarda al passato e al presente, e soprattutto alle future generazioni. Naturalmente la distruzione di questa, così come di altre foreste, significa accelerare il rischio di estinzione della specie umana. Qui vivevamo anche un’altra tensione: paradossalmente il fatto che il bosco fosse inaccessibile ha significato anche la sua protezione dagli incendi – che da noi sono sempre di origine dolosa – oltre che da altre speculazioni, ma il fatto che sia in mano a una multinazionale dell’industria automobilistica, come questa vicenda ha dimostrato, non ci salva da rischi di eradicazione malgrado i vincoli europei”. “Abbiamo dovuto immaginarcelo questo bosco” prosegue Pomarico, “ipotizzare sulla vita che lo popola, studiare le relazioni tecniche, raccolto le testimonianze degli abitanti della zona per capire cosa ci fosse dietro il muro, quali uccelli nidificano, l’esistenza dei lupi. Alcuni di noi hanno fatto riprese e fotografie coi droni, e abbiamo dovuto persino utilizzare un elicottero mantenendoci nella ‘no fly zone’, che difende il segreto industriale, per consentire a Oliver Ressler delle riperse dall’alto. È interessante come una relazione affettiva, e direi di solidarietà, si possa instaurare per qualcosa che non si conosce, e che forse non si conoscerà mai, ma la cui esistenza è fondamentale in una prospettiva di giustizia ecologica e di difesa del vivente. Questa lotta ci ha permesso di parlare di diritti della natura, della possibilità di dare personalità giuridica al mare, ai fiumi, agli alberi, all’aria, di costituenti della Terra”. Gli attivisti salentini, dopo una campagna di informazione e mobilitazione, scendendo in piazza e spingendosi fino alla capitale del Land del Baden-Württemberg per prendere parte all’annual general meeting di Porsche e contestarne il piano – oltre a rinominare simbolicamente la Porsche-Platz in Bosco d’Arneo-Platz durante una cerimonia accompagnata dalla piantumazione di un leccio, grazie al sostegno degli alleati tedeschi del gruppo ambientalista Robin Wood – hanno prestato i loro corpi affinché fungessero da cassa di risonanza di una vicenda che, confinata a quei 12,5 chilometri del ring, sarebbe altrimenti rimasta senza voce, e per realizzare il sogno di poterlo finalmente attraversare, quel bosco, e di vederlo tornare a essere, dopo cinquant’anni, di nuovo pubblico in quanto riconosciuto a tutti gli effetti bene comune. > Come cambiano le modalità di protesta nell’epoca della finanziarizzazione > della natura, dove le forze all’opera sono più che mai decentrate, > smaterializzate e svincolate dal terreno (del) reale? È infatti negli anni Settanta che la foresta viene privatizzata: qui FIAT costruisce per prima la pista, inaugurandola nel 1975 sotto la denominazione SASN (Società Autopiste Sperimentali Nardò). Nel periodo tra il 1970 e il 1973, l’azienda automobilistica italiana realizza un programma di investimenti nel Mezzogiorno per circa 250 miliardi di lire, che avrebbero portato alla creazione di 18.000 posti di lavoro diretti e, auspicabilmente, ad altrettanti collaterali. Tra i siti individuati per la costruzione degli stabilimenti oltre a Termini Imerese, Termoli, Vasto, Bari, Lecce, Sulmona e Cassino figura anche Nardò, interessata dalla realizzazione di un circuito di collaudo, da terminarsi a metà del 1974. Nel video Fiat nel Sud Italia, disponibile nel canale Youtube dell’Archivio nazionale Cinema Impresa, la sezione del servizio dedicata a quest’ultima è l’unica a non fornire dati precisi, come è invece il caso di tutte le altre città coinvolte dal progetto di sviluppo. Ancora una volta, l’anello sembra essere un luogo impenetrabile. Sull’onda degli incentivi governativi per “risolvere” il problema della grave disoccupazione e sottoccupazione del Meridione e decongestionare Torino e le aree limitrofe del Nord industrializzato da poco reduce dall’“autunno caldo”, FIAT, similmente ad altri colossi del secondario, delocalizza l’attività produttiva là dove le tensioni sociali erano meno rumorose, la densità abitativa tutt’altro che elevata, i lavoratori, vittime del ricatto occupazionale, meno sindacalizzati. Insomma, spostarsi a sud si rivelava, per molti aspetti, una scelta quasi obbligata. La società di Agnelli rileva dunque il sito di Nardò, mantenendo pressoché intatta la conformazione del ring, frutto dei lavori preliminari realizzati negli