Estorsione, usura, associazione mafiosa e truffa ai danni dello Stato. Sono
alcune delle accuse con le quali il giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Lecce Alberto Maritati ha emesso 13 arresti in carcere e un’altra
misura di custodia cautelare, eseguite dai carabinieri di Brindisi nella stessa
provincia e in quelle di Lecce e Chieti, nei confronti di altrettanti soggetti
ritenuti affiliati al clan della Sacra corona unita “Pasimeni-Vitale-Vicentino”,
egemone nella città di Mesagne, dove l’associazione mafiosa pugliese affonda le
sue radici.
Nell’inchiesta della pm antimafia di Lecce, Carmen Ruggiero, sono contestati, a
vario titolo, anche i reati di concorso esterno, lesioni personali, detenzione
d’armi da sparo e associazione a delinquere finalizzata al traffico di
stupefacenti. Il giudice ha anche disposto il sequestro di un immobile e di
un’attività commerciale – per un valore di circa 600mila euro – che sarebbe
servita come base logistica e operativa del clan. Tra gli arrestati figura
Daniele Vicientino, detto “Il Professore”, volto storico della Scu mesagnese.
Secondo la ricostruzione degli investigatori, a impartire gli ordini ai presunti
capi dei sottogruppi sarebbe stato il capo dell’organizzazione direttamente dal
carcere. Le indagini sono partite dal Nucleo Investigativo brindisino tra il
giugno 2020 e il giugno 2022, a seguito del ritorno in libertà di uno dei
presunti leader dell’organizzazione, Tobia Parisi. Stando all’inchiesta, anche
durante il tempo della sua detenzione, sarebbe rimasta pervasiva l’attività del
clan nel territorio interessato, in parte grazie all’aiuto di un soggetto
semi-esterno, operante sul territorio brindisino e al centro di un’altra
indagine della Procura e Squadra Mobile di Brindisi.
L’organizzazione dell’associazione – dalla ricostruzione – sarebbe stata questa:
il capo impartiva direttive dal carcere al nipote, presente nel territorio e
portavoce “ufficiale”. Il clan si sostentava in parte attraverso un codificato
sistema di estorsioni: riscosso il “punto” o “pensiero” dagli spacciatori
nell’area, cioè una sorta di tangente sugli stupefacenti smerciati, i fondi
venivano utilizzati per mantenere il boss e gli affiliati in cella e per
assicurare supporto economico alle loro famiglie. L’organizzazione era dedita
anche all’usura, concedendo prestiti a tassi altissimi, e al riciclaggio di
denaro attraverso reti di scommesse in canali non autorizzati.
Tutto ciò sarebbe stato accompagnato da metodi – chiaramente – non accomodanti:
pestaggi, estorsioni armate ai danni di imprenditori e commercianti e violente
intimidazioni sarebbero solo alcuni dei soprusi scoperchiati dall’indagine.
Sarebbero stati forti anche i rapporti con i capi di altri gruppi della
cosiddetta frangia dei “mesagnesi” e altri leader della Sacra Corona. I vari
vertici concordavano strategie comuni per la gestione di alcuni illeciti,
mantenendo separate le rispettive sfere di competenza territoriale.
L'articolo Brindisi, colpo alla Scu: 13 arresti, nel mirino il clan
Pasimeni-Vitale-Vicentino proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Annullamento senza rinvio e assoluzione “perché il fatto non sussiste”. La
Cassazione ha messo la parola fine al processo “Gotha”. Almeno per quanto
riguarda la posizione di uno dei principali imputati, l’avvocato Giorgio De
Stefano per anni ritenuto dalla Dda di Reggio Calabria una delle due teste
pensanti della ‘ndrangheta reggina assieme all’ex parlamentare del Psdi Paolo
Romeo, condannato a 25 anni di carcere in primo grado con il rito ordinario e in
attesa, nei prossimi mesi, della sentenza d’Appello.
Nel frattempo, si è concluso l’altro troncone del processo nato dalla riunione
delle inchieste “Mamma Santissima”, “Reghion”, “Fata Morgana” “Alchimia” e
“Sistema Reggio” nell’ambito delle quali i carabinieri del Ros, la guardia di
Finanza e la polizia avevano acceso un faro su quello che i pm considerano il
“direttorio” della ‘ndrangheta, una struttura con una strategia programmatica
che puntava ad alterare “l’equilibrio degli organi costituzionali”. Al centro di
questo direttorio, stando all’impianto accusatorio, c’era pure Giorgio De
Stefano per il quale adesso sono cadute tutte le accuse.
La sentenza della Suprema Corte è arrivata venerdì sera e l’avvocato è stato,
così, assolto definitivamente dal processo in cui aveva rimediato in primo grado
una condanna a 20 anni di carcere, poi ridotta in Appello a 15 anni e 4 mesi di
reclusione. Quella sentenza, nel 2022, era stata annullata una prima volta dalla
Cassazione perché, tra le altre cose, appariva “illogico – scrissero gli
ermellini – sostenere che Giorgio De Stefano potesse contemporaneamente far
parte sia della struttura invisibile” della ‘ndrangheta, “sia della struttura
visibile ed operativa in qualità, peraltro, di capo della cosca De Stefano”. Una
parte della prima condanna, inoltre, secondo la Cassazione era coperta dal
giudicato di un altro procedimento penale, il maxi “Olimpia”, dove De Stefano
era stato condannato per concorso esterno.
Rifatto il processo “Gotha”, quindi, nel novembre 2024 la Corte d’Appello aveva
ridotto ulteriormente la pena a 10 anni di carcere, condannando De Stefano solo
come “partecipe dell’associazione mafiosa” e non come capo promotore di quella
che era stata definita la “struttura riservata della ‘ndrangheta” dove assieme a
Paolo Romeo, stando all’originario impianto accusatorio, sarebbe stato il
“motore immobile del sistema criminale”, uno dei “soggetti ‘cerniera’ in grado
di interagire tra l’ambito ‘visibile’ e quello ‘occulto’ dell’organizzazione”.
Ritornato per la seconda volta in Cassazione, quindi, Giorgio De Stefano si è
visto annullare senza rinvio anche la nuova condanna della Corte d’Appello di
Reggio Calabria. La Suprema Corte ha accolto, infatti, la tesi del collegio di
difesa dell’imputato rappresentato dagli avvocati Valerio Vianello, Giovanni De
Stefano, Paolo Tommasini e Giorgio Vianello.
In attesa delle motivazioni, stando a quanto trapela dalle difese, gli ermellini
non solo avrebbero annullato senza rinvio la condanna ma avrebbero assolto
Giorgio De Stefano con la formula “perché il fatto non sussiste”. L’imputato era
stato arrestato nel 2016 e ha scontato 6 anni di carcerazione preventiva. La
Suprema Corte ha annullato senza rinvio anche per un altro imputato, Antonino
Nicolò che era stato condannato a tre anni di reclusione. Per quanto riguarda
gli altri imputati, invece, è stato rigettato il ricorso di Roberto Franco e
Domenico Marcianò, condannati rispettivamente a 12 anni e 8 anni.
L'articolo Processo “Gotha”, la Cassazione annulla senza rinvio la condanna a
Giorgio De Stefano: assolto definitivamente proviene da Il Fatto Quotidiano.
Quindici anni per concorso esterno in associazione mafiosa. È la condanna
inflitta dal tribunale di Marsala ad Alfonso Tumbarello, il medico di Campobello
di Mazara che aveva seguito tutto l’iter delle cure di Matteo Messina Denaro
dopo la scoperta del tumore al colon, quando era ancora latitante. L’accusa
aveva chiesto una condanna a 18 anni di carcere. Tumbarello, massone iscritto al
Grande Oriente (poi sospeso), ex politico (consigliere provinciale e candidato
alle regionali con l’Udc), era finito in carcere meno di un mese dopo l’arresto
dell’ex boss di Castelvetrano, avvenuto il 16 gennaio del 2023. Dopo cinque mesi
era passato ai domiciliari per limiti di età (oggi ha 73 anni), mentre il tumore
alla fine ha ucciso Messina Denaro, in carcere, il 25 settembre del 2023, poco
più di nove mesi dopo l’arresto.
