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Caos e urla in aula dopo la sentenza per l’esplosione di Ercolano che uccise tre giovani lavoratori. I parenti: “17 anni non è giustizia”
Urla, sedie e scrivanie ribaltate, parenti pronti a scagliarsi contro i giudici: nell’aula 413 del Tribunale di Napoli è avvenuto di tutto dopo la lettura della sentenza per l’esplosione della fabbrica abusiva di fuochi d’artificio di Ercolano (Napoli), avvenuta il 18 dicembre 2024. Nell’incidente persero la vita tre giovani, le gemelle Sara e Aurora Esposito di 26 anni e il 18enne Samuel Tafciu. L’esplosione sventrò l’edificio e il boato fu sentito in tutti i comuni ai piedi del Vesuvio. Sotto le macerie, dopo ore di lavoro, i vigili del fuoco recuperato i corpi delle tre vittime che avevano bimbi piccolissimi. Uccisi dalla deflagrazione dei botti illegali, dopo essere stati arruolati con paghe da fame, tra i 150 euro e 250 euro a settimana, e quello doveva essere il primo giorno di lavoro. La giudice per l’udienza preliminare, Federica Girardi, ha condannato i due titolari dell’azienda, Pasquale Punzo e Vincenzo D’Angelo (che erano stati arrestati lo scorso aprile, ndr), a 17 anni e 6 mesi di carcere per triplice omicidio volontario con dolo eventuale e caporalato, mentre il fornitore della polvere da sparo, Raffaele Boccia, è stato condannato a 4 anni. La Procura aveva richiesto 20 anni per i due datori di lavoro e 4 anni per Boccia. Fin dall’inizio dell’udienza la tensione era palpabile. I familiari delle vittime e quelli degli imputati si erano fronteggiati, mentre polizia e carabinieri mantenevano l’ordine. Più volte è dovuto intervenire il personale sanitario per soccorrere persone che accusavano malori. Al momento della lettura del dispositivo, la rabbia dei parenti delle vittime è esplosa. “Diciassette anni di carcere per tre morti non sono giustizia”, hanno urlato, rivolgendosi anche ai parenti degli imputati. “Siamo finiti dallo psicologo – hanno aggiunto – non dormiamo più per il dolore di non poterli baciare”. Tra i più colpiti, Kadri Tafciu, padre del 18enne Samuel: “Lì c’è scritto ‘la giustizia è uguale per tutti’, ma non è vero. Sono stato offeso, mi sono state rivolte ingiurie da parte dei parenti degli imputati”. L’incidente aveva già fatto emergere la gravità della gestione abusiva della fabbrica, con l’assenza totale di norme di sicurezza e la pericolosità estrema dei luoghi di lavoro. Le vittime erano impegnate nella preparazione dei fuochi d’artificio quando l’esplosione li aveva travolti. L'articolo Caos e urla in aula dopo la sentenza per l’esplosione di Ercolano che uccise tre giovani lavoratori. I parenti: “17 anni non è giustizia” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Voi siete delle pecore”, braccianti massacrati di lavoro per 2.70 euro l’ora: tre arresti
Una giornata di lavoro nei campi durava almeno undici ore, sotto il sole cocente o sotto la pioggia, respirando anche residui di pesticidi. Lavoratori considerati come animali, braccianti stranieri, ovviamente, massacrati per 2.70 euro l’ora meno della metà della paga prevista dal contratto di lavoro ovvero 7,50. Un sistema di sfruttamento radicato, violento e strutturato come una catena di montaggio agricola forzata che avveniva nella campagne di Napoli e Caserta. Qui nel maggio del 2024 erano intervenuti i Carabinieri del comando per la Tutela del lavoro e del gruppo di Aversa, ma nulla è cambiato. E oggi, dopo le indagini, gli investigatori hanno hanno notificato le misure agli indagati che devono rispondere di caporalato e sfruttamento. La giudice per le indagini preliminari di Napoli Nord, Pia Sordetti, ha disposto i domiciliari per un imprenditore agricolo italiano, per sua moglie, cittadina albanese, e per un cittadino indiano. Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per un secondo cittadino indiano. Nell’ordinanza di custodia cautelare firmata da, viene sottolineato come i braccianti – prevalentemente stranieri e spesso irregolari – erano sottoposti a condizioni di lavoro disumane, retribuzioni illegali e un regime costante di minacce e coercizione psicologica. “Voi siete delle pecore, figli di puttana…se volete lavorare è così altrimenti non venite più…” urlava il caporale al minimo cenno di protesta. I lavoratori, in tuta e stivali, venivano prelevati poco prima dell’alba a Villa Literno. In piedi o accovacciati “le pecore” -soprattutto indiani e bulgari – venivano smistate nei campi. TURNI DI 15 ORE, INSULTI E NESSUNA PROTEZIONE: IL TRATTAMENTO DEI BRACCIANTI I lavoratori, secondo gli inquirenti, venivano reclutati e trasportati all’alba su furgoni adibiti al trasporto merci, ammassati nella parte posteriore o nelle sedute anteriori, in violazione di ogni norma di sicurezza. Una volta nei campi, iniziava una giornata lavorativa di 14-15 ore, con 11 o 12 ore effettive di attività, bruciati dal sole o fradici di pioggia. Le pause si riducevano a 10 o 15 minuti, insufficienti anche solo per mangiare un panino. Lavoratori massacrati ed esposti anche rischi per la salute. L’uso di dispositivi di protezione individuale – come mascherine o guanti – era completamente assente. Chi accusava un malore veniva minacciato di essere cacciato: “Chi si allontanava veniva minacciato di non rientrare più a lavorare”, annota la giudice. La retribuzione era fissa: circa 40 euro al giorno – 45 o 50 per alcune nazionalità – per 11-12 ore di lavoro, equivalenti a una paga di circa 2,70 euro l’ora, meno della metà dei minimi previsti dal contratto agricolo. Altri venivano pagati “a cassetta”, con la pressione costante di raggiungere una quota minima per accedere al pasto o al compenso giornaliero: “Senza la quota non si mangia”. L’ambiente lavorativo era segnato da insulti continui e umiliazioni. LA RETE CRIMINALE: IL VERTICE AI CONIUGI SALZANO, LA GESTIONE AI CAPORALI Dalle carte emerge un sistema piramidale con ruoli definiti e responsabilità precise. Al vertice, secondo la procura di Napoli Nord, l’imprenditore Agostino Salzano e sua moglie Mirjeta Lusha. Il primo impartiva ordini, definiva ritmi e modalità di lavoro, gestiva i fondi e coordinava le attività; la seconda curava l’intermediazione, l’organizzazione delle “squadre”, il prelievo dei braccianti dai luoghi di residenza, la logistica quotidiana. Al livello operativo, due caporali di origine indiana: Raghuvender Singh,che si faceva chiamare Michele, figura centrale nella gestione quotidiana: reclutamento dei lavoratori, sorveglianza nei campi, organizzazione del trasporto, gestione dei pagamenti e imposizione dei ritmi. Sunil Singh, detto Piccolino, suo collaboratore diretto, incaricato di controllare e retribuire la manodopera. Secondo l’indagine, Singh Raghuvender avrebbe inoltre trattenuto una “tassa” illegale dagli stipendi dei connazionali indiani, per un totale di 73.800 euro. SFRUTTAMENTO E CAPORALATO: LE ACCUSE Agli indagati vengono contestati l’intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro. L’imprenditore avrebbe anche cercato di condizionare i braccianti durante i controlli, arrivando a minacciare un dipendente di morte – “ti taglio le vene” – se avesse raccontato la verità alle forze dell’ordine. Secondo i militari dell’Arma il gruppo di lavoro variava tra i 40 e gli 80 braccianti – “cani morti e pure scemi” nelle parole dell’indagata -a fronte di otto contratti regolari. La gip ha disposto il sequestro preventivo dei beni: quasi 470mila euro a carico dei coniugi i Salzano e Lusha, considerati profitto dello sfruttamento e del risparmio sui salari e sui contributi; e i 73.800 euro a Raghuvender Singh. Sono stati sequestrati anche i mezzi utilizzati per il trasporto dei lavoratori. “I lavoratori erano sottoposti a ritmi massacranti e a condizioni di lavoro e retributive non conformi e comunque inadeguate” si legge nelle 77 pagina di ordinanza. Persone esposte senza nessun tipo di cautela a “residui di pesticidi nocivi, costretti a continuare a lavorare durante le operazioni di pompaggio di medicinali e pesticidi”. Per questo viene individuata negli indagati una “spiccata propensione a delinquere”. Indagati che “hanno continuato nell’attività di sfruttamento con sistematicità allarmante anche dopo i controlli di maggio 2024.” Il quadro delineato dal giudice descrive un sistema basato sulla sopraffazione, sulla vulnerabilità dei lavoratori stranieri “con qualsiasi mezzo”, pur di massimizzare i profitti e senza nessun tipo di pietà Nell’ordinanza viene citato il caso di un cittadino albanese chiamato Eddi, bracciante e autista, che è costretto a “medicare” una giornata di risposo per poter portare il figlio piccolo a una visita specialistica per un intervento. Il caporale deve essere implorato e rassicurato: “Sì, sì, lo so serve solo per oggi, ma per altra data posso farlo solo per un appuntamento di operazione di bambino piccolino” dice il lavoratore che aggiunge che quel giorno, quel permesso che sarebbe garantito dal contratto, non gli dovrà essere pagato. 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Moda e caporalato, i sindacati contro i grandi marchi: “Stop al ‘salva committenti’”
