P er degli inspiegabili sommovimenti dell’algoritmo, qualche settimana fa sul
mio feed è comparso un video postato da un anonimo profilo privato, non
dissimile da quello di qualsiasi vostro conoscente o amico. A prima vista il
reel postato da @aaayushh245 – questo il nome dell’account – non è troppo
diverso dai migliaia di contenuti che ogni giorno invadono Instagram o Tik Tok:
una sequenza di spezzoni visivi dalla durata di pochi frame, montati uno di
seguito all’altro, con un breve testo in primo piano e un sottofondo musicale
d’accompagnamento.
Solo che in questo caso, a differenza del solito pattume che dura lo spazio di
uno scroll, il reel si differenziava non solo per la scelta musicale, piuttosto
dissonante rispetto al contesto, ma anche per il messaggio stesso veicolato dal
testo. Sul ritornello di The Winner Takes It All degli Abba, infatti, il video
proponeva una sequenza di palazzi in fiamme, rivolte, scontri con la polizia,
folle che incitano alla devastazione e al linciaggio. È questa una testimonianza
di quanto accaduto in Nepal a inizio settembre, dove, a seguito del divieto di
utilizzo dei social media e in risposta agli altissimi livelli di corruzione,
giovani e giovanissimi sono scesi in piazza, di fatto rovesciando il governo in
carica nell’arco di 48 ore. La “rivolta della Gen Z” – com’è stata denominata a
seguito dell’età della maggior parte dei manifestanti – è, a conti fatti, una
rivoluzione che – attraverso una votazione su Discord! – ha portato Sushila
Karki, ex presidente della Corte suprema, a essere la prima donna premier del
Paese.
Questo risultato, com’è immaginabile, è frutto di un’ingente e incontrollata
dose di violenza, che il summenzionato video non manca di mostrare. Hanno fatto
il giro del web le immagini del ministro delle Finanze che, spogliato, viene
inseguito nel fiume dai manifestanti. Il Parlamento, come la casa del primo
ministro e di altri membri di spicco dell’amministrazione nepalese sono stati
dati alle fiamme. Stessa sorte è toccata all’hotel Hilton di Katmandu, alle sedi
dei media considerati vicini all’establishment, ma anche alla sede del Nepali
Congress, il principale partito di opposizione. Sher Bahadur Deuba, leader
dell’opposizione, e la moglie Arzu Rana Deuba, a capo del ministero degli Affari
esteri, sono stati filmati mentre venivano presi a calci e pugni. Il bilancio
parla di oltre 400 feriti e decine di morti, tra cui anche la moglie dell’ex
primo ministro Jhala Nath Khanal, arsa viva quando la folla ha appiccato fuoco
alla sua casa.
L’elemento di fatale attrazione del video, però, è proprio la consapevolezza
dell’autore dell’ambiguità di una protesta dal basso che si alimenta e ha
successo attraverso la violenza. Infatti, mentre le immagini scorrono, la
scritta in sovrimpressione recita: “Abbiamo vinto! Ma a che prezzo? Forse è
quello che serviva. Dobbiamo accettare questo fatto: rivoluzione e violenza
procedono mano nella mano. Eppure, resta da capire se abbiamo vinto davvero”.
> L’agire esplicitamente violento della protesta nepalese viene situato in una
> zona grigia, in cui affiorano dubbi sulla legittimità e sulla necessità del
> gesto, così come sulle sue conseguenze.
Questa testimonianza è eccezionale non tanto perché mostra la geopolitica
internazionale in presa diretta, quanto perché è una delle rare volte in cui
l’azione politica viene tematizzata in un modo non univoco dai suoi stessi
protagonisti. Di conseguenza, l’agire esplicitamente violento della protesta
viene situato in una zona grigia, in cui affiorano dubbi sulla legittimità e
sulla necessità del gesto, così come sulle sue conseguenze. Il caso
discretamente istruttivo del Nepal riassume una serie di temi che, nonostante lo
strepitio di voci in merito alla violenza fisica e verbale nell’agone politico
contemporaneo, sembrano quasi assenti dal dibattito mainstream sul tema. Al di
là della retorica del giusto-o-sbagliato, il video di @aaayushh245 esemplifica
alcune questioni dirimenti, che toccano non solo le modalità di fruizione della
violenza, ma anche la legittimità e le conseguenze di tale posizionamento.
Fruizione
Sulla scia di Noam Chomsky e del suo classico La fabbrica del consenso. La
politica e i mass media (1988), pare oggi vieppiù lampante che la presunta
neutralità degli organi di informazione sia minata di continuo, anche nei Paesi
considerati fari della democrazia, in un’ottica di costruzione del consenso per
mezzi propagandistici. E d’altra parte pare pienamente compiuta la profezia di
Guy Debord contenuta in La società dello spettacolo (1967), come dimostra il
recente Lo stratega contro (2025) a firma di Gabriele Fadini, che conferma
l’attualità del filosofo francese. In una società in cui la spettacolarizzazione
della vita quotidiana operata dai mezzi di comunicazione ha raggiunto lo zenith,
saturando con la sua presenza ogni momento della vita privata, si decuplicano le
possibilità di essere sottoposti a immagini di violenza mediatizzata, ovvero
veicolata dai media.
Se si considerano insieme la parzialità delle narrazioni mainstream e la
spettacolarizzazione dell’oggetto dell’informazione, mi parrebbe utile, posti di
fronte all’evenienza della violenza, interrogarsi non solo sul cosa, ma sul come
viene veicolata, narrata, propagandata e, spesso, omessa la violenza. Poiché la
presenza del medium a fare da filtro tra noi e l’evento reale – una guerra, un
omicidio, una rissa tra manifestanti e polizia, continuate voi – non è neutra:
provare a capirne la natura parziale e l’effetto che genera sul contenuto
potrebbe essere importante per un’analisi che non si fermi alla violenza in sé,
ma che provi a porla in rapporto causale con il contesto.
È chiaro, per fare un esempio, che le immagini dei militanti dell’Isis che
decapitano i prigionieri politici a favore di telecamere porta lo spettatore
immediatamente a empatizzare col condannato. Tuttavia, il modo in cui quelle
immagini ci sono state proposte, segmentate all’interno al flusso di altre
notizie, programmi e pubblicità, rende complesso ricordare che l’ascesa di
al-Qaeda – da cui poi avrà vita l’Isis – è frutto anche del vuoto di potere
creato dall’invasione statunitense in Iraq nel 2003.
> Il processo di spettacolarizzazione del conflitto comporta un livellamento
> verso il basso del cuore semantico dell’informazione, una riduzione della
> violenza a contenuto mediatico.
Allo stesso modo, le immagini dei bombardamenti in Ucraina generano subito una
risposta emotiva nel pubblico occidentale. Tuttavia, questa ha reso difficoltosa
la ricostruzione del complesso panorama geopolitico che ha fatto da sfondo al
logorio dei rapporti tra Russia e blocco occidentale. Il processo di
spettacolarizzazione del conflitto – iniziato forse da qualche parte tra la
prima Guerra del Golfo e l’attacco alle Torri gemelle – comporta un livellamento
verso il basso del cuore semantico dell’informazione, una riduzione della
violenza a contenuto mediatico, a slide di Instagram, a video di TikTok, creato
velocemente per essere consumato velocemente e altrettanto velocemente gettato
via.
Parlando della cultura promossa dai media, Jean Baudrillard diceva che nella
società odierna “questa diviene oggetto di consumo nella misura in cui […]
diviene sostituibile e omogenea (sebbene gerarchicamente superiore) ad altri
oggetti”. Qualcosa di simile si potrebbe dire per la violenza. Nel cyberspazio
generato dai media, da un punto di vista di fruizione, non c’è praticamente
nessuna differenza, per esempio, tra una guerra e la sintesi di una partita di
calcio. Ma capirne le modalità di fruizione è essenziale per stabilire delle
contronarrazioni che tematizzino la violenza in senso storico, critico e
politico. Il rischio, altrimenti, è quello di relazionarci di fronte a essa
nello stesso modo in cui il tifoso prende parte al rito collettivo della
partita, in cui si amano i buoni – la propria squadra – e si odiano i cattivi –
gli avversari.
Riflessione
L’omicidio dell’attivista della destra americana estrema Charlie Kirk, colpito
da un’arma da fuoco durante un incontro con gli studenti in un campus
universitario nello Utah, è abbastanza esplicativo della reazione dell’opinione
pubblica di fronte alla violenza. Nonostante in Italia fosse già tarda serata,
per puro caso ho avuto l’occasione di seguire in diretta sui media americani la
cronistoria dell’evento. Fin dai primissimi minuti il popolo di Internet si è
spaccato tra chi glorificava Kirk come martire della libertà di pensiero e del
diritto di parola e chi gioiva per l’attentato a danno di un pericoloso
promotore di ideologie intolleranti e violente.
Questa dialettica degli schieramenti opposti è stata subito fatta propria dai
politici statunitensi e poi europei. I repubblicani hanno addossato le colpe
dell’omicidio alla sinistra fintamente liberale, rea di incitare all’odio e di
voler silenziare chi non la pensa come loro. I democratici, pur condannando in
toto l’omicidio, hanno respinto al mittente, dicendo che è invece la destra MAGA
(Make America Great Again) a fomentare un clima di violenza in un Paese in cui
il tema del possesso delle armi è, oggettivamente, un problema. E tutto questo
ben prima che venisse arrestato il presunto autore dell’attentato, il
ventiduenne Tyler Robinson che, stando a quanto si conosce al momento, non
corrisponde all’identikit del pericoloso leftist radicale a cui si pensava nelle
prime ore.
> L’omicidio di Charlie Kirk, colpito da un’arma da fuoco durante un incontro
> con gli studenti in un campus universitario nello Utah, è abbastanza
> esplicativo della reazione dell’opinione pubblica di fronte alla violenza.
Nonostante l’omicidio di Kirk rientri in uno scontro tutto statunitense tra MAGA
e liberals, anche da noi accuse, controaccuse, strumentalizzazioni e propaganda
hanno subito fatto perdere il punto della questione. Il modo in cui l’omicidio è
stato narrato, ha fatto sì che si sia passati immediatamente dal fatto, alle
possibilità strumentali del fatto. Eradicata dal rapporto di causalità con il
contesto americano, la violenza è stata usata solo in senso simbolico per un
fuoco incrociato di slogan – che, per inciso, di certo non stemperano gli animi,
ma anzi li infiammano, trasferendo sul piano verbale la violenza fisica.
