Lo “spazza-neve” Caselli torna in Antimafia e finisce il lavoro: sgombrato
completamente il campo dalla falsa valanga di “mafia-appalti”, resta linda ed
evidente la chiave per comprendere la strage di Via D’Amelio e cioè l’agenda
rossa di Paolo Borsellino. Il furto dell’agenda rossa si può dire che sia stato
il fine stesso della strage e il furto non l’ha fatto Cosa Nostra.
Possibile che la repentina decisione di Riina, assunta tra fine giugno e i primi
di luglio, di abbandonare il progetto di assassinare Mannino e di mettere nel
mirino con urgenza Paolo Borsellino sia stata presa per impedirgli di lavorare
su mafia-appalti (tesi cara a Mori-De Donno-Trizzino-Colosimo)?
Niente affatto: non c’è un solo elemento che induca a pensare che Borsellino
considerasse una priorità quel rapporto, né che fosse preoccupato per un suo
insabbiamento (inesistente), né che fosse tenuto all’oscuro di quanto si stesse
facendo su di esso (partecipava alle riunioni di coordinamento nelle quali
veniva fatto il punto sulle indagini in corso). E allora?
Ragiona il-Caselli-spazza-neve, su cosa stava lavorando Borsellino? La risposta
va cercata in ciò che Paolo Borsellino disse pubblicamente il 25 giugno 1992,
nel suo ultimo intervento prima di morire a Casa Professa, Palermo (nel
pomeriggio aveva incontrato Mori e De Donno riservatamente alla caserma Carini,
i quali non gli dissero nulla della trattativa avviata con Cosa Nostra tramite
Vito Ciancimino). A Casa Professa, Borsellino disse ciò che tutti si aspettavano
di sentirsi dire e cioè che stava lavorando senza sosta sui motivi della strage
di Capaci.
Disse Borsellino di avere maturato convinzioni precise sulla strage, disse di
essere testimone, disse che non ne avrebbe parlato prima di averne riferito
formalmente alla Procura di Caltanissetta titolare della indagine (il capo della
Procura Tinebra non lo chiamerà mai). Dichiarazioni talmente potenti da far
esclamare ad un mafioso di rango, Salvatore Montalto, capo mandamento di
Villabate, in carcere con Angelo Siino, che ne riferirà: “A chistu chi ci ‘u
purtava a parrare di certe cosi?”.
Cosa potrebbe aver capito Borsellino della strage di Capaci? Che c’entrava con
mafia-appalti? Da escludere: Falcone non si occupò mai dello sviluppo
giudiziario del rapporto, perché quando lo ricevette aveva già cessato la
funzione di pubblico ministero ed era in partenza per Roma, dove avrebbe
ricoperto il ruolo di capo degli affari penali per il ministro Martelli.
Che Giammanco fosse un “poco di buono” a capo del “nido di vipere”? Non era un
segreto, tanto che Borsellino stesso, sempre nell’intervento a Casa Professa, ci
tenne prima di tutto a ribadire la veridicità del “Diario Falcone” pubblicato da
Liana Milella, nel quale Falcone esprimeva giudizi pesanti su Giammanco. Falcone
stesso aveva avuto il tempo di intervenire sul ministro Martelli per l’irrituale
invio che a questi aveva fatto proprio Giammanco di una copia di mafia-appalti.
Insomma: assurdo pensare che la strage di Via D’Amelio sia legata ad un
“segreto” che stava sulla bocca di tutti.
E allora, cosa?
Forse Paolo Borsellino aveva capito qualcosa sull’attentato di Capaci: un
attentato che non aveva rappresentato soltanto un cambio di strategia
omicidiaria da parte di Cosa Nostra che, dopo i “tradizionali” assassinii di
Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, avrebbe dovuto assassinare
anche Falcone in maniera “tradizionale”, a colpi di pistola, nel ristorante
romano dove era solito recarsi senza scorta. Capaci infatti era stato un salto
di paradigma nelle modalità esecutive: abbattere un bersaglio in movimento a 130
km orari richiedeva competenze militari senza precedenti (e mai più adoperate,
forse proprio perché troppo rivelatrici).
Forse Paolo Borsellino aveva capito che dietro l’attentato di Capaci, appunto
per quelle straordinarie modalità, stava una rete molto più vasta di soggetti e
volontà, che potevano avere a che fare con le ultime indagini di Falcone su
Gladio, che magari avevano a che fare con le confidenze di Alberto Lo Cicero
(più fortunato di Luigi Ilardo) che raccontava di “U Mussolini” al secolo
Mariano Tullio Troia, di Stefano Delle Chiaie e dei legami con quell’amico di
infanzia di Borsellino stesso, che era nientemeno che il leader della destra
missina in Sicilia, Guido Lo Porto.
Di sicuro Paolo Borsellino capirà nei giorni successivi a Casa Professa che,
immediatamente dopo la strage di Capaci, si era attivata una strategia negoziale
con Cosa Nostra, che – lungi dal fermare il progetto stragista – avrebbe
rischiato di attizzarlo, conferendo (confermando!) a Cosa Nostra il rango di
ente col quale lo Stato si metteva a trattare (trattativa che in effetti è nel
pieno proprio alla fine di giugno 1992). Ipotesi, ragionevoli, che si ricavano
dalla relazione di Gian Carlo Caselli.
Ma a questo punto possiamo essere certi di alcune cose. Che qualunque cosa
avesse compreso Borsellino sulla strage di Capaci, l’aveva scritta nell’agenda
rossa e che dopo Casa Professa chi conosceva le abitudini del magistrato lo
aveva capito. Che la strage di Via D’Amelio ebbe quindi un duplice obiettivo:
uccidere Borsellino e sottrarre l’agenda rossa. Che il furto dell’agenda non fu
fatto dai mafiosi. Che l’agenda rossa esiste ancora: chi l’ha presa, la
conserva, perché troppo grande è il suo potere (Tolkien in questo caso è di
aiuto!).
Non so se abbia ragione Salvatore Borsellino che per aver invitato a cercarla
nelle case di Mori si è beccato una querela, ma comunque sono certo che prima o
poi salterà fuori.
L'articolo Via D’Amelio: lo ‘spazza-neve’ Caselli torna in Antimafia e finisce
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