Da oggi abbiamo un nuovo “giallo” da risolvere: c’è stata un’accelerazione della
audizione in Commissione parlamentare Antimafia del Procuratore Salvatore De
Luca, sentito ieri per tre ore sulla strage di Via D’Amelio?
Gli investigatori invero non brancolano nel buio, esiste un indizio ed è rosso
fuoco: il cappotto di Arianna Meloni, grande sacerdotessa del festival Atreju in
scena a Roma da qualche giorno. Ma abbiate pazienza: poteva mai salire su quel
palco l’on. Chiara Colosimo, presidente della Commissione Antimafia, meloniana
di ferro, titolare di uno dei fronti più caldi della grande offensiva nera
contro la Costituzione repubblicana (ovvero la definitiva rimozione dalla scena
dei crimini stragisti di neo-fascisti, piduisti, politici-transitati nella
seconda repubblica, apparati e finanzieri), circondata dall’eco delle parole di
Gian Carlo Caselli che il 18 novembre aveva completato (finalmente!) la sua
relazione cominciata il 31 luglio, smontando puntualmente il presunto movente
“mafia/appalti” per la strage del 19 Luglio 1992?
L’approdo della presidenta sul palco della grande parata è atteso infatti per
venerdì 12 dicembre alle ore 15:30, un giorno per altro già complicato dallo
sciopero generale proclamato dalla CGIL e sostenuto da centinaia di
organizzazioni che compongono La via maestra, per denunciare l’assenza totale di
politiche sociali nella Legge di Bilancio che però non manca di strizzare
l’occhio agli evasori fiscali con l’atteso innalzamento del tetto al contante (a
proposito di politiche “anti mafia”). Un approdo che sarebbe apparso mesto e
scivoloso se la presidenta vi fosse arrivata per l’appunto con la eco delle
parole di Gian Carlo Caselli, che in maniera puntigliosamente argomentata aveva
invitato a non confondere un contesto sicuramente complicato ed ostile (il “nido
di vipere”) con la spiegazione della accelerazione drastica sulla strage di via
D’Amelio, che invece molto più coerentemente andrebbe cercata nelle indagini che
Borsellino stava svolgendo sulla strage di Capaci, nei movimenti che l’avevano
preceduta e seguita (tra cui: le visite di De Donno a casa Ciancimino), nelle
confidenze terribili che stava raccogliendo (tra cui: Lo Cicero e Mutolo), tutti
elementi che il magistrato andava collezionando nella sua agenda rossa, in
attesa di essere convocato come testimone dalla Procura di Caltanissetta, che
però non lo chiamerà mai.
In verità Colosimo aveva provato ad arginare Gian Carlo Caselli domandandogli al
90esimo minuto come potesse continuare ad argomentare in quella direzione
nonostante le sentenze del Borsellino ter, quater e quinquies contemplino
proprio “mafia/appalti” come causale della strage. Tiro “parato” da Caselli.
All’indomani dell’audizione allora era stato l’avv. Trizzino in persona a
stigmatizzare l’accaduto con un piccato post su FB: “Costui (Caselli!) per
sminuire il valore delle sentenze Borsellino ter, quater, quinquies che hanno
avvalorato la pista mafia/appalti come possibile movente della accelerazione
della strage di Via D’Amelio ha così commentato ‘Tot capita tot sententiae’,
come a dire ogni testa è tribunale nel detto popolare” (etc).
E così che Colosimo deve aver pensato di correre ai ripari, convocando il
Procuratore De Luca, che non aveva mancato in passato di dimostrare l’alto senso
di leale collaborazione istituzionale dal quale è animato nei confronti della
presidente dell’Antimafia (inviando a Palazzo San Macuto le trascrizioni delle
conversazioni intercettate tra Natoli e Scarpinato).