Mi pare esplicativo che l’intero spettro della sinistra internazionale abbia
speso molte energie per “prendere le distanze” dal killer. Non solo è un
paradosso logico doversi distanziare da qualcuno con cui non si ha nessuna
vicinanza fattuale, ma farlo per dover ribadire quello che è naturalmente e
giuridicamente un caposaldo del dibattito democratico – la condanna della
violenza – è un’aporia del sistema. Il fatto che io stesso mi senta qui
obbligato a esplicitare la ferma condanna rispetto a quanto accaduto per evitare
di incappare in accuse di giustificazionismo è esplicativo di come la violenza,
anche a sinistra, sia ormai introiettata nel discorso politico solo per la sua
componente spettacolarmente simbolica, mentre manca qualsiasi tipo di analisi
materialista.
Un’operazione di questo genere non rientra, storicamente, né negli interessi,
né, forse, nelle capacità di una destra che trae il suo potere mediatico – e
anche il suo appoggio elettorale – dalla semplificazione per estremi e dalla
polarizzazione del dibattito, per cui l’uso strumentale della violenza è di
supporto alla creazione del consenso e al mantenimento del potere – e qui si
guardi, ancora, al già citato Chomsky. Tuttavia, è lecito aspettarsi da chiunque
afferisca all’ampio spettro della sinistra un approccio alla violenza in campo
politico che sappia interpretarla attraverso l’analisi delle condizioni
materiali, delle basi economiche e delle relazioni tra classi sociali, piuttosto
che attraverso valori e ideali astratti. Un approccio di questo tipo non è solo
legittimo, ma necessario per provare a capire a favore di chi gioca la violenza.
Chi trae vantaggio dall’uso della violenza in campo politico? Quali rapporti di
forza si nascondono dietro l’uso della violenza? E, soprattutto, quale influenza
ha la violenza sull’agentività del nostro schieramento politico nell’ottica di
una rinata (ma forse mai estinta) lotta di classe?
Al di là dei possibili discorsi etici sul personaggio, se analizzato in
quest’ottica, l’omicidio Kirk non sono sicuro vada a vantaggio della sinistra
democratica. L’evento, infatti, fornisce alla destra trumpiana – e poi
internazionale – non solo un martire, ma il lasciapassare ideologico per
l’inasprimento di una retorica securitaria che diventa poi pratica repressiva. E
poco importa se il presunto killer non è un radicale, fricchettone, esaltato di
sinistra, né che, negli ultimi dieci anni, la percentuale degli omicidi
riconducibili alla destra estrema sul numero di azioni violente commesse a fini
ideologici negli Stati Uniti sia di oltre il 75% (dati: Anti Defamation League).
Tutto ciò, tra l’altro, non sposta di una virgola i rapporti di forza rispetto
alle rivendicazioni delle classi sociali povere e delle minoranze nei confronti
della repressione statale.
> Non solo è un paradosso logico doversi distanziare da qualcuno con cui non si
> ha nessuna vicinanza fattuale, ma farlo per dover ribadire quello che è
> naturalmente e giuridicamente un caposaldo del dibattito democratico – la
> condanna della violenza – è un’aporia del sistema.
Dall’altra parte, quello che non si sta riuscendo a fare nel caso di Kirk, è
riuscito, almeno in parte, con Gaza. Dico “in parte”, perché ancora una volta
l’analisi materialista del genocidio è stata condotta pressoché in toto al di
fuori della politica dei partiti e promossa dalla società civile, da attivisti,
da organi di ricerca indipendenti e da un’esigua parte della stampa
internazionale. Questi attori, però, hanno contribuito a mantenere viva
l’attenzione sui crimini commessi da Israele, tanto a livello mediatico che
politico, attraverso un’intensa attività di mobilitazione dal basso. Il
movimento pro-Palestina è stato abile nel tenere insieme tanto la condanna alla
violenza contro i civili, quanto l’analisi degli interessi politici ed economici
che sostanziano l’intento genocidario – poi rilanciati in sede istituzionale dai
report della relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese (Genocide as
Colonial Erasure e From Economy of Occupation to Economy of Genocide).
La condanna ideologica, unita a un’analisi materialista del genocidio, non solo
ha impedito una lenta, ma spesso inesorabile assuefazione alla violenza, ma ha
denunciato in maniera fragorosa la vergognosa complicità nella mattanza di un
Occidente “necrocapitalista”, razzista e imperialista. Il successo, almeno
parziale, di tale narrazione mi pare verificabile se si considera che anche nel
dibattito mainstream molti sono costretti a riconoscere la propaganda sionista
per quello che è. Il “conflitto per la liberazione degli ostaggi” è per tanti –
anche per l’ONU, ma non per molti vessilliferi del moderatismo – un genocidio. I
tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica da parte di Israele – come
l’invio di influencer nella Striscia per testimoniare i presunti aiuti umanitari
da parte dell’Idf – risultano grotteschi. Le parole di ministri come Smotrich e
Ben-Gvir non sono più le boutade di qualche estremista, ma le dichiarazioni
d’intenti di criminali di guerra. Questo, come si può vedere, non vuol dire che
la politica assecondi o sostenga le richieste del movimento pro-Pal. Anzi,
tutt’altro. Ma la verità sostanziale dei fatti affiancata a principi di
carattere etico-morale fornisce il fuoco ideologico delle rivendicazioni che,
nell’intento dei manifestanti, non sono destinate a rimanere solo sul piano
simbolico dell’utopia.
Azione
Per quello che se ne capisce, l’approccio fin qui descritto diventa il minimo
comune denominatore necessario nel momento in cui la speculazione teorica vuole
diventare pratica attiva. Come dimostra il prima citato esempio del Nepal, è
possibile che arrivi un momento in cui sarà doveroso interrogarsi sulla
necessità o meno della violenza, su come esercitarla e in che grado. Mi pare
superfluo ribadire – ma di questi tempi non è mai troppo – che l’adesione totale
alla non-violenza è il presupposto minimo per poter partecipare al dibattito
democratico. E tuttavia, il paradosso democratico enunciato da Karl Popper in La
società aperta e i suoi nemici (1945) impone un certo grado di repressione verso
gli intolleranti al fine di salvaguardare lo stesso sistema democratico.
In termini pratici, come ci insegnano innumerevoli esempi di storia, questo si
traduce in una continua negoziazione sulla necessità e sulla legittimità della
violenza in senso politico quando le regole del gioco democratico vengono meno.
Quale dialettica è possibile con un’ipotetica squadraccia fascista che viene a
rastrellare gli oppositori politici? Interrogato sulla questione, Sandro
Pertini, figura che difficilmente potrà essere accusata di populismo, la
risposta pareva averla molto chiara. E tuttavia, nelle nostre società
contemporanee pare un sacrilegio anche solo teorizzare una possibile risposta
violenta, pure laddove questa risponda solamente a scopi difensivi.
> Il movimento pro-Palestina è stato abile nel tenere insieme tanto la condanna
> alla violenza contro i civili, quanto l’analisi degli interessi politici ed
> economici che sostanziano l’intento genocidario.
A questo proposito, vale la pena riprendere le parole del sociologo francese
Nicolas Framont pubblicate nella newsletter di settembre del progetto di
estetica politica Iconografie (@iconografiexxi). Framont sottolinea come, al di
là dell’ordinamento giuridico-costituzionale sulla base del quale giudichiamo
qualsiasi forma di violenza dal basso come intrinsecamente esecrabile, chi
detiene il potere – la “classe borghese”, per lui – esercita nei fatti un grado
di violenza altissimo, giustificato in quanto statalizzato. Le élite del potere
capitalista, dunque, non solo continuano a teorizzare la necessità della
violenza, ma non hanno nessuna remora nell’esercitarla, in spregio a qualsiasi
tipo di ordinamento giuridico.
Di esempi, anche in questo caso, se ne potrebbero fare molti: dalla repressione
violenta delle manifestazioni di piazza da parte della polizia – pratica
talmente diffusa che ormai non fa più notizia – alla violenza nelle carceri,
fino, per venire a un caso specificatamente italiano, al trasferimento forzato
nei centri per migranti in Albania. Per rendersi conto del grado di violenza
introiettato e normalizzato da parte degli apparati statali, basta una lettura
dei report annuali di Amnesty International. Rispetto a questa legittimazione de
facto della violenza da parte di chi detiene il potere – che non vuol dire solo
potere legislativo, ma anche economico – mi sembra significativo il post che
Trump ha pubblicato su Truth in data 6 settembre, con il quale minacciava
Chicago di un inasprimento delle politiche anti-immigrazione e una maggior
repressione da parte delle forze dell’ordine federali. Il post, accompagnato da
un’immagine generata dall’Intelligenza artificiale con il presidente degli Stati
Uniti in panni militari in un chiaro riferimento al film Apocalypse Now,
recitava: “‘Mi piace l’odore delle deportazioni al mattino…’ Chicago sta per
scoprire perché è chiamato Dipartimento della GUERRA”.
Ancora una volta, tuttavia, l’esempio più denso di senso rimane il genocidio in
corso a Gaza, per la sua capacità di dare forma plastica – addirittura
quantificabile, negli oltre 60.000 morti – alla pratica omicida portata avanti
nel nome della “democrazia” israeliana e dell’Occidente “civilizzato”. La
radicalità della violenza perpetrata sulla pelle del popolo palestinese è
esplicativa della morale vergognosa con cui il consesso delle grandi democrazie
dell’Occidente non prova, nei fatti, nessun tipo di moto di fronte all’eccidio
di civili inermi, ma si affretta a gettare strali e biasimo su un manifestante
che tira un sampietrino durante una manifestazione.
Per dirla con le parole di Franco Palazzi, autore di La politica della rabbia
(2021), “da una parte lo stato liberaldemocratico fa manifestamente impiego di
numerose forme di violenza tanto diretta […], quanto indiretta […]; dall’altra
la menzione della violenza appare ammissibile nella sfera pubblica
liberaldemocratica unicamente nel registro retorico della condanna”. Per
Palazzi, “queste contraddizioni sono il frutto della scarsa capacità
contemporanea di pensare la politica al di là dell’ipoteca, a un tempo
istituzionale e concettuale, dello stato moderno”. Ma è proprio da questo tipo
di squilibri che deriverebbe, secondo Framont, la simpatia di larghe fasce della
popolazione verso figure come quella di Luigi Mangione, sospettato di aver
assassinato Brian Thompson, CEO del colosso assicurativo UnitedHealthcare.
Framont – autore di Saint Luigi (2025), un saggio sul culto mediatico e
ideologico riscosso proprio dal presunto killer italoamericano – afferma che di
fronte alla crescente, assidua violenza a cui le classi meno abbienti sono
sottoposte, gesti estremi come quello di Mangione servono a ricordarci che
servirebbe ristabilire un equilibrio tra le parti.