Il processo è iniziato nel dicembre del 2023 e per due anni l’accusa –
rappresentata in aula dal pm di Palermo, Gianluca De Leo – ha dibattuto con la
difesa – gli avvocati Gioacchino Sbacchi e Giuseppe Pantaleo -, per dimostrare
che Tumbarello fosse consapevole di aver firmato ben 147 prescrizioni per
Messina Denaro e non invece per Andrea Bonafede, l’alias usato dall’ex
latitante. De Leo ha anche portato due nuove evidenze al processo: un
certificato medico per accedere alle strutture sportive, emesso a stretto giro
assieme alla richiesta di day service per una seduta di chemioterapia, la
prescrizione di una compressa di Tavor il giorno prima di una risonanza. La
dimostrazione, in sostanza, che il medico facesse prescrizioni per due distinte
persone nonostante le generalità fossero le stesse: per il vero Bonafede, che
aveva normali necessità, e per Messina Denaro, che invece doveva sottoporsi alle
cure per il tumore. Tumbarello, dunque, era consapevole di avere in cura il boss
di Castelvetrano.
Il processo era arrivato alle battute finali già lo scorso maggio, ma ha subito
un rinvio perché il presidente del Tribunale, Vito Marcello Saladino (a latere
Francesca Maniscalchi e Andrea Agate), ha chiesto nuove perizie su questi
documenti. Nella requisitoria, De Leo ha anche ricordato quando nel 2004
Tumbarello fece da tramite per un incontro, presso il suo studio, tra l’ex
sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, e il fratello di Messina Denaro:
“Dovremmo ritenere che sia credibile che non sapesse che Salvatore Messina
Denaro nel 2004 era stato arrestato e già condannato per 416-bis, che Vaccarino
gli abbia chiesto in maniera generica soltanto se lo conoscesse?”, è la domanda
retorica posta da De Leo alla fine della sua requisitoria il 22 ottobre. Tutti
elementi contestati dalla difesa che ha sostenuto come Tumbarello avesse emesso
certificati e ricette convinto che fossero indirizzati ad Andrea Bonafede. E
quest’ultimo non si recava mai direttamente allo studio medico, per tenere
nascosto ai suoi parenti di essersi ammalato di tumore. Una tesi che non ha
convinto i giudici: per il tribunale, Tumbarello sapeva perfettamente di essere
il medico di Messina Denaro.
L'articolo Alfonso Tumbarello condannato, al medico di Messina Denaro 15 anni
per concorso esterno alla mafia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Da oggi abbiamo un nuovo “giallo” da risolvere: c’è stata un’accelerazione della
audizione in Commissione parlamentare Antimafia del Procuratore Salvatore De
Luca, sentito ieri per tre ore sulla strage di Via D’Amelio?
Gli investigatori invero non brancolano nel buio, esiste un indizio ed è rosso
fuoco: il cappotto di Arianna Meloni, grande sacerdotessa del festival Atreju in
scena a Roma da qualche giorno. Ma abbiate pazienza: poteva mai salire su quel
palco l’on. Chiara Colosimo, presidente della Commissione Antimafia, meloniana
di ferro, titolare di uno dei fronti più caldi della grande offensiva nera
contro la Costituzione repubblicana (ovvero la definitiva rimozione dalla scena
dei crimini stragisti di neo-fascisti, piduisti, politici-transitati nella
seconda repubblica, apparati e finanzieri), circondata dall’eco delle parole di
Gian Carlo Caselli che il 18 novembre aveva completato (finalmente!) la sua
relazione cominciata il 31 luglio, smontando puntualmente il presunto movente
“mafia/appalti” per la strage del 19 Luglio 1992?
L’approdo della presidenta sul palco della grande parata è atteso infatti per
venerdì 12 dicembre alle ore 15:30, un giorno per altro già complicato dallo
sciopero generale proclamato dalla CGIL e sostenuto da centinaia di
organizzazioni che compongono La via maestra, per denunciare l’assenza totale di
politiche sociali nella Legge di Bilancio che però non manca di strizzare
l’occhio agli evasori fiscali con l’atteso innalzamento del tetto al contante (a
proposito di politiche “anti mafia”). Un approdo che sarebbe apparso mesto e
scivoloso se la presidenta vi fosse arrivata per l’appunto con la eco delle
parole di Gian Carlo Caselli, che in maniera puntigliosamente argomentata aveva
invitato a non confondere un contesto sicuramente complicato ed ostile (il “nido
di vipere”) con la spiegazione della accelerazione drastica sulla strage di via
D’Amelio, che invece molto più coerentemente andrebbe cercata nelle indagini che
Borsellino stava svolgendo sulla strage di Capaci, nei movimenti che l’avevano
preceduta e seguita (tra cui: le visite di De Donno a casa Ciancimino), nelle
confidenze terribili che stava raccogliendo (tra cui: Lo Cicero e Mutolo), tutti
elementi che il magistrato andava collezionando nella sua agenda rossa, in
attesa di essere convocato come testimone dalla Procura di Caltanissetta, che
però non lo chiamerà mai.
In verità Colosimo aveva provato ad arginare Gian Carlo Caselli domandandogli al
90esimo minuto come potesse continuare ad argomentare in quella direzione
nonostante le sentenze del Borsellino ter, quater e quinquies contemplino
proprio “mafia/appalti” come causale della strage. Tiro “parato” da Caselli.
All’indomani dell’audizione allora era stato l’avv. Trizzino in persona a
stigmatizzare l’accaduto con un piccato post su FB: “Costui (Caselli!) per
sminuire il valore delle sentenze Borsellino ter, quater, quinquies che hanno
avvalorato la pista mafia/appalti come possibile movente della accelerazione
della strage di Via D’Amelio ha così commentato ‘Tot capita tot sententiae’,
come a dire ogni testa è tribunale nel detto popolare” (etc).
E così che Colosimo deve aver pensato di correre ai ripari, convocando il
Procuratore De Luca, che non aveva mancato in passato di dimostrare l’alto senso
di leale collaborazione istituzionale dal quale è animato nei confronti della
presidente dell’Antimafia (inviando a Palazzo San Macuto le trascrizioni delle
conversazioni intercettate tra Natoli e Scarpinato).
Ed il Procuratore di Caltanissetta, città competente per le indagini sulle
stragi di Capaci e di via d’Amelio, non ha mancato l’appuntamento col destino
rassegnando alla Commissione due contributi precisi: liquidare la pista nera,
“zero spaccato”, almeno quella che fa riferimento a Lo Cicero, e confermare la
centralità di “mafia/appalti” come movente della strage, proprio in riferimento
alle sentenze del Borsellino ter, quater, quinquies, centralità resa tanto più
chiara dalla maliziosa sovraesposizione alla quale Borsellino era stato
condannato dai suoi stessi colleghi-vipere; silurare proprio il documento
fondamentale portato da Caselli per dimostrare come l’intera ricostruzione della
vicenda “mafia/appalti” fosse viziata da falsità e strumentalizzazioni e cioè la
relazione consegnata sul punto alla Commissione parlamentare anti mafia nel
febbraio del 1999, sottoscritta da tutto l’ufficio di procura e dal Procuratore
stesso (Caselli) e mai contestata. Secondo De Luca quella relazione sarebbe
lacunosa e fuorviante, insomma: Caselli l’avrebbe usata per coprire
responsabilità non sue, ma di alcuni suoi colleghi che arrivavano dalla
famigerata gestione Giammanco.
