S crivo questo testo mentre nelle piazze italiane – e, a intensità variabile, di
altri Paesi europei – divampano mobilitazioni moltitudinarie e scioperi massicci
in sostegno alla liberazione del popolo palestinese, segnalando una forte crisi
di consenso e di legittimità delle classi dirigenti europee, complici ed
ipocrite di fronte al genocidio, ma prone alla corsa generale al riarmo.
Potrebbe profilarsi all’orizzonte lo spazio per un’alternativa antifascista ed
emancipatrice contro di esse.
Tattiche e pratiche eterogenee, unite via terra e via mare da un unico obiettivo
comune, ma indipendenti le une dalle altre – flash mob, blocchi dei nodi
logistici dell’invio di armi, boicottaggio delle università e delle aziende
israeliane, blocchi delle infrastrutture della riproduzione, disobbedienza
civile, aiuti umanitari, mozioni popolari, minuti di silenzio, minuti di urla,
digiuno degli operatori sanitari – si rafforzano reciprocamente e si compongono
all’interno di un movimento plurale e diversificato.
Già nel triennio 2019-2022, anche il movimento per la giustizia climatica – non
a caso oggi “confluito” nel movimento di solidarietà internazionalista pro-Pal –
aveva saputo combinare pratiche differenti all’interno di una lotta politica,
poi polverizzata dalle impasse della congiuntura di guerra successiva al 25
febbraio 2022. Le “fiammate” degli ultimi mesi non sarebbero certo possibili
senza il lavoro costante e paziente di collettivi, sindacati e associazioni che,
da molti decenni e negli ultimi due anni, hanno tenacemente insistito sulla
lotta al fianco della Palestina, anche quando le manifestazioni rimanevano
isolate, scarsamente partecipate e quando su di esse calava lo stigma
dell’antisemitismo, nell’ambiguità e nei silenzi dei cosiddetti progressisti.
La potenza accumulata nelle piazze dovrà ora costruire una propria continuità,
coniugando l’allargamento con la capacità organizzativa, nella speranza di
incidere sul lungo periodo e nella consapevolezza che in Palestina si consuma,
accelerandola, una tappa di una tendenza imperialistica alla conquista militare
di territori e risorse, sostenuta dalla riconversione bellica delle economie
mondiali.
> La potenza accumulata nelle piazze dovrà ora coniugare l’allargamento con la
> capacità organizzativa, nella consapevolezza che in Palestina si assiste a una
> tendenza sostenuta dalla riconversione bellica delle economie mondiali.
È una “bella” coincidenza che, proprio in questi giorni, sia arrivata nelle
librerie la traduzione italiana di un libro che ci costringe a riflettere in
questa direzione: Né verticale né orizzontale. Verso una teoria
dell’organizzazione politica, di Rodrigo Nunes, pubblicato nel 2021 in lingua
inglese per Verso Books e tradotto da Enrico Gullo per Edizioni Alegre. È
possibile concepire e costruire una dimensione organizzativa che – mimando
l’eterogeneità dei movimenti sopra menzionati – possa combinare tattiche e
strumenti differenti, che si rafforzano a vicenda invece di competere, e
includere molteplici “anime” in tensione tra loro, ma che condividono un
obiettivo strategico di medio periodo? Per l’autore il passaggio teorico-pratico
necessario è quello di “pensare all’organizzazione come a un’ecologia”, in cui
tutte le componenti, ciascuna nella sua autonomia, condividono un medesimo
ambiente e possono così plasmare e favorire il campo d’azione delle altre. Solo
così sarà forse possibile integrare a livello organizzativo quella molteplicità
che può convivere (e litigare) in un movimento, ma che solitamente si dà forme
organizzative separate e concorrenti.
La diagnosi di Nunes muove dall’evanescenza dello straordinario ciclo di
mobilitazioni globali del 2011 contro l’austerity e la rendita finanziaria,
defluito velocemente, incapace di costruire una durata all’interno delle piazze
occupate, indifeso di fronte alla torsione reazionaria e securitaria che gli si
è poi contrapposta. La sua sensazione – scrive – è quella di aver mancato una
grande e storica opportunità nel 2011, da cui è poi derivato un progressivo
ridimensionamento dell’orizzonte e un senso di impotenza collettiva. Non a caso,
nel decennio successivo, da più parti sia a livello teorico sia a quello
pratico, è stata riproposta la questione dell’organizzazione, dell’articolazione
e della durata. Da angolature eterogenee, irriducibili e talvolta in contrasto
tra loro, si è discusso negli ultimi anni di “crisi dell’immanenza” e di
“istituzioni plebee” (da una prospettiva neomachiavelliana), di “auto-affezione
mediata della moltitudine” e di “effetto di trascendenza nell’immanenza” (da una
prospettiva neospinoziana), di “insurrezione democratica” e di “dualismo di
potere” (da una dichiaratamente neomarxista).
L’esigenza del nostro tempo, approfondita certo dalla crisi della pandemia e
dalla dispersione che ne è succeduta, pare quella di “articolare” quei termini
che, in altre epoche storico-filosofiche, sono stati invece separati: natura e
politica, immanenza e trascendenza, orizzontale e verticale, unità e
molteplicità, insurrezione e democrazia, autonomia ed egemonia, micropolitica e
macropolitica. La gradazione di questo dosaggio, nonché la concettualità più
idonea a esprimerla, resta questione viva e aperta, discutibile più nella
pratica che nella teoria. Ed è all’interno di questo dibattito, che si colloca
il libro di Nunes, redatto proprio tra la fine degli anni Dieci e la pandemia da
Covid-19.
> Per l’autore è necessario “pensare all’organizzazione come a un’ecologia”, in
> cui tutte le componenti, ciascuna nella sua autonomia, condividono un medesimo
> ambiente e possono così plasmare e favorire il campo d’azione delle altre.
Nunes non si abbandona a fantasticherie o idealizzazioni sulla creazione di una
“nuova organizzazione” ma, con un approccio mirabilmente pragmatico, è piuttosto
impegnato a ripensare relazioni più virtuose ed efficaci tra le organizzazioni
già esistenti. Non si tratta, infatti, di “creare” ex novo un’ecologia, perché –
aderendo all’ontologia relazionale di Spinoza – ogni soggetto (individuale o
collettivo) esiste e agisce sempre e soltanto all’interno di una rete di
interdipendenze, attraversato e influenzato dalle affezioni esterne e
dall’ambiente circostante più prossimo, che lo arricchiscono o lo contengono.
Ciascuna cosa consiste, infatti, in un’integrazione di molteplici parti entro e
attraverso una struttura di relazioni che stabilisce l’equilibrio e i limiti di
quella composizione, e che a sua volta è parte di una composizione a un livello
ulteriore. La proposta teorica di Nunes è allora quella di trasformare questa
ontologia transindividuale in azione politica e ripensare a ciò che già esiste
(in primis noi stessi e i gruppi di cui siamo parte) in termini ecologici,
dunque nutrire cooperazione, reciprocità e condivisione di risorse tra nuclei
organizzativi differenti ma accomunati da una strategia condivisa, enfatizzando
i legami che connettono gli uni agli altri.
