N el 2024 a Barcellona è comparso un murale con tre donne. María Soliña,
accusata di stregoneria nel 1621, condannata alla confisca dei beni e costretta
a indossare per sei mesi un abito penitenziale. María Pérez Lacruz, La Jabalina,
attivista fucilata a venticinque anni in seguito alla sentenza di un tribunale
militare, nel 1942. Casilda Hernández, militante del fronte antifascista europeo
durante e dopo la guerra civile spagnola, morta in Francia nel 1992 e autrice
della frase che dà il titolo all’opera: “Dona, ets foc que no s’apaga” (Donna,
sei fuoco che non si spegne). Le loro vicende fanno intravedere le pieghe e le
lacerazioni del tempo. Viste da vicino, non sono né lineari né rassicuranti, ma
rivelano le interrelazioni tra vite distinte. Mostrano la storia come spazio
aperto, modellato anche da tragedie compiute e alternative irrealizzate. Per
questo sono finite sul muro esterno dell’ex istituto penitenziario La Model,
quello che le dittature spagnole del Ventesimo secolo riempirono di dissidenti e
che oggi è un crocevia di memorie. Con i volti di Soliña, Lacruz e Hernández si
possono indagare le sfumature del travagliato percorso per il riconoscimento
dell’autonomia femminile nelle società occidentali.
Un percorso che, se si fosse ragionato solo in termini di realismo politico e
rapporti di forza sociali, avrebbe dovuto essere interrotto nell’istante in cui
fu concepito, prima dell’inizio. Non è casuale che il murale contenga un rimando
a Rosie the Riveter, il poster creato nel 1942 dall’artista Howard Miller per la
compagnia statunitense Westinghouse Electric (con l’operaia in bandana rossa a
pois, tuta da lavoro e manica arrotolata che fa: “We Can Do It!”). Un’icona che,
se durante la Seconda guerra mondiale diede peso simbolico alle lavoratrici in
fabbrica, divenne poi, grazie a un’operazione di risignificazione, un
riferimento visivo del femminismo. La rivettatrice ricorda così l’essenziale: la
storia è una tela cucita da mani diverse in tempi differenti, ragion per cui,
scrutandola, l’angolazione che scegliamo può rivelare trame inaspettate, fili
trascurati e cuciture raffazzonate che coprono gli squarci più larghi.
La storia che scalpita
Dona, ets foc que no s’apaga, dall’artista Levico, fa riemergere il passato nel
presente. È un’iniziativa di Rap for Memories, un progetto di EUROM – European
Observatory on Memories, della Solidarity Foundation dell’Università di
Barcellona – in collaborazione con la scuola popolare itinerante Versembrant e
la scuola di arte La Industrial. Dal 2020 unisce musica, narrazione orale e arte
urbana per ri-raccontare la storia spagnola senza commemorazioni acritiche. Non
è una goccia nel mare, però. I modi per affacciarsi sulla storia stanno
cambiando un po’ dappertutto. Da Barcellona a Roma, a farci caso, il passo non è
lungo. L’associazione Topografia per la storia (TPS) rende accessibile la
documentazione multimediale sul sistema repressivo del fascismo italiano, sui
campi di internamento dell’Italia di Mussolini – i Campi del duce (2019), di cui
parla anche Carlo Spartaco Capogreco. Con portali digitali, mappe interattive e
corsi didattici si amplia lo spettro dello sguardo. Si capisce quanto fosse
elastica, allora, la categoria dei nemici di volta in volta bersagliati. Oppure
per notare che, a dispetto dei tentativi del fascismo di costruire consenso, sia
esistita anche un’Italia produttrice di dissenso, pur latente o minoritario.
Un’Italia che, prima della Resistenza, rifiutò l’idea che l’identità collettiva
dovesse farsi timbrare dal bollo dell’ideologia politica. Fare storia diventa
così un atto plurale di decifrazione, senza dar per scontato che il susseguirsi
delle generazioni, di per sé, equivalga a indurire il nocciolo della
consapevolezza pubblica.