Il Procuratore De Luca non ha spiegato di più, ma è probabile che si riservi di
farlo nella già annunciata prosecuzione dell’audizione. Comunque ce n’è quanto
basta per la presidenta Colosimo: assicurati scroscianti applausi al festival di
Atreju. The show must go on!
L'articolo Il procuratore De Luca fa esultare Colosimo: ora può andare ad Atreju
libera dalla ‘pista nera’ proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Il carabiniere Walter Giustini non ha fatto indagini su Stefano Delle Chiaie,
ma si è limitato a riferire le dichiarazioni di Maria Romeo”. A sostenerlo è
Sonia Battagliese, avvocato del militare, attualmente sotto processo a
Caltanissetta con l’accusa di aver depistato le indagini sulle stragi di Capaci
e via d’Amelio. La legale ha contattato Il Fatto dopo aver appreso delle
dichiarazioni di Salvatore De Luca, procuratore capo della città nissena, in
commissione Antimafia.
A proposito dell’indagine sul ruolo dell’eversione di destra nelle stragi, il
magistrato ha detto di considerare “singolare che si insista su un certo filone
legato alla pista nera. Mi riferisco alla pista di Stefano Delle Chiaie a
seguito delle dichiarazioni rese da Maria Romeo e anche dal luogotenente Walter
Giustini“. E ancora ha ribadito: “Dalle dichiarazioni di Romeo e Giustini e
dalle presunte dichiarazioni del collaboratore Alberto Lo Cicero, che non ci
sono mai state, viene fuori una pista che giudiziariamente vale zero tagliato.
Ripeto: zero tagliato“.
Parole che hanno provocato la reazione della legale del carabinieri. “Prendo
atto di quanto dichiarato dal procuratore De Luca in commissione Antimafia, ma
preciso che il mio cliente, il luogotenente Walter Giustini, non ha mai condotto
alcuna indagine su Stefano Delle Chiaie“, dice l’avvocato Battagliese. “Il 9
maggio del 2022 – prosegue – si è limitato a riferire all’autorità giudiziaria,
cioè allo stesso dottor De Luca, quanto appreso su Delle Chiaie dalla signora
Maria Romeo“.
La questione è complessa e gira attorno al collaboratore di giustizia Alberto Lo
Cicero, autista di Mariano Tullio Troia, boss di Cosa Nostra e simpatizzante
dell’estrema destra noto come ‘u Mussolini. Oggi deceduto, Lo Cicero era
sentimentalmente legato a Maria Romeo, sorella di Domenico, autista di Stefano
Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale. A gestire Lo Cicero quando era
ancora solo un confidente fu proprio Giustini. Interrogato a Caltanissetta il 9
maggio del 2022, il carabiniere raccontò di aver saputo da Lo Cicero in una fase
“antecedente alla strage di Capaci” che Salvatore Biondino era l’autista del
capo dei capi, Totò Riina. Informazioni che Giustini avrebbe poi riportato ai
suoi superiori, cioè i capitani Marco Minicucci e Giovanni Arcangioli, ma anche
al sostituto procuratore Vittorio Teresi.
I racconti di Lo Cicero, ha sostenuto il carabiniere, avrebbero anticipato di
mesi i racconti di Baldassare Di Maggio e avrebbero potuto portare all’arresto
di Riina prima delle stragi. Fu sempre Lo Cicero a parlare di Delle Chiaie? “Non
lui, ma la Romeo ci ha citato i rapporti tra Delle Chiaie e il fratello. Però in
maniera estemporanea. Ci portò delle foto del fratello e Delle Chiaie mi sembra
fosse però un convegno”, ha dichiarato il carabiniere, intervistato da Marco
Lillo sul Fatto Quotidiano nel maggio del 2022. La procura di Caltanissetta,
però, non ha creduto né a Giustini e neanche a Maria Romeo, chiedendo e
ottenendo di processare entrambi per false informazioni ai pm. Il gip Santi
Bologna parla di “reiterate condotte depistanti mediante dichiarazioni false o
calunniose” per “creare una vera e propria cortina fumogena volta a spostare
l’interesse degli inquirenti dall’originario focus investigativo”. L’avvocato
Battagliese, però, puntualizza: “Vedremo come si concluderà il processo, però
devo puntualizzare che il mio assistito non ha mai compiuto indagini dirette o
rilasciato dichiarazioni relative a un ruolo di Delle Chiaie nelle stragi. Tra
l’altro è una pista che non ha mai acceso l’interesse degli inquirenti né
all’epoca dei fatti e neanche oggi”.
L'articolo “Il carabiniere Giustini non ha mai indagato sul ruolo di Delle
Chiaie e le stragi” proviene da Il Fatto Quotidiano.
Maxi-operazione contro i clan mafiosi e il narcotraffico a Palermo. L’inchiesta
– coordinata dalla Dda del capoluogo siciliano guidata dal procuratore Maurizio
de Lucia – ha fatto luce su un vasto traffico di stupefacenti e ha svelato i
nuovi organigrammi di uno dei principali mandamenti mafiosi della città.
50 MISURE CAUTELARI
Eseguite dalla polizia misure cautelari nei confronti di 50 persone: sono
accusate, a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, intestazione
fittizia di beni, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti
e spaccio. Per 19 di loro il gip ha disposto la custodia cautelare in carcere,
per 6 gli arresti domiciliari mentre per gli altri 25 è stato emesso un
provvedimento di fermo. L’operazione ha visto impegnati oltre 350 agenti della
Polizia di Stato.
“STRETTO RAPPORTO TRA COSA NOSTRA E CAMORRA”
“È stato documentato un rapporto stretto tra i clan mafiosi di Palermo con un
clan della Camorra, da cui la mafia si riforniva per la droga”, ha detto il
procuratore aggiunto di Palermo Vito Di Giorgio nel corso della conferenza
stampa: “Siamo in presenza di organizzazioni fortemente strutturate capaci di
commerciare ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti anche in periodi di
tempo molto brevi”, ha aggiunto. Al centro ci sono due diverse inchieste della
sezione Antidroga della Squadra Mobile, coordinate dalla Dda. Tra ottobre 2022 e
agosto 2023 sono state individuate due le bande di narcos: una faceva base a
Palermo ed era caratterizzato da rapporti molto forti tra gli affiliati legati
da vincoli di parentela: l’altra, invece, operava in Campania e forniva la merce
ai siciliani. Alcuni componenti della banda campana tenevano rapporti con i
palermitani e trattavano anche per conto di un clan camorrista che ha riversato
importati quantitativi di droga non soltanto nella provincia di Palermo, ma
anche in quella di Catania. La seconda indagine dell’Antidroga ha portato alla
scoperta di una cellula criminale palermitana che ha organizzato un grosso
traffico di cocaina, hashish e marijuana tra Palermo e Trapani. La droga sarebbe
arrivata dalla zona di Marsala. Gli indagati apparterrebbero ad ambienti
criminali di rilevante caratura e già indagati per mafia: prova del ruolo svolto
dalle “famiglie” di Cosa nostra nell’approvvigionamento e nello smercio degli
stupefacenti. “Nel corso delle investigazioni, inoltre, sono stati messi a segno
sequestri per un totale di circa due quintali e mezzo di hashish e quattro
chilogrammi di cocaina, con conseguente arresto in flagranza di dodici persone”.