L’inchiesta della Procura di Milano sull’ipotizzato caporalato nelle filiere della moda, che ha portato i carabinieri del Nucleo per la Tutela del Lavoro a chiedere documenti e atti a 13 grandi gruppi del settore, accende nuovamente i riflettori sul sistema degli appalti e subappalti. A sottolinearlo sono le segreterie generali di Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil, che leggono l’azione della magistratura come una conferma delle criticità da loro denunciate da tempo. “L’inchiesta della Procura milanese sul caporalato, che ieri ha portato i carabinieri del nucleo per la Tutela del Lavoro nelle sedi di 13 grandi Gruppi della Moda è l’ennesima conferma delle nostre denunce sulla diffusa illegalità nella catena degli appalti e dei subappalti. I riflettori della magistratura sono nuovamente puntati sulle filiere produttive del settore”, affermano i sindacati, ricordando che l’indagine potrebbe ora allargarsi: dopo i primi provvedimenti di amministrazione giudiziaria, non si esclude l’applicazione delle misure previste dal Testo unico antimafia o una vera e propria contestazione del reato di caporalato, nell’ambito della legge 231 sulla responsabilità amministrativa delle imprese. I sindacati puntano il dito contro i grandi marchi, accusati di beneficiare dei profitti senza farsi carico delle responsabilità della filiera: “Crediamo sia inaccettabile che i grandi marchi, beneficiari di bilanci record, possano avere una sorta di beneplacito che li esclude da ogni responsabilità, rispetto alle condotte delle ditte cui danno in appalto le lavorazioni”, denunciano Filctem, Femca e Uiltec. Da qui la richiesta di un intervento del Governo sul disegno di legge dedicato alle piccole e medie imprese, già approdato in Senato e ora all’esame della Camera: “Per questo chiediamo che il Governo ci ascolti rispetto alle modifiche da apportare al ddl sulle pmi (di iniziativa del ministro Urso, ndr). Non è possibile escludere o alleggerire la posizione di responsabilità solidale del committente sugli appalti e subappalti, specialmente in presenza di presunti ‘modelli di controllo’ interni”. Le tre sigle riassumono poi le loro proposte in cinque punti che mirano a rafforzare la legalità nelle filiere produttive. “Stop all’emendamento ‘Salva committenti’, con il ritiro immediato degli articoli del ddl pmi che alleggeriscono la responsabilità dei brand sugli illeciti lungo la filiera; nessuna scorciatoia per chi lucra sullo sfruttamento e realizza così forme di dumping sulle migliaia di aziende che agiscono correttamente, quindi sì alla responsabilità solidale effettiva; maggiori controlli ispettivi lungo tutta la catena produttiva, anche con l’ausilio di indici di congruità per individuare i subappalti a rischio illegalità; applicazione puntuale del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, senza eccezioni, in ogni segmento della filiera; tracciabilità etica, con l’introduzione di una certificazione sul rispetto dei diritti e delle norme in ogni fase della produzione”. Secondo i sindacati, solo un intervento strutturale potrà evitare che le irregolarità emerse in queste settimane si ripresentino nel tempo, garantendo condizioni di lavoro dignitose e una concorrenza leale tra imprese. L'articolo Moda e caporalato, i sindacati contro i grandi marchi: “Stop al ‘salva committenti’” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Da anni denuncio un’alleanza criminale nella moda tra brand di lusso e caporalato: si tratta di un sistema