Il punto di partenza di queste iniziative è sempre lo stesso: per essere
sciolti, i nodi della complessità hanno bisogno di mediazioni. Il NEHME (Network
on European and Mediterranean History and Memories), formalizzato a Bari nel
2021, si concentra per questo sugli usi e gli abusi della storia, promuovendo
reti di studio sull’identità europea. Nel frattempo, fuori dalle università
italiane si organizzano convegni, festival, workshop, rievocazioni. La storia
prende corpo in modalità non convenzionali. Un autentico fermento fende la
penisola. Si avverte un risuonare di voci che ha nell’Istituto nazionale
Ferruccio Parri un vivace catalizzatore. Il sapere storico scalpita: prova a
uscire dalle aule, a mescolarsi con quel trova, a democratizzarsi. Molti tra
storici e storiche si interrogano non tanto su come somministrare dall’alto
informazioni verificate, quanto su come rendere la storia, con le sue pratiche,
fruibile e maneggiabile.
> Non si tratta dell’ennesima riverniciatura di noiose forme di divulgazione
> culturale. Dietro alla Public history c’è una postura precisa verso la storia,
> il bisogno di mostrarne la tridimensionalità.
In Italia è arrivata anche la Public history (PH), un settore delle scienze
storiche che vuol portare la storia verso la cittadinanza e che agisce, come
sottolinea il Manifesto dell’AIPH, (Associazione Italiana di Public History),
“tanto all’interno quanto all’esterno degli ambiti accademici e istituzionali,
nel pubblico e nel privato”. Frequentare la Public history – un cantiere in
espansione – significa piantare i piedi nel passato senza separarsi dal
presente. Ricordarsi che si può essere più di semplici spettatori inerti. In
Public history. Discussioni e pratiche (2017), lo storico Lorenzo Bertucelli
scrive che condividere i metodi critici della storiografia, accettando una
negoziazione continua tra punti di vista diversi, può indicare direzioni alla
ricerca e permettere al pubblico di “compiere il cammino intellettuale dal fatto
all’intepretazione”. Creare un collegamento stabile tra disciplina storica e
società civile.
Non si tratta dell’ennesima riverniciatura di noiose forme di divulgazione
culturale. C’è sotto una postura precisa verso la storia, c’è il bisogno di
mostrarne la tridimensionalità. Eppure, nonostante ciò, il discorso pubblico e
politico sulla contemporaneità sembra oggi orientarsi in tutt’altra direzione.
La gabbia geopolitica
Soprattutto dal 2022, con il ritorno compiuto della guerra in Europa, il
successo della geopolitica è stato decisamente più visibile. La geopolitica –
termine dal tratto elegante che fa capolinea nelle rassegna stampa e nella TV
generalista, per non dire dei social media – ha piantato radici. Nella sua
versione mediatica, spolpata fino all’osso, piace molto. Crea ordine nel
disordine. Incasella tessere, offre mappe mentali nitide, traiettorie
calcolabili, risultanze coerenti. Quando si tratta di dover dedicare un po’ di
attenzione alle dinamiche del mondo, pare ormai aver scalzato diciture e
discipline più caute come le relazioni internazionali.
La disinvolta lucidità che esibiscono gli esperti geopolitici, perfino nel tono
della voce, ha però un prezzo teorico molto alto e poco dibattuto. Nella visione
geopolitica la storia viene compressa. L’approccio geopolitico trasforma infatti
lo spazio geografico in una gabbia concettuale capace di appiattire la densità
del passato. Variabili rigide ed elementi cartografici sopprimono quasi del
tutto la temporalità. Singoli contendenti si fanno soggetti meccanici attivi su
un campo delimitato (la scacchiera internazionale), con episodi e avvenimenti
del passato spogliati della propria storicità. La geopolitica meno avvertita –
ma ugualmente sdoganata – glissa sulla necessità di rendere conto dei processi,
delle istanze, delle frizioni, delle continuità e delle discontinuità che danno
concretezza alla storia. Di più: fa quello che la storiografia sconsiglia.
Tratta l’azione selettiva del periodizzare, cioè del dividere in blocchi
logico-temporali il fluire incessante dello scorrere degli anni, più come un
esercizio di suddivisione del tempo da svolgere per scopi prettamente pratici
(operazione utile, ma insufficiente) che non come un atto interpretativo che
condiziona la ricostruzione e la contestualizzazione logico-analitica degli
eventi stessi.
> Quando si tratta di doversi dedicare alle dinamiche del mondo, la geopolitica
> pare ormai aver scalzato diciture e discipline più caute come le relazioni
> internazionali.