IL MANDAMENTO DELLA NOCE TRA VECCHI E NUOVI BOSS
Il maxiblitz di oggi “dimostra che Cosa nostra è tutt’altro che sconfitta” ha
detto il Procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia nel corso della
conferenza stampa. L’operazione ha colpito anche il mandamento mafioso
palermitano della Noce. L’indagine ha permesso di ricostruire posizioni e ruoli
nelle famiglie mafiose di Noce, Cruillas ed Altarello, e di ricostruire le
attività illecite nel territorio. Il vuoto di potere, generato dagli ultimi
arresti, avrebbe dato spazio a nuovi personaggi intenzionati a scalare le
posizioni di vertice del clan. Oltre agli aspiranti boss nel mirino degli
investigatori sono finiti nomi noti con curricula di tutto rispetto all’interno
di Cosa nostra. Tra loro un anziano boss, in grado di decidere le strategie del
clan. Identificato anche il nuovo capo del mandamento che avrebbe preso il
comando in virtù della sua parentela con un ex reggente: “In linea di continuità
familiare ad una trascorsa gestione, poiché risulta essere imparentato con un
già ‘reggente’, oggi in carcere”. Nelle casse delle cosche – ha accertato
l’indagine – continuano a finire i soldi delle estorsioni: sei quelle messe a
segno a carico di negozi e attività imprenditoriali della zona.
IL CANALE TELEGRAM CON LA FOTO DI SCARFACE
È stata scoperta anche una centrale di smercio virtuale, creata grazie ad un
canale Telegram e ritenuta più sicura dalla banda. Per accreditarsi e far capire
nel settore che i leader erano loro usavano sul profilo aperto sul canale la
foto di Al Pacino nel ruolo di Tony Montana nel film Scarface, dicono gli
investigatori. Gli indagati annotavano scrupolosamente in un “libro mastro” i
soldi incassati col narcotraffico: una contabilità precisa con tanto di appunti
sul tipo di stupefacenti, sui pagamenti delle partite di droga e sui compensi
settimanali di tutti gli associati. Materiale prezioso per gli investigatori.
L'articolo Maxi-operazione antimafia a Palermo, 50 misure cautelari: “Nel
traffico di droga rapporti stretti Cosa nostra-Camorra” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
La pista nera che ipotizza un ruolo di Stefano Delle Chiaie nelle stragi del
1992? “Giudiziariamente vale zero tagliato“. Salvatore De Luca fa una pausa, poi
lo ripete ancora: “Zero tagliato“. È in quel preciso momento che a Chiara
Colosimo sembra scappare un sorriso. Insieme alla presidente della commissione
Antimafia, esultano anche vari esponenti di destra, come Maurizio Gasparri che
definisce l’audizione del procuratore di Caltanissetta come uno “scrigno di
verità” E pazienza se De Luca abbia anche puntualizzato come “siano ancora
aperti filoni di indagine su tutte le principali ipotesi riguardanti le cause o
i concorrenti esterni delle stragi del 1992”, compreso “un’ulteriore pista nera,
chiamiamola così, che potrebbe dare dei risultati, ma la stiamo ancora
approfondendo”. Va comunque detto che l’audizione del capo della procura
nissena, competente per le indagini sulle stragi di Capaci e di via d’Amelio,
rappresenta un punto a favore della maggioranza. De Luca, infatti, ha detto più
volte di ritenere “la gestione del filone Mafia e appalti presso la procura di
Palermo retta da Pietro Giammanco” come “una delle concause della strage di via
D’Amelio”. E ancora: “Allo stato noi non siamo in grado di escludere alcuna
concausa. Quella sulla quale abbiamo trovato maggiori elementi e maggiori
riscontri è Mafia e appalti”. Dichiarazioni che fanno esultare la destra, ma
provocano anche polemica nei ranghi dell’opposizione. Ma andiamo con ordine.
“MAFIA E APPALTI CONCAUSA DELLE STRAGI”
Il capo dell’ufficio inquirente nisseno è comparso a Palazzo San Macuto insieme
a due sostituti Davide Spina e Claudia Pasciuti. Alle spalle degli auditi,
custodita in una teca, c’è la valigetta di Paolo Borsellino, ancora
bruciacchiata dall’esplosione del 19 luglio 1992. “È un onore per noi, riferire
qui”, ha detto De Luca, alla fine di un intervento lungo quasi tre ore.
Un’audizione cominciata con una premessa: tutte le indagini di Caltanissetta
sono state portate avanti in “piena sintonia con la Procura nazionale
antimafia“. Che tipo di sintonia? “Prima di iniziare le indagini sul cosiddetto
filone di Mafia e appalti, ho ritenuto d’informare il procuratore nazionale
dottor Melillo, che è stato perfettamente d’accordo con noi”. Secondo la destra,
l’interesse di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per il dossier investigativo
del Ros dei carabinieri è il movente segreto delle stragi. Una ricostruzione che
sembra essere condivisa da De Luca. “Noi abbiamo in corso filoni di indagine
aperti su tutte le principali ipotesi riguardanti le cause o i concorrenti
esterni delle stragi del 1992 – ha premesso – Oggi parlerò principalmente del
cosiddetto filone Mafia e appalti, perché abbiamo ottenuto i migliori risultati
proprio in questo filone di indagine. Gli altri filoni sono ancora in corso in
una fase in cui è necessario attendere l’esito di ulteriori accertamenti prima
di potere delineare una ipotesi sufficientemente suffragata della pubblica
accusa”, ha detto, puntualizzando che “l’arco cronologico di rilievo secondo
l’ipotesi accusatoria che abbiamo formulato è quello in cui è stato procuratore
Pietro Giammanco“.
“NEL 1992 NON SI FATTO QUELLO CHE SI DOVEVA FARE”
Secondo l’ipotesi accusatoria, la procura di Palermo insabbiò l’indagine su Cosa
Nostra, l’imprenditoria e la politica. Una tesi che recentemente è stata
smentita dall’ex procuratore Gian Carlo Caselli, proprio in commissione
Antimafia. “Relativamente alle concause delle stragi del 1992, a parer nostro le
precondizioni sono l’isolamento prima di Giovanni Falcone e poi di Paolo
Borsellino nell’ambito della Procura di Palermo; la sovraesposizione prima di
Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino, presso la Procura di Palermo e non
solo. Poi riteniamo che vi siano molteplici e concreti indizi per affermare che
la gestione del filone Mafia e appalti presso la procura retta da Giammanco sia
una delle concause della strage di via D’Amelio, e vi sono elementi per ritenere
che sia anche una delle concause della strage di Capaci”, ha detto De Luca.
Aggiungendo: “Credo che alcuni manifestino scetticismo riguardo Mafia e appalti
come concausa. Sinceramente non capisco perché”. Chiaro riferimento a Roberto
Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo e oggi senatore dei 5 stelle,
seduto tra i commissari presenti all’audizione. De Luca ha spiegato che le
indagini su Mafia e appalti partono solo dopo le stragi. “Nel 1992 non si fatto
quello che si doveva fare. Dopo la strage di Borsellino cambia l’Italia, perché
ci sono state due stragi e perché c’è la forza propulsiva di Mani pulite che
scompaginerà un intero sistema politico, cambia lo stesso gruppo imprenditoriale
Ferruzzi, cambia il procuratore. Ciò che era fattibile o, secondo la nostra
ipotesi, voleva la dirigenza della Procura fino al luglio 1992 cambia
decisamente già quando è stato sfiduciato Pietro Giammanco e a ancora di più
quando è arrivato il procuratore Caselli, che dà un nuovo impulso a certe
indagini, non ha alcun interesse politico personale a bloccare le indagini o a
rallentare o insabbiare le indagini su Mafia e appalti”. Poi, però, De Luca
critica la difesa operata da Caselli sull’intera gestione del dossier. “La
relazione della Procura di Palermo depositata nel 1999 è estremamente lacunosa e
manca di tutti quegli elementi che rendono problematica l’indagine da parte
della procura di Palermo. Il fatto che le cose si siano fatte dopo è un indice
del fatto che prima non si erano fatte”. Il riferimento è per il dossier
preparato proprio dalla procura di Caselli per spiegare come le indagini su
Mafia e appalti fossero sempre state regolari.