anni Sessanta per accogliere un acceleratore di particelle (il concorso internazionale fu poi vinto da Ginevra, Svizzera). La piana tra Nardò e il tarantino era stata giudicata adatta a ospitare il protosincrotrone in quanto geologicamente stabile; l’operazione si inseriva nel quadro più ampio di rilancio dell’economia del Sud Italia, vedendo negli stessi anni la costruzione del centro siderurgico di Taranto, il petrolchimico di Brindisi o il cementificio Colacem di Galatina. La storia recente della Terra d’Arneo, che affonda le proprie radici nelle rivolte contadine “in bicicletta” degli anni Cinquanta contro lo sfruttamento dei grandi latifondisti per ottenere la redistribuzione delle terre, è una tessitura complessa di sogni e delusioni, progetti industriali e sforzi di conservazione. Dalla Cassa del Mezzogiorno alla riforma agraria, dall’ipotesi di un Salento “nucleare” alle velleità della FIAT, fino ad arrivare alla “pacifica convivenza” con Porsche, è visibile in controluce un filo rosso che collega tutti questi passaggi: la lotta dei Custodi del Bosco non è una lotta circoscritta a un’unica vertenza, ma a una logica coloniale ed estrattivista perdurante, che da decenni insiste sul Sud mettendone a repentaglio ecosistemi fragili, identità e stili di vita. > La lotta dei Custodi del Bosco non è una lotta circoscritta a un’unica > vertenza, ma a una logica coloniale ed estrattivista perdurante, che da > decenni insiste sul Sud mettendone a repentaglio ecosistemi fragili, identità > e stili di vita. Il ricatto salute o lavoro, su cui il marchio tedesco ha fatto a più riprese leva per ottenere il via libera al progetto di ampliamento, si è tradotto in un aut aut dichiarato: “O il piano, o il ritiro di tutti gli investimenti dall’area”. A fronte delle critiche infondate che attribuiscono a una presunta resistenza ideologica al progresso la causa principale dell’immobilismo pugliese, dati alla mano la regione ospita sul proprio territorio l’acciaieria più grande d’Europa – campione di inquinamento industriale e di CO2 –; è tra quelle in cui si concentra la maggiore produzione di energia eolica; costituisce il corridoio nazionale di gas naturale dall’Azerbaigian; assiste da tempo a un aumento progressivo di consumo di suolo; è la prima al Sud per crescita del prodotto interno lordo. Non proprio lo scenario che ci si aspetterebbe da un’aprioristica sequenza di “no”. Osservando un po’ più da vicino il caso del NTC emerge, inoltre, quanto esiguo sia da sempre il numero di dipendenti salentini occupati, e come, spesso, le loro proteste siano state in qualche modo silenziate: precari storici in perenne attesa di una stabilizzazione che non è mai arrivata, assunzioni interinali, incidenti in pista per supposte violazioni delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro. Ma allora in nome di cosa il Bosco d’Arneo, rimpiazzabile da un milione di alberelli che rischiano di non attecchire, sarebbe sacrificabile? Di una Puglia ancora “più famosa nel mondo” come dice il suo presidente Emiliano, pronta a essere inscenata proprio come è successo durante il G7 di Borgo Egnazia? Di una fantomatica destagionalizzazione del flusso turistico? O di un interesse pubblico fittizio che in realtà cela unicamente quello di una multinazionale? La vicenda del Bosco d’Arneo ha mostrato con chiarezza non solo l’assenza di un dialogo costruttivo tra le parti, ma anche la difficoltà di stabilire una narrazione condivisa. Il Comitato per la difesa del bosco, spesso tacciato di abbracciare un ambientalismo ingenuo, ha faticato a reperire dati scientifici e oggettivi a supporto delle proprie istanze, complice l’inaccessibilità dell’area. Dall’altro lato, Porsche ha optato per una comunicazione opaca, che ha alimentato sospetti e diffidenze, lasciando emergere solo frammenti parziali delle proprie intenzioni. In questo scarto di trasparenza e verificabilità, la battaglia si è giocata anche sul terreno scivoloso tra ciò che era possibile dimostrare e ciò che si poteva soltanto supporre. Il biologo Rocco Labadessa, incaricato della valutazione di incidenza ambientale per conto dell’azienda tedesca, è stato tra i pochi a esplorare direttamente la zona contesa. La sua analisi ha rivelato anzitutto l’assenza di un bosco secolare: al suo posto, campi agricoli abbandonati dagli anni Settanta, progressivamente riconquistati