La storia, specie quella contemporanea, in molte analisi geopolitiche è un
cappello introduttivo. Viene levigata, smussata o tagliuzzata in funzione
dell’attualità. Le differenti idee di modernità, le dispute filosofiche, le
evoluzioni e le rivoluzioni, le resistenze e le tensioni interne ai singoli
contesti o le mobilitazioni sociali non trovano posto. Oppure, se ci sono, sono
leggerissime. La società civile si polverizza, spuntano categorie impersonali
(la psicologia collettiva, le sfere di influenza) e valutazioni apodittiche
(quasi arcane per i non addetti ai lavori). Dove arriva la geopolitica, lo
sforzo per cavare dei significati intellegibili dalla storia sulla base di
sensibilità, esigenze, ragioni e passioni si interrompe. E si va oltre la
finalità descrittiva. Si indica, si indirizza, si orienta. La “geopolitica da
tabloid”, come ha osservato lo storico Mario del Pero, “rivendica non solo
funzioni analitiche, ma anche capacità predittive e, quindi, un ruolo
prescrittivo: è conoscenza applicata, orientata verso un futuro che le sue leggi
imperiture, validate dal processo storico, permettono di anticipare e se
necessario influenzare”. Questa geopolitica invoca la storia, sì, ma poi la
depotenzia, facendone una sorta di sfondo decorativo dove si alternano – lungo i
decenni, i secoli, i millenni – modelli statici di interazione tra entità
guidate da comportamenti per lo più immutati.
Buona parte della geopolitica, destoricizzando il passato, ci esenta persino dal
cercare qualcosa di simile allo Zeitgeist. Al di là delle esteriorità, infatti,
sembrerebbe esserci, dentro tutta la storia, una non meglio specificata essenza
originale che tempra l’agire collettivo. Il timore è che la vaghezza sia voluta,
quando si lascia intendere che gli esseri umani siano destinati a rimanere
incatenati ai propri vizi e schiavi dei propri demoni, legati a suggestioni
ancestrali che non consentono vie d’uscita praticabili. E allora, che si tratti
della Persia di Ciro il Grande o dell’Iran degli Ayatollah, della Francia del re
Sole o di quella di Charles de Gaulle, della Cina imperiale della dinastia Qing
o del Repubblica popolare di Xi Jinping la storia non ha davvero spessore. È uno
splendido repertorio di figure ricorrenti, un palcoscenico dove i protagonisti
cambiano maschera ma le sceneggiature faticano ad aggiornarsi. Che poi anche gli
stessi studiosi di geografia umana, oggi, come fa l’inglese Paul Richardson, ci
mettono in guardia dalle “bugie delle mappe” e dai “miti” che non di rado
muovono le opinioni pubbliche e le classi dirigenti delle società occidentali (
su continenti, confini, nazioni), ma questo non sembra intaccare l’assertività
con cui, quasi quotidianamente, ci viene impartita la severissima lezione
geopolitica.
La grammatica del disincanto
Tutto ciò non solo reca tracce di un ingombrante determinismo ma è spesso
funzionale al consolidamento delle identità blindate, dei disegni egemonici e
del potere degli Stati-nazione. Di quali Stati-nazione, nello specifico, è
presto detto: l’analisi geopolitica più in voga si concentra su chi platealmente
primeggia nel presente, dal momento che, per farlo, deve aver dimostrato nel
passato di possedere tutte le carte in regola per vincere la partita. Con
ragionamenti capziosi la geopolitica, che non si espone al principio di
falsificabilità, costruisce narrazioni che non rischiano la smentita: se i fatti
le confermano, diventano prove della validità delle tesi proposte; se invece le
contraddicono, sono ridotte ad anomalie passeggere, rumore di fondo. In ogni
caso, la geopolitica assicura una griglia interpretativa totale e circolare:
retrospettivamente, giustifica ciò che è già accaduto; prospetticamente, rende
plausibile ciò che potrà accadere, ma sulla base degli stessi assunti e delle
stesse premesse già utilizzate.
Minimizzando l’impatto che le culture politiche, le mutazioni interne o la
stessa contingenza possono avere sul movimento della storia, la geopolitica non
si sottrae dal suggerisci che se alcuni continuano a dominare e altri a subire
una ragione deve pur esserci. Come ha scritto lo storico statunitense Daniel
Immerwahr, in un articolo pubblicato sul Guardian e tradotto da Internazionale:
“I geopolitici sono bravissimi a spiegare perché le cose non cambiano. Sono meno
capaci di spiegare come e perché le cose cambiano. Questo forse giustifica la
leggerezza con cui parlano di storia”.