Da un lato, all’interno di questa ecologia organizzativa, non vige
un’orizzontalità piatta ed esasperata che annulla ogni differenza (di posizione
oggettiva nella struttura sociale e di preparazione politica soggettiva) tra i
nuclei, bensì vi sono prevalenti che possono (e devono) assumere la funzione di
avanguardia in una data congiuntura e punti strutturalmente significativi della
totalità sociale (alcuni più di altri) che possono destabilizzare il sistema.
Dall’altro lato, di fronte ai limiti dell’orizzontalismo e dell’assemblearismo,
non è certo sufficiente richiamare la necessità di un’ecologia organizzativa
maggiormente articolata e integrata, ma vanno affrontanti anche tutti i limiti
che, sull’altro versante, la dimensione organizzativa ha mostrato nel corso del
Novecento, attirando su di sé sospetti e critiche.
Nunes vuole dunque offrire una terapia filosofica al cosiddetto trauma
dell’organizzazione: se per Nunes tale paura dell’organizzazione è storicamente
legata alla torsione autoritaria dei Paesi socialisti, l’inclinazione
identitaria dei vari gruppi della sinistra radicale alle nostre latitudini ha
perpetuato quel trauma anche tra le più giovani generazioni. Si può allora
ripensare l’organizzazione non come la cristallizzazione di un’identità
omogenea, da difendere dalle minacce esterne, ma come l’assemblaggio di parti
molteplici in una potenza collettiva e la concentrazione di questa potenza su
dei punti strategici condivisi. Obiettivi comuni e strategia condivisa segnano
dunque un perimetro entro cui tattiche e “anime” differenti possono non solo
coesistere, bensì arricchirsi reciprocamente: convergere. Per quanto
nell’astrattezza di un libro teorico – il metodo di Nunes suggerisce il netto
realismo di partire dalle forze già esistenti e dalla pratica dell’obiettivo
comune.
All’interno di un’ecologia organizzativa, l’agire politico viene concepito nei
termini dell’azione distribuita. Non si tratta né di un’azione aggregata, quella
che viene spontaneamente ripetuta da molti soggetti senza alcun tipo di
coordinamento, né di strategia comune, né di un’azione collettiva, pianificata
intorno a un centro decisionale che ne stabilisce modi e tempi dell’esercizio. A
lato di questi speculari eccessi – eccesso di dispersione e differenze non
coordinate da un lato, di centralizzazione verticistica dall’altro – l’azione
distribuita è promossa da un nucleo della rete e assunta dagli altri nuclei,
ciascuno secondo le proprie caratteristiche, scale e temporalità, che in questo
modo integrano e modificano lo stimolo iniziale.
> Nunes non si abbandona a fantasticherie sulla creazione di una “nuova
> organizzazione”, ma, con un approccio mirabilmente pragmatico, è piuttosto
> impegnato a ripensare relazioni più virtuose ed efficaci tra le organizzazioni
> già esistenti.
Un nucleo prende un’iniziativa, lancia un percorso e delle parole d’ordine,
aprendo uno spazio in cui altri nuclei posso a loro volta intervenire e
contribuire. Lo stimolo iniziale “condiziona ma non determina” il processo che
ne segue, secondo una logica relazionale e non proprietaria dell’azione
politica. Si genera così un sistema di scambi e risonanze, in cui la
funzione-di-avanguardia del nucleo che per primo innesca l’azione non è visto
con sospetto o gelosia, e in cui una molteplicità di nuclei portano avanti una
lotta comune in forme variegate, su una scala spaziale e temporale più ampia di
quanto un singolo nodo potrebbe fare. I processi organizzativi non sono piatti e
orizzontali, ma al loro interno si differenziano tempi e modi diversi di
attività, funzioni e capacità differenti: tali differenze possono essere
sfruttate per la crescita e l’avanzamento dell’ecologia e la leadership può
circolare da un nucleo all’altro a seconda delle fasi.
Porre il focus sull’azione distribuita permette di partire non da quel che ci
dovrebbe essere, ma da quel che c’è già, un irriducibile dato di pluralità
ecologica, e sottoporlo alla disamina dei nostri obiettivi, non delle nostre
identità. Effettivamente, nelle dinamiche “orizzontaliste” del movimento, i
nuclei spesso si chiudono risentiti in sé stessi quando un altro prende
l’iniziativa senza previo avviso e consenso di tutti gli altri, o senza averne
prima discusso insieme, e così si perdono lo spazio di opportunità e
“traducibilità” che quella ha aperto. O, altrettanto spesso, i vari collettivi
competono nella gara a chi per primo promuove un’iniziativa, invece di
concentrarsi sulla possibile moltiplicazione e risonanza che ogni azione genera.
L’azione distribuita vorrebbe dissolvere questa competizione identitaria e il
tic – tipico di una condizione di impotenza – di accusarsi o sfidarsi l’un
l’altro.
Di fondo, l’orizzontalismo prevederebbe, nel suo ideale, che ogni decisione
venga presa nell’assemblea generale alla presenza di tutte e tutti. Il principio
(sano) della massima condivisione e allargamento scade nella tendenza (malsana)
a rimandare le decisioni all’infinito, quando tutte/i sono presenti e vi è il
tempo di discutere di tutto. Questo feticismo della presenza e sete di
inclusività illimitata riproduce, secondo la critica di Nunes, quel principio di
trascendenza della sovranità contro cui vorrebbe invece battersi. La presenza di
tutte/i in assemblea configura infatti un’entità trascendente e separata, come
se fosse qualcosa di superiore alle relazioni che la creano, che deve
continuamente difendersi dalle minacce (esterne e interne) e affermare il
proprio potere decisionale (fosse anche, per esempio, la decisione della data di
un’iniziativa pubblica) nello spazio dell’ecologia con gli altri nodi.
Come si organizzano insieme i vari nuclei, senza fare assemblea sempre tutte/i
insieme? Pare questa dunque una domanda che il libro ispira, senza darvi una
risposta esaustiva. O – per slittare dal “come” al “chi”, sebbene non sia certo
un passaggio lineare – chi articola l’ecologia e il processo convergente?
Domande che reinterrogano la necessità di una mediazione capace di tessere e
articolare insieme i differenti nuclei. Nunes distingue una mediazione come
forma da una mediazione come forza, e optando per questa seconda, si distanzia
dalle posizioni che vorrebbero elevare una certa forma (il partito) o un certo
simbolo a cerniera tra le varie parti in gioco. La mediazione non è più
concepita come una sintesi superiore tra due termini contrari, bensì come un
equilibrio metastabile tra forze molteplici, variabile a seconda della
situazione in cui si trova ad agire, che conserva tutte le forze in gioco in una
certa proporzione.
Come in fisica due forze A e B che premono in direzioni opposte non si negano
l’un l’altra, ma possono coesistere in un punto di equilibrio, allo stesso modo
un’organizzazione politica non è chiamata a scegliere tra un picchetto, un
comizio, uno spazio sociale o una petizione parlamentare, bensì può combinare
differenti espressioni di una lotta a seconda delle condizioni date. “Se non è
possibile avere tutto insieme (massima identità e massima apertura, massima
centralizzazione e massima democrazia, massima autonomia e massimo
coordinamento…), è necessario averli in misure diverse e in punti diversi,
bilanciati a seconda delle esigenze dell’occasione” (p. 107).