Dolce&Gabbana, Prada, Versace, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White Operating. Dall’alba fino alla sera di mercoledì il pubblico ministero Paolo Storari ha lavorato con i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro: ha notificato 13 ordini di consegna documenti ad altrettante case di moda. Tutte spuntate nei fascicoli sugli opifici cinesi clandestini nel ruolo di committenti, che affidano la produzione ad appaltatori e subappaltatori, che operano violando le leggi sul lavoro e la sicurezza. Da anni denuncio – anche su queste pagine – l’esistenza di una vera e propria alleanza criminale tra grandi marchi del lusso e il sistema del caporalato che infetta le filiere del Made in Italy. Oggi, grazie al lavoro della Procura di Milano, abbiamo l’ennesima conferma: tredici nuovi brand, da Versace a Gucci, da Prada a Dolce&Gabbana, sono stati raggiunti da ordini di esibizione documentale per il loro coinvolgimento, diretto o indiretto, in una catena produttiva fondata sullo sfruttamento. Non si tratta di casi isolati. È un sistema. Un sistema che appalta e subappalta fino a sette livelli; che chiude gli occhi davanti a laboratori-dormitorio gestiti illegalmente, dove lavoratori e lavoratrici – spesso migranti – sono costretti a turni massacranti, senza diritti, senza sicurezza, senza dignità. È lì che nascono le borse da migliaia di euro, prodotte a pochi spiccioli, con ricarichi fino al 10.000%. I brand si rifugiano dietro al loro prestigio, talvolta deridendo il lavoro della magistratura che lo sporcherebbe; si nascondono dietro alle leggi ad hoc apparecchiate dal Governo, dietro agli audit interni e a modelli organizzativi di facciata. Tuttavia, la realtà è che in questi opifici si sanguina, si suda sfruttamento e ogni tanto si muore, come accaduto a quel giovane del Bangladesh, morto nel 2023 a Trezzano sul Naviglio durante il suo primo giorno di lavoro. Come tanti altri invisibili, sacrificati sull’altare del profitto. Impossibile parlare ancora di “onore” dei marchi. Non basta più difendere l’immagine buona del Made in Italy, dei “ricchi brava gente”. Serve verità. Serve giustizia. Serve una riforma radicale delle filiere produttive. E serve il coraggio di dire i nomi. Perché chi produce lusso sulla pelle degli ultimi non può più nascondersi. La dignità del lavoro non è negoziabile e il vero prestigio dell’Italia non sta nei loghi cuciti sulle etichette, ma nei diritti garantiti a chi quelle etichette le cuce. L'articolo Da anni denuncio un’alleanza criminale nella moda tra brand di lusso e caporalato: si tratta di un sistema proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Nuovo blitz della procura di Milano sul caporalato nella moda: chiesta la consegna di atti a tredici big
Il mondo del lusso e della moda di nuovo nel mirino della procura di Milano che prosegue con il filone dell’inchieste sullo sfruttamento di lavoratori, l’ultimo dei quali è stato Tod’s. Sono 13 i marchi attenzionati nelle inchieste del pm Paolo Storari: da Versace a Gucci, da Prada a Dolce&Gabbana. I carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro hanno notificato 13 ordini di consegna documenti ad altrettante case di moda spuntate nei fascicoli sugli opifici cinesi clandestini nel ruolo di committenti che affidano la produzione ad appaltatori e subappaltatori che operano violando le leggi sul lavoro e la sicurezza. E ci sono anche Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White Operating. In ogni atto la Procura indica i fornitori critici che sono già stati individuati dai militari nella filiera del brand, il numero di lavoratori rilevati in condizioni di sfruttamento e stato di bisogno e quali articoli del marchio siano stati trovati stoccati negli opifici, pronti per tornare alla casa madre ed essere immessi sul mercato. Allo stesso tempo gli inquirenti chiedono che siano le società di moda a fornire, per il momento spontaneamente, i propri modelli organizzativi di prevenzione e gli audit interni o commissionati ad advisor e consulenti e necessari, almeno sulla carta, a impedire la commissione dei reati. Una formula ‘light’ per concedere il tempo ai marchi di eliminare i caporali dalle linee di produzione e ristrutturare appalti e subappalti senza incorrere nelle pesanti richieste di amministrazione giudiziaria, come avvenuto dal marzo 2024 in poi per Alviero Martini spa, Armani Operation, Manufacture Dior, Valentino Bags Lab, Loro Piana di Louis Vuitton, non indagate ma con l’ipotesi di aver agevolato colposamente e inconsapevolmente lo sfruttamento o, nelle ultime settimane, per Tod’s spa nell’inchiesta che la vede indagata con l’accusa di aver agito invece nella piena consapevolezza propria e dei propri manager che certificano le linee di produzione degli appaltatori. Un percorso di indagine meno aggressivo dopo le polemiche delle scorse settimane con Tod’s e Diego Della Valle. L'articolo Nuovo blitz della procura di Milano sul caporalato nella moda: chiesta la consegna di atti a tredici big proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Perché invocare la ‘remigrazione’ in una città come Latina è un controsenso autolesionista
