di Graziano Lanzidei
Qualche giorno fa, a Latina, un gruppo ha manifestato in via Don Morosini per
invocare la remigrazione e la reconquista. Parole e simboli forti, pronunciati
in una città che – proprio per come è nata e cresciuta – rendono questo tipo di
slogan non solo fuori luogo, ma profondamente contraddittori.
Non è mio interesse discutere chi c’era o quali sigle sventolassero. Preferisco
concentrarmi su un dato più profondo: l’assurdità di parlare di remigrazione in
un territorio come questo. Perché Latina non è mai stata città “dei nativi”, ma
figlia e frutto della migrazione. Lo dice chiaramente Antonio Pennacchi in un
passo tratto da Dai Volsci ai Rom. La transumanza nel Pontino, scritto con
Massimiliano Lanzidei su Limes: “In quanto città nuova – che prima non c’era –
Latina ha visto fin dal nascere l’afflusso continuo di nuove genti in cerca di
fortuna, lavoro od opportunità. Al primo nucleo di coloni
veneto-friulano-ferraresi, di impiegati romani e di abitanti dei monti Lepini,
si sono aggiunti (…) vasti gruppi provenienti dai paesi dell’Est (…) oltre che
dall’Africa e dall’Asia: sikh del Punjab, Pakistan, India, Bangladesh. L’intera
popolazione di Latina quindi (…) è fatta di immigrati, soprattutto di seconda,
terza e anche quarta o quinta generazione. Ma sempre immigrati, almeno nel
sangue e nell’inconscio, restiamo”.
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In questa città parlare di “remigrazione” è non solo illogico, ma
autolesionista. Perché proprio qui, in uno dei distretti agricoli più produttivi
del Paese, lavorano e vivono migliaia di immigrati – indiani, bengalesi, romeni,
moldavi, pakistani. Non solo vivono: reggono interi settori dell’agroalimentare,
della logistica, dell’assistenza familiare. Sono parte integrante di un tessuto
economico che altrimenti collasserebbe, eppure restano la prima categoria
sacrificabile quando serve un capro espiatorio politico.
E soprattutto proprio qui, da anni, si consuma una delle più grandi vergogne
sociali italiane: lo sfruttamento sistemico del lavoro migrante attraverso il
caporalato. L’Agro Pontino è stato descritto in più inchieste come un
laboratorio dello sfruttamento moderno: giornate da 12 ore nei campi a 3 euro
l’ora, nessuna tutela, doping forzato con antidolorifici, dormitori fatiscenti.
L’elenco è noto, eppure rimosso. Gli stessi che parlano di “invasione” spesso
mangiano i frutti raccolti da chi vorrebbero rispedire indietro.
La contraddizione è talmente evidente da diventare quasi imbarazzante. La
retorica della remigrazione funziona solo se si cancella la storia della città e
si spezza il filo che lega la memoria al presente. Ma senza quel filo – senza le
persone che lo hanno tessuto arrivando qui, ieri e oggi – Latina perderebbe se
stessa. Non è un tema di buonismo né di ideologia: è un tema di verità
materiale. Di come vivono le persone e di come funziona un territorio.
E allora la domanda vera è questa: chi deve remigrare, davvero? Chi è arrivato
qui per lavorare, pagare affitti esorbitanti e farsi sfruttare nei campi? O chi
ha costruito un racconto identitario su una città che non ha mai avuto
un’identità fissa? Chi ha contribuito alla vita economica e sociale di Latina o
chi la usa come scenografia per invocare “pulizie etniche soft”?
Questa è la contraddizione che brucia. Latina, città nata da una bonifica, oggi
sembra voler bonificare la propria memoria. Eppure restiamo tutti migranti, nel
sangue e nell’inconscio, come scrive Pennacchi. E forse, proprio per questo,
possiamo provare a costruire un altro discorso: uno che non parta dalla paura
dell’altro, ma dalla consapevolezza che l’altro siamo stati – e siamo – anche
noi.
L'articolo Perché invocare la ‘remigrazione’ in una città come Latina è un
controsenso autolesionista proviene da Il Fatto Quotidiano.