> Nunes vuole offrire una terapia filosofica al cosiddetto trauma
> dell’organizzazione: se tale paura è storicamente legata alla torsione
> autoritaria dei Paesi socialisti, l’inclinazione identitaria dei vari gruppi
> della sinistra radicale ha perpetuato quel trauma anche tra le più giovani
> generazioni.
Mediazione non suona allora come compromesso tra le parti, ma come distribuzione
dei ruoli e differenziazione funzionale. Senza un’assemblea generale che debba
ratificare ogni passaggio e decisione, ciascun nucleo svolge le proprie funzioni
(chi indice il picchetto di fronte ai luoghi di studio o lavoro, chi gestisce
uno spazio sociale, chi offre supporto legale alle occupazioni abitative, chi
conduce una mozione in consiglio): un nodo può svolgere più ruoli
contemporaneamente, magari a intensità differenti, ma nessuno li svolgerà tutti,
né ci sarebbe il bisogno di farlo. E se alcuni nuclei svolgono una medesima
funzione, le loro tensioni possono anche rivelarsi generative e sane, se nessun
nucleo mira a depotenziare l’altro. All’interno dell’ecologia, convivono infatti
più risposte possibili: se si pensa che esista una sola risposta possibile, si
compete contro gli altri nodi al fine di estirpare le false alternative; se si
ammettono più soluzioni possibili, si è meno incentivati a competere e più a
cooperare.
“Pensare davvero le proprie azioni in termini ecologici – secondo Nunes –
significa essere meno aggrappati alla propria immagine di sé” (p. 221): vale a
dire, più concentrati sulle proprie funzioni che sulle proprie posizioni
identitarie, e agire tenendo conto degli altri nuclei della rete, proponendosi
di creare vantaggi e opportunità gli uni per gli altri. Le azioni molteplici
possono rafforzarsi reciprocamente: la “differenziazione funzionale” è uno dei
principi di un’ecologia, in cui ci sono diversi e vari ruoli (il rebel, azione
diretta e conflitto; l’organiser, l’organizzatore politico; gli helpers; gli
advocates, o figure istituzionali) e in cui maggiore è la differenziazione e la
specializzazione dei singoli nuclei, più l’ecologia si espande ed è in salute.
La concezione di mediazione come distribuzione equilibrata di forze non risolve,
nel libro di Nunes, interamente la questione del coordinamento strategico tra le
varie parti: chi coordina, se certo il coordinamento non può darsi
spontaneamente, ma nemmeno può farlo un’assemblea costante di tutte le parti in
gioco? Un nucleo tra gli altri dell’ecologia? Un nucleo separato dell’ecologia,
deputato a questa funzione? Come si forma quell’unità di azione strategica tra
nuclei che tendono alla dispersione? Un mancato chiarimento di questi
interrogativi ha reso spesso precarie le ecologie che abbiamo visto formarsi. La
riflessione di Nunes mette per lo meno sulla strada giusta. Cinque indicazioni,
in particolare, possono essere ricavate.
1) In primo luogo, una critica dell’immediatezza, tanto delle filosofie che la
sostengono, quanto di quelle pratiche che la rivendicano. Se oggi è sempre più
comune affermare il primato delle relazioni (la posizione teorica secondo cui
ogni ente è costituito dalle sue stesse connessioni e soltanto nelle relazioni
possa esistere, esprimersi o trasformarsi) contro ogni sostanzialismo ed
essenzialismo, questa posizione spesso coesiste con una forte richiesta di
immediatezza: l’idea secondo cui tutte le mediazioni debbano essere eliminate e
che le differenze e le singolarità debbano esprimersi così come esistono “di per
sé”. Si tratta di due posizioni inconciliabili. In virtù del fatto che ogni
azione ed espressione è una composizione di molteplici parti, vincolate le une
alle altre in un qualche punto di equilibrio, la struttura di questi “vincoli”
determina una mediazione che connette le parti tra loro ma, al tempo stesso, le
limita. Non è possibile collocarsi all’interno di un’ecologia e, insieme,
rivendicare la piena e istantanea espressione di sé (che sia in una chat, in un
coordinamento o in un’azione). Concepirsi come parzialità significa accettarsi
come parzialità, rinviare la propria espressione ai momenti e alle forme
adeguati agli altri termini della relazione. Un eccesso di immediatezza
determina un sovraccarico del sistema e, con esso, un effetto di entropia non
desiderato. L’ecologia è quella mediazione che espande e arricchisce l’essere
delle sue parti soltanto se queste ne accettano i limiti. Ne deriva quella che
potremmo riassumere come la “positività del limite”: si rinuncia a una libertà
parziale e immediata, per conquistare una forza maggiore. L’autolimitazione
reciproca delle parti di un’ecologia è quella pratica su cui si gioca
l’efficacia di una struttura: la capacità di valorizzare e non di reprimere la
massima forza di ciascun nucleo che ne fa parte.
> All’interno dell’ecologia convivono più risposte possibili: se si pensa che
> esista una sola risposta si compete contro gli altri nodi al fine di estirpare
> le false alternative; se si ammettono più soluzioni possibili, si è meno
> incentivati a competere e più a cooperare.
2) Limiti interni, che sono a loro volta posti dai limiti complessivi della
congiuntura: il problema machiavelliano per eccellenza di adattarsi alle
circostanze esistenti e non pensare che tutto sia sempre illimitatamente
possibile. Contro la melancolica difesa di una qualche purezza ideologica, la
consapevolezza di agire all’interno di limiti determinati e la necessità di far
presa sulla realtà esterna orienta l’azione all’efficacia e, dunque,
all’esigenza di non disperdere o allontanare le forze che condividono i
nostri stessi obiettivi strategici. L’adattamento non è sinonimo né di
opportunismo conciliante, né di cinismo amorale, ma si inscrive in un progetto
di trasformazione della società. Come suggerisce Nunes, si tratta di “espandere
il regno delle possibilità, cioè i fini, nelle condizioni date”: “non si tratta
solo di agire nei limiti dati, ma di agire su quei limiti per trasformarli” (p.
328). Il comportamento collettivo o aggregato non può essere troppo lontano
rispetto alle condizioni esistenti o non sarà praticabile (forse l’eccesso di
soggettivismo della sinistra rivoluzionaria negli ultimi decenni), né troppo
vicino da perdere ogni distanza critica e obiettivo trasformativo (il problema
della sedicente sinistra tecnocratica e riformista). Si tratta di mirare al
“massimo del cambiamento possibile nei limiti esistenti” (p. 344). Il realismo
si traduce non in una politica della prudenza estrema e dello stare dentro
limiti stabiliti, ma in una politica sperimentale: “essere radicali in rapporto
a una circostanza concreta”, sostenere e amplificare ciò che già esiste
nell’ecologia, facendo attenzione a non danneggiare le condizioni che rendono
possibili le azioni altrui.