“PISTA NERA SU DELLE CHIAIE VALE ZERO TAGLIATO”
A proposito delle indagini sull’eversione di destra, De Luca ha detto di
considerare “singolare che si insista su un certo filone legato alla pista nera.
Mi riferisco alla pista di Stefano Delle Chiaie a seguito delle dichiarazioni
rese da Maria Romeo e anche dal luogotenente Walter Giustini. Se qualcuno vuole
approfondire, approfondiremo ma sinceramente mi sembra un’autentica perdita di
tempo e già ne abbiamo perso abbastanza su questa pista. Dalle dichiarazioni di
Romeo e Giustini e dalle presunte dichiarazioni del collaboratore Alberto
Cicero, che non ci sono mai state, viene fuori una pista che giudiziariamente
vale zero tagliato. Ripeto: zero tagliato. Non mi dilungo perché mi sembra di
farvi perdere tempo. C’è un’archiviazione tranciante del gip – ha aggiunto De
Luca – Un gip che fra parentesi non è certamente appiattito sulle nostre
posizioni”. Romeo e Giustini sono sotto processo con l’accusa di aver depistato
le indagini su via d’Amelio. “Questo filone – ha detto De Luca – ci era stato
prospettato dall’attuale senatore Scarpinato, proprio gli ultimi giorni prima di
andare in pensione. Appena abbiamo ricevuto gli atti, è successo tutto l’inverso
di Mafia e appalti. Siamo partiti con l’idea: qua c’è una pista eccezionale. Ma
guardando le carte ci siamo resi conto che si trattava di zero tagliato”.
“PIGNATONE E LE CASE COMPRATE DAI MAFIOSI”
Gran parte dell’audizione è stata dedicata al ruolo di Giammanco (deceduto nel
2018), di Giuseppe Pignatone e di Gioacchino Natoli. I due ex magistrati (il
primo è deceduto nel 2018) sono ancora sotto indagine da parte della procura di
Caltanissetta per favoreggiamento. La questione riguarda l’archiviazione di
un’indagine parallela a Mafia e appalti, nata su input della procura di Massa
Carrara nel 1991 e archiviata a Palermo l’anno dopo: riguardava il ruolo dei
fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, imprenditori mafiosi vicini a Totò Riina,
divenuti soci del gruppo Ferruzzi di Raul Gardini. Secondo i pm guidati da De
Luca, Pignatone e Natoli archiviarono con l’unico obiettivo di coprire i
Buscemi. “Non abbiamo prova che ci furono elementi corruttivi sul conto di
Pignatone e Giammanco. Ma alcuni collaboratori li hanno chiamati in causa.
Pignatone lo ha definito chiacchiericcio. E’ possibile che abbia ragione, ma
bisogna verificare se i dottori Pignatone e Giammanco, all’epoca sostituto e
procuratore capo, abbiano avuto comportamenti inopportuni. Ovvero comportamenti
che possano avere indotto i mafiosi a pensare che la procura di Palermo avesse
un vertice malleabile”, ha detto il capo dell’ufficio inquirente siciliano. Da
una parte, ha ricordato De Luca, “Giammanco ostentava l’amicizia con Mario
D’Acquisto (ex presidente della Regione ndr). E quando l’europarlamentare della
Dc Salvo Lima fu ucciso, nel marzo del ’92, Giammanco sarebbe voluto andare al
funerale e fu bloccato dai sostituti”. Il procuratore ha riferito che l’ex
procuratore “aveva un nipote a Bagheria, un imprenditore che è stato poi
condannato perché vicino a Bernardo Provenzano e già nel 1985 era indicato dai
carabinieri come un rampante collettore dei rapporti tra imprenditoria, politica
e mafia”. Riguardo Pignatone, invece, il procuratore nisseno ha detto che “negli
anni Ottanta la sua famiglia fa un grossissimo acquisto in un immobile in via
Turr venduto dalla Immobiliare Raffaello, cioè i Bonura, Francesco Buscemi e
Vincenzo Piazza. Si tratta di circa 26 immobili che comprendono non solo
appartamenti, ma anche garage a altro. Vi sono concreti indizi che Salvatore
Buscemi, Vincenzo Piazza, Francesco Bonura siano anche iscritti alla massoneria.
Sono tutti e tre saldamente intrecciati nel mondo imprenditoriale, tutti e tre
condannati per mafia e legati da legami di parentela. Bonura abita anche vicino
ai Piazza. Sono tutti e tre soci della Immobiliare Raffaello. Si tratta di una
immobiliare in cui se si riuniscono i soci diventa una riunione di Cosa nostra.
Ha un capomandamento, un capofamiglia e un associato. Una riunione di questa
società può comportare l’arresto in flagranza. Non è facile da trovare una
società del genere”. De Luca ha anche ricordato l’esistenza di una
intercettazione ambientale in cui “Bonura parlando con un’altra persona afferma
che la signora Pignatone (madre dell’ex procuratore di Roma) lo prendeva
sottobraccio, notando una certa confidenza. Che può derivare da una
frequentazione che non sia occasionale”. De Luca ha anche aggiunto che “nella
sua memoria difensiva Natoli afferma di aver pagato 20 milioni in nero per
l’acquisto della casa. Qui non si deve fare del mero moralismo, dobbiamo vedere
in che situazione di inopportunità si va ficcare una persona. Il dottore
Pignatone afferma, ed è l’ipotesi a lui più favorevole, di avere pagato 20
milioni o qualcosa di più in nero, al capo mandamento Salvatore Buscemi del
mandamento Uditore, Boccadifalco, Passo di Rigano. Non è reato, perché siamo
sotto soglia. Però è un illecito amministrativo”.
“NATOLI HA MENTITO DAVANTI AL CSM”
Natoli, invece, secondo il procuratore di Caltanissetta “ha mentito davanti al
Csm” a proposito dei rapporti tra Falcone e Giammanco. Il riferimento è alle
audizioni dei magistrati della procura di Palermo nei giorni immediatamente
successivi alla strage di via d’Amelio. “In particolare – ha ripercorso De Luca
– il dottor Natoli dinanzi al Csm, a domanda del Presidente ha dichiarato: ‘Sui
rapporti Giammanco-Falcone non posso dire nulla perché io arrivo alla procura di
Palermo quattro mesi dopo che Falcone è andato via, quindi non ho alcuna
conoscenza diretta del problema’. ‘E indiretta?’, gli chiede il presidente.
‘Indiretta neppure perché, ripeto Falcone si era trasferito a Roma, ci si
sentiva telefonicamente e ci si vedeva di tanto in tanto a Palermo, ma
ovviamente l’intensità del rapporto è più tale quando ci vedevamo tutti i
giorni. E dice: ‘non posso dare nessun contributo né diretto né indiretto‘. Bene
nel corso dell’audizione giovani colleghi – segnatamente Antonella Consiglio, de
relato Domenico Gozzo, marito della Consiglio che ha avuto raccontato da lei
quanto ora riferirò e il collega Antonino Napoli – hanno dichiarato che nel
corso di una riunione del Movimento per la giustizia – di cui il dottor Natoli
era uno dei leader indiscussi – il dottor Giovanni Falcone, a richiesta dei
colleghi preoccupati dal fatto che stesse lasciando Palermo per andare al
ministero, ha dichiarato con molta chiarezza: non ci sono più le condizioni per
lavorare a Palermo, non posso più lavorare a Palermo’. Antonino Napoli ha avuto
anche con lui una conversazione privata sul punto in cui Falcone ha confermato
questa sua linea che se ne andava perché non riusciva più a lavorare”. De Luca
ha detto anche che “nel corso del suo interrogatorio il dottor Natoli ha
confermato di essere presente a tale riunione. Quindi, vi sono degli indizi ben
concreti per ritenere che il dottor Natoli dinanzi al Csm abbia mentito”.
