In quindici anni, in Italia, gli studi clinici no profit, quindi quelli non
sponsorizzati dall’industria farmaceutica, sono crollati del 57%. Nel 2009
rappresentavano il 40% del totale delle sperimentazioni, oggi appena il 17%. E
il motivo è che i finanziamenti pubblici nel settore della ricerca sono
gravemente sottodimensionati, rendendo il nostro Paese fanalino di coda in
Europa. Il risultato è che gli studi indipendenti sui farmaci sono sempre meno e
che la ricerca è completamente dipendente dai fondi e dagli interessi delle
grandi aziende private. A lanciare l’allarme sono gli oncologi dell’Aiom. Nel
corso del suo ultimo congresso nazionale, l’Associazione italiana di oncologia
medica ha manifestato i suoi timori per il destino della ricerca indipendente.
Uno strumento fondamentale non solo per migliorare la cura dei pazienti, ma per
rendere più trasparente e sostenibile il Servizio sanitario nazionale. Senza che
lo Stato sia costretto a farsi dettare le regole del gioco dalle case
farmaceutiche.
Per Silvio Garattini, presidente e fondatore dell’Istituto di ricerche
farmacologiche “Mario Negri”, la crisi della ricerca indipendente è prima di
tutto economica e politica. “Ci sono troppi pochi soldi. L’Italia spende in
ricerca la metà di quanto facciano in media gli altri paesi europei”, spiega a
ilfattoquotidiano.it, commentando i dati diffusi da Aiom. “Inoltre – prosegue –
abbiamo un numero di ricercatori che per milione di abitanti è circa la metà di
quello degli altri Paesi dell’Unione. Per avvicinarci a quello che spende la
Francia per la ricerca, ad esempio, dovremmo investire 22 miliardi di euro in
più, ogni anno”. Una cifra superiore di circa quattro miliardi rispetto al
valore totale della prossima legge di Bilancio.
Ogni studio clinico, pensato per approvare un nuovo farmaco, costa almeno un
milione di euro. Una somma troppo alta per gli esigui fondi pubblici dedicati.
“Tant’è che – spiega Garattini – siamo anche il Paese che non porta a termine il
maggior numero di trial“. La ricerca è ormai dipendente in modo quasi totale
dall’industria farmaceutica. “Le aziende fanno quello che vogliono. La maggior
parte degli studi che portano avanti su un nuovo prodotto è fatto confrontando
il loro farmaco con un placebo. Non con un altro farmaco che ha la stessa
indicazione. Questo fa sì che si moltiplichi il numero di farmaci disponibili.
Neanche i medici sanno quale sia preferibile. Senza confronti indipendenti, ogni
industria può dire che il suo è il migliore. Anche perché in Italia non ci sono
neanche i soldi necessari a fare informazione indipendente. Di fatto – prosegue
il professore – informa solo chi vende”.
La ricerca indipendente, se adeguatamente sostenuta, può svolgere una triplice
missione pubblica. Anzitutto, migliorare la pratica clinica, fornendo ai medici
dati solidi per scegliere i trattamenti più efficaci, soprattutto dove mancano
studi comparativi o linee guida consolidate. In secondo luogo, accrescere la
conoscenza sui nuovi farmaci, valutandone efficacia e sicurezza anche dopo la
loro immissione in commercio, al riparo dai condizionamenti che possono
caratterizzare gli studi sponsorizzati dall’industria. Infine, può supportare le
politiche di rimborsabilità, con dati indipendenti e comparativi, aiutando le
autorità pubbliche, come Aifa, a decidere se e quando un farmaco debba essere
rimborsato dal servizio sanitario nazionale. “La ricerca è considerata un costo,
invece è un investimento. Avremmo molte meno spese per i farmaci se facessimo
più ricerche indipendenti”, commenta Garattini, che conclude: “Il risultato
della mancanza di studi indipendenti è che abbiamo un’enorme pletora di farmaci
rimborsabili, senza sapere cosa serve e cosa no. Anche perché sono più di 30
anni che non si fa una reale revisione del prontuario terapeutico nazionale”,
ovvero l’elenco ufficiale dei farmaci – oggi se ne contano oltre 10mila – che
possono essere erogati e rimborsati dal Ssn.
Oltre ai fondi e al riconoscimento istituzionale, manca il personale:
coordinatori di ricerca clinica, infermieri di ricerca, biostatistici, esperti
in revisione di budget e contratti. Figure professionali indispensabili che le
strutture non possono permettersi di assumere e che quindi, sempre più spesso,
emigrano all’estero o verso il privato. “La gestione dei trial sta diventando
sempre più complessa e richiede competenze multidisciplinari. È fondamentale
disporre di diverse figure professionali e devono essere esplorati nuovi modelli
di pianificazione e gestione”, dichiara Francesco Perrone, ex presidente di
Aiom. In particolare, spiega l’oncologo, è fondamentale il ruolo dei
coordinatori di ricerca clinica, cioè i data manager. Professionisti deputati
alla gestione delle informazioni durante le sperimentazioni. “Un vuoto normativo
non permette di strutturarli all’interno dei team, limitando il loro impiego con
contratti libero professionali, borse di studio e assegni di ricerca – denuncia
Perrone -. E questo comporta la loro migrazione verso aziende farmaceutiche. Il
potenziale della ricerca oncologica in Italia è significativo e i nostri studi
sono in grado di cambiare la pratica clinica, ma servono più risorse e
personale”, conclude Perrone, ribadendo un ritornello che ormai è tristemente
noto a chi difende il diritto alla sanità pubblica in Italia.
L'articolo Il crollo della ricerca indipendente dall’industria farmaceutica,
l’allarme degli oncologi: ‘Studi calati del 57% in 15 anni’ proviene da Il Fatto
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