3) Egemonia e cura, spinta e ascolto, non sono necessariamente pratiche
alternative, ma possono combinarsi all’interno di relazioni ecologiche. Ogni
attore può esercitare legittimamente il massimo di egemonia di cui è capace
sugli altri nuclei, ossia il proprio potere di influenzare il corso
dell’ecologia, ma al tempo stesso prendersi la massima cura di non metterla a
repentaglio. Da un lato, qualunque spinta deve andare nella direzione
dell’obiettivo comune e sostenere il processo, senza ambire a controllarlo
interamente. Dall’altro, si riconosce l’egemonia – con la correlata “funzione”
di leadership – come un aspetto ineliminabile della politica. Dare avvio a un
comportamento collettivo ed “essere seguiti” non si traduce nella volontà di
costringere gli altri a fare una cosa, ma in quella di moltiplicare la potenza
collettiva su dei punti di lotta specifici, concentrati e non eccessivamente
dispersi (qui la differenza tra funzione-di-leadership e
posizione-di-leadership). Spingere i nuclei di un’ecologia verso un’azione fa
parte di un’ecologia in salute, attraversata da inevitabili tensioni interne,
quando questo non è finalizzato alla riproduzione di un’identità, ma alla
concentrazione della potenza collettiva su qualche punto strategico, e si
accetta che la propagazione di quell’azione non sia interamente allineata
all’input iniziale.
4) Partito ed ecologia organizzativa non sono la stessa cosa. Il partito non
rappresenta né la totalità dell’ecologia, la riunione di tutte le istanze, né la
forma più avanzata della coscienza (e dell’organizzazione) della molteplicità.
Nunes rinuncia a queste concezioni tradizionali del partito e lo circoscrive a
una funzione per lo più comunicativa: il partito come megafono mediatico, dedito
alla necessità di influenzare un’opinione pubblica esterna ai circuiti
dell’attivismo, all’occupazione degli spazi mediatici mainstream, ad articolare
interessi differenti in un’identità comune al di là di quelle già esistenti, e
dunque a guadagnarsi il sostegno di quelle parti di società non politicamente
attive.
Il partito raccoglie le istanze dei nuclei dell’ecologia, riceve da questi
direzionalità strategica con apertura e flessibilità, al pari di ogni nucleo
dell’ambiente condiviso, ma ciò che lo distingue dagli altri è la funzione
precipua di comunicare quelle istanze all’esterno dell’ecologia, nei settori
non-organizzati, dunque di fare mediazioni tra settori differenti e ottenere
consensi trasversali. Non significa che questa funzione sia svolta solamente e
interamente dal partito, ma che il partito ha questa come funzione principale,
in un quadro di distribuzione delle funzioni sopra menzionato. Nunes esce dunque
dallo schema tipico di un certo pensiero della sinistra radicale, quello della
“verticalizzazione”: non si tratta di verticalizzare le lotte sociali nel campo
della rappresentanza, ma di amplificarle nel campo della lotta mediatica e
ideologica e di permettere così che queste crescano e diano maggior forza al
partito stesso.
> Non si tratta di verticalizzare le lotte sociali nel campo della
> rappresentanza, ma di amplificarle nel campo della lotta mediatica e
> ideologica e di permettere così che queste crescano e diano maggior forza al
> partito stesso.
Nel far menzione del partito e della sua funzione, Nunes non chiarisce né il
problema del rapporto con lo Stato né propone un’analisi dei media su cui
combattere la lotta ideologica. Se da un lato viene rifiutata la posizione
appellista secondo cui il potere non risiede più nelle istituzioni dello Stato,
dall’altro viene accolta una certa parte di questa posizione, come dimostrato
dal fallimento del governo greco nel 2015 e dall’espansione globale delle catene
del valore, che supera ogni spazio di sovranità politica. Per quanto limitato,
il potere delle istituzioni pubbliche non è annullato e anzi ancora esercita una
tutela fondamentale degli interessi del capitale e la riproduzione della
forza-lavoro. Il potere dello Stato e la sua “autonomia relativa” sono emersi
durante la fase più acuta della pandemia. Nell’attuale e profonda
disarticolazione e competizione tra le istituzioni e i poteri dello Stato, forse
bisognerebbe chiarire a quale livello istituzionale possa collocarsi una
strategia della trasformazione sociale. Né, forse, si può parlarne in astratto,
ma ogni Stato presenta differenti caratteristiche istituzionali e attuali
condizioni di esercizio del potere. Allo stesso modo, il funzionamento
dell’arena mediatica viene menzionato ma non approfondito. La discussione
collettiva del libro potrà forse riprendere alcuni di questi problemi.
5) Separare interno ed esterno non pare più realmente possibile, né tanto meno
utile: isolare un soggetto politico dall’ambiente esterno, o pensarlo come
sovrano di quello spazio (imperium in impero) e capace di plasmarlo interamente,
è fallace e illusorio. Un sistema è sempre trasformato e modificato dalle
informazioni e dagli stimoli esterni. Auto-organizzazione è sempre, in parte,
etero-organizzazione, se una molteplicità di elementi all’interno di un ambiente
condiviso si influenzano gli uni con gli altri, aprendo o limitando il campo di
possibilità degli altri. Ne risulta che l’organizzazione sia sempre un dosaggio
contingente e variabile, a seconda della congiuntura, di auto- ed
etero-organizzazione, non la prevalenza di un termine sull’altro. Lo spinozismo
di cui abbiamo bisogno oggi ci mostra proprio questa reciprocità del dentro e
del fuori: molteplicità ed eterogeneità sono punti di forza se articolate
all’interno di un dispositivo di etero-determinazioni reciproche, in cui
ciascuna parte è al tempo stesso arricchita e limitata dalle altre.
L'articolo Né orizzontale né verticale di Rodrigo Nunes proviene da Il
Tascabile.
Tag - filosofia politica
M ikkel Bolt Rasmussen, professore di estetica politica al Dipartimento di arte
e studi culturali dell’Università di Copenhagen, in La controrivoluzione di
Trump (2019) e Fasciocapitalismo (2024), produce un’analisi della politica
(anche delle immagini) di Trump e in generale dei nuovi movimenti, partiti e
leader neofascisti come una politica di alleanza rinnovata tra tardo-capitalismo
e fascismo. Il suo obiettivo è trattare il fascismo all’insegna del suo
adattamento, dunque come un’ideologia che ha aggiornato tanto gli strumenti
quanto il fine. Il neofascismo può servirsi della democrazia liberale (nelle sue
possibilità illiberali) per costruire un’utopia più modesta: la riproduzione
della società del dopoguerra, più semplice e dunque più comprensibile, più
spensierata, profondamente razziale, patriarcale. Insomma, i nuovi fascismi
vogliono restringere il campo delle libertà e della partecipazione democratiche
per difendere il benessere dei Paesi Occidentali, in un momento di crisi
economica, politica, migratoria, bellica, climatica, sanitaria.
Nei testi di Rasmussen non si trova, per programma, un approfondimento della
politica danese, più volte invece portata ad esempio per descrivere il “razzismo
di Stato liberale” delle democrazie occidentali, nonostante un certo
antirazzismo morale: la Danimarca, negli ultimi vent’anni, ha portato avanti
politiche estremamente restrittive nei confronti delle persone ritenute
straniere (con vere e proprie ghettizzazioni, incarcerazioni coatte,
sfruttamento, eradicazione culturale) e per contrastare la migrazione, regolare
o irregolare che sia (con addirittura l’esternalizzazione delle pratiche di
richiesta d’asilo). Dal momento che la Danimarca viene più volte mobilitata come
modello a cui aspirare nel contesto Europeo, in termini anche sociali,
soprattutto in quanto avanguardia in sostenibilità e welfare (per le persone
danesi), ho deciso di contattare direttamente Rasmussen, per ospitare qui la sua
critica.