dalla vegetazione spontanea. Paradossalmente, la recinzione dell’area da parte di Porsche avrebbe protetto questo ecosistema nascente da incendi e pascoli, favorendo la crescita della vegetazione arborea e impedendo la conservazione delle praterie mediterranee, tra gli habitat tutelati dalla rete Natura 2000. > In nome di cosa il Bosco d’Arneo, rimpiazzabile da un milione di alberelli che > rischiano di non attecchire, sarebbe sacrificabile? La situazione attuale mostra infatti un ecosistema più integro all’interno del perimetro aziendale rispetto alle zone circostanti, dove l’agricoltura intensiva ha compromesso la biodiversità. Curiosamente, i pochi lembi di prateria superstiti si trovano lungo le piste dismesse, aree disturbate dall’attività industriale, ma che hanno permesso la sopravvivenza di specie tipiche degli spazi aperti. Questa dinamica, comune nel Mediterraneo, mette in discussione l’efficacia delle direttive europee nel riconoscere e tutelare habitat mobili e in continua evoluzione. Anche la definizione stessa di “bosco” risulta ambigua: nella maggior parte dell’area si tratta di un uliveto inselvatichito, con poche fasce a vegetazione ad alto fusto. Eppure, è proprio qui che gli ulivi sono rimasti indenni dalla xylella, forse grazie alla ricchezza biologica dell’ambiente, in netto contrasto con la monocoltura esterna che ha favorito la diffusione dell’infezione. Nel quadro dell’ampliamento del Nardò Technical Center, la questione della compensazione ecologica si fa centrale. Per autorizzare opere che comportano perdita di habitat, la legge prevede interventi di ripristino, spesso con incremento quantitativo: misure di greenwashing, ma che – almeno in potenza – un attore come Porsche potrebbe realizzare con maggiore efficacia rispetto a molte istituzioni pubbliche (soprattutto italiane). Tuttavia, la complessità tecnica e climatica di queste operazioni resta altissima. Numerose iniziative legate al PNRR, anche in Puglia, ne sono un esempio: costose, poco trasparenti, spesso senza un reale monitoraggio degli esiti. In regioni come il Salento, segnate da desertificazione e carenza idrica, i modelli forestali tradizionali non sono più replicabili. Serve un cambio di paradigma: non più piantare alberi per far vedere il bosco, ma progettare restauri ecologici su scala lunga, curando le condizioni che rendono possibile l’attecchimento, la resilienza, l’equilibrio. Senza ombra, senza acqua, senza biodiversità iniziale, un bosco non si improvvisa. Quello che si rischia, altrimenti, è un simulacro verde: un paesaggio agricolo travestito da ecosistema. Non si tratta, in definitiva, di sostituirsi alla natura, che ha tempi e processi propri – e che senza dubbio saprà sopravviverci – ma di facilitare dinamiche di ripristino ecologico. Il caso della resistenza dei Custodi si lega a numerose altre storie di ecologia politica insurrezionale nel continente, che si oppongono al capitalismo verde e alle misure semplicisticamente presentate come alternative sostenibili: dalle “occupazioni forestali” ad Hambach e a Lützerath in Germania contro le miniere di lignite gestite dalla compagnia energetica RWE, dove ambientalisti, attivisti, anarchici e abitanti locali hanno sperimentato forme di autogestione antispecista guardando a esperienze longeve come la più nota ZAD-Zone-To-Defend, che per quarant’anni ha resisto alla costruzione di un nuovo aeroporto fuori Nantes, alla lotta contro la “gigafactory” di Tesla nella cittadina di Grünheide, a soli cinque chilometri a sud-est di Berlino. In tutti gli esempi menzionati, ambiente, automotive e abitare si intrecciano indissolubilmente in una trama che compone di volta in volta tessuti differenti, appellandosi a strumenti legislativi ordinari e non, ma sempre a ricordarci che giustizia climatica e giustizia sociale vanno di pari passo: è questa l’unica formula per una transizione possibile. Uomo e natura si affiancano in una rinnovata cultura attivista che rompe con le categorizzazioni politiche, storicamente strutturata attorno a una logica dualistica e strumentale. Continuare a relegare ai margini della sfera politica i soggetti più-che-umani appare oggi impensabile: nel Capitalocene, come scrive Léna Balaud, le relazioni sociali e i rapporti di potere sono percepibili fino alle profondità delle torbiere e dei ghiacciai (e anche dei boschi a cui non