Nelle ultime ore i carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile della
Compagnia di Latina e della Stazione di Sabaudia hanno arrestato un uomo di 40
anni, già noto alle forze dell’ordine, ritenuto il responsabile dell’incendio di
due auto della polizia locale del comune pontino. Più in particolare, intorno
alle 3 di questa notte, i militari della Stazione di Sabaudia sono intervenuti
in via Inghilterra per l’incendio che aveva provocato la distruzione di due Jeep
Renegade della polizia locale, parcheggiate entrambe davanti al comando, a
ridosso delle colonnine di ricarica (essendo entrambe elettriche). Attraverso la
visione delle immagini registrate dal sistema di videosorveglianza, i militari
hanno avuto modo di riscontrare come un uomo travisato avesse cosparso i veicoli
di liquido infiammabile, per poi appiccare l’incendio e allontanarsi a bordo del
suo veicolo. Le conseguenti verifiche hanno permesso di identificare l’indagato,
che è stato rintracciato e arrestato.
Nel corso delle indagini, sono stati raccolti alcuni elementi di colpevolezza
nei suoi confronti anche rispetto ad un incendio di auto a San Felice Circeo,
dove è stata presa di mira una macchina di proprietà di un cittadino del posto.
L'articolo Latina, dà fuoco di notte alle auto della polizia: incastrato dalle
telecamere. Il video proviene da Il Fatto Quotidiano.
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C’è un piccolo tassello legato a Cosa Nostra e alle stragi di mafia del 1992-93
che riemerge, più di 30 anni dopo, dalle inchieste sul traffico di droga
nell’hinterland romano. Quel pezzo di puzzle porta il nome di Salvatore Spataro,
61 anni, palermitano, coinvolto nell’indagine sfociata nei giorni scorsi in 16
arresti ordinati dalla Procura di Roma ed eseguiti dalla Questura di Roma tra
Latina, Aprilia e Nettuno (per Spataro l’istanza di arresto è stata respinta dal
gip per “difetto dell’attualità delle esigenze cautelari).
Negli anni ’90, infatti, Spataro fu condannato, insieme a molte altre persone,
per aver favorito la latitanza dei fratelli boss Giuseppe e Filippo Graviano, il
primo dei quali, ricordano i pm della dda di Roma, “accusato da numerosi pentiti
di aver azionato il telecomando utilizzato per far esplodere l’auto-bomba che
causò la morte del magistrato Paolo Borsellino e degli uomini della scorta” e
“ritenuto responsabile dell’omicidio di Salvo Lima”. Addirittura, secondo i pm,
durante la latitanza Giuseppe Graviano utilizzava un documento d’identità falso
intestato proprio a Spataro. Nel 1998 Spataro poi è diventato collaboratore di
giustizia.
La nuova inchiesta della Procura di Roma, coordinata dal pm Francesco Cascini,
tocca di due figure emergente della criminalità romana, quella di Pasquale
Iovinella, ritenuto in passato dalla Procura di Velletri vicino al clan
camorristico dei Casalesi, e quella di Simone Massidda, la cui influenza negli
ultimi anni si è allargata nell’area pontina. I legami tra Iovinella e Spataro,
rilevano gli stessi pm, risalgono addirittura al 2015. In particolare, risulta
agli investigatori che il siciliano nel 2021 utilizzasse un terreno nei pressi
di Nettuno, a sud della Capitale, dove allevava bestiame, per gestire i suoi
traffici di cocaina, nascondere la droga e incontrare quasi giornalmente i
clienti che poi rivendevano al dettaglio sul territorio. “Quando doveva
incassare il ricavato delle cessioni di droga, specie dai clienti morosi, si
faceva raggiungere nei pressi della sua abitazione” di Nettuno, spiegano gli
investigatori nell’ordinanza di custodia cautelare. “Quando interloquiva
telefonicamente con gli acquirenti”, invece, “utilizzava comunque una
terminologia attinente alla sua attività di contadino (mucche, uova fresche
ecc.)”.
L’operazione, secondo fonti investigative, mostra ancora una volta la
trasversalità del traffico di droga nell’area capitolina, dove esiste una
saldatura tra le varie organizzazione, anche legate ad altri territori. Tra cui
quella di Iovinella, accostato dai magistrati ai fratelli Genny e Salvatore
Esposito, figli di Luigi Esposito detto “Gigino Nacchella”, famiglia legata al
clan “Licciardi” della camorra napoletana.