> Le élite del potere capitalista, dunque, non solo continuano a teorizzare la
> necessità della violenza, ma non hanno nessuna remora nell’esercitarla, in
> spregio a qualsiasi tipo di ordinamento giuridico.
Tuttavia, al pari dell’assassinio di Kirk, delitti come l’assassinio di
Thompson, se condannabili da un punto di vista morale, rischiano di essere
perfino controproducenti nell’ottica materialista del conseguimento degli
obiettivi. Che l’uso omicidiario della violenza – ma anche, per esempio, la
devastazione di negozi e beni comuni durante gli scontri di piazza – possa
essere però allo stesso tempo una forma di lotta di classe e un gesto populista
non deve trarre in inganno. Stabilita la legittimità ideologica delle richieste
degli oppressi verso gli oppressori, c’è poi la riflessione sulle strategie.
Fermandosi solo agli esempi fatti fin qui, i gesti eclatanti di Mangione e
Robinson non muovono oltre il piano simbolico, privi di qualsiasi potenzialità
nell’ottica di una rinegoziazione dello status quo. Di fronte al populismo di
questa violenza performativa, è doveroso però che le sinistre internazionali
inizino almeno a tematizzare le strategie attraverso le quali difendersi
rispetto alla violenza del sistema, catalizzando la rabbia popolare in una lotta
dove il nemico non si farà scrupoli ad uccidere se questo assicura il
mantenimento fattuale del potere. In fondo, quello che pare domandarsi
@aaayushh245 nel suo video sul Nepal è: può esistere una violenza generativa?
L'articolo La violenza e noi proviene da Il Tascabile.
Tag - geopolitica
N el 2024 a Barcellona è comparso un murale con tre donne. María Soliña,
accusata di stregoneria nel 1621, condannata alla confisca dei beni e costretta
a indossare per sei mesi un abito penitenziale. María Pérez Lacruz, La Jabalina,
attivista fucilata a venticinque anni in seguito alla sentenza di un tribunale
militare, nel 1942. Casilda Hernández, militante del fronte antifascista europeo
durante e dopo la guerra civile spagnola, morta in Francia nel 1992 e autrice
della frase che dà il titolo all’opera: “Dona, ets foc que no s’apaga” (Donna,
sei fuoco che non si spegne). Le loro vicende fanno intravedere le pieghe e le
lacerazioni del tempo. Viste da vicino, non sono né lineari né rassicuranti, ma
rivelano le interrelazioni tra vite distinte. Mostrano la storia come spazio
aperto, modellato anche da tragedie compiute e alternative irrealizzate. Per
questo sono finite sul muro esterno dell’ex istituto penitenziario La Model,
quello che le dittature spagnole del Ventesimo secolo riempirono di dissidenti e
che oggi è un crocevia di memorie. Con i volti di Soliña, Lacruz e Hernández si
possono indagare le sfumature del travagliato percorso per il riconoscimento
dell’autonomia femminile nelle società occidentali.
Un percorso che, se si fosse ragionato solo in termini di realismo politico e
rapporti di forza sociali, avrebbe dovuto essere interrotto nell’istante in cui
fu concepito, prima dell’inizio. Non è casuale che il murale contenga un rimando
a Rosie the Riveter, il poster creato nel 1942 dall’artista Howard Miller per la
compagnia statunitense Westinghouse Electric (con l’operaia in bandana rossa a
pois, tuta da lavoro e manica arrotolata che fa: “We Can Do It!”). Un’icona che,
se durante la Seconda guerra mondiale diede peso simbolico alle lavoratrici in
fabbrica, divenne poi, grazie a un’operazione di risignificazione, un
riferimento visivo del femminismo. La rivettatrice ricorda così l’essenziale: la
storia è una tela cucita da mani diverse in tempi differenti, ragion per cui,
scrutandola, l’angolazione che scegliamo può rivelare trame inaspettate, fili
trascurati e cuciture raffazzonate che coprono gli squarci più larghi.
La storia che scalpita
Dona, ets foc que no s’apaga, dall’artista Levico, fa riemergere il passato nel
presente. È un’iniziativa di Rap for Memories, un progetto di EUROM – European
Observatory on Memories, della Solidarity Foundation dell’Università di
Barcellona – in collaborazione con la scuola popolare itinerante Versembrant e
la scuola di arte La Industrial. Dal 2020 unisce musica, narrazione orale e arte
urbana per ri-raccontare la storia spagnola senza commemorazioni acritiche. Non
è una goccia nel mare, però. I modi per affacciarsi sulla storia stanno
cambiando un po’ dappertutto. Da Barcellona a Roma, a farci caso, il passo non è
lungo. L’associazione Topografia per la storia (TPS) rende accessibile la
documentazione multimediale sul sistema repressivo del fascismo italiano, sui
campi di internamento dell’Italia di Mussolini – i Campi del duce (2019), di cui
parla anche Carlo Spartaco Capogreco. Con portali digitali, mappe interattive e
corsi didattici si amplia lo spettro dello sguardo. Si capisce quanto fosse
elastica, allora, la categoria dei nemici di volta in volta bersagliati. Oppure
per notare che, a dispetto dei tentativi del fascismo di costruire consenso, sia
esistita anche un’Italia produttrice di dissenso, pur latente o minoritario.
Un’Italia che, prima della Resistenza, rifiutò l’idea che l’identità collettiva
dovesse farsi timbrare dal bollo dell’ideologia politica. Fare storia diventa
così un atto plurale di decifrazione, senza dar per scontato che il susseguirsi
delle generazioni, di per sé, equivalga a indurire il nocciolo della
consapevolezza pubblica.
Il punto di partenza di queste iniziative è sempre lo stesso: per essere
sciolti, i nodi della complessità hanno bisogno di mediazioni. Il NEHME (Network
on European and Mediterranean History and Memories), formalizzato a Bari nel
2021, si concentra per questo sugli usi e gli abusi della storia, promuovendo
reti di studio sull’identità europea. Nel frattempo, fuori dalle università
italiane si organizzano convegni, festival, workshop, rievocazioni. La storia
prende corpo in modalità non convenzionali. Un autentico fermento fende la
penisola. Si avverte un risuonare di voci che ha nell’Istituto nazionale
Ferruccio Parri un vivace catalizzatore. Il sapere storico scalpita: prova a
uscire dalle aule, a mescolarsi con quel trova, a democratizzarsi. Molti tra
storici e storiche si interrogano non tanto su come somministrare dall’alto
informazioni verificate, quanto su come rendere la storia, con le sue pratiche,
fruibile e maneggiabile.
> Non si tratta dell’ennesima riverniciatura di noiose forme di divulgazione
> culturale. Dietro alla Public history c’è una postura precisa verso la storia,
> il bisogno di mostrarne la tridimensionalità.
In Italia è arrivata anche la Public history (PH), un settore delle scienze
storiche che vuol portare la storia verso la cittadinanza e che agisce, come
sottolinea il Manifesto dell’AIPH, (Associazione Italiana di Public History),
“tanto all’interno quanto all’esterno degli ambiti accademici e istituzionali,
nel pubblico e nel privato”. Frequentare la Public history – un cantiere in
espansione – significa piantare i piedi nel passato senza separarsi dal
presente. Ricordarsi che si può essere più di semplici spettatori inerti. In
Public history. Discussioni e pratiche (2017), lo storico Lorenzo Bertucelli
scrive che condividere i metodi critici della storiografia, accettando una
negoziazione continua tra punti di vista diversi, può indicare direzioni alla
ricerca e permettere al pubblico di “compiere il cammino intellettuale dal fatto
all’intepretazione”. Creare un collegamento stabile tra disciplina storica e
società civile.
Non si tratta dell’ennesima riverniciatura di noiose forme di divulgazione
culturale. C’è sotto una postura precisa verso la storia, c’è il bisogno di
mostrarne la tridimensionalità. Eppure, nonostante ciò, il discorso pubblico e
politico sulla contemporaneità sembra oggi orientarsi in tutt’altra direzione.
La gabbia geopolitica
Soprattutto dal 2022, con il ritorno compiuto della guerra in Europa, il
successo della geopolitica è stato decisamente più visibile. La geopolitica –
termine dal tratto elegante che fa capolinea nelle rassegna stampa e nella TV
generalista, per non dire dei social media – ha piantato radici. Nella sua
versione mediatica, spolpata fino all’osso, piace molto. Crea ordine nel
disordine. Incasella tessere, offre mappe mentali nitide, traiettorie
calcolabili, risultanze coerenti. Quando si tratta di dover dedicare un po’ di
attenzione alle dinamiche del mondo, pare ormai aver scalzato diciture e
discipline più caute come le relazioni internazionali.
La disinvolta lucidità che esibiscono gli esperti geopolitici, perfino nel tono
della voce, ha però un prezzo teorico molto alto e poco dibattuto. Nella visione
geopolitica la storia viene compressa. L’approccio geopolitico trasforma infatti
lo spazio geografico in una gabbia concettuale capace di appiattire la densità
del passato. Variabili rigide ed elementi cartografici sopprimono quasi del
tutto la temporalità. Singoli contendenti si fanno soggetti meccanici attivi su
un campo delimitato (la scacchiera internazionale), con episodi e avvenimenti
del passato spogliati della propria storicità. La geopolitica meno avvertita –
ma ugualmente sdoganata – glissa sulla necessità di rendere conto dei processi,
delle istanze, delle frizioni, delle continuità e delle discontinuità che danno
concretezza alla storia. Di più: fa quello che la storiografia sconsiglia.
Tratta l’azione selettiva del periodizzare, cioè del dividere in blocchi
logico-temporali il fluire incessante dello scorrere degli anni, più come un
esercizio di suddivisione del tempo da svolgere per scopi prettamente pratici
(operazione utile, ma insufficiente) che non come un atto interpretativo che
condiziona la ricostruzione e la contestualizzazione logico-analitica degli
eventi stessi.
> Quando si tratta di doversi dedicare alle dinamiche del mondo, la geopolitica
> pare ormai aver scalzato diciture e discipline più caute come le relazioni
> internazionali.