si può accedere, ma che si possono immaginare): non c’è più spazio per ritirarsi; è giunta l’ora di ripensare la composizione di classe nell’ottica di interspecific resistances. > Giustizia climatica e giustizia sociale vanno di pari passo: è questa l’unica > formula per una transizione possibile. A marzo, la notizia tanto attesa: il “Bosco” dell’Arneo è salvo, ma a salvarlo, non è stata la Regione Puglia. A un anno esatto dalla comunicazione della sospensione dell’accordo di programma con il NTC, a seguito dei richiami da parte della Commissione europea dopo il ricorso presentato al Tar dal Comitato custodi, Italia Nostra e Gruppo di intervento giuridico, grazie al quale è stato mobilitato il commissario per l’ambiente Virginijus Sinkevičius, Porsche annuncia l’abbandono del piano in una nota in cui motiva la decisione alla luce delle attuali “prospettive sociali, ambientali ed economiche” e delle “circostanze dell’industria automotive mondiale”. Merito della resistenza dei Custodi? E della lungimiranza dimostrata dall’aver coinvolto autorevoli associazioni per la tutela della natura tedesche? Dell’adozione di tattiche artivistiche? O, piuttosto, delle mutate condizioni del mercato automobilistico internazionale? Si è forse appresa la lezione che il dibattito pubblico è inaggirabile e che su questioni di interesse collettivo non può vigere il vincolo della segretezza? Ora che Porsche dichiara che “le attività di testing continueranno a essere svolte nel sito, contribuendo allo sviluppo di tecnologie innovative per la mobilità”, la tanto temuta “alternativa zero” si regge tranquillamente in piedi: a oggi non c’è traccia né di disinvestimento né di dismissione alcuna. Resta forse da chiedersi che cosa abbia davvero vinto: non il bosco in quanto tale – ancora in gran parte sconosciuto, eppure centrale – ma una forma di opposizione che ha saputo saldare attivismo, pratiche artistiche e tensione conoscitiva, tentando di colmare con strumenti propri il vuoto lasciato da un sapere negato. Una mobilitazione che ha tracciato una via: quella di rivendicare trasparenza, partecipazione dal basso e giustizia sociale ed ecologica nei processi che decidono il destino dei territori. In un’epoca in cui la verità è sempre più una costruzione negoziata, la posta in gioco non è solo ambientale ma anche epistemologica: non si tratta solo di difendere i boschi, ma di riconoscere chi ha il potere di nominarli, visibilizzarli, rappresentarli, e quindi intervenirvi. L'articolo Morto un bosco (non) se ne fa un altro proviene da Il Tascabile.
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Salvare il mondo in tribunale
D a Huaraz si vedono le Ande. La città peruviana dista solo 20 chilometri dal lago glaciale Palcacocha, alimentato dalla fusione del ghiacciaio Palcaraju. Da alcuni anni, Luciano Lliuya, agricoltore e guida di montagna, osserva le cime preoccupato. Il ghiacciaio si sta ritirando troppo, e troppo in fretta. Il rischio che una frana o una valanga generino un’onda capace di travolgere il centro abitato è diventato concreto: nel 2020, il lago conteneva acqua sufficiente a riempire 800 piscine olimpioniche. Nonostante lo stato di emergenza dichiarato dal governo e l’installazione di enormi tubi per drenare l’acqua in eccesso, il livello del lago è sceso solo di pochi metri. Lliuya, comunque, non è rimasto a guardare. Dopo il vertice delle Nazioni Unite sul clima del 2014 – la Cop20 di Lima – Lliuya e l’organizzazione tedesca, Germanwatch, arrivata in Perù in occasione del negoziato ONU, hanno deciso di portare avanti un’idea folle, un’azione giudiziaria senza precedenti: denunciare per i danni legati alla fusione del ghiacciaio la società energetica tedesca RWE (Rheinisch-Westfälisches Elektrizitätswerk), una delle aziende più inquinanti d’Europa, anche se questa non ha mai operato in Sud America. A novembre 2015, la denuncia è stata depositata al tribunale distrettuale di Essen, città dove ha sede RWE. Citare in giudizio una multinazionale tedesca è una scelta strategica: lo scopo è far giudicare il caso da un tribunale della Germania. Nel Paese, infatti, la legge consente alle persone di fare causa a un vicino se le sue azioni ne danneggiano la proprietà e – dettaglio importante – il concetto di “vicinato” comprende qualsiasi luogo raggiunto dagli effetti dannosi, anche se lontano migliaia di