Ed il Procuratore di Caltanissetta, città competente per le indagini sulle
stragi di Capaci e di via d’Amelio, non ha mancato l’appuntamento col destino
rassegnando alla Commissione due contributi precisi: liquidare la pista nera,
“zero spaccato”, almeno quella che fa riferimento a Lo Cicero, e confermare la
centralità di “mafia/appalti” come movente della strage, proprio in riferimento
alle sentenze del Borsellino ter, quater, quinquies, centralità resa tanto più
chiara dalla maliziosa sovraesposizione alla quale Borsellino era stato
condannato dai suoi stessi colleghi-vipere; silurare proprio il documento
fondamentale portato da Caselli per dimostrare come l’intera ricostruzione della
vicenda “mafia/appalti” fosse viziata da falsità e strumentalizzazioni e cioè la
relazione consegnata sul punto alla Commissione parlamentare anti mafia nel
febbraio del 1999, sottoscritta da tutto l’ufficio di procura e dal Procuratore
stesso (Caselli) e mai contestata. Secondo De Luca quella relazione sarebbe
lacunosa e fuorviante, insomma: Caselli l’avrebbe usata per coprire
responsabilità non sue, ma di alcuni suoi colleghi che arrivavano dalla
famigerata gestione Giammanco.
Il Procuratore De Luca non ha spiegato di più, ma è probabile che si riservi di
farlo nella già annunciata prosecuzione dell’audizione. Comunque ce n’è quanto
basta per la presidenta Colosimo: assicurati scroscianti applausi al festival di
Atreju. The show must go on!
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libera dalla ‘pista nera’ proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Strage di via D’Amelio
Lo “spazza-neve” Caselli torna in Antimafia e finisce il lavoro: sgombrato
completamente il campo dalla falsa valanga di “mafia-appalti”, resta linda ed
evidente la chiave per comprendere la strage di Via D’Amelio e cioè l’agenda
rossa di Paolo Borsellino. Il furto dell’agenda rossa si può dire che sia stato
il fine stesso della strage e il furto non l’ha fatto Cosa Nostra.
Possibile che la repentina decisione di Riina, assunta tra fine giugno e i primi
di luglio, di abbandonare il progetto di assassinare Mannino e di mettere nel
mirino con urgenza Paolo Borsellino sia stata presa per impedirgli di lavorare
su mafia-appalti (tesi cara a Mori-De Donno-Trizzino-Colosimo)?
Niente affatto: non c’è un solo elemento che induca a pensare che Borsellino
considerasse una priorità quel rapporto, né che fosse preoccupato per un suo
insabbiamento (inesistente), né che fosse tenuto all’oscuro di quanto si stesse
facendo su di esso (partecipava alle riunioni di coordinamento nelle quali
veniva fatto il punto sulle indagini in corso). E allora?
Ragiona il-Caselli-spazza-neve, su cosa stava lavorando Borsellino? La risposta
va cercata in ciò che Paolo Borsellino disse pubblicamente il 25 giugno 1992,
nel suo ultimo intervento prima di morire a Casa Professa, Palermo (nel
pomeriggio aveva incontrato Mori e De Donno riservatamente alla caserma Carini,
i quali non gli dissero nulla della trattativa avviata con Cosa Nostra tramite
Vito Ciancimino). A Casa Professa, Borsellino disse ciò che tutti si aspettavano
di sentirsi dire e cioè che stava lavorando senza sosta sui motivi della strage
di Capaci.
Disse Borsellino di avere maturato convinzioni precise sulla strage, disse di
essere testimone, disse che non ne avrebbe parlato prima di averne riferito
formalmente alla Procura di Caltanissetta titolare della indagine (il capo della
Procura Tinebra non lo chiamerà mai). Dichiarazioni talmente potenti da far
esclamare ad un mafioso di rango, Salvatore Montalto, capo mandamento di
Villabate, in carcere con Angelo Siino, che ne riferirà: “A chistu chi ci ‘u
purtava a parrare di certe cosi?”.