Ne ho approfittato per chiedergli anche un aggiornamento della sua analisi su
Trump, alla luce del secondo mandato. Ne viene fuori una sorta di profezia dei
futuri noti (possibili) dei Paesi del Nord Globale e, ovviamente, anche
dell’Italia. Il governo Meloni ha approvato una serie di decreti e disegni di
legge culminata con il decreto sicurezza (risultato di una decretazione
d’urgenza del precedente DDL), che secondo molti osservatori rappresenta un
pacchetto repressivo verso il dissenso e oppressivo verso le persone
marginalizzate. Per combattere le realizzazioni storiche del neofascismo
nazionale, bisogna studiare le realizzazioni storiche in altri Paesi.
PROFESSOR RASMUSSEN, NEI SUOI LIBRI, E ANCHE SU EFLUX, PARLA PER LA DANIMARCA DI
“RAZZISMO DI STATO LIBERALE”, UN CONCETTO SIMILE, CREDO, A QUELLO DI “STATO
RAZZIALE INTEGRALE” DI HOURIA BOUTELDJA, APPROFONDITO IN BEAUFS ET BARBARES
(2023). STIAMO PARLANDO DI CONCEPIRE IL RAZZISMO COME UNO STRUMENTO SOCIOTECNICO
(UN “COMPLESSO DI ATTIVITÀ PRATICHE E TEORICHE”) CON CUI L’ESTABLISHMENT
“GIUSTIFICA E MANTIENE IL SUO DOMINIO” RIUSCENDO ANCHE A OTTENERE IL CONSENSO
ATTIVO DEI GOVERNATI. MI PERMETTA UNA PROVOCAZIONE CHE POTREBBE ARRIVARE DA
DESTRA: SE I RISULTATI DI QUESTE POLITICHE, PER ESEMPIO IN DANIMARCA, SONO
“POSITIVI”, CIOÈ PORTANO BENESSERE DIFFUSO, SOPRATTUTTO PER QUELLA PORZIONE DI
POPOLAZIONE RITENUTA “CITTADINA” LEGITTIMA, NON SI TRATTA FORSE DI POLITICHE A
CUI ALTRI GOVERNI POTREBBERO O DOVREBBERO GUARDARE, VISTO CHE L’ALTERNATIVA È
UNA RIVOLUZIONE CHE LO STESSO STATO DEMOCRATICO NON PUÒ VOLERE, OPPURE LA GUERRA
CIVILE?
La situazione danese rende manifesto che la riemersione del fascismo come
fenomeno politico fa parte di una storia molto più lunga e complessa, che non
può essere limitata alla gestione della crisi finanziaria da parte delle élite
politiche delle nazioni europee, e sicuramente non a un presunto aumento del
numero di migranti arrivati in Europa. Nel contesto danese, l’introduzione di
politiche migratorie estremamente dure deve essere inquadrata in una traiettoria
storica ben più lunga, che riguarda il modo in cui la classe lavoratrice è stata
concettualizzata nelle prime fasi della costruzione della versione danese del
cosiddetto Stato sociale scandinavo, cioè nel periodo tra le due guerre e nei
primi anni del dopoguerra. Fin da subito, i socialdemocratici danesi
identificarono la classe lavoratrice con la classe lavoratrice danese. Questa
identificazione si consolidò dopo la Seconda guerra mondiale, quando le classi
lavoratrici locali furono integrate nel processo di nazionalizzazione del
popolo, un processo che ebbe luogo in tutta l’Europa occidentale, compresa la
Danimarca, ma anche in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Italia. La
combinazione tra democrazia nazionale e Stato costituzionale spostò il conflitto
tra proletariato e borghesia ‒ che aveva caratterizzato la ‘guerra dei
trent’anni’ del 20° secolo (dal 1914 al 1945) ‒ su un altro piano. Dopo il 1945,
la relazione tra capitale e lavoro fu riorganizzata sulla base di un compromesso
sociale in cui le masse lavoratrici non solo ottennero salari più alti, ma anche
accesso a un’enorme varietà di beni di consumo, istruzione e cultura; ma, cosa
importante, abbandonarono la precedente speranza in un mondo oltre il lavoro
salariato. Questa è la storia dell’abbandono dell’internazionalismo da parte del
movimento operaio consolidato.
Possiamo raccontare questo sviluppo storico come la storia di una straordinaria
conquista del movimento operaio occidentale, come fa ad esempio Geoff Eley in
Forging Democracy: The History of the Left in Europe, 1850-2000 (2002). Ma è,
ovviamente, anche la storia di come il movimento operaio dimenticò più o meno
rapidamente la violenza razziale nelle colonie e il legame tra questa violenza e
quella fascista in Europa. Aimé Césaire e molti altri militanti anticoloniali
cercarono disperatamente ‒ spesso dall’interno dei partiti comunisti delle
nazioni dell’Europa occidentale ‒ di affermare che la spinta rivoluzionaria
doveva affrontare due problemi e non solo uno. Lo sfruttamento era certamente
l’alfa e l’omega, ma la questione coloniale non poteva essere ignorata e doveva
anch’essa essere affrontata. Il fascismo era stato sconfitto in Europa ‒ e
questo era ovviamente fondamentale ‒ ma era un errore considerare il fascismo
come un’eccezione storica: esisteva un legame diretto tra la barbarie delle
colonie e la violenza dei regimi fascisti dell’Europa tra le due guerre.
Analizzare questo legame era cruciale.
L’antifascismo “limitato” (nell’originale “limited anti-fascism”, ndr) che
prevalse nell’Europa occidentale dopo il 1945 non collegò il fascismo come
fenomeno politico alla persistenza della violenza razziale-coloniale nelle
colonie, nelle ex colonie indipendenti e nelle metropoli occidentali, compresa
la feroce opposizione ai movimenti anticoloniali. La prospettiva
antinazionalista e internazionalista, cuore del marxismo rivoluzionario, fu
soppiantata da vari tipi di nazionalismo. È questa una ragione storica per cui
fu così facile per la maggior parte dei partiti socialdemocratici dell’Europa
occidentale abbandonare ogni forma di solidarietà internazionale, sia in tempi
di crisi economica sia in tempi di crescita.
Il periodo dalla fine degli anni Settanta in poi è stato caratterizzato da
un’economia in declino nell’Europa occidentale, rispetto al boom del dopoguerra.
L’epoca della globalizzazione neoliberale ha visto brevi fasi di crescita
seguite da numerose crisi. Guardando da lontano e concentrandosi sulla
riproduzione sociale, tutto il periodo dalla fine degli anni Settanta appare
come un lento declino, anche in economie come quella danese. Un argomento
brutalmente “materialista” potrebbe essere che, dopo un periodo di forte
crescita negli anni Cinquanta e Sessanta, durante il quale l’economia danese ‒
come molte altre in Europa occidentale ‒ era in grado di integrare lavoratori
migranti, l’economia in crisi della globalizzazione neoliberale è stata
un’economia dell’espulsione o dell’assorbimento differenziato, in cui solo
alcuni lavoratori stranieri più qualificati erano benvenuti, mentre molti altri
no.