chilometri. Nel contesto delle emissioni globali – nell’atmosfera senza confini – l’avvocata di Lliuya, Roda Verheyen, ha argomentato che il “vicinato” di RWE comprende il mondo intero: le emissioni della multinazionale contribuiscono in modo rilevante alla crisi climatica globale e, dunque, al rischio di alluvione che incombe su Huaraz. > Il caso dell’agricoltore peruviano Luciano Lliuya ha dimostrato che è > possibile citare in giudizio un’azienda fossile per i danni prodotti > dall’emergenza climatica anche a migliaia di chilometri di distanza. La pronuncia del tribunale tedesco è attesa dalla metà di aprile 2025. Finora nessuna sentenza è arrivata così lontana, nessuna ha collegato, nel contesto del riscaldamento globale, un lago glaciale sulle Ande alla sede di una multinazionale in Germania. I legali che stanno seguendo Lliuya ritengono che una pronuncia favorevole avrebbe conseguenze a cascata su aziende e governi. Se i grandi inquinatori cominciassero a temere di essere ritenuti responsabili per i danni climatici ovunque nel mondo, potrebbero adottare pratiche più sostenibili. E anche i governi più ricchi potrebbero essere spinti a finanziare l’adattamento e i risarcimenti per i danni da eventi meteorologici estremi, pur di evitare lunghe battaglie legali. Il caso Lliuya v. RWE è solo uno degli ultimi contenziosi incentrati sul cambiamento climatico ad aver attirato l’attenzione dei media. Le climate litigations – come vengono chiamate anche in italiano le azioni legali intentate contro Stati o aziende responsabili del riscaldamento globale e dei danni ambientali connessi – esistono da alcuni anni, ma negli ultimi tempi sono diventate sempre più visibili e numerose. In un periodo caratterizzato da una crescente repressione delle azioni di protesta e da una ridotta mobilitazione nelle piazze, portare il cambiamento climatico in tribunale può rappresentare il cavallo di Troia dell’attivismo ambientale contemporaneo. Una questione di diritto A porre le basi per le attuali climate litigations furono le cause legate all’inquinamento dell’aria, dell’acqua e al degrado ambientale, avviate negli anni Settanta, soprattutto negli Stati Uniti. Sono stati questi primi casi ad aprire la strada ai contenziosi climatici degli anni Duemila, quando il legame tra attività antropiche e cambiamento climatico è diventato impossibile da ignorare. Nel 2007, ad esempio, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso una sentenza storica per il caso Massachusetts v. EPA. In quella causa, dodici Stati, tra cui il Massachusetts, e diverse città statunitensi avevano citato in giudizio l’Environmental Protection Agency (EPA) per non aver regolamentato le emissioni di gas serra provenienti dai veicoli, sostenendo che tali emissioni contribuivano al cambiamento climatico e mettevano a rischio la salute pubblica. La Corte ha stabilito che, stando al Clean Air Act, la legge federale sulla qualità dell’aria, i gas serra rientrano nella definizione di “inquinanti atmosferici”, e dunque l’EPA era obbligata a regolamentarli. Per la prima volta, la crisi climatica veniva riconosciuta anche come una questione di diritto da affrontare giuridicamente. Da allora, le climate litigations sono aumentate di anno in anno. Stando al database Global Climate Change Litigation, dal 1986 al settembre del 2024 sono stati avviati 2976 contenziosi climatici, il 70% dei quali solo negli ultimi dieci anni. Gli Stati Uniti sono il Paese dove se ne registrano di più. Per contarli, comunque, occorre prima distinguerli, il che non è affar semplice. > Il numero di cause climatiche sta aumentando drasticamente. Dal 1986 ad oggi > sono stati avviati 2976 contenziosi in tutto il mondo, il 70% dei quali solo > negli ultimi dieci anni. Una delle definizioni più diffuse è quella adottata dal Sabin Center for Climate Change Law della Columbia University, che utilizza due criteri per selezionare i casi che vengono inseriti nel database sopracitato. Il primo è che il caso deve essere stato presentato davanti a un organo giudiziario, sebbene spesso vengano inclusi anche alcuni procedimenti amministrativi o richieste di indagine; il secondo è che il diritto, le politiche o la scienza del cambiamento climatico devono avere un ruolo rilevante nel caso. Un altro modo di fare attivismo Nel 2013 – un’era fa in termini di consapevolezza e politiche climatiche – un gruppo di cittadini e cittadine dei Paesi Bassi, guidato dall’organizzazione ambientalista Urgenda, ha deciso di citare in giudizio il proprio governo per inazione climatica. Secondo i promotori della causa, lo Stato olandese, non riducendo abbastanza rapidamente le emissioni di gas serra, stava violando i diritti fondamentali di cittadini e cittadine. I legali hanno fatto riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’inerzia statale stava minacciando il diritto alla vita (art. 2) e il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8). Nel 2015 è arrivata la sentenza del tribunale dell’Aia: entro il 2020 l’esecutivo dei Paesi Bassi avrebbe avuto l’obbligo di ridurre le emissioni di almeno il 25 per cento rispetto ai livelli del 1990. Nonostante il ricorso del governo, nel 2019 la Corte suprema ha confermato la sentenza. Per la prima volta, un tribunale riconosceva la responsabilità legale di uno Stato in materia climatica. I Paesi Bassi hanno annunciato diverse iniziative per rispettare la decisione: chiusura delle centrali a carbone, investimenti in energie rinnovabili e una legge sul clima più ambiziosa di quella vigente fino a quel momento. Misure che hanno funzionato: nel 2024, secondo l’Istituto nazionale di statistica (CBS Statistics Netherlands), le emissioni nel Paese sono scese del 37% rispetto ai livelli del 1990. Così, il contenzioso è diventato un precedente per chiunque voglia citare in giudizio uno Stato per inazione climatica. > Nel 2019 per la prima volta un tribunale ha riconosciuto la responsabilità > legale di uno Stato in materia climatica. I Paesi Bassi hanno dovuto chiudere > centrali a carbone, investire in rinnovabili e approvare una legge sul clima > più ambiziosa. Il cavallo di Troia del caso Urgenda ha dimostrato la sua efficacia, ottenendo anche risultati extra-giuridici. I contenziosi climatici rientrano infatti nella definizione più ampia di “cause strategiche”: procedimenti avviati non solo per ottenere un esito giuridico o amministrativo, ma anche per produrre effetti mediatici e politici. Poiché i ricorrenti – al pari di attiviste e attivisti – cercano di sollecitare l’intervento di governi, istituzioni o imprese, la questione al centro di un contenzioso strategico non riguarda solo i singoli individui coinvolti nella causa, ma anche categorie più ampie, spesso l’intera collettività. È questo che fa delle climate litigations una forma di attivismo, magari diversa nei modi dagli scioperi del venerdì promossi dai Fridays for future, dai blocchi stradali e dalle performance fatte da Extinction rebellion e Ultima generazione, ma non negli obiettivi. Fare attivismo climatico in tribunale funziona almeno su due fronti: in primo luogo coinvolge persone che non parteciperebbero a cortei e azioni dirompenti dei gruppi ambientalisti; in secondo luogo aggira il dibattito pubblico, che sui temi climatici è ormai polarizzato, portando la questione direttamente all’attenzione e alla pronuncia dei giudici. Chi fa causa a chi Nell’ambito delle climate litigations, i casi vengono classificati, in base al soggetto citato in giudizio, in due categorie: da una parte ci sono le cause contro gli Stati, accusati di inazione di fronte alla crisi climatica; dall’altra quelle contro le aziende responsabili delle emissioni e dei danni ambientali. > I contenziosi climatici rientrano nella definizione più ampia di “cause > strategiche”: procedimenti avviati non solo per ottenere un esito giuridico o > amministrativo, ma anche per produrre effetti mediatici e politici. Nella prima categoria, oltre al caso Urgenda, un altro contenzioso ormai storico è quello Neubauer, et al. v. Germany. Nel 2019 un gruppo di giovani, attivisti e attiviste tedeschi – sostenuti anche dal movimento locale dei Fridays for future – ha presentato alla Corte costituzionale un ricorso contro la legge federale per la protezione del clima. Nel 2021, il tribunale ha accolto le richieste, riconoscendo la necessità di una normativa più ambiziosa in termini di riduzione delle emissioni, e ha dichiarato incostituzionali alcune disposizioni della legge, giudicate insufficienti a garantire la tutela dei diritti fondamentali delle generazioni future. La Corte ha quindi ordinato al legislatore di stabilire, entro la fine del 2022, obiettivi chiari di riduzione delle emissioni. In risposta alla decisione, il