La storia, specie quella contemporanea, in molte analisi geopolitiche è un
cappello introduttivo. Viene levigata, smussata o tagliuzzata in funzione
dell’attualità. Le differenti idee di modernità, le dispute filosofiche, le
evoluzioni e le rivoluzioni, le resistenze e le tensioni interne ai singoli
contesti o le mobilitazioni sociali non trovano posto. Oppure, se ci sono, sono
leggerissime. La società civile si polverizza, spuntano categorie impersonali
(la psicologia collettiva, le sfere di influenza) e valutazioni apodittiche
(quasi arcane per i non addetti ai lavori). Dove arriva la geopolitica, lo
sforzo per cavare dei significati intellegibili dalla storia sulla base di
sensibilità, esigenze, ragioni e passioni si interrompe. E si va oltre la
finalità descrittiva. Si indica, si indirizza, si orienta. La “geopolitica da
tabloid”, come ha osservato lo storico Mario del Pero, “rivendica non solo
funzioni analitiche, ma anche capacità predittive e, quindi, un ruolo
prescrittivo: è conoscenza applicata, orientata verso un futuro che le sue leggi
imperiture, validate dal processo storico, permettono di anticipare e se
necessario influenzare”. Questa geopolitica invoca la storia, sì, ma poi la
depotenzia, facendone una sorta di sfondo decorativo dove si alternano – lungo i
decenni, i secoli, i millenni – modelli statici di interazione tra entità
guidate da comportamenti per lo più immutati.
Buona parte della geopolitica, destoricizzando il passato, ci esenta persino dal
cercare qualcosa di simile allo Zeitgeist. Al di là delle esteriorità, infatti,
sembrerebbe esserci, dentro tutta la storia, una non meglio specificata essenza
originale che tempra l’agire collettivo. Il timore è che la vaghezza sia voluta,
quando si lascia intendere che gli esseri umani siano destinati a rimanere
incatenati ai propri vizi e schiavi dei propri demoni, legati a suggestioni
ancestrali che non consentono vie d’uscita praticabili. E allora, che si tratti
della Persia di Ciro il Grande o dell’Iran degli Ayatollah, della Francia del re
Sole o di quella di Charles de Gaulle, della Cina imperiale della dinastia Qing
o del Repubblica popolare di Xi Jinping la storia non ha davvero spessore. È uno
splendido repertorio di figure ricorrenti, un palcoscenico dove i protagonisti
cambiano maschera ma le sceneggiature faticano ad aggiornarsi. Che poi anche gli
stessi studiosi di geografia umana, oggi, come fa l’inglese Paul Richardson, ci
mettono in guardia dalle “bugie delle mappe” e dai “miti” che non di rado
muovono le opinioni pubbliche e le classi dirigenti delle società occidentali (
su continenti, confini, nazioni), ma questo non sembra intaccare l’assertività
con cui, quasi quotidianamente, ci viene impartita la severissima lezione
geopolitica.
La grammatica del disincanto
Tutto ciò non solo reca tracce di un ingombrante determinismo ma è spesso
funzionale al consolidamento delle identità blindate, dei disegni egemonici e
del potere degli Stati-nazione. Di quali Stati-nazione, nello specifico, è
presto detto: l’analisi geopolitica più in voga si concentra su chi platealmente
primeggia nel presente, dal momento che, per farlo, deve aver dimostrato nel
passato di possedere tutte le carte in regola per vincere la partita. Con
ragionamenti capziosi la geopolitica, che non si espone al principio di
falsificabilità, costruisce narrazioni che non rischiano la smentita: se i fatti
le confermano, diventano prove della validità delle tesi proposte; se invece le
contraddicono, sono ridotte ad anomalie passeggere, rumore di fondo. In ogni
caso, la geopolitica assicura una griglia interpretativa totale e circolare:
retrospettivamente, giustifica ciò che è già accaduto; prospetticamente, rende
plausibile ciò che potrà accadere, ma sulla base degli stessi assunti e delle
stesse premesse già utilizzate.
Minimizzando l’impatto che le culture politiche, le mutazioni interne o la
stessa contingenza possono avere sul movimento della storia, la geopolitica non
si sottrae dal suggerisci che se alcuni continuano a dominare e altri a subire
una ragione deve pur esserci. Come ha scritto lo storico statunitense Daniel
Immerwahr, in un articolo pubblicato sul Guardian e tradotto da Internazionale:
“I geopolitici sono bravissimi a spiegare perché le cose non cambiano. Sono meno
capaci di spiegare come e perché le cose cambiano. Questo forse giustifica la
leggerezza con cui parlano di storia”.
> Minimizzando l’impatto che le culture politiche, le mutazioni interne o la
> stessa contingenza possono avere sul movimento della storia, la geopolitica
> suggerisce che se alcuni continuano a dominare e altri a subire una ragione
> deve pur esserci.
L’approccio geopolitico, professandosi avalutativo, esibisce poi un sottile
cinismo analitico, specialmente quando ribadisce, anche in modo indiretto, che
la vittoria di un attore nazionale sulla scena internazionale corrisponde alla
sconfitta di un altro. Quando è così, non sorprende che le organizzazioni
sovranazionali che puntano sulla cooperazione o quelle indipendenti dagli
Stati-nazione non siano esattamente nel cuore della geopolitica. Le distrazioni
non sono consentite. In questo senso tutto quanto si colloca all’infuori della
dimensione della competizione non è storia, ma un accidente della storia.
Un’illusione di cui dovremmo fare a meno. Il modo in cui si argomentano
questioni pressanti come l’opportunità per l’Unione Europea di dotarsi di
maggiori capacità belliche, per fare un esempio, è indicativo. L’ombra della
guerra assomiglia più al frutto avvelenato di una sorte ineludibile, sottratto
al libero arbitrio, che a uno degli sbocchi potenziali a fronte di una serie di
fattori storicamente situati e socialmente e politicamente influenzabili.
Per di più il cuore del pensiero geopolitico viene veicolato con il piglio
condiscendente di chi taglia in due il campo del pensabile: da un lato i
pragmatici, quelli che vanno oltre le retoriche patinate, dall’altro gli
inconsapevoli, sprovveduti o ingenui. La geopolitica, qui, si colloca con quelli
che non se la bevono, per richiamare la “Congregazione degli apoti” di Giuseppe
Prezzolini, delineata appena prima del Ventennio. Il fascino di questa forma di
cinismo deriva tuttavia da una tendenza ormai stratificata e piuttosto
trasversale che si propaga nel corpaccione delle società occidentali. Una
tendenza che non è affatto creata dalla geopolitica, ma spiana la strada della
sua ascesa mediatica.
Un’idea da discutere, insomma, può essere questa: la geopolitica oggi fa parte
di una più ampia grammatica del disincanto. È seducente nella misura in cui il
cinismo è già una delle cifre culturali del presente, in un tempo storico in cui
il pessimismo rasenta la saggezza e la cittadinanza tocca con mano quel
“deconsolidamento democratico” che interroga la politologia. Del resto, anche le
scienze sociali guardano all’estensione e alle implicazioni del zero-sum
thinking, una mentalità secondo cui il vantaggio di un soggetto comporta lo
svantaggio di un altro, il che porta a percepirsi come strutturalmente in
competizione. Un articolo della ricercatrice Patricia Andrews Fearon ha fatto
riferimento addirittura a un “zero-sum mindset”. Un atteggiamento che ostacola
la cooperazione e talvolta si rivela auto-avverante: presupponendo condizioni di
ostilità reciproca e conflitti inevitabili, si possono concretizzare le proprie
aspettative negative trascurando invece le alternative.
Se questi appunti sono fondati, occorre alzare il tiro delle domande. Bisogna
chiedersi se la sintesi geopolitica – quella che vediamo, ascoltiamo, leggiamo,
navighiamo – non sia il puntello più avanzato di un ordine internazionale che va
ricostituendosi su basi teoriche che pensavamo di aver superato. Guardando
infatti alla seconda metà del Novecento come a una progressiva soluzione di
continuità rispetto a dinamiche di esercizio del potere a lungo dominanti,
dovremmo chiederci se l’approccio geopolitico non finisca per lanciare un
messaggio antitrasformativo, proprio mentre gli equilibri contemporanei sembrano
frantumarsi. Perché sia così facile, cioè, bucare lo schermo sostenendo che non
soltanto il mondo è quel che è (oggi) ma che nemmeno può pretendere di essere
molto altro (domani), dal momento che lo scorrere del tempo (ieri) ha già
dimostrato quali siano le più solide direttrici che muovono gli esseri umani,
anche quando si tenta di gestire con accortezza e creatività la convivenza
civile su scala planetaria.
DOMANDE SUL PRESENTE
Quando si difendono dalle non molte critiche ricevute, i teorici della
geopolitica puntano il dito sulle storture generate dall’uso scorretto che altri
fanno del loro oggetto di studio. Ma se certe semplificazioni si moltiplicano
forse il problema non è soltanto nella banalizzazione di concetti e categorie ma
in limiti epistemologici non ancora oltrepassati. Criticare l’approccio
geopolitico non significa allora negare l’importanza dei rapporti di forza o
delle coordinate geografiche. Vuol dire preservare le peculiarità della storia.
La storia come lente di ingrandimento su una combinazione di circostanze che, se
ha prodotto un certo esito, avrebbe potuto produrne anche altri. Già il fatto di
mettere in evidenza l’esistenza di una geopolitica critica – attenta alle
interdipendenze e capace di decostruire l’eredità della tradizione classica –
può rivelarsi utile per inquadrare questioni che travalicano i confini
nazionali, come la crisi climatica o le migrazioni, e per riconoscere che le
relazioni tra spazio e potere non sono oggettive.
Eppure la geopolitica che imperversa nei canali all-news e dentro i talk show,
negli scaffali delle librerie e nelle teche delle edicole, assomiglia a un
monolite. E non solo: sottolinea di continuo il proprio essere sopra le parti,
lontano da condizionamenti ideologici di qualsiasi tipo. Facendolo coglie
indubbiamente nel segno, dopo decenni di legittimazione della tecnica impolitica
come strumento di ingegneria sociale. L’essere distaccati, anche quando non lo
si è, garantisce infatti autorevolezza. D’altro canto sarebbe complicato
pretendere la formalizzazione di una materia che sfugge alle formalità. Quando
si diventa cultori di geopolitica? Con quali percorsi? Come si problematizza il
sapere accumulato nell’ambito della pratica sperimentata? E chi verifica la
qualità del lavoro di un esperto di geopolitica? Lo scarto tra l’irrilevanza e
la performatività chiama in causa più l’approccio generale che alcuni metodi
codificati, più il modo di porsi nei confronti dell’attualità che precise prassi
da seguire, così come la disponibilità ai giudizi forti e connotati rispetto
alle letture laterali e complementari. Accettare che i saperi della geopolitica
possano essere appresi e trasmessi tramite una sorta di iniziazione gestita da
pochi e caparbi analisti davanti al banco di prova del pubblico può così
portarci ad assuefarci, a sottovalutare tutte le volte in cui la geopolitica
finisce per non essere neutra.