L'articolo Traffico di droga sul litorale romano, dall’inchiesta emerge un nome
che riporta a Cosa Nostra e alle stragi proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Graziano Lanzidei
Qualche giorno fa, a Latina, un gruppo ha manifestato in via Don Morosini per
invocare la remigrazione e la reconquista. Parole e simboli forti, pronunciati
in una città che – proprio per come è nata e cresciuta – rendono questo tipo di
slogan non solo fuori luogo, ma profondamente contraddittori.
Non è mio interesse discutere chi c’era o quali sigle sventolassero. Preferisco
concentrarmi su un dato più profondo: l’assurdità di parlare di remigrazione in
un territorio come questo. Perché Latina non è mai stata città “dei nativi”, ma
figlia e frutto della migrazione. Lo dice chiaramente Antonio Pennacchi in un
passo tratto da Dai Volsci ai Rom. La transumanza nel Pontino, scritto con
Massimiliano Lanzidei su Limes: “In quanto città nuova – che prima non c’era –
Latina ha visto fin dal nascere l’afflusso continuo di nuove genti in cerca di
fortuna, lavoro od opportunità. Al primo nucleo di coloni
veneto-friulano-ferraresi, di impiegati romani e di abitanti dei monti Lepini,
si sono aggiunti (…) vasti gruppi provenienti dai paesi dell’Est (…) oltre che
dall’Africa e dall’Asia: sikh del Punjab, Pakistan, India, Bangladesh. L’intera
popolazione di Latina quindi (…) è fatta di immigrati, soprattutto di seconda,
terza e anche quarta o quinta generazione. Ma sempre immigrati, almeno nel
sangue e nell’inconscio, restiamo”.
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In questa città parlare di “remigrazione” è non solo illogico, ma
autolesionista. Perché proprio qui, in uno dei distretti agricoli più produttivi
del Paese, lavorano e vivono migliaia di immigrati – indiani, bengalesi, romeni,
moldavi, pakistani. Non solo vivono: reggono interi settori dell’agroalimentare,
della logistica, dell’assistenza familiare. Sono parte integrante di un tessuto
economico che altrimenti collasserebbe, eppure restano la prima categoria
sacrificabile quando serve un capro espiatorio politico.
E soprattutto proprio qui, da anni, si consuma una delle più grandi vergogne
sociali italiane: lo sfruttamento sistemico del lavoro migrante attraverso il
caporalato. L’Agro Pontino è stato descritto in più inchieste come un
laboratorio dello sfruttamento moderno: giornate da 12 ore nei campi a 3 euro
l’ora, nessuna tutela, doping forzato con antidolorifici, dormitori fatiscenti.
L’elenco è noto, eppure rimosso. Gli stessi che parlano di “invasione” spesso
mangiano i frutti raccolti da chi vorrebbero rispedire indietro.
La contraddizione è talmente evidente da diventare quasi imbarazzante. La
retorica della remigrazione funziona solo se si cancella la storia della città e
si spezza il filo che lega la memoria al presente. Ma senza quel filo – senza le
persone che lo hanno tessuto arrivando qui, ieri e oggi – Latina perderebbe se
stessa. Non è un tema di buonismo né di ideologia: è un tema di verità
materiale. Di come vivono le persone e di come funziona un territorio.
E allora la domanda vera è questa: chi deve remigrare, davvero? Chi è arrivato
qui per lavorare, pagare affitti esorbitanti e farsi sfruttare nei campi? O chi
ha costruito un racconto identitario su una città che non ha mai avuto
un’identità fissa? Chi ha contribuito alla vita economica e sociale di Latina o
chi la usa come scenografia per invocare “pulizie etniche soft”?
Questa è la contraddizione che brucia. Latina, città nata da una bonifica, oggi
sembra voler bonificare la propria memoria. Eppure restiamo tutti migranti, nel
sangue e nell’inconscio, come scrive Pennacchi. E forse, proprio per questo,
possiamo provare a costruire un altro discorso: uno che non parta dalla paura
dell’altro, ma dalla consapevolezza che l’altro siamo stati – e siamo – anche
noi.
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controsenso autolesionista proviene da Il Fatto Quotidiano.