Cosa potrebbe aver capito Borsellino della strage di Capaci? Che c’entrava con
mafia-appalti? Da escludere: Falcone non si occupò mai dello sviluppo
giudiziario del rapporto, perché quando lo ricevette aveva già cessato la
funzione di pubblico ministero ed era in partenza per Roma, dove avrebbe
ricoperto il ruolo di capo degli affari penali per il ministro Martelli.
Che Giammanco fosse un “poco di buono” a capo del “nido di vipere”? Non era un
segreto, tanto che Borsellino stesso, sempre nell’intervento a Casa Professa, ci
tenne prima di tutto a ribadire la veridicità del “Diario Falcone” pubblicato da
Liana Milella, nel quale Falcone esprimeva giudizi pesanti su Giammanco. Falcone
stesso aveva avuto il tempo di intervenire sul ministro Martelli per l’irrituale
invio che a questi aveva fatto proprio Giammanco di una copia di mafia-appalti.
Insomma: assurdo pensare che la strage di Via D’Amelio sia legata ad un
“segreto” che stava sulla bocca di tutti.
E allora, cosa?
Forse Paolo Borsellino aveva capito qualcosa sull’attentato di Capaci: un
attentato che non aveva rappresentato soltanto un cambio di strategia
omicidiaria da parte di Cosa Nostra che, dopo i “tradizionali” assassinii di
Salvo Lima e del maresciallo Giuliano Guazzelli, avrebbe dovuto assassinare
anche Falcone in maniera “tradizionale”, a colpi di pistola, nel ristorante
romano dove era solito recarsi senza scorta. Capaci infatti era stato un salto
di paradigma nelle modalità esecutive: abbattere un bersaglio in movimento a 130
km orari richiedeva competenze militari senza precedenti (e mai più adoperate,
forse proprio perché troppo rivelatrici).
Forse Paolo Borsellino aveva capito che dietro l’attentato di Capaci, appunto
per quelle straordinarie modalità, stava una rete molto più vasta di soggetti e
volontà, che potevano avere a che fare con le ultime indagini di Falcone su
Gladio, che magari avevano a che fare con le confidenze di Alberto Lo Cicero
(più fortunato di Luigi Ilardo) che raccontava di “U Mussolini” al secolo
Mariano Tullio Troia, di Stefano Delle Chiaie e dei legami con quell’amico di
infanzia di Borsellino stesso, che era nientemeno che il leader della destra
missina in Sicilia, Guido Lo Porto.
Di sicuro Paolo Borsellino capirà nei giorni successivi a Casa Professa che,
immediatamente dopo la strage di Capaci, si era attivata una strategia negoziale
con Cosa Nostra, che – lungi dal fermare il progetto stragista – avrebbe
rischiato di attizzarlo, conferendo (confermando!) a Cosa Nostra il rango di
ente col quale lo Stato si metteva a trattare (trattativa che in effetti è nel
pieno proprio alla fine di giugno 1992). Ipotesi, ragionevoli, che si ricavano
dalla relazione di Gian Carlo Caselli.
Ma a questo punto possiamo essere certi di alcune cose. Che qualunque cosa
avesse compreso Borsellino sulla strage di Capaci, l’aveva scritta nell’agenda
rossa e che dopo Casa Professa chi conosceva le abitudini del magistrato lo
aveva capito. Che la strage di Via D’Amelio ebbe quindi un duplice obiettivo:
uccidere Borsellino e sottrarre l’agenda rossa. Che il furto dell’agenda non fu
fatto dai mafiosi. Che l’agenda rossa esiste ancora: chi l’ha presa, la
conserva, perché troppo grande è il suo potere (Tolkien in questo caso è di
aiuto!).
Non so se abbia ragione Salvatore Borsellino che per aver invitato a cercarla
nelle case di Mori si è beccato una querela, ma comunque sono certo che prima o
poi salterà fuori.
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