> La geopolitica oggi fa parte di una più ampia grammatica del disincanto. È
> seducente nella misura in cui il cinismo è già una delle cifre culturali del
> presente.
Anche per questo, la geopolitica si muove in senso contrario di fronte al
progetto di aprire la proverbiale cassetta degli attrezzi della storia per
condividere competenze e conoscenze. Adottando la visuale della geopolitica
odierna, la storia va contemplata con il naso all’insù, dal basso verso l’alto.
Se per un verso, anche con la Public history, si vuol avvicinare la storia al
pubblico, fino a farne un soggetto centrale, dall’altro la storia viene posta su
un piedistallo inarrivabile, con i discenti (telespettatori, ascoltatori,
lettori, utenti) sospinti ad affidarsi a valutazioni taglienti e posizioni
ardite che, senza essere troppo spiegate, presuppongono la scarsa incidenza dei
singoli nel quadro dello spietato match contemporaneo. Se l’insieme delle
pratiche che intendono rinnovare il “fare storia” procedono per via orizzontale,
o almeno cercano di farlo, la geopolitica, fuori dagli ambienti in cui un
confronto teorico esiste davvero, è del tutto verticale. Nel racconto
geopolitico, cittadini e cittadine sono comparse passive che non possono non
essere sovrastati.
Con le opportune verifiche, dovremmo dunque iniziare a chiederci se la
geopolitica sia in fondo ancora incapace di dar peso alle molteplici prospettive
del passato. E se quindi non sia il caso di sottrarci dagli orizzonti di un modo
di intendere la realtà che con la storia, a guardar bene, non ha molto a che
fare.
L'articolo La seduzione geopolitica proviene da Il Tascabile.
L a geopolitica dell’acqua oggi ha di certo meno visibilità rispetto alla corsa
all’intelligenza artificiale o alla competizione tecnologica globale, ma resta
un nervo scoperto nelle dinamiche di potere contemporanee. Ce lo ricordano le
recenti tensioni tra India e Pakistan: dopo un attentato, Nuova Delhi ha sospeso
il Trattato delle acque dell’Indo, minacciando di ridurre del 25% il flusso
verso il Pakistan. In un’area dove l’agricoltura dipende in larga parte da quei
fiumi condivisi, l’acqua torna a essere leva di pressione e possibile miccia di
conflitto.
A rendere ancora più instabile il quadro è l’impatto della crisi climatica, che
accentua la vulnerabilità delle risorse idriche in tutto il mondo. L’aumento
delle temperature, l’alterazione dei regimi delle piogge e la maggiore frequenza
di eventi estremi compromettono la disponibilità e la prevedibilità dell’acqua,
con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e migrazioni. Anche regioni
un tempo considerate relativamente sicure stanno affrontando scenari di
scarsità.
Negli Stati Uniti, nel 2023, sette Stati del sud-ovest hanno siglato un accordo
per ridurre i prelievi dal fiume Colorado, evitando il collasso di metropoli
come Los Angeles e Phoenix. Ma la portata del fiume continua a calare, ponendo
interrogativi sempre più urgenti sulla sostenibilità di lungo periodo.
> La crisi climatica sta accentuando la vulnerabilità delle risorse idriche in
> tutto il mondo, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e
> migrazioni.
Sempre negli Stati Uniti, l’acqua è oggi al centro di dispute ben più
grottesche. Nell’aprile 2025, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per
annullare i limiti ambientali sulla pressione delle docce, lamentando che le
regolazioni volute da Obama e Biden non gli consentivano di lavarsi bene i
capelli. A inizio del suo secondo mandato e in un modo decisamente più
preoccupante, rispolverando nostalgie imperiali, Trump ha evocato pubblicamente
la necessità di “riprendere” il controllo del Canale di Panama, denunciando le
tariffe panamensi come ingiuste e ventilando persino l’ipotesi di un’azione
militare.
In Africa, intanto, la Grand Ethiopian renaissance dam (GERD) continua a essere
motivo di scontro diplomatico tra Etiopia, Egitto e Sudan, preoccupati per il
controllo delle acque del Nilo Azzurro. Il progetto, ormai pienamente operativo,
è destinato a ridisegnare i rapporti di forza nel Corno d’Africa.
Il secolo delle acque forzate
Queste dinamiche contemporanee trovano radici profonde nel modo in cui, durante
il Novecento, si è concepita l’idrosfera: come spazio da dominare, modellare e
sfruttare a fini economici, politici e simbolici. Winston Churchill, fermandosi
nel 1908 a osservare il Nilo presso il lago Vittoria, scrisse che “una simile
leva per controllare le forze naturali dell’Africa che nessuno impugna, può
soltanto intrigare e stimolare l’immaginazione”. Negli anni successivi, la
costruzione di dighe e sistemi idraulici divenne una pratica globale: Stati
Uniti, Unione Sovietica, India e Cina investirono massicciamente in progetti di
deviazione dei fiumi e costruzione di bacini, vedendo in essi strumenti di
modernizzazione e legittimazione politica. Le dighe non solo fornivano
irrigazione ed energia elettrica, esprimevano anche la capacità eroica dello
Stato di dominare la natura per il bene collettivo.
Due casi emblematici mostrano il costo di questa visione: in India,
l’Inghilterra coloniale sfruttò l’Indo per consolidare il proprio dominio
agricolo, mentre in Asia centrale l’Unione Sovietica progettò imponenti sistemi
irrigui per sostenere la monocultura del cotone. L’ambizione sovietica portò
alla ben nota vicenda del prosciugamento del lago d’Aral, con conseguenze
disastrose: desertificazione, salinizzazione dei suoli, crollo dell’attività
ittica, crisi sanitaria ed economica.
> Prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita
> nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in
> invasi.
Negli anni Duemila tornò a circolare ‒ in forma speculativa e mai ufficialmente
stipulata in accordi ‒ l’ipotesi di rilanciare un antico progetto sovietico:
deviare parte delle acque dei grandi fiumi siberiani verso la Cina
nord-occidentale. Si parlava di piegare l’Irtyš, l’Ob, forse persino l’Enisej
verso sud-est, oltre la frontiera, fino alle regioni del Xinjiang e del Gansu ‒
terre assetate, industrializzate, in piena espansione. Un canale artificiale
lungo oltre mille chilometri: una ferita nella taiga da coprire con una promessa
di prosperità. L’idea, più volte evocata da funzionari russi e cinesi, fu
rilanciata nel 2002 dal sindaco di Mosca Yuri Luzhkov e rientrava, almeno
idealmente, nelle prospettive di cooperazione idrica tra i due Paesi.
Nulla di nuovo, in fondo: già negli anni Sessanta l’Unione Sovietica aveva
concepito piani dettagliati per rovesciare il corso dei fiumi artici e
trasferire enormi volumi d’acqua verso sud, con l’obiettivo di irrigare le
steppe dell’Asia centrale e sostenere la produzione agricola. Ma il progetto ‒
noto come Northern river reversal ‒ venne abbandonato nel 1986, sotto le
pressioni del mondo scientifico, per l’impatto ambientale potenzialmente
devastante.
Quel progetto mai realizzato, ma ciclicamente evocato, è forse il più recente
fantasma di una lunga ossessione imperiale, moderna, nazionalista che nell’ex
Unione Sovietica si è manifestata in modo particolarmente imponente: l’acqua
come vettore di potere, oggetto di controllo tecnico e politico. Ma prima di
farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita nel piccolo:
argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in invasi.
C’è un caso, all’apparenza periferico, che racconta meglio di altri questa
tensione. In un altopiano del Caucaso meridionale, un lago è stato trasformato
in strumento di modernizzazione forzata, banco di prova per ingegneri, politici
e ideologi. Una microstoria che rivela l’ambizione ‒ tipicamente novecentesca ‒
di rifare la geografia, riscrivere l’ecologia, disciplinare il paesaggio.
Storia di un equilibrio fragile
Arrivando dal Nord dell’Armenia, lungo le strade che scendono dal Parco
nazionale di Dilijan ‒ detto anche Piccola Svizzera d’Armenia per i suoi
paesaggi montuosi, le foreste dense e le sorgenti minerali curative – il lago di
Sevan apre il paesaggio seguendo l’estensione del grande altopiano che lo
contiene. L’altitudine si abbassa di poco, ma la vegetazione dirada e poi
scompare, gli spazi si allargano. Con oltre mille chilometri quadrati a quasi
duemila metri sul livello del mare, Sevan è la principale riserva d’acqua dolce
del Caucaso meridionale e uno degli spazi simbolici più importanti dell’Armenia.
> La storia del lago Sevan mostra come anche un bacino apparentemente periferico
> possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni statali
> e progetti di disciplinamento territoriale.
Le sue rive sono abitate sin dall’antichità: ce lo dicono i ritrovamenti
archeologici, come quelli di Lchashen, dove è stato rinvenuto il celebre carro
dell’età del bronzo, o il cimitero medievale di Noraduz, con le tradizionali
khachkar, le croci di pietra, conservate e tuttora prodotte in loco da piccoli
laboratori artigiani.
Croci di pietra, Sevan, 2024; fot. Giulio Burroni.
Nonostante le pressioni ambientali e la crescita edilizia, Sevan è ancora oggi
meta di turismo interno, frequentata per le spiagge, le escursioni in barca, la
pesca, i monasteri sulle rive. Il più noto si trova su quella che un tempo era
un’isola ‒ Sevanavank ‒ e che oggi è una penisola. Non è un dettaglio
paesaggistico: è la traccia visibile di un abbassamento artificiale iniziato
negli anni Trenta, quando il livello del lago venne ridotto per scopi irrigui ed
energetici.
Già negli anni Venti, l’ingegnere armeno Soukias Manasserian aveva proposto di
abbassare Sevan di 45 metri per ridurre l’evaporazione e usare l’acqua a fini
produttivi. La proposta, ripresa con entusiasmo nel Primo piano quinquennale,
portò nel 1933 all’avvio della costruzione di un tunnel lungo quasi 40
chilometri, destinato a convogliare l’acqua verso sud, lungo il fiume Hrazdan.
Completato nel 1949, il tunnel diede avvio al progressivo svuotamento del lago.
Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, il livello si abbassò di quasi venti
metri, con una perdita di volume stimata attorno al 40%. Le conseguenze furono
gravi: perdita di biodiversità, prosciugamento delle coste, salinizzazione del
suolo, alterazione del microclima. Alcuni scienziati armeni sollevarono
l’allarme già negli anni Sessanta, ma le loro voci rimasero marginali. Solo nel
1978 si autorizzò la costruzione di un tunnel di reintegro (Arpa-Sevan),
completato nel 1981. Un secondo tunnel, il Vorotan-Sevan, entrò in funzione nel
2004.