“BORSELLINO NON SI FIDAVA DEL SUO CAPO”
A proposito dell’indagine sul dossier del Ros dei carabinieri, De Luca ha
definito come “sopravvalutata” la rilevanza della riunione del 14 luglio 1992
alla procura di Palermo. Il riferimento è al vertice dei magistrati, convocato
il giorno successivo la richiesta di archiviazione di alcuni indagati di Mafia e
appalti. Secondo il procuratore di Caltanissetta, “sembra corroborato da
numerosi indizi che in quella sede non si parlò di richiesta di archiviazione
del dossier su mafia e appalti”. Eppure il procuratore generale di Cagliari
Luigi Patronaggio , tra i presenti a quel vertice, ha raccontato proprio alla
commissione Antimafia di aver saputo della richiesta di archiviazione di Mafia e
appalti proprio durante la riunione del 14 luglio. Secondo De Luca “nella
riunione del 14 luglio non ci fu uno scontro tra Paolo Borsellino e la
dirigenza. La strategia e la personalità di Borsellino escludevano che si
arrivasse a uno scontro in quella sede. Borsellino aveva una mentalità di
rispetto e delle gerarchie negli ambiti ufficiali: per cui in sede privata,
nella riservatezza di una stanza poteva anche scontrarsi con il procuratore
Giammanco, ma davanti ai sostituti non lo avrebbe mai fatto. E questo ce lo dice
Antonio Ingroia. Attenzione, Borsellino non aveva paura di Giammanco, Borsellino
era un leone”. Per De Luca, “Paolo Borsellino nutriva una estrema diffidenza nei
confronti Di Giammanco, Natoli e Lo Forte”. Il fatto che il magistrato non si
fidasse dei suoi colleghi e del suo capo, secondo il procuratore di
Caltanissetta è confermato anche da un altro passaggio: “Dopo aver ascoltato il
pentito Gaspare Mutolo, che gli rivelò le collusioni con la mafia di Bruno
Contrada e del pm Domenico Signorino, Paolo Borsellino non ne parla con Lo Forte
e Natoli e neanche a Giammanco, ma riferisce quanto aveva appreso dal
collaboratore di giustizia a due colleghi non titolari dell’inchiesta, cioè
Vittorio Teresi e Ignazio De Francisci“.
LA DESTRA ESULTA, I 5 STELLE: “REQUISITORIA SENZA CONTRADDITORIO”
L’audizione del procuratore di Caltanissetta ha ovviamente provocato reazioni
politiche. I parlamentari di Fdi sottolineano come De Luca abbia “affermato in
maniera chiara e inequivocabile che la cosiddetta pista nera, ovvero l’ipotesi
giudiziaria di un coinvolgimento di Delle Chiaie nella strage di via d’Amelio,
vale zero tagliato. È un’affermazione che merita rispetto e attenzione, perché
proviene dall’autorità giudiziaria titolare delle indagini. Continuare a
insistere su un filone che, secondo la Procura, non presenta concreti elementi
probatori rischia di alimentare confusione e di allontanare la ricerca della
verità”. Al partito di Giorgia Meloni, replicano i parlamentari del Pd, che
ricordano come il procuratore abbia “affermato di non sentirsi di escluderè
altre piste, sulle quali sono ancora in corso indagini. Tra queste, ha
espressamente citato anche una pista nera. Alla luce di questo, appare
inquietante il comunicato del gruppo di Fratelli d’Italia, che esprime una sorta
di soddisfazione per una – arbitraria – interpretazione del ruolo delle piste
nere anche nelle stragi del 92-93, quasi con – inspiegabile – senso di
sollievo”. I 5 stelle, invece, definiscono quella di De Luca come “una
requisitoria senza contraddittorio con gli indagati e i loro avvocati, svolta in
una sede politico-parlamentare anziché nella fisiologica sede giudiziaria. De
Luca, a lungo invocato dalla maggioranza, non si è limitato a una sommaria
esposizione degli elementi su cui sta portando avanti la sua indagine seguendo
la pista mafia-appalti, ma ha esposto a lungo e senza secretazione
dell’audizione una analisi di svariati elementi processuali di dettaglio, alcuni
dei quali non sono nemmeno a conoscenza degli avvocati degli indagati, come le
dichiarazioni testimoniali del dottore Lo Forte”. Il riferimento è alle indagini
su Natoli e Pignatone. “Nella lunga audizione – continuano ancora i 5 stelle –
sono state implicitamente mosse anche accuse di aver detto il falso a magistrati
come Patronaggio, attuale procuratore generale di Cagliari, e Lo Forte. Il
primo, in commissione Antimafia, dove è stato chiamato dalla maggioranza, ha
detto che nella famosa riunione del 14 luglio 1992 si parlò della temporanea
archiviazione di un filone di mafia-appalti, quello che tra gli altri riguardava
Antonino Buscemi. Il secondo lo ha affermato sotto giuramento in pubblico
dibattimento. Oggi si è anche detto che quella archiviazione parziale di
mafia-appalti fu frutto di un mancato approfondimento della procura di Palermo
che avrebbe dovuto e potuto sollecitare il Ros affinché integrasse il suo primo
dossier che ometteva elementi importanti. Peccato che la richiesta di
approfondimento sia stata avanzata dalla Procura di Palermo con un’ampia delega
di indagine del 18 luglio 1991 e che la risposta del Ros sia arrivata solo il 5
settembre 1992, cioè dopo la Strage di via D’Amelio e dopo l’inevitabile
parziale richiesta di archiviazione formulata il 13 luglio ’92”.
L'articolo Il procuratore di Caltanissetta in Antimafia: “Inchiesta su Delle
Chiaie e le stragi? Vale zero. Indaghiamo su un’altra pista nera” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
C’è il caso limite del Comune di Marano, 57 mila abitanti in provincia di
Napoli, che è stato sciolto per condizionamento mafioso ben cinque volte, di cui
tre negli ultimi nove anni. Ma sono tante le amministrazioni locali su cui la
scure della legge varata nel 1991 si è abbattuta a ripetizione. Ventidue Comuni
italiani sono stati sciolti tre volte, per esempio San Luca, paese aspromontano
considerato la culla della ‘ndrangheta, ma che fa 3300 abitanti, certo non tutti
mafiosi o complici. E sono ben 60 quelli sciolti due volte, fra i quali Casal di
Principe, Caivano, Nettuno… Numeri che suonano come un campanello d’allarme: il
commissariamento per mafia funziona davvero, se così spesso si riparte da zero?
Lo Stato può cancellare con un colpo di spugna un risultato elettorale, può
mandare a casa sindaco, giunta, e tutti i consiglieri comunali, di maggioranza e
di opposizione, collusi e no, se poi non riesce a garantire una svolta nel segno
della legalità? Proprio a San Luca, al commissariamento per mafia si è aggiunto
quello per la mancata presentazione di liste elettorali. Non si rischia di
allontanare ulteriormente i cittadini dalla politica?
Sono le domande che si pone Avviso pubblico, la rete degli enti locali contro le
mafie e la corruzione, che ha presentato a Roma oggi, martedì 2 dicembre, il
dossier Il male in Comune, ricco di dati e proposte per rendere più efficace
questa legge-bandiera del movimento antimafia. Dal 2 agosto 1991 al 30 settembre
2025 sono stati 402 gli scioglimenti di enti locali per infiltrazioni mafiose
decisi dal Consiglio dei Ministri e promulgati da decreti del Presidente della
Repubblica: in media uno al mese, per 34 anni. Tenendo conto dei citati
scioglimenti plurimi, sono stati colpiti 288 Comuni e 6 Aziende sanitarie
provinciali. Solo in 24 casi i giudici del Tar e del Consiglio di Stato hanno
annullato il provvedimento.