> Minimizzando l’impatto che le culture politiche, le mutazioni interne o la
> stessa contingenza possono avere sul movimento della storia, la geopolitica
> suggerisce che se alcuni continuano a dominare e altri a subire una ragione
> deve pur esserci.
L’approccio geopolitico, professandosi avalutativo, esibisce poi un sottile
cinismo analitico, specialmente quando ribadisce, anche in modo indiretto, che
la vittoria di un attore nazionale sulla scena internazionale corrisponde alla
sconfitta di un altro. Quando è così, non sorprende che le organizzazioni
sovranazionali che puntano sulla cooperazione o quelle indipendenti dagli
Stati-nazione non siano esattamente nel cuore della geopolitica. Le distrazioni
non sono consentite. In questo senso tutto quanto si colloca all’infuori della
dimensione della competizione non è storia, ma un accidente della storia.
Un’illusione di cui dovremmo fare a meno. Il modo in cui si argomentano
questioni pressanti come l’opportunità per l’Unione Europea di dotarsi di
maggiori capacità belliche, per fare un esempio, è indicativo. L’ombra della
guerra assomiglia più al frutto avvelenato di una sorte ineludibile, sottratto
al libero arbitrio, che a uno degli sbocchi potenziali a fronte di una serie di
fattori storicamente situati e socialmente e politicamente influenzabili.
Per di più il cuore del pensiero geopolitico viene veicolato con il piglio
condiscendente di chi taglia in due il campo del pensabile: da un lato i
pragmatici, quelli che vanno oltre le retoriche patinate, dall’altro gli
inconsapevoli, sprovveduti o ingenui. La geopolitica, qui, si colloca con quelli
che non se la bevono, per richiamare la “Congregazione degli apoti” di Giuseppe
Prezzolini, delineata appena prima del Ventennio. Il fascino di questa forma di
cinismo deriva tuttavia da una tendenza ormai stratificata e piuttosto
trasversale che si propaga nel corpaccione delle società occidentali. Una
tendenza che non è affatto creata dalla geopolitica, ma spiana la strada della
sua ascesa mediatica.
Un’idea da discutere, insomma, può essere questa: la geopolitica oggi fa parte
di una più ampia grammatica del disincanto. È seducente nella misura in cui il
cinismo è già una delle cifre culturali del presente, in un tempo storico in cui
il pessimismo rasenta la saggezza e la cittadinanza tocca con mano quel
“deconsolidamento democratico” che interroga la politologia. Del resto, anche le
scienze sociali guardano all’estensione e alle implicazioni del zero-sum
thinking, una mentalità secondo cui il vantaggio di un soggetto comporta lo
svantaggio di un altro, il che porta a percepirsi come strutturalmente in
competizione. Un articolo della ricercatrice Patricia Andrews Fearon ha fatto
riferimento addirittura a un “zero-sum mindset”. Un atteggiamento che ostacola
la cooperazione e talvolta si rivela auto-avverante: presupponendo condizioni di
ostilità reciproca e conflitti inevitabili, si possono concretizzare le proprie
aspettative negative trascurando invece le alternative.
Se questi appunti sono fondati, occorre alzare il tiro delle domande. Bisogna
chiedersi se la sintesi geopolitica – quella che vediamo, ascoltiamo, leggiamo,
navighiamo – non sia il puntello più avanzato di un ordine internazionale che va
ricostituendosi su basi teoriche che pensavamo di aver superato. Guardando
infatti alla seconda metà del Novecento come a una progressiva soluzione di
continuità rispetto a dinamiche di esercizio del potere a lungo dominanti,
dovremmo chiederci se l’approccio geopolitico non finisca per lanciare un
messaggio antitrasformativo, proprio mentre gli equilibri contemporanei sembrano
frantumarsi. Perché sia così facile, cioè, bucare lo schermo sostenendo che non
soltanto il mondo è quel che è (oggi) ma che nemmeno può pretendere di essere
molto altro (domani), dal momento che lo scorrere del tempo (ieri) ha già
dimostrato quali siano le più solide direttrici che muovono gli esseri umani,
anche quando si tenta di gestire con accortezza e creatività la convivenza
civile su scala planetaria.