> L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi
> significava piegare la natura alla volontà dello Stato.
Il lago ha recuperato alcuni metri, ma resta ecologicamente fragile, oggi
minacciato da eutrofizzazione, inquinamento e gestione politica incerta. La sua
storia, poco nota fuori dal Caucaso, mostra come anche un bacino apparentemente
periferico possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni
statali e progetti di disciplinamento territoriale. Una microstoria che
racconta, in scala ridotta, le stesse logiche che hanno condotto al
prosciugamento del lago d’Aral.
Deviare fiumi, nutrire anime
Sevan fu, in un certo senso, un prototipo. A partire dagli anni Cinquanta, la
pianificazione sovietica riprodusse lo stesso schema in Asia Centrale, deviando
i fiumi Amu Darya e Syr Darya per l’irrigazione intensiva del cotone: nacque
così il ben noto disastro del Lago d’Aral, che in pochi decenni si ritirò
lasciando dietro di sé deserti salati e relitti navali. Negli anni Ottanta fu la
volta del Kara-Bogaz, golfo poco profondo del Mar Caspio, chiuso artificialmente
e trasformato in un bacino sterile. L’URSS rese l’acqua un agente politico e
simbolico: controllare i fiumi significava piegare la natura alla volontà dello
Stato.
Come spiega Frank Westerman nel suo reportage e saggio del 2020 Ingegneri di
anime l’Unione Sovietica mise in scena una titanica alleanza tra ingegneri e
scrittori, impegnati nella costruzione di un nuovo spazio fisico e ideologico.
La tesi di Westerman è che il concetto di “dispotismo idraulico”, formulato da
Karl Wittfogel, trovi la sua massima espressione in Unione Sovietica: lo Stato
totalitario si legittima attraverso il controllo delle acque, imponendo su di
esse una centralità politica, simbolica e produttiva che trascende la
razionalità ecologica.
> Oltre all’Unione Sovietica, anche i regimi autoritari europei del primo
> Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica.
La fede sovietica nella trasformazione della natura affonda le radici nel
modernismo industriale. Lenin sintetizzava l’essenza del comunismo come “potere
sovietico più elettrificazione del Paese”. Stalin ne radicalizzò la visione:
fiumi da deviare, laghi da prosciugare, dighe da costruire. La tecnica,
asservita al piano quinquennale, diventava quindi narrazione, epopea, mito. Nel
cuore di questo racconto si collocano gli scrittori del realismo socialista.
Alla cena organizzata da Maksim Gor´kij nel 1932, Stalin proclamò:
> I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono
> di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di
> quella dei carri armati… Qui qualcuno ha osservato che gli scrittori non
> possono restarsene zitti e fermi, che devono conoscere la vita del loro Paese.
> L’uomo è trasformato dalla vita, e voi dovete aiutarlo nella trasformazione
> della sua anima. La produzione di anime umane è importante. E per questo
> brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime.
Nasce così la letteratura idraulica: un sottogenere del romanzo sovietico calato
dall’alto del regime (e sempre sottoposto ai raggi X della Glavlit, la Direzione
generale per gli affari della letteratura e dell’editoria) che esalta l’opera
pubblica come fondamento della nuova civiltà socialista e che funzionerà, da qui
in avanti, come un dispositivo ideologico per mascherare le contraddizioni della
modernità. Una su tutte: la realizzazione di queste opere fu davvero possibile
solo grazie allo sfruttamento della manodopera di milioni di condannati ai
lavori forzati.
Terraformare l’Europa
L’idea che la trasformazione dell’ambiente potesse diventare una leva narrativa
e simbolica non fu esclusiva dell’Unione Sovietica. Anche i regimi autoritari
europei del primo Novecento investirono sul paesaggio come strumento di
legittimazione politica: agire sulla natura significava dimostrare ordine,
efficienza, potere. In Italia, il fascismo fece della bonifica integrale uno dei
suoi principali dispositivi simbolici. Nonostante la portata di questi
interventi fosse in realtà marginale, la redenzione delle paludi malariche, la
trasformazione dell’Agro Pontino in insediamenti agricoli moderni e l’epopea dei
pionieri della terra nuova divennero elementi centrali della propaganda.
Cinegiornali, plastici, architetture monumentali e retoriche del lavoro
contribuirono a costruire l’immagine di una natura domata e redenta, conferma
tangibile della capacità del regime di instaurare un ordine anche ambientale.
> Anche nel fascismo la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un
> disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi.
Frank Snowden, storico dell’Università di Yale, ha mostrato nel suo libro La
conquista della malaria (2008) come questa modernizzazione comportò un costo
umano elevatissimo: sradicamento di comunità rurali, imposizione di nuovi
modelli di vita e aumento della mortalità tra i lavoratori delle opere di
risanamento. Ma la politica ambientale del fascismo non si limitò alla pianura:
anche in montagna, il regime promosse una vasta opera di elettrificazione
alpina, costruendo dighe e bacini idroelettrici dalla Valtellina alla Val
d’Aosta. La montagna domata, l’acqua incanalata e sublimata in energia,
diventavano metafore dell’autarchia e dell’identità nazionale. Anche qui, come
nella bonifica, la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un
disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi.
Il nazionalsocialismo tedesco portò questo paradigma a un’estremizzazione
ideologica. La dottrina Blut und Boden (sangue e suolo), elaborata dal ministro
Richard Walther Darré, legava l’identità razziale alla terra, sostenendo che la
sopravvivenza dell’ariano dipendesse dalla sua connessione ancestrale con il
territorio tedesco. L’organizzazione del Reichsarbeitsdienst mobilitava migliaia
di giovani in lavori pubblici, trasformando il paesaggio in un rituale
collettivo di disciplina e appartenenza.
In entrambi i casi, l’ambiente trasformato diventava un set politico e
pedagogico, costruito attraverso propaganda, architettura e narrazione. L’acqua
‒ bonificata, deviata, trattenuta ‒ fu uno degli elementi privilegiati di queste
operazioni ideologiche.
Dispotismo idraulico e modernità socialista
Il fascismo, il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico agirono, con gradi
e strumenti diversi, all’interno di uno stesso orizzonte modernista: l’idea che
la tecnica potesse dominare la natura, ordinarla, piegarla a fini produttivi,
simbolici e politici. Anche il fascismo terraformò su larga scala, non solo
nelle aree di bonifica ma anche attraverso la grande opera di elettrificazione
delle Alpi, che comportò la costruzione di dighe, serbatoi artificiali, canali
forzati e centrali idroelettriche. L’acqua montana venne incanalata e messa al
lavoro per produrre energia, autosufficienza e immaginario patriottico.
L’intervento non fu solo simbolico, ma modificò concretamente gli equilibri
ambientali delle valli alpine e ne riscrisse la geografia.
> Il fascismo spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio, ma
> nessuno ha trasformato i suoi paesaggi su scala così vasta e in tempi così
> rapidi come l’Unione Sovietica.
La differenza rispetto al caso sovietico sta, forse, meno in una
contrapposizione di intenti e più in una diversa magnitudo e organizzazione del
progetto. Il fascismo mise in scena la potenza trasformativa della tecnica, ma
spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio: la natura, pur
disciplinata, continuava a funzionare come sfondo identitario e risorsa
simbolica. L’URSS, invece, si spinse verso una visione più sistemica, in cui la
natura ‒ e l’acqua in particolare ‒ veniva trattata come componente pienamente
integrata nel meccanismo della produzione pianificata. Non solo da domare, ma da
rimodellare funzionalmente. Come sottolinea John R. McNeill nella sua storia
ambientale del Ventesimo secolo, nessun altro Stato ha trasformato i suoi
paesaggi su scala così vasta e in tempi così rapidi come l’Unione Sovietica,
animata da una miscela di ideologia, urgenza industriale e fede tecnocratica.
Il concetto di “dispotismo idraulico” di Wittfogel voleva descrivere forme
antiche di potere che fondavano la loro autorità sul controllo delle risorse
idriche. Ma fu proprio nell’Unione Sovietica, secondo Westerman, che quel
modello trovò un’espressione moderna, tecnologicamente aggiornata e
ideologicamente giustificata. Il dominio sull’acqua genera inevitabilmente
centralizzazione politica, burocrazia espansiva e gerarchie verticali:
condizioni che trovano piena corrispondenza nell’organizzazione dell’economia
pianificata sovietica, sostiene Westerman.
A differenza dei regimi autoritari coevi in Europa, il socialismo reale non si
limitò a rappresentare la natura come spazio da redimere: tentò di
riorganizzarla integralmente secondo principi razionali e quantitativi su
larghissima scala. L’acqua veniva misurata, deviata, redistribuita; i bacini,
svuotati o riempiti a seconda delle esigenze della produzione agricola e
industriale. Questa visione trovò la sua massima espressione nei piani idraulici
dell’Asia centrale: milioni di ettari irrigati, chilometri di canali,
prosciugamenti artificiali.
> L’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero
> marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un’analisi
> della cosiddetta “frattura metabolica” tra società e natura.
Il filosofo giapponese Kohei Saito ha sviluppato una critica radicale al modello
estrattivista capitalistico, rileggendo Marx da una prospettiva ecologica: ma,
sebbene in misura largamente minoritaria, nel suo Capitale nell’Antropocene
(2024) Saito non tralascia di sostenere che l’Unione Sovietica ha completamente
snaturato il nucleo ecologico del pensiero marxista, che nei tardi scritti di
Marx si stava orientando verso un’analisi della cosiddetta “frattura metabolica”
tra società e natura. Per Marx, questa frattura ‒ causata dall’estrazione
intensiva di risorse e dalla disconnessione tra produzione e riproduzione
ecologica ‒ non era sanabile con il semplice superamento del capitalismo di
mercato. Occorreva ristabilire un equilibrio tra i cicli della natura e le forme
sociali. Il socialismo sovietico, invece, adottò un paradigma iperproduttivista,
trasferendo le logiche del dominio ambientale dalla proprietà privata alla
pianificazione centralizzata. La natura venne trattata come un deposito da
svuotare, un ostacolo da regolare, una risorsa da calcolare. Seguendo Saito,
quindi, la pianificazione sovietica non solo non colmò la frattura metabolica:
la istituzionalizzò, trasformandola in uno squilibrio strutturale tra l’apparato
statale e l’ambiente. L’acqua, da fattore di equilibrio, divenne leva di
controllo.