Il primo cambiamento significativo nel contesto danese è avvenuto a metà degli
anni Novanta: mentre rappresentanti della borghesia danese, tra cui i leader
delle organizzazioni imprenditoriali nazionali, continuavano a sostenere la
necessità di manodopera migrante, i politici iniziarono a opporsi. Inizialmente
erano partiti marginali dell’estrema destra a opporsi a ciò che loro chiamavano
“frontiere aperte” ‒ benché la Danimarca non abbia mai avuto frontiere aperte e,
trovandosi nel Nord dell’Unione Europea, abbia ricevuto un numero
significativamente più basso di rifugiati e migranti ‒, ma ben presto anche i
partiti del centrodestra adottarono questa linea. Dopo alcune iniziali
resistenze tra i leader socialdemocratici della vecchia generazione, anche il
Partito socialdemocratico danese cominciò a competere per il voto razzista. Gli
ultimi 25 anni sono stati un lungo spostamento verso destra.
CON IL SECONDO E IL TERZO GOVERNO DI
Lars Løkke Rasmussen (dal 2015 al 2019), leader del centrodestra, vengono
intraprese politiche migratorie davvero securitarie: per dirne una, subito nel
novembre 2015 sono state adottate 34 restrizioni all’asilo, tra cui il rinvio
del diritto al ricongiungimento familiare.
Per fare due esempi ancora più significativi, abbiamo la cosiddetta legge sui
gioielli (Jewelery Law), che obbligava le persone migranti a consegnare beni di
valore contestualmente alla richiesta di asilo; e il cosiddetto Piano ghetto
(Ghetto Plan), che prevedeva controlli di polizia intensificati, sfratti e pene
doppie nei quartieri con alta disoccupazione ed elevata presenza di minoranze
etniche (una multa di 1000 corone danesi diventava automaticamente di 2000 se il
reato avveniva in uno di quei “ghetti”, e lo stesso valeva per le pene
detentive).
PREVEDE ANCHE L’OBBLIGO PER I BAMBINI DI FREQUENTARE UN PROGRAMMA “PRESCOLARE”
PER APPRENDERE LA LINGUA E I VALORI DANESI, OPPURE LA RIALLOCAZIONE DELLE
PERSONE CONSIDERATE “STRANIERE” (PER “DE-GHETTIZZARE” IL QUARTIERE, CON ANNESSA
RISTRUTTURAZIONE O RICOSTRUZIONE, PER FAVORIRE LA SPECULAZIONE IMMOBILIARE). IN
ITALIA, IL GOVERNO MELONI HA SUGGERITO L’ISTITUZIONE DI “ZONE ROSSE” NELLE
PRINCIPALI CITTÀ ITALIANE. IN QUESTI QUARTIERI, LE FORZE DELL’ORDINE HANNO
POTERI SPECIALI E POSSONO AGIRE PER REPRIMERE LE PERSONE CONSIDERATE
“PERICOLOSE” SECONDO CRITERI MOLTO VAGHI (CHE CON QUESTA DISCREZIONALITÀ SI
PRESTANO DI FATTO A ESSERE APPLICATI A SOGGETTI RAZZIALIZZATI). OVVIAMENTE ANCHE
CITTÀ AMMINISTRATE DA PARTITI DI SINISTRA (COME MILANO E ROMA) NON HANNO ESITATO
AD ACCOGLIERE IL SUGGERIMENTO.
È una tendenza naturale. Oggi tutti i partiti del Parlamento danese hanno di
fatto adottato una posizione estremamente xenofoba nei confronti dei migranti.
Incluso il partito di sinistra, l’Alleanza Rosso-Verde, che magari critica la
retorica dei socialdemocratici, ma che comunque sostiene sempre il governo
socialdemocratico, indipendentemente dalle politiche vili che adotta. Dai primi
anni Duemila, vari governi di centrodestra e centrosinistra hanno portato avanti
una lunga lista di misure muscolari finalizzate non solo a limitare il numero di
persone migranti e rifugiate, ma a porre fine alla migrazione. Come ha detto la
prima ministra Mette Frederiksen nel 2019: “Non possiamo promettere zero
richiedenti asilo, ma possiamo sicuramente proporre una visione in tal senso£.
Questa visione ha preso forma in una serie di iniziative bizzarre, tutte con
l’obiettivo di stigmatizzare ed emarginare non solo migranti o richiedenti
asilo, ma anche figli di migranti, cittadini danesi nati o cresciuti in
Danimarca.
Oggi è impossibile distinguere la posizione sull’immigrazione del Partito
popolare danese (di stampo fascista) da quella dei socialdemocratici. Sono
completamente allineati. E ciò non è un caso: è stata una strategia esplicita
del Partito socialdemocratico adottare ogni proposta del Partito popolare
danese, anche le più folli. Elettoralmente ha funzionato: oggi il Partito
popolare danese ha meno del 5% dei voti, mentre in passato aveva oltre il 25%.
Per decenni il Partito popolare danese ha parlato insistentemente di auto
bruciate, pompieri attaccati e ragazze danesi stuprate da uomini musulmani. Oggi
sono i socialdemocratici a portare avanti quella retorica, stigmatizzando
continuamente gli “stranieri” e dipingendoli come una minaccia al futuro del
Paese, arrivando perfino a suggerire che costituiscano un esercito segreto di
infiltrati.
Nel 2024, Frederik Vad, portavoce del Partito socialdemocratico
sull’immigrazione, ha annunciato “un nuovo fronte nella politica migratoria” con
l’obiettivo di combattere “gruppi di immigrati che minano a destabilizzare la
società danese dall’interno”. Se fino ad allora i socialdemocratici avevano
almeno cercato di distinguere tra “immigrati ben integrati” e “indesiderabili”,
Vad ha abbandonato questa distinzione, dichiarando che non si può mai essere
sicuri che un immigrato abbia realmente adottato i valori danesi. Anche se un
immigrato conduce apparentemente “una vita normale”, facendo il medico o il
poliziotto, come possiamo essere certi che non stia in realtà usando la sua
posizione per minare la società danese?
ESPRIMERE QUESTO DUBBIO SIGNIFICA AMMETTERE DI ESSERE RAZZISTI.
“Una società parallela [così si definisce uno spazio in cui i musulmani
ignorerebbero le regole e i valori danesi] non è più solo un quartiere
residenziale a Ishøj [uno dei distretti etichettati come ghetto]. Può essere
anche un tavolo della mensa in un’agenzia governativa. Può essere anche una
farmacia in North Zeland”. Questa dichiarazione di Vad è stata solo l’ultima di
una lista apparentemente infinita di affermazioni islamofobe e xenofobe, che non
solo mettono in dubbio il valore morale di cittadini specifici, ma legittimano
ogni tipo di politica escludente. Se un tempo la Danimarca veniva citata come
uno dei migliori esempi di stato sociale socialdemocratico ‒ lo stesso Bernie
Sanders, nel 2016, parlava con ammirazione della Danimarca durante la sua
campagna elettorale ‒, oggi il Paese è all’avanguardia nella reazione
nazionalista, ammirato da politici fascisti di tutta Europa ansiosi di imparare
dal “modello danese”.
NEL SUO LIBRO LA CONTRORIVOLUZIONE DI TRUMP LEI ANALIZZA LA CAMPAGNA ELETTORALE
PARTENDO DAL PRIMO MANDATO DI TRUMP. GIÀ ALLORA, BEN PRIMA DELL’OPINIONE
PUBBLICA, RICONOSCEVA IN TRUMP UN FASCISTA. IN QUESTO SECONDO MANDATO, GIÀ MOLTO
PIÙ AGGRESSIVO, LA SUA ANALISI È CAMBIATA?