Parlamento tedesco ha modificato la legge sul clima, fissando l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra di almeno il 65% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030 e di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2045, cinque anni prima rispetto alla data prevista dall’Unione Europea. Anche in questo caso, come in quello Urgenda, portare la questione climatica in tribunale si è rivelato un mezzo efficace per costringere uno Stato ad agire. Un altro precedente importante – anche nel dimostrare l’efficacia dei contenziosi per allargare la sfera generazionale dell’attivismo climatico – è il caso KlimaSeniorinnen v. Switzerland, avviato nel 2016 da un’associazione di oltre duemila donne anziane. Le signore svizzere hanno sostenuto di essere, a causa dell’età e del genere, più vulnerabili alle ondate di calore estreme, notoriamente aggravate dal riscaldamento globale. Hanno quindi denunciato la Svizzera alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), accusandola di non aver ridotto in modo sufficiente le emissioni di gas serra, mettendo a rischio salute e vita privata, contravvenendo così agli articoli 2 e 8 della Convenzione europea. Ad aprile 2024, la CEDU ha stabilito che l’inazione climatica di uno Stato può violare i diritti umani e ha condannato la Svizzera per non aver adottato misure adeguate e trasparenti di riduzione delle emissioni. Ha anche ribadito il dovere degli Stati di proteggere soprattutto le categorie più vulnerabili. Un anno dopo, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha riconosciuto alcuni miglioramenti legislativi da parte del Paese, ma ha chiesto ulteriori prove di coerenza con la sentenza. > Esistono diversi fattori che rendono difficile per cittadini, comunità o > associazioni intentare cause contro governi o aziende, tra cui l’assenza di > obblighi giuridicamente vincolanti, i lunghi tempi della giustizia, gli > elevati costi legali. Come accade per altre forme di attivismo, non tutte le cause climatiche hanno la stessa efficacia. Le ragioni vanno ricercate sia nelle caratteristiche specifiche di ciascun contenzioso, sia nel contesto nazionale in cui si svolge, oltre che in fattori sociali e giuridici più ampi. Le difficoltà dei contenziosi climatici A chiarire le principali difficoltà che ostacolano chi intenta una causa climatica è Luca Saltalamacchia, avvocato civilista esperto in materia: “L’assenza di indicazioni specifiche nei trattati internazionali sul clima è uno degli ostacoli più difficili da superare per ottenere una decisione positiva”, spiega al Tascabile. Il riferimento principale è all’Accordo di Parigi, che ha il merito di fissare un obiettivo mediaticamente forte – contenere l’aumento delle temperature ben al di sotto dei due gradi rispetto ai livelli preindustriali – ma non stabilisce come ciascun Paese debba contribuire concretamente alla mitigazione del riscaldamento globale. Esistono quindi diversi fattori che frenano la diffusione e l’efficacia delle climate litigations: l’assenza di obblighi giuridicamente vincolanti nei trattati internazionali, i lunghi tempi della giustizia, gli elevati costi legali. Elementi che rendono difficile per cittadini, comunità o associazioni intentare cause contro governi o grandi imprese. Anche quando sono presenti solidi argomenti scientifici e giuridici, l’accesso alla giustizia climatica resta diseguale, ostacolato da barriere economiche, normative e istituzionali. Un esempio è quello del contenzioso Milieudefensie v. Shell, tra i più noti a livello internazionale. Avviato nel 2019 dall’organizzazione olandese Milieudefensie, insieme ad altre associazioni e oltre 17 mila cittadini, il ricorso mirava a imporre alla compagnia petrolifera Royal Dutch Shell una riduzione sostanziale delle proprie emissioni. Dopo una prima sentenza storica favorevole ai ricorrenti – nel 2021 il tribunale distrettuale dell’Aia ordinava a Shell di ridurre del 45% le emissioni di CO₂ entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019 – il procedimento ha incontrato un’inversione di rotta. Il 12 novembre 2024, infatti, la Corte d’appello dell’Aia ha ribaltato la decisione, stabilendo che non si possono imporre a Shell obblighi specifici di riduzione. Le associazioni ambientaliste stanno ora valutando se ricorrere in cassazione, soppesando le probabilità di successo, i