di Graziano Lanzidei Qualche giorno fa, a Latina, un gruppo ha manifestato in via Don Morosini per invocare la remigrazione e la reconquista. Parole e simboli forti, pronunciati in una città che – proprio per come è nata e cresciuta – rendono questo tipo di slogan non solo fuori luogo, ma profondamente contraddittori. Non è mio interesse discutere chi c’era o quali sigle sventolassero. Preferisco concentrarmi su un dato più profondo: l’assurdità di parlare di remigrazione in un territorio come questo. Perché Latina non è mai stata città “dei nativi”, ma figlia e frutto della migrazione. Lo dice chiaramente Antonio Pennacchi in un passo tratto da Dai Volsci ai Rom. La transumanza nel Pontino, scritto con Massimiliano Lanzidei su Limes: “In quanto città nuova – che prima non c’era – Latina ha visto fin dal nascere l’afflusso continuo di nuove genti in cerca di fortuna, lavoro od opportunità. Al primo nucleo di coloni veneto-friulano-ferraresi, di impiegati romani e di abitanti dei monti Lepini, si sono aggiunti (…) vasti gruppi provenienti dai paesi dell’Est (…) oltre che dall’Africa e dall’Asia: sikh del Punjab, Pakistan, India, Bangladesh. L’intera popolazione di Latina quindi (…) è fatta di immigrati, soprattutto di seconda, terza e anche quarta o quinta generazione. Ma sempre immigrati, almeno nel sangue e nell’inconscio, restiamo”. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da LatinaCorriere.it (@latinacorriere.it) In questa città parlare di “remigrazione” è non solo illogico, ma autolesionista. Perché proprio qui, in uno dei distretti agricoli più produttivi del Paese, lavorano e vivono migliaia di immigrati – indiani, bengalesi, romeni, moldavi, pakistani. Non solo vivono: reggono interi settori dell’agroalimentare, della logistica, dell’assistenza familiare. Sono parte integrante di un tessuto economico che altrimenti collasserebbe, eppure restano la prima categoria sacrificabile quando serve un capro espiatorio politico. E soprattutto proprio qui, da anni, si consuma una delle più grandi vergogne sociali italiane: lo sfruttamento sistemico del lavoro migrante attraverso il caporalato. L’Agro Pontino è stato descritto in più inchieste come un laboratorio dello sfruttamento moderno: giornate da 12 ore nei campi a 3 euro l’ora, nessuna tutela, doping forzato con antidolorifici, dormitori fatiscenti. L’elenco è noto, eppure rimosso. Gli stessi che parlano di “invasione” spesso mangiano i frutti raccolti da chi vorrebbero rispedire indietro. La contraddizione è talmente evidente da diventare quasi imbarazzante. La retorica della remigrazione funziona solo se si cancella la storia della città e si spezza il filo che lega la memoria al presente. Ma senza quel filo – senza le persone che lo hanno tessuto arrivando qui, ieri e oggi – Latina perderebbe se stessa. Non è un tema di buonismo né di ideologia: è un tema di verità materiale. Di come vivono le persone e di come funziona un territorio. E allora la domanda vera è questa: chi deve remigrare, davvero? Chi è arrivato qui per lavorare, pagare affitti esorbitanti e farsi sfruttare nei campi? O chi ha costruito un racconto identitario su una città che non ha mai avuto un’identità fissa? Chi ha contribuito alla vita economica e sociale di Latina o chi la usa come scenografia per invocare “pulizie etniche soft”? Questa è la contraddizione che brucia. Latina, città nata da una bonifica, oggi sembra voler bonificare la propria memoria. Eppure restiamo tutti migranti, nel sangue e nell’inconscio, come scrive Pennacchi. E forse, proprio per questo, possiamo provare a costruire un altro discorso: uno che non parta dalla paura dell’altro, ma dalla consapevolezza che l’altro siamo stati – e siamo – anche noi. L'articolo Perché invocare la ‘remigrazione’ in una città come Latina è un controsenso autolesionista proviene da Il Fatto Quotidiano.
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