Altra nota dolente: ben 62 sindaci di Comuni sciolti sono tornati trionfalmente
sulla poltrona alle consultazioni successive: 31 di nuovo come sindaci, 29 come
consiglieri comunali, due come assessori. C’è poi un dato curioso. Indovinate
quali governi hanno “sciolto” di più, anche in relazione alla loro durata?
Quelli di Gentiloni e Monti, sostenuti da maggioranze trasversali. A proposito:
sull’insieme dei Comuni che hanno subito il provvedimento, il 50% era retto da
maggioranze civiche, il 28% dal centrodestra e il 22% dal centrosinistra.
Gli scioglimenti per mafia non fanno quasi più notizia, salvo qualche sussulto
quando toccano il Nord. Ma il 96% dei casi riguarda le quattro regioni d’origine
delle mafie tradizionali: Calabria, Sicilia, Campania e Puglia. E due terzi sono
concentrati in cinque sole province: Reggio Calabria, Napoli, Caserta, Palermo e
Vibo Valentia. Raramente la politica nazionale si scalda. È successo nel 2024
con Bari, quando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi insediò una
commissione d’accesso, a seguito di un’indagine antimafia, tre mesi prima del
voto amministrativo che vedeva favorito il centrosinistra (la cosa è finita in
nulla, quasi un anno dopo).
E su quello che succede al termine del commissariamento, di solito cala il
silenzio. “Nel caso dell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria lo
scioglimento è stato inutile, in entrambe le occasioni, perché le commissioni
hanno solamente gestito il giornaliero, l’ordinario”, è la testimonianza di
Santo Gioffrè, medico e politico che nel 2015 è stato nominato commissario
straordinario dell’ente. “La situazione che hanno lasciato dopo i due
scioglimenti è rimasta immutata. Il rischio è che il commissariamento assomigli
a una foglia di fico, che non si risolve nessuna delle problematiche
strutturali. È un problema che si riscontra anche con alcuni Comuni”.
“Uno dei tratti ricorrenti in tutti i Decreti di scioglimento e nelle Relazioni
prefettizie analizzate sono le forme di sostegno elettorale da parte di
esponenti della criminalità organizzata“, si legge nel dossier. Qualche esempio?
Ad Aprilia (Latina) “tra i sottoscrittori delle liste figurano esponenti di
famiglie mafiose”; a Quindici (Avellino) è stato costruito “un sistema
fraudolento di false dichiarazioni di residenza per garantire il successo
elettorale”. Stando alle relazioni finali delle commissioni d’accesso, i settori
più condizionati dalle mafie sono gli appalti, la gestione del patrimonio
pubblico, l’urbanistica, il (mancato) contrasto all’abusivismo edilizio.
I motivi per “sciogliere” non mancano, ma secondo Avviso pubblico (e non solo,
vedi MillenniuM n. 95) è ora di mettere mano a una sostanziosa riforma. Del
resto, in quel lontano 1991 quella legge fu varata “di fretta perché, fu la
risposta emergenziale che il Governo dell’epoca diede alla cosiddetta ‘faida di
Taurianova‘”, scrive il sociologo Vittorio Mete. Al culmine della guerra fra due
‘ndrine rivali del paese in provincia di Reggio Calabria, una delle vittime finì
decapitata nella piazza principale. La storia fece il giro del mondo, anche
perché i giornali dell’epoca raccontarono che la testa mozzata venne lanciata in
aria e bersagliata di colpi in un macabro tiro a segno.
Quando emerse che uno dei boss ammazzati era consigliere comunale della
Democrazia cristiana, ecco la corsa ad approvare la nuova normativa. Che,
secondo Mete, “non dà gli strumenti necessari per adempiere alla promessa di
ripristinare la legalità e scacciare dal Comune i mafiosi e altri affaristi. Una
commissione straordinaria – che a dispetto del nome che porta non ha più poteri
di quelli ordinariamente assegnati al Consiglio, alla Giunta e al Sindaco – e
che resta in carica al massimo per un paio di anni, fa quel che può”. Un
“provvedimento tampone” che può avere un’efficacia immediata contro
l’infiltrazione mafiosa, “ma arranca quando si tratta di metter mano alle sue
cause”, chiarisce lo studioso. Così succede che “commissaria oggi, commissaria
domani” i cittadini si stufino e dicano in sostanza: “Governate voi che avete il
bollino dello Stato e lasciateci in pace”. Come a San Luca.
Il dossier, curato da Claudio Forleo e Marco De Pasquale dell’Osservatorio
Parlamentare di Avviso pubblico, raccoglie numerose proposte di riforma. Per
esempio, introdurre la possibilità di licenziare i dipendenti comunali “dei
quali è stata acclarata chiaramente infedeltà e coinvolgimento grave”, scrive
Antonio Reppucci, prefetto e commissario straordinario proprio del Comune di San
Luca. I comuni commissariati per mafia sono spesso in dissesto finanziario, e
per marcare davvero la differenza fra il prima e il dopo lo Stato dovrebbe
fornire “risorse umane e finanziarie” eccezionali. Terminato il
commissariamento, sarebbe poi utile un monitoraggio in collaborazione fra
prefettura, forze di polizia e i nuovi organismi politici eletti.
Altre proposte vanno da una riorganizzazione dei tempi dell’intervento, per non
lasciare un comune per tre mesi nell’incertezza se sarà sciolto o meno, a una
migliore selezione del personale prefettizio, oggi attuata con “criteri
burocratici”, scrivono i giuristi amministrativi Renato Rolli e Dario Samarro,
mentre potrebbe avvenire pescando “da un albo nazionale di commissari
specializzati”, con “competenze specifiche nel contrasto alla criminalità
organizzata”. Il dossier sottolinea infine che i documenti relativi allo
scioglimento e al lavoro dei commissari prefettizi sono riservati. Rendere
pubblici, per quanto possibile, i problemi più seri incontrati nella macchina
comunale e le soluzioni adottate rinsalderebbe il rapporto coi cittadini. Che
spesso vedono i commissari come corpi estranei.
L'articolo Comuni sciolti per mafia, una legge da riformare: “Licenziare i
dipendenti collusi, informare di più i cittadini” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
A Bologna va in onda la seconda giornata del convegno sul Diritto alla Verità,
organizzato dal movimento delle Agende Rosse di Salvatore Borsellino. “Il
diritto alla verità deve essere affermato a livello normativo”, ha detto il
fratello del magistrato ucciso in via d’Amelio al Fatto Quotidiano. Dopo la
prima giornata segnata dagli interventi di Roberto Scarpinato, di Gaetano
Azzariti e della vicedirettrice del Fatto Quotidiano Maddalena Oliva (si possono
rivedere qui), all’interno della Sala Borsa si confronteranno avvocati come
Fabio Anselmo, magistrati come Luca Tescaroli, storici come Angelo Ventrone.
Alla fine della giornata, l’intervento dei familiari delle vittime della mafia e
terrorismo e dell’avvocato Fabio Repici. Il convegno gode del patrocinio del
comune di Bologna. Trasmettiamo in diretta la seconda giornata dell’evento.