Decisamente più radicale la lettura ormai datata di Murray Feshbach e Alfred
Friendly Jr. nel loro libro Ecocide in the USSR: Health and Nature Under Siege ‒
opera che a ridosso del crollo del 1992 segnò l’opinione pubblica occidentale
con toni volutamente drammatici e generalizzanti: l’Unione Sovietica avrebbe
trasformato l’intero continente eurasiatico in una zona di sacrificio
ambientale, compromettendo irrimediabilmente ecosistemi, risorse idriche e
salute pubblica, in nome della produzione e della segretezza di Stato. Secondo
gli autori, l’ecocidio non era un incidente del sistema sovietico, ma una sua
componente strutturale, favorita dall’opacità del potere e dalla logica
pianificatrice che vedeva la natura solo come materia da sfruttare.
In questo quadro, il lago Sevan può essere considerato un laboratorio
preliminare, un esperimento su scala minore rispetto alle trasformazioni
idrauliche realizzate in Asia Centrale, ma già pienamente paradigmatico. La
deviazione del suo corso naturale, l’abbassamento controllato del livello, la
trasformazione di un’isola in penisola, l’alterazione degli equilibri ecologici
ed economici locali: tutto anticipava, per logica e metodo, quanto sarebbe
accaduto vent’anni dopo con il disastro del lago d’Aral.
La Casa degli scrittori di Sevan, 2024, fot. Giulio Burroni. Costruita negli
anni Trenta in stile modernista, sorge su una penisola rocciosa del lago Sevan.
Progettata come residenza estiva per l’élite letteraria sovietica, univa rigore
funzionale e slancio avanguardista. Oggi, semidiroccata, ospita un ostello
estivo e attira visitatori curiosi della sua storia.
L’acqua è ancora infrastruttura del potere
Oggi il controllo delle acque non è più dominio esclusivo dei regimi autoritari.
Anche nelle democrazie neoliberali, l’acqua è al centro di nuovi conflitti: come
risorsa scarsa, come leva geopolitica, come strumento di influenza economica.
Durante l’amministrazione Trump, il paradigma si è aggiornato: dal rilancio
delle grandi opere idrauliche alla sistematica deregulation ambientale, dalla
riduzione dei vincoli federali sulle risorse idriche al disimpegno dai trattati
sul clima e sulla cooperazione transfrontaliera. Il linguaggio si è fatto più
pragmatico, orientato al mercato, epurato della grammatica della sostenibilità.
> Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire
> alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da
> governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare.
Nella riconfigurazione attuale dei rapporti tra natura e politica, l’acqua
continua a essere un’infrastruttura strategica, al pari di un gasdotto o di una
piattaforma logistica. Il caso del Canale di Panama, con la sua gestione contesa
e le periodiche crisi idriche che ne minacciano l’operatività, dimostra quanto
la disponibilità e il controllo dell’acqua siano tornati a essere nodi centrali
nelle reti globali del potere. Allo stesso modo, la sospensione del Trattato
delle acque dell’Indo da parte dell’India dopo l’attentato del 2025 ci dice come
il flusso idrico possa essere impiegato come strumento di pressione
internazionale, mettendo a rischio la sicurezza alimentare e sociale del vicino
Pakistan.
Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire
alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da
governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare. I progetti
mai realizzati di deviazione dei fiumi siberiani non sono oggi interessanti per
la loro fattibilità, ma per la logica che incarnano: la tentazione ricorrente di
piegare l’idrosfera a un disegno politico, economico, ideologico.
Da questo punto di vista, la vicenda del lago Sevan ‒ apparentemente marginale
nella geografia dei grandi bacini ‒ si rivela paradigmatica. Lontana dalle
megalopoli e dalle rotte globali, eppure profondamente inserita nella storia del
dominio tecnico sulla natura, racconta con chiarezza come il controllo
dell’acqua sia sempre anche controllo del territorio, dei corpi, dei futuri
possibili. È in questi spazi periferici che si manifesta con maggiore nitidezza
la persistenza ‒ e l’adattabilità ‒ del potere idraulico.
L'articolo Acque sovrane, di guerra e propaganda proviene da Il Tascabile.
N oi abbiamo da lungo tempo abbandonato l’illusione che il movimento del
processo storico sia determinato a principio, che il suo giungere a destinazione
sia iscritto nella dinamica stessa delle cose. Non ha senso fare l’elenco degli
eventi che ci hanno disilluso: sarebbe troppo lungo e forse troppo triste. È
tuttavia certo che anche il più diffuso senso comune non abbia alcuna speranza
in sorti progressive del presente, così come è certo che l’ultimo colpo a questa
illusione moderna sia stato, da un lato, lo scoppio della guerra in Ucraina e,
dall’altro, la campagna di annientamento condotta da Israele contro la
popolazione palestinese.
Ragionare di una “Terza guerra mondiale”, se quanto detto sinora ha senso,
significa allora tracciare i tratti di una forma storica non riducibile agli
scontri militari e nemmeno ai massacri che caratterizzano la nostra condizione
attuale. È quest’ultimo atteggiamento il primo obiettivo polemico di
ꭍconnessioni precarie, il collettivo che ha dato alla luce Nella Terza guerra
mondiale. Un lessico politico per le lotte nel presente (2025). Il testo si
oppone all’idea per cui il problema del nostro presente sarebbe esclusivamente
la guerra guerreggiata, il massacro fisico di centinaia di migliaia di inermi, o
almeno per cui l’urgenza di interrompere tali violenze renderebbe obbligatorio
sospendere le lotte che hanno preceduto la mobilitazione contro la guerra.
La gravità delle immagini che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania, così come
quelle che giungono dall’Ucraina, rende comprensibile da un punto di vista umano
tale prospettiva. Niente pare più importante che impedire agli abitanti di Gaza
di morire così. Tuttavia, concentrarsi esclusivamente sulla guerra è
inaccettabile sul piano teorico e politico, innanzitutto perché condanna i
movimenti all’inefficacia o, addirittura, a collaborare alla costruzione di un
mondo che porrà di nuovo le condizioni di altri genocidi.
In primo luogo, perché si fonda su un’analisi sbagliata del reale. Considera
cioè queste morti e queste sofferenze immani esito immediato di volontà
individuali, colpi di mano della Storia, eventi sciolti da ogni condizione.
Esse, al contrario, sono radicate nella crisi che il modo di produzione
capitalistico affronta su scala globale. Secondo ꭍconnessioni precarie non è
possibile pensare le violenze a cui giustamente si pone tanta attenzione senza
collegarle alle dinamiche di produzione della ricchezza su scala globale. Non
certo perché tali massacri non abbiano un significato politico: al contrario,
cogliere quest’ultimo significa proprio collocare questi annientamenti nel
contesto storico in cui si danno e da cui si originano. Essi non sono un “nulla”
che si tratterebbe di vedere come un sintomo, ma nemmeno l’origine pura di sé
stessi. Impedirli, dunque, significa valutarli sul piano del capitalismo
transnazionale, che è la cornice entro cui va compresa per ꭍconnessioni precarie
la congiuntura globale contemporanea.
> Queste morti e queste sofferenze immani sono radicate nella crisi che il modo
> di produzione capitalistico affronta su scala globale.
L’esito politico di tale atteggiamento è il campismo, o frontismo, cioè la presa
di posizione per un campo (geo)politico determinato tra quelli in scontro. Si
tratta allora, per il campismo che secondo gli autori e le autrici dilaga nel
mondo militante a partire almeno dal 2022, di scegliere di volta in volta se
stare con la NATO o con la Russia e la Cina; oppure con Israele o con Hamas. Il
punto non è l’interscambiabilità delle parti in lotta: ꭍconnessioni precarie non
vuole dire che non vi sia differenza tra l’Iran e gli Stati Uniti. Tali
protagonisti sono evidentemente differenti sui piani della forma storica, degli
obiettivi che perseguono e di tantissimi altri. Non lo sono, però, per chi
desidera un mondo dove ciò che ha causato la Terza guerra mondiale sia
disarticolato. Tale conformazione planetaria non è riducibile, si diceva, alla
volontà di alcuni uomini di ucciderne altri, ma tiene insieme razzismo,
patriarcato, sfruttamento di classe. Scegliere Hamas per “liberare” la Palestina
può forse voler dire arrestare il genocidio di Gaza, ma anche mantenere intatte
le condizioni che hanno provocato la guerra.
Al fine di comprendere questa affermazione, che è il vero nucleo al contempo
teorico e politico del libro, bisogna comprendere cosa intendono le autrici e
gli autori per “Terza guerra mondiale”. La Terza guerra mondiale non è una somma
di scontri tra Stati e/o di genocidi sparsi per il mondo, ma l’unione sistemica
del meccanismo che produce guerre, processi di preparazione alla guerra
(indipendentemente dal suo effettivo avvenire) e gli effetti pratici di tali
meccanismi. In questo senso, le autrici e gli autori affermano che la Terza
guerra mondiale non termina nel momento in cui Trump o chi per lui firma una
tregua, giacché una tregua è. in quanto tale, preludio di una nuova guerra. La
pace non è assenza di guerra, ma fine delle condizioni che la riproducono; è una
trasformazione strutturale interna al sistema sociale che rende difficile il
verificarsi di nuove guerre.
Le condizioni che riproducono la guerra sono legate alla forma attuale della
globalizzazione, il transnazionale. Si tratta della “realtà del mercato mondiale
e dei movimenti del lavoro vivo che a quella realtà si oppongono avanzando una
pretesa di liberazione da sfruttamento e oppressione”. In altre parole, si
tratta della forma del rapporto sociale tra capitale e lavoro che si pone su
scala globale. Che tale forma sia favorevole al primo è accidentale, non
necessitato dalla forma in generale. Esso è al contrario “espressione storica di
un conflitto che oggi si presenta come una latente, ma costante, lotta di classe
in cerca di organizzazione”.
Capitale e lavoro vivo si confrontano non nel campo della sovranità statale come
per gran parte del “secolo breve”, né sullo spazio liscio indeterminato e
generico del “Globo”: i flussi della produzione e della riproduzione del valore
scivolano continuamente sopra la distinzione tra sovranità nazionale (che non è
mai scomparsa) e globalità, dunque il transnazionale non può in alcun caso
“imporre un ordine globale stabile e continuativo”. ꭍconnessioni precarie
sottolinea che tale rapporto sociale, pur favorevole al capitale, non è mai
posto da esso: si tratta di una relazione sociale. Là dove si dà accumulazione
capitalistica (transnazionale) si danno le lotte e la loro possibilità di
vittoria. Ciò che manca non sono queste lotte, bensì un’“adeguata elaborazione
della politicità transnazionale del lavoro vivo”, una elaborazione che è resa
difficile precisamente dal fatto che il transnazionale consiste in un disordine
globale, “nel senso che è privo di possibilità di ricomposizione istituzionale o
politica della classe dentro le forme storiche del nazionale e
dell’internazionale”.