costi legali e l’importanza di mantenere alta l’attenzione pubblica sulle responsabilità delle grandi compagnie. > L’Italia è tra i pochi Paesi europei a non avere una legge quadro sul clima, > strumento che regolerebbe il processo di pianificazione e monitoraggio delle > politiche climatiche. Le incertezze che circondano alcuni tra i casi più emblematici di climate litigation mostrano quanto sia fragile affidarsi unicamente alla giustizia per ottenere risultati concreti nella riduzione delle emissioni e nel contrasto al riscaldamento globale. Una fragilità che si manifesta con particolare evidenza nel contesto italiano. Le cause climatiche in Italia L’Italia è tra i pochi Paesi europei a non avere una legge quadro sul clima, strumento che regolerebbe il processo di pianificazione e monitoraggio delle politiche climatiche: il Parlamento italiano, eletto con elezioni democratiche, non è ancora riuscito ad approvarla. Questa mancanza genera difficoltà anche nelle decisioni della magistratura in materia climatica. A spiegare il contesto italiano è di nuovo l’avvocato Saltalamacchia, che conosce bene le climate litigations in Italia anche facendo parte del team legale della prima e più nota causa italiana di questo tipo. Promossa nel 2021 da oltre 200 ricorrenti, l’iniziativa è chiamata Giudizio universale ed è rivolta contro lo Stato italiano, accusato di non attuare politiche efficaci per la riduzione delle emissioni. Secondo i promotori, questa inazione viola numerosi diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. A marzo 2024 è arrivata la sentenza di primo grado: il tribunale civile di Roma, pur riconoscendo la gravità della crisi climatica, ha dichiarato la causa inammissibile per “difetto assoluto di giurisdizione”. I giudici hanno sostenuto che la definizione delle politiche climatiche spetta alla sfera politica, non a quella giudiziaria, e hanno richiamato il principio di separazione dei poteri. Tuttavia, come sottolinea Saltalamacchia, “la sentenza della CEDU emessa il 9 aprile 2024 nel caso KlimaSeniorinnen v. Switzerland ha stabilito che il principio di separazione dei poteri non può essere invocato per impedire ai giudici di pronunciarsi su una causa climatica”. Il team di Giudizio universale ha fatto valere questa pronuncia nel ricorso in appello. La nuova sentenza è attesa nei primi mesi del 2027. > I casi italiani dimostrano che la mobilitazione per il clima attraverso lo > strumento del contenzioso giudiziario, da sola, non è sufficiente. Per > superarne i limiti, l’attivismo legale deve trasformarsi in capitale politico. Un altro contenzioso climatico italiano affronta difficoltà simili. Si tratta del caso La giusta causa, avviato nel 2023 da Greenpeace, ReCommon e dodici cittadini contro la compagnia petrolifera ENI. L’accusa è di aver contribuito in modo sostanziale al cambiamento climatico, investendo nel settore fossile pur conoscendone gli impatti ambientali già dagli anni Settanta. Il procedimento è stato sospeso dal tribunale di Roma ed è ora all’esame della Corte di cassazione, che dovrà stabilire se il tribunale abbia giurisdizione sulla causa. I casi italiani, come anche altri a livello internazionale, dimostrano che la mobilitazione per il clima attraverso lo strumento del contenzioso giudiziario, da sola, non è sufficiente. Per superare i limiti che ne riducono l’efficacia, l’attivismo legale – come ogni altra forma di attivismo – deve trasformarsi in capitale politico. Nelle democrazie, il mezzo a disposizione di ogni cittadina e cittadino per compiere questo passaggio è il voto. Eleggere parlamenti e governi capaci di approvare leggi a tutela del clima, adottare misure concrete contro il riscaldamento globale e porre fine agli incentivi alle fonti fossili è il primo passo per rendere incisiva anche l’azione nei tribunali. Solo così si può provare a scardinare uno dei pilastri dell’impunità climatica: l’idea che gli effetti della crisi siano troppo diffusi, indiretti o lontani nel tempo e nello spazio per poter essere attribuiti a un singolo soggetto. In questo modo, collegare la fusione di un ghiacciaio sulle Ande alle emissioni di una multinazionale in Germania – come nel caso Lliuya – potrebbe non sembrare più un’idea così folle. L'articolo Salvare il mondo in tribunale proviene da Il Tascabile.
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