DOMANDE SUL PRESENTE
Quando si difendono dalle non molte critiche ricevute, i teorici della
geopolitica puntano il dito sulle storture generate dall’uso scorretto che altri
fanno del loro oggetto di studio. Ma se certe semplificazioni si moltiplicano
forse il problema non è soltanto nella banalizzazione di concetti e categorie ma
in limiti epistemologici non ancora oltrepassati. Criticare l’approccio
geopolitico non significa allora negare l’importanza dei rapporti di forza o
delle coordinate geografiche. Vuol dire preservare le peculiarità della storia.
La storia come lente di ingrandimento su una combinazione di circostanze che, se
ha prodotto un certo esito, avrebbe potuto produrne anche altri. Già il fatto di
mettere in evidenza l’esistenza di una geopolitica critica – attenta alle
interdipendenze e capace di decostruire l’eredità della tradizione classica –
può rivelarsi utile per inquadrare questioni che travalicano i confini
nazionali, come la crisi climatica o le migrazioni, e per riconoscere che le
relazioni tra spazio e potere non sono oggettive.
Eppure la geopolitica che imperversa nei canali all-news e dentro i talk show,
negli scaffali delle librerie e nelle teche delle edicole, assomiglia a un
monolite. E non solo: sottolinea di continuo il proprio essere sopra le parti,
lontano da condizionamenti ideologici di qualsiasi tipo. Facendolo coglie
indubbiamente nel segno, dopo decenni di legittimazione della tecnica impolitica
come strumento di ingegneria sociale. L’essere distaccati, anche quando non lo
si è, garantisce infatti autorevolezza. D’altro canto sarebbe complicato
pretendere la formalizzazione di una materia che sfugge alle formalità. Quando
si diventa cultori di geopolitica? Con quali percorsi? Come si problematizza il
sapere accumulato nell’ambito della pratica sperimentata? E chi verifica la
qualità del lavoro di un esperto di geopolitica? Lo scarto tra l’irrilevanza e
la performatività chiama in causa più l’approccio generale che alcuni metodi
codificati, più il modo di porsi nei confronti dell’attualità che precise prassi
da seguire, così come la disponibilità ai giudizi forti e connotati rispetto
alle letture laterali e complementari. Accettare che i saperi della geopolitica
possano essere appresi e trasmessi tramite una sorta di iniziazione gestita da
pochi e caparbi analisti davanti al banco di prova del pubblico può così
portarci ad assuefarci, a sottovalutare tutte le volte in cui la geopolitica
finisce per non essere neutra.
> La geopolitica oggi fa parte di una più ampia grammatica del disincanto. È
> seducente nella misura in cui il cinismo è già una delle cifre culturali del
> presente.
Anche per questo, la geopolitica si muove in senso contrario di fronte al
progetto di aprire la proverbiale cassetta degli attrezzi della storia per
condividere competenze e conoscenze. Adottando la visuale della geopolitica
odierna, la storia va contemplata con il naso all’insù, dal basso verso l’alto.
Se per un verso, anche con la Public history, si vuol avvicinare la storia al
pubblico, fino a farne un soggetto centrale, dall’altro la storia viene posta su
un piedistallo inarrivabile, con i discenti (telespettatori, ascoltatori,
lettori, utenti) sospinti ad affidarsi a valutazioni taglienti e posizioni
ardite che, senza essere troppo spiegate, presuppongono la scarsa incidenza dei
singoli nel quadro dello spietato match contemporaneo. Se l’insieme delle
pratiche che intendono rinnovare il “fare storia” procedono per via orizzontale,
o almeno cercano di farlo, la geopolitica, fuori dagli ambienti in cui un
confronto teorico esiste davvero, è del tutto verticale. Nel racconto
geopolitico, cittadini e cittadine sono comparse passive che non possono non
essere sovrastati.
Con le opportune verifiche, dovremmo dunque iniziare a chiederci se la
geopolitica sia in fondo ancora incapace di dar peso alle molteplici prospettive
del passato. E se quindi non sia il caso di sottrarci dagli orizzonti di un modo
di intendere la realtà che con la storia, a guardar bene, non ha molto a che
fare.
L'articolo La seduzione geopolitica proviene da Il Tascabile.