> La pace non è assenza di guerra, ma fine delle condizioni che la riproducono;
> è una trasformazione strutturale interna al sistema sociale che rende
> difficile il verificarsi di nuove guerre.
Da questo punto di vista la centralità della tematica dell’organizzazione, che
attraversa tutto il lavoro, non deve stupire. L’articolazione del lavoro vivo e
delle sue lotte su scala transnazionale (né nazionale, né immediatamente
globale) è dunque l’obiettivo politico minimo indispensabile. E per raggiungerlo
serve considerare come tutti i blocchi identitari posti da nazioni, appartenenza
a popoli determinati, a generi o a sessi “interdicono il riferimento alla
classe”, cioè di “vedere l’incessante movimento storico del lavoro vivo”.
Ma questo piano organizzativo non può risolversi nella forma sindacato
comunemente intesa, perché questo lavoro vivo non è la classe per come la si era
teorizzata nel corso del Novecento: è composta da differenze (operai, precari,
donne, LGBTQ+, migranti) che esistono in relazione a un prelievo incessante di
forza lavoro che viene loro imposto dal modo di produzione capitalistico nella
sua forma transnazionale. Di conseguenza queste differenti soggettività
praticano una “incessante lotta di classe” che si tratta di rendere efficace
articolandola. Nemmeno lo Stato, pensato come “articolazione in processo” e non
come forma identica a sé stessa, identica attraverso i decenni, è in quanto tale
uno spazio sufficiente per lo svolgimento di queste lotte. Questo perché lo
Stato non basta al capitale per organizzarsi su scala nazionale, l’unica
accessibile allo Stato come struttura. La pur rilevante presenza dello Stato
come “attore dotato di capacità giuridiche, militari, di comando e decisione”
(p. 38), che lo rende un campo di battaglia, non lo rende però una parte con cui
si tratterebbe di schierarsi contro un’altra (quella, appunto, del capitale).
Essendo un libro d’intervento nell’ambito dei movimenti, va sottolineato il modo
in cui le autrici e gli autori si rivolgono a quello che è a loro avviso il
senso comune dei discorsi movimentisti contemporanei. Esse ritengono si tratti,
sostanzialmente, di una connessione perversa tra il decoloniale e il campismo,
di cui il primo è divenuto una sorta di attributo. Proprio laddove il
decoloniale è capace di mettere in discussione alcune sicurezze di una parte del
mondo, pare essere divenuto incapace di rigettare le proprie. Infatti, secondo
le autrici e gli autori, nel discorso decoloniale “il colonialismo è questo: non
una fase storica che viene messa in discussione dai processi di decolonizzazione
e dai movimenti indisciplinati dei e delle migranti che squarciano la presunta
omogeneità tanto dei popoli delle ex colonie, quanto di quelli del Primo mondo,
ma una violenza originaria che si rigenera infinitamente sempre uguale a sé
stessa”.
Il decoloniale ricerca l’identità perduta dei popoli colonizzati, non il
movimento possibile di liberazione delle soggettività sfruttate e oppresse dal
modo di produzione capitalistico e dalle guerre che esso genera per ripristinare
vettori di accumulazione. Non si tratta di inventare spazi politici entro i
quali queste soggettività, nelle loro differenze, possano muoversi in un’ottica
condivisa di emancipazione, ma di ricostituire forme di esistenza precoloniali
(sopravvissute a secoli di colonialismo). Si tratta, com’è evidente, di una
delle torsioni che il dibattito nei movimenti ha oramai assunto: rompere con
Israele e la NATO significherebbe (dal punto di vista degli obiettivi politici)
ripristinare gli spazi perduti di libertà dei palestinesi come popolo ancestrale
presente in Palestina da secoli (la sua dignità) e a questo scopo non sarebbe in
alcun modo problematico schierarsi dalla parte dell’“Asse della resistenza”,
nella misura in cui questa è la posizione di Hamas e di una supposta maggioranza
del popolo palestinese. L’idea sottostante “è chiara: solo chi è palestinese per
nascita può parlare, e solo chi è palestinese può decidere come quella lotta
debba essere portata avanti”. Questo, è palese, tramuta la “posizionalità” da
strumento a pulpito non criticabile, una posizione che in quanto situata nel
luogo dell’originario che viene attaccato dal potere coloniale renderebbe divina
la parola di chi la abita.
> L’articolazione del lavoro vivo e delle sue lotte su scala transnazionale è
> l’obiettivo, mentre i blocchi identitari posti da nazioni, appartenenza a
> popoli determinati, a generi o a sessi impediscono il riferimento alla classe.
In questo modo, sostiene ꭍconnessioni precarie, non solo si vive in un mondo
assurdo, un mondo cioè dove sarebbe possibile il ritorno a un’origine mistica e
dunque una politica (letteralmente) reazionaria, ma non si coglie la Terza
guerra mondiale come espressione di un rapporto sociale transnazionale in cui
siamo tutte implicate. Quanto va sottolineato è che se è vero che a Gaza vengono
macellati decine di migliaia di innocenti, è anche vero che i palestinesi non
sono una massa indistinta e priva di differenze interne, di divisioni di sesso e
di classe. Allo stesso tempo, quindi, è falso che gli interessi di centinaia di
migliaia di loro coincidano con la semplice liberazione dalla violenza dello
Stato di Israele (gli abitanti di esso comprendendo tuttavia a sua volta
proletari, donne e soggettività LGBTQ+ oppresse).
Anche in uno Stato palestinese, o in uno Stato unico non confessionale, si
abbatterebbe quotidianamente su operai, precari, donne, LGBTQ+, migranti, la
violenza del modo di produzione capitalistico. Si risponderà che essa non è pari
a quella dello Stato di Israele in corso. Questo è certamente vero, ma è anche
vero che dalla prima deriva la seconda: ripristinare la prima come “normale”
significa porre le condizioni della seconda. Il campismo oscura proprio queste
differenze interne, non riconoscendo l’esistenza di un “Nord nel Sud e di un Sud
nel Nord”. Si noti come questo modo di porre la questione faccia de facto
coincidere la posizione decoloniale con quella, non a caso così frequentata
oggi, della geopolitica, che riduce quanto avviene del mondo a una serie di
posizioni, soggettività, interessi immediatamente statuali o al massimo
nazionali (trattando i popoli come soggettività monolitiche, indistinte, con una
volontà determinata a priori).
In questo contesto analitico si inserisce la critica all’utilizzo fatto dai
movimenti del concetto di resistenza, sia sul piano dell’analisi che su quello
degli slogan da utilizzare per inserirsi nel dibattito pubblico. Le autrici e
gli autori, innanzitutto, ricordano che “nella Terza guerra mondiale resistenza
vuol dire tante cose”. Peraltro, il concetto stesso di “resistenza” non ha fatto
parte del lessico comunista fino alla Seconda guerra mondiale (nel secolo
precedente a essa, infatti, il movimento comunista non è interessato a
resistere, ma ad attaccare): il suo significato emancipativo è stato dato dalla
modalità concreta, storicamente determinata, con cui le partigiane e i
partigiani hanno effettivamente resistito, prima, e da come è stato utilizzato
il termine, poi. Se si vuole continuare ad attuare la resistenza come forza di
opposizione (e non semplice opposizione a una forza), è necessario
disidentificare la resistenza con l’essere dalla parte giusta.
Resistere a una forza non significa essere nel giusto: l’Iran, sostengono le
autrici e gli autori, resiste alla NATO, ma opprime donne e minoranze.
Schierarsi dalla parte dello Stato iraniano per questo significa appunto cedere
al campismo, stabilire che si tratta di scegliere la resistenza “più forte”.
Significa porre una gerarchia delle oppressioni, in cui il diritto all’esistenza
delle donne e soggettività LGBTQ+ nate in Iran, ad esempio, deve essere messo da
parte per garantire la maggior gloria dell’“Asse della resistenza”, che va da
Pechino a Teheran, passando per le ville degli oligarchi russi che sostengono
Putin e i miliardari conti in banca dei leader di Hamas.
> La pace sociale è da sempre funzionale alla guerra reale.
Concludiamo dall’inizio del libro, sollevando la questione forse teoricamente
più rilevante di tutto il lavoro. Per le autrici e gli autori l’esito e allo
stesso tempo l’effetto della Terza guerra mondiale è il militarismo, che non è
un atteggiamento istituzionale e/o culturale, ma una modalità ideologica di
realizzare la riproduzione sociale. Il militarismo pervade le nostre società in
molti sensi: non solo “prepara alla guerra, ma abitua all’idea che essa sia in
qualche modo necessaria”. Da questo punto di vista il campismo è parte
integrante del militarismo per come lo intendono le autrici e gli autori. Esso è
quindi complice della restrizione dello spazio delle lotte che è ovvia
conseguenza dell’irrigidirsi dei fronti e della tolleranza spesso manifestata
anche dai movimenti verso forme di autoritarismo, patriarcato e razzismo dei
membri del campo che si è scelto. Ci si sacrifica, cioè, al proprio campo,
esattamente come le istituzioni del movimento operaio (con alcune lodevoli
eccezioni) sacrificarono sé stesse sull’altare della grandezza nazionale nel
1914.
Questa scelta politica, viene affermato nel libro, è intrinsecamente perdente,
non può che portare alla sconfitta e proseguire la disorganizzazione globale del
lavoro vivo (sulle forme possibili della quale, va detto, esse non dicono in fin
dei conti molto). Essa porta a sottomettere i sogni e le speranze di milioni di
migranti, donne, precari, operai, LGBTQ+ a soluzioni che non sono semplici
compromessi, ma sconfitte decisive che porterebbero il mondo in uno stato che
riproporrebbe all’infinito il ciclo di guerre, tregue e paci momentanee che
compongono la Terza guerra mondiale. Lo slogan che le autrici e gli autori
assumono concludendo il libro, cioè Strike the war, significa precisamente
questo: organizzare il conflitto socialmente, superando i blocchi che campismo e
multipolarismo vorrebbero imporre, rifiutando i genocidi e l’autoritarismo che
la militarizzazione delle nostre società sta imponendo. La pace sociale è da
sempre funzionale alla guerra reale. Spezzarla, cioè organizzare uno sciopero
transnazionale contro la guerra e il suo mondo, è l’obiettivo che ꭍconnessioni
precarie ritiene proprio di un movimento rivoluzionario. Caesarem vehis!
L'articolo Nella Terza guerra mondiale di ꭍconnessioni precarie proviene da Il
Tascabile.