Il periodo del compromesso sociale tra capitale e lavoro nei centri
dell’accumulazione, sotto l’egemonia statunitense, è definitivamente finito.
Siamo entrati in un periodo di transizione, in cui è difficile avere una visione
d’insieme. Le certezze precedenti stanno scomparendo, e non è chiaro cosa ci
attende. Trump è una scorciatoia per questo cambiamento. Molti concetti politici
tradizionali chiaramente non funzionano più, ed è difficile applicarli. Per
questo tante persone fanno riferimento alle frasi di Gramsci sull’interregno, in
cui il vecchio sta morendo ma il nuovo non è ancora nato. Con Stuart Hall, che
si ispirava molto a Gramsci ma combinava le sue teorie con quelle di Althusser e
altri, possiamo forse comprendere la situazione storica attuale come una
congiuntura, cioè una situazione storica specifica, aperta, che richiede
un’analisi dettagliata, focalizzata sulle caratteristiche del momento presente,
ma radicata in un processo storico più lungo. Questo tipo di analisi della
situazione è ciò che ho cercato di sviluppare in La controrivoluzione di Trump,
dove mi sono concentrato sugli elementi distintamente nuovi del fenomeno Trump,
indicando al contempo le condizioni storiche che lo hanno reso possibile e ciò
di cui può essere considerato una continuazione. Mi sono mosso quindi tra
l’analisi della congiuntura, di un periodo e del modo di produzione
capitalistico. È per questo che è diventata una descrizione del ritorno di una
nuova forma paradossale di fascismo, ciò che chiamo fasciocapitalismo (late
capitalism fascism) sullo sfondo del crollo della globalizzazione neoliberale e
di una crisi profonda e persistente dell’economia globale.
Una delle sfide poste da fenomeni politici come Trump, nel 2016 e ora di nuovo
nel 2024-2025, è che egli è chiaramente un fascista – la sua politica è un
ultranazionalismo palingenetico, nei termini di Roger Griffin – ma non rientra
in tutte le caratteristiche che comunemente associamo ai movimenti fascisti
dell’epoca tra le due guerre. È quindi importante sviluppare nuovi concetti per
descrivere il nuovo fascismo, per cogliere ciò che c’è di nuovo nel fascismo
contemporaneo. Per questo dedico un intero capitolo alla lettura del discorso
inaugurale di Trump in La controrivoluzione di Trump. Cerco di analizzare i
tropi fondamentali della sua visione politica, per quanto incoerente possa
apparire. Questa analisi ravvicinata si radica in un’analisi di un processo
politico ed economico più ampio, caratterizzato da una lunga crisi delle
economie dei Paesi avanzati, soprattutto degli Stati Uniti. Mi rifaccio a Ernst
Mandel e Loren Goldner, e descrivo gli ultimi 50 anni come un lungo atterraggio
forzato economico, in cui il boom del dopoguerra è stato sostituito dalla
globalizzazione neoliberale sotto forma di delocalizzazione, privatizzazioni,
ritorno del lavoro precario e crescita del credito e del debito.
COME RIESCE TRUMP IN QUESTA CONTRORIVOLUZIONE? HA AVUTO UN RUOLO
L’AMMINISTRAZIONE BIDEN? E LA CANDIDATURA DI HARRIS?
Trump riconosce e indica costantemente la miseria economica che molti americani
vivono. La crisi finanziaria ha messo in evidenza una tendenza fatta di decenni
di tagli alla riproduzione sociale negli Stati Uniti. Per lungo tempo, questa
realtà è stata mascherata da debiti e prestiti, ma dopo la crisi finanziaria è
diventato evidente che l’economia cresceva sempre meno, e soprattutto quanto
fosse distribuita in modo ineguale la ricchezza, e quanto fosse difficile per
molte famiglie arrivare a fine mese. Mentre Obama, Clinton, Biden e Harris
continuavano a ripetere che andava tutto bene e che si sarebbe proseguito con le
stesse politiche per altri quattro anni, Trump gridava che tutto stava andando
in malora – e molti americani si identificavano in questa percezione. È così che
si vive in molte città di cui i media americani ed europei parlano raramente.
Nell’elezione del 2024, l’inflazione è stata un tema centrale per molti, ma
l’inflazione maschera una tendenza più lunga di declino e di collasso. Trump ha
parlato costantemente di questo collasso. Indubbiamente lo sta accelerando, ma
lo ha indicato e riconosciuto. I democratici no.
Le soluzioni proposte da Trump sono guerre commerciali e protezionismo, ma
ancora di più l’attacco a specifici gruppi di persone identificati come nemici
della comunità nazionale. Make America Great Again è la visione di un popolo
minacciato che deve tornare forte attraverso l’esclusione e il ripiegamento su
sé stesso, politicamente, culturalmente ed economicamente. I nemici di questa
comunità sono gli stranieri, dai messicani ai cinesi, ma anche i “leftist” e le
persone transgender, chiunque possa essere rappresentato come una minaccia alla
supremazia maschile bianca o che faccia sentire insicuri gli uomini bianchi.
Nel libro, affianco alle analisi del neoliberismo anche spunti da varie
generazioni di analisi marxiste del fascismo, che sottolineano la connessione
tra capitalismo come sistema politico-economico e totalità sociale, e fascismo
come movimento politico e culturale che emerge in situazioni di crisi per
evitare un cambiamento socio-materiale – in altre parole, per evitare una
rivoluzione. La dimensione controrivoluzionaria di Trump è diventata ancora più
evidente da quando ho scritto La controrivoluzione di Trump. Ricordiamo quanto
furono grandi le proteste dopo l’uccisione di George Floyd nell’estate 2020:
sono state le più estese proteste nella storia americana degli ultimi decenni.
Le immagini della stazione di polizia in fiamme a Minneapolis hanno
profondamente spaventato la classe dirigente statunitense. Più di duemila grandi
città sono state teatro di manifestazioni e rivolte. Interi quartieri sono stati
liberati dalla polizia. È stata una protesta che ha messo in discussione
l’ordine dominante. Come ha descritto anche Idris Robinson, la folla che ha
partecipato alle proteste era molto più eterogenea rispetto al passato. Occupy
era un movimento composto perlopiù da studenti bianchi delle grandi città; BLM
(Black Lives Matter) nel 2013 e 2014 era principalmente afroamericano. Le
proteste del 2020 sono state sicuramente guidate da neri americani, ma hanno
coinvolto una moltitudine di persone. La rivolta per George Floyd ha mostrato la
possibilità di una rottura radicale. Ogni analisi della rielezione di Trump nel
2024 deve tenere conto di quella rivolta.
Seguendo Karl Korsch e Amadeo Bordiga, in La controrivoluzione di Trump descrivo
la politica di Trump come una controrivoluzione preventiva, volta a far
deragliare una potenziale rivoluzione. Il progetto è bloccare la formulazione di
una nuova visione. Impedire che prenda forma e diventi un’alternativa. Non siamo
ancora a quel punto; non abbiamo un movimento rivoluzionario, e difficilmente
sappiamo cosa significhi oggi “rivoluzione”, né teoricamente né praticamente.