DOMENICA 30 NOVEMBRE 2025
ore 9.30 – Avvocati – Coordinatore Fabio Repici (Avvocato):
* Fabio Anselmo – Avvocato;
* Giancarlo Maniga – Avvocato;
* Ettore Zanoni – Avvocato.
ore 11.30 – Magistrati – Coordinatrice Elena Marchili (Magistrato Ordinario in
Tirocinio):
* Roberto Giovanni Conti – Consigliere presso la Corte di Cassazione;
* Giuseppe Gennari – Giudice presso il Tribunale di Milano;
* Raffaello Magi – Consigliere presso la Corte di Cassazione;
* Luca Tescaroli – Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato.
ore 13.30 – pausa pranzo
ore 15.30 – Storici – Coordinatrice Antonella Beccaria (Giornalista e Storica):
* Davide Conti – Storico e consulente della procura di Bologna e di Brescia;
* Antonella Salomoni – Professoressa ordinaria di Storia della Shoah e dei
genocidi presso l’Università di Bologna;
* Angelo Ventrone – Professore ordinario di Storia contemporanea presso
l’Università di Macerata;
* Cinzia Venturoli – Professoressa a contratto di Storia contemporanea presso
l’Università di Bologna.
ore 17.30: intervento di Daniela Marcone – Vicepresidente di Libera
ore 17.40 – Familiari delle vittime – Coordinatore Nino Morana (nipote di Nino
Agostino):
* Sergio Amato – Figlio del Magistrato Mario Amato;
* Salvatore Borsellino – Fratello del Giudice Paolo Borsellino e Fondatore del
Movimento Agende Rosse;
* Daniele Gabbrielli – Vice-presidente dell’Associazione tra i familiari delle
vittime della strage di via dei Georgofili;
* Sonia Zanotti – Sopravvissuta alla strage di Bologna.
Fabio Repici – Proposte conclusive e progetto normativo all’esito del confronto
e delle idee raccolte
Salvatore Borsellino – Conclusioni del convegno e messaggio alla società e alle
istituzioni
L'articolo Diritto alla verità, la diretta tv del convegno delle Agende rosse di
Borsellino con Anselmo, Tescaroli e Repici proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Il diritto alla verità deve essere affermato a livello normativo”. Parola di
Salvatore Borsellino, che con questa dichiarazione al Fatto Quotidiano ha
presentato il dibattito organizzato a Bologna il 29 e 30 novembre. All’interno
della Sala Borsa, i familiari delle vittime delle stragi di mafia e terrorismo
si confronteranno sul diritto alla verità con alcuni storici, giuristi del
calibro di Gaetano Azzariti, giornalisti come Sigfrido Ranucci di Report e la
vicedirettrice del Fatto Quotidiano Maddalena Oliva, magistrati e politici, da
Luca Tescaroli a Roberto Scarpinato. Il convegno gode del patrocinio del comune
di Bologna. Trasmettiamo la diretta dei lavori, visibile anche sul canale
Youtube di Antimafia Duemila.
Qui il programma completo.
SABATO 29 NOVEMBRE 2025
ore 9.00: Matteo Lepore (Sindaco della Città di Bologna) – Saluto di benvenuto
Salvatore Borsellino (Fondatore del Movimento Agende Rosse) – Filosofia del
congresso ed impegno di Salvatore per la istituzionalizzazione del diritto alla
verità
Fabio Repici (Avvocato) – Obiettivo tecnico specifico del congresso all’esito
dei lavori
ore 9.30 – Giuristi – Coordinatore Alessandro Francescangeli (Assegnista di
ricerca in diritto pubblico comparato presso l’Università di Firenze):
* Gaetano Azzariti – Professore ordinario di Diritto costituzionale presso
l’Università di Roma “La Sapienza”;
* Francesco Caprioli – Professore ordinario di Diritto processuale penale
presso l’Università di Roma “La Sapienza”;
* Renzo Orlandi – Professore ordinario di Diritto processuale penale presso
l’Università di Bologna;
* Laura Ronchetti – Professoressa associata di Diritto costituzionale presso
l’Università degli Studi del Molise.
ore 11.30 – Parlamentari – Coordinatrice Giulia Sarti (Delegata alla legalità
democratica e lotta alle mafie e agli Affari Istituzionali per Bologna e Città
metropolitana):
* Ilaria Cucchi – Senatrice della Repubblica (Alleanza Verdi e Sinistra);
* Luigi de Magistris – ex Sindaco della Città di Napoli;
* Enza Rando – Senatrice della Repubblica (Partito Democratico);
* Roberto Scarpinato – Senatore della Repubblica (Movimento Cinque Stelle).
ore 13.30 – pausa pranzo
ore 15.30 – Storici delle idee – Coordinatore Ernesto De Cristofaro (Professore
di Storia del diritto medievale e moderno presso l’Università di Catania):
* Franca D’Agostini – Professoressa ordinaria di Filosofia teoretica, ha
insegnato Filosofia della Scienza presso il Politecnico di Torino e Logica e
argomentazione presso l’Università Statale di Milano;
* Marco Fioravanti – Professore ordinario di Storia del diritto medievale e
moderno presso l’Università di Roma-Tor Vergata;
* Luigi Perissinotto – Professore emerito di Filosofia del linguaggio presso
l’Università Ca’ Foscari di Venezia;
* Maurizio Viroli – Professore emerito di Politics presso la Princeton
University, insegna Government presso l’Università di Austin e Comunicazione
politica presso l’Università della Svizzera italiana di Lugano.
ore 17.30 – Giornalisti – Coordinatore Paolo Borrometi (Presidente della Scuola
di formazione politica Piersanti Mattarella):
* Fabrizio Gatti – Direttore editoriale per gli approfondimenti del quotidiano
online today.it;
* Stefania Limiti – Giornalista free-lance e Scrittrice;
* Maddalena Oliva – Vicedirettrice della testata giornalistica “Il Fatto
Quotidiano”;
* Sigfrido Ranucci – Conduttore della trasmissione televisiva ‘Report’ (RAI3).
DOMENICA 30 NOVEMBRE 2025
ore 9.30 – Avvocati – Coordinatore Fabio Repici (Avvocato):
* Fabio Anselmo – Avvocato;
* Giancarlo Maniga – Avvocato;
* Ettore Zanoni – Avvocato.
ore 11.30 – Magistrati – Coordinatrice Elena Marchili (Magistrato Ordinario in
Tirocinio):
* Roberto Giovanni Conti – Consigliere presso la Corte di Cassazione;
* Giuseppe Gennari – Giudice presso il Tribunale di Milano;
* Raffaello Magi – Consigliere presso la Corte di Cassazione;
* Luca Tescaroli – Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Prato.
ore 13.30 – pausa pranzo
ore 15.30 – Storici – Coordinatrice Antonella Beccaria (Giornalista e Storica):
* Davide Conti – Storico e consulente della procura di Bologna e di Brescia;
* Antonella Salomoni – Professoressa ordinaria di Storia della Shoah e dei
genocidi presso l’Università di Bologna;
* Angelo Ventrone – Professore ordinario di Storia contemporanea presso
l’Università di Macerata;
* Cinzia Venturoli – Professoressa a contratto di Storia contemporanea presso
l’Università di Bologna.
ore 17.30: intervento di Daniela Marcone – Vicepresidente di Libera
ore 17.40 – Familiari delle vittime – Coordinatore Nino Morana (nipote di Nino
Agostino):
* Sergio Amato – Figlio del Magistrato Mario Amato;
* Salvatore Borsellino – Fratello del Giudice Paolo Borsellino e Fondatore del
Movimento Agende Rosse;
* Daniele Gabbrielli – Vice-presidente dell’Associazione tra i familiari delle
vittime della strage di via dei Georgofili;
* Sonia Zanotti – Sopravvissuta alla strage di Bologna.
Fabio Repici – Proposte conclusive e progetto normativo all’esito del confronto
e delle idee raccolte
Salvatore Borsellino – Conclusioni del convegno e messaggio alla società e alle
istituzioni
L'articolo Diritto alla verità, la diretta tv del convegno delle Agende rosse di
Borsellino con Azzariti, Oliva, Ranucci, Scarpinato e Tescaroli proviene da Il
Fatto Quotidiano.