Questo è, naturalmente, uno dei maggiori problemi. Ma il secondo mandato di
Trump serve soprattutto a evitare che ciò accada, a impedire l’emersione di
un’altra partizione del sensibile, come direbbe Jacques Rancière.
IL RUOLO DI MUSK QUAL È?
Centrale. La dimensione controrivoluzionaria era già evidente nel 2016, e oggi
lo è ancora di più. Come il fascismo interbellico, Trump si nutre di
disgregazione e resistenza, ma le devia verso altrove. Cerca di presentarsi come
un’alternativa a Washington D.C., come un outsider rispetto alla classe
politica, e in questo modo cerca di cannibalizzare e mediare l’enorme
insoddisfazione e paura che permeano la società americana. Vuole «prosciugare la
palude», come dice lui. Gli attacchi di Trump ai media mainstream americani,
come CNN e MSNBC, sono ora qualificati come illegali da lui stesso, parte di una
lotta contro i tribunali, e il progetto DOGE (Department of Government
Efficiency) di Musk è la forma che sta assumendo questa lotta. Nel suo primo
mandato era relativamente impreparato, anche se all’inizio aveva Stephen Bannon
al suo fianco. Ma ora è molto più preparato. Il Project 2025 della Heritage
Foundation sembra un vero e proprio manuale operativo; nel primo mese del
secondo mandato Trump ha emesso una raffica di ordini esecutivi che anticipano
espulsioni di massa e guerre commerciali. Allo stesso tempo, Musk e la sua task
force DOGE stanno facendo irruzione nella macchina dello Stato federale per
cercare modi di tagliare il bilancio statale e licenziare dipendenti pubblici.
L’obiettivo è minare il funzionamento standard dello Stato americano.
L’amministrazione americana deve essere distrutta, sia concretamente sia
simbolicamente.
Il contributo di Trump al movimento controrivoluzionario è che esiste una sorta
di contrappeso integrato nella democrazia nazionale che permette l’introduzione
di uno stato d’emergenza. Per questo non basta rispolverare un antifascismo
d’altri tempi che si oppone al fascismo e alla democrazia nazionale. Dobbiamo
anche parlare di capitalismo – come ha detto emblematicamente Horkheimer nel
1939 – e di anticapitalismo. Ecco perché insisto nell’includere l’intero nuovo
ciclo di proteste dal 2011 in poi. Una delle costanti di queste proteste è il
rifiuto della violenza poliziesca. Molte proteste sono scoppiate dopo
l’uccisione da parte della polizia dell’ennesima persona proletaria. Abbiamo una
sequenza che va da Mohamed Bouazizi in Tunisia nel 2010 a Mark Duggan in
Inghilterra nel 2011, da Eric Garner negli Stati Uniti nel 2014 a George Floyd
nel 2020, Giovanni López in Messico nello stesso anno, fino a Nahel Merzouk in
Francia nel 2023. Le nuove proteste rifiutano l’apparato repressivo dello Stato.
Anche perché, più le economie si restringono, più devono controllare chi è
destinato a sopravvivere ai margini delle stesse. Oggi, sempre più proletari si
scontrano direttamente con lo Stato.
P
erò abbiamo tutti grande difficoltà nel dire Trump un fascista, se guardiamo ai
leader del fascismo della prima metà del Novecento.
Se confrontiamo Trump con i leader fascisti interbellici come Hitler e
Mussolini, Trump appare stranamente vuoto. È così contraddittorio che è
difficile attribuirgli una ideologia politica coerente. Naturalmente dobbiamo
ricordare che anche il fascismo interbellico era già caratterizzato da
contraddizioni e frammentazioni. Il fascismo era sia moderno sia nostalgico,
prendeva in prestito elementi estetici dal movimento operaio pur combattendolo
con ogni mezzo.
La paura del comunismo giocò un ruolo importante per Mussolini e Hitler. Ma
mentre il fascismo italiano riuscì ad assorbire buona parte dell’impulso
rivoluzionario e a parassitarlo, il nazismo tedesco era finale [Rasmussen scrive
letteralmente “was final”: intende dire che giunse al potere alla fine di un
processo di crisi durante il quale l’impulso rivoluzionario era già parzialmente
esaurito, ndr] e dovette confrontarsi con una profonda crisi economica. Ma
allora come oggi il fascismo è un fenomeno della sovrastruttura, cioè si
manifesta soprattutto come progetto politico-culturale. Ed è per questo che oggi
è così politicamente efficace. La lunga depoliticizzazione neoliberale, per cui
la democrazia rappresentativa nazionale è stata svuotata di contenuto e
trasformata in amministrazione, fornisce un terreno fertile ai nuovi fascisti,
che – come pochi altri – sanno mobilitare elettori che faticano a vedere
differenze tra i partiti tradizionali, che da decenni si alternano nell’imporre
politiche di austerità. Oggi, solo i fascisti riescono ad attivare le masse.
MA INSOMMA, QUAL È L’OBIETTIVO DI TRUMP?
Trump vuole salvare la democrazia, la vera democrazia, ovviamente. Una
democrazia che negli Stati Uniti non include tutti. Molte persone devono essere
eliminate. Devono finire a Guantanamo o semplicemente essere espulse. Perché
tutto – dai migranti agli attivisti pro-Palestina – è una minaccia per la
democrazia americana, e quindi va deportato. È per questo che l’ICE (Immigration
and Customs Enforcement) detiene Mahmoud Khalil e deporta 238 venezuelani in El
Salvador, appellandosi a vecchie leggi usate solo in tempi di guerra, per
esempio durante la Seconda guerra mondiale. Con Claude Lefort possiamo
comprendere il fenomeno Trump come una risposta totalitaria al paradosso
fondamentale della democrazia: il fatto che il luogo del potere sia vuoto. La
democrazia è caratterizzata dalla sospensione di ogni nozione tradizionale di
gerarchia naturale e di criteri di inclusione. Quando si decapita il re, nessuno
può più rivendicare un diritto speciale al potere. Ma in situazioni di crisi,
questo vuoto diventa un problema, che si tenta di risolvere attraverso una
scorciatoia totalitaria, per cui un leader invoca un principio di
identificazione per colmare quel vuoto.
È ciò che vediamo nella retorica stranamente autoerotica che Trump articola
costantemente: Trump è ricco quindi può rendere forte l’America; l’America è
forte perché Trump è forte e sa fare buoni affari; gli americani amano Trump
perché è forte; gli altri stanno imbrogliando l’America, quindi Trump deve
ripulire e costruire muri; Trump è accusato di tutto perché gli altri vogliono
mantenere l’America debole, ecc. L’America è la comunità immaginaria che
permette a Trump di unire gli opposti. Riesce a rappresentare sia gran parte
della classe operaia americana, sia quella che Davis ha chiamato «classe media
lumpen», che trae reddito da immobili, casinò, compagnie di sicurezza e prestiti
privati, e ovviamente parti significative della classe capitalista come quella a
capo dell’industria dell’energia, delle armi e ora della tecnologia. Parla a
tutti quei lavoratori che si identificano nell’immagine del lavoratore bianco,
anche se non sono razzializzati come bianchi.
L'articolo I futuri noti del fascismo proviene da Il Tascabile.