“Un atto di terrorismo”. È netta, priva di dubbi, la prima reazione di Donald
Trump all’attacco di Washington. Non ci sono ancora dettagli certi su ragioni e
background dell’attentatore, ma il presidente – in un video registrato a
Mar-a-Lago, dove si trova per il Giorno del Ringraziamento – usa la sparatoria
per attaccare l’amministrazione Biden e sottolineare “la più significativa
minaccia alla sicurezza nazionale che la nostra nazione deve fronteggiare”. In
arrivo, con ogni probabilità, una nuova stretta su immigrazione e diritti.
Non è un momento politicamente facile per Trump. Economia, Epstein Files,
tensioni nel mondo MAGA, Ucraina, redistribuzione dei distretti elettorali: sono
tante le questioni che rendono tortuoso e difficile il governo del presidente,
precipitato al 40% di gradimento tra gli americani – nemmeno l’impopolare Joe
Biden era così impopolare. La sparatoria di Washington gli può però dare nuovo
ossigeno politico, consentendogli di riposizionare il dibattito sulla linea che
gli è più congeniale: quella della sicurezza, dell’ordine interno minacciato da
immigrati e terroristi.
Nel video da Mar-a-Lago, Trump è stato veloce nell’attribuire
all’amministrazione Biden la responsabilità dell’attacco: “Dobbiamo riesaminare
ogni singolo straniero entrato nel nostro Paese dall’Afghanistan sotto la
presidenza di Biden, un presidente disastroso, il peggiore della nostra storia”.
In effetti Rahmanullah Lakanwal, il 29enne considerato responsabile del
ferimento dei due membri della Guardia Nazionale, è arrivato negli Stati Uniti
dall’Afghanistan nel settembre 2021, nell’ambito di un programma introdotto da
Joe Biden e chiamato Operation Allies Welcome. L’intenzione era quella di
aiutare quegli afghani che hanno svolto un ruolo fondamentale nel supportare le
truppe statunitensi durante la guerra e l’occupazione – traduttori, fornitori di
servizi, collaboratori vari – e che ora si trovano a rischio di ritorsioni da
parte dei talebani.
A differenza di quello che sostengono alcuni membri dell’amministrazione, il
programma non concede comunque uno status di immigrazione permanente, ma solo
due anni di soggiorno, dopo i quali gli afghani devono trovare altri mezzi per
restare negli Stati Uniti – tra questi, la richiesta di asilo politico. Dopo
l’attacco di Washington, gli U.S. Citizenship and Immigration Services hanno
sospeso “a tempo indeterminato l’elaborazione di tutte le richieste di
immigrazione relative a cittadini afghani, in attesa di un’ulteriore revisione
dei protocolli di sicurezza e di controllo”. L’Afghanistan faceva però già parte
di quei Paesi – insieme a Myanmar, Ciad, Repubblica Democratica del Congo,
Guinea Equatoriale, Eritrea, Haiti, Iran, Libia, Somalia, Sudan e Yemen – per i
quali dallo scorso luglio è stata sospesa la concessione dei visti. Il
provvedimento attuale va quindi a colpire gli afghani che si trovano già negli
Stati Uniti e che cercano di rimanervi con la richiesta di green card o asilo
politico.
L’orizzonte di vita degli afghani negli Stati Uniti rischia dunque di diventare
particolarmente cupo. Per molti di loro, si prospetta il rimpatrio e le
probabili persecuzioni dei Talebani. C’è però di più. Nel video da Mar-a-Lago,
Trump si è scagliato contro gli immigrati somali in Minnesota. Ha affermato che
stanno “derubando il nostro Paese e facendo a pezzi quello che un tempo era un
grande Stato”. Particolarmente pesante anche la rappresentazione che il
presidente ha dato della Somalia, descritta come un Paese “senza leggi, senza
acqua, senza esercito, senza niente”. L’attacco ai somali potrebbe apparire
singolare, essendo un afghano il responsabile dell’attacco. In realtà, le frasi
di Trump hanno un senso preciso. L’amministrazione Usa sta cercando di revocare
lo “status di protezione temporanea” per migliaia di persone che provengono da
zone pericolose del pianeta, cui negli anni passati era stata data accoglienza
temporanea. Trump ha già revocato la protezione a 300mila venezuelani e nei
giorni scorsi ha annunciato la fine del programma che ha consentito a migliaia
di somali di fuggire la guerra civile e godere dei programmi sociali e di
accoglienza particolarmente benevoli del Minnesota, uno Stato del Midwest
governato dal democratico Tim Walz. Ecco, quindi, che l’attacco di Washington
potrebbe essere utilizzato per far partire una stretta ulteriore
sull’immigrazione. Nel mirino dell’amministrazione non ci sarebbero soltanto gli
afghani ma quei “venti milioni di stranieri” – cifra che non ha alcun riscontro
nella realtà ma che Trump ha ripetuto nel video da Mar-a-Lago – che Biden
avrebbe fatto entrare illegalmente negli Stati Uniti.
Oltre che sull’immigrazione, l’attacco di Washington avrà effetti probabili
anche sulle questioni di ordine pubblico. Sempre nel video registrato dopo la
sparatoria, Trump parla dell’operazione di sicurezza “di maggior successo nella
storia della nostra capitale”. Il presidente si riferisce all’invio a
Washington, lo scorso agosto, di oltre duemila soldati della Guardia Nazionale.
Le truppe, oltre che dalla capitale, erano arrivate da West Virginia, Alabama,
Louisiana, Mississippi, Ohio, South Carolina. Trump, che aveva assunto anche il
controllo della polizia cittadina, aveva giustificato la decisione parlando di
una città “travolta da criminalità e illegalità”. La mossa aveva sollevato le
proteste della sindaca della capitale, la democratica Muriel Bowser, e di molti
residenti, che non si ritrovano nella descrizione così estrema e minacciosa
della loro città. Dubbi e polemiche si erano allargati ben al di fuori della
capitale. Alcuni tra gli stessi responsabili e membri della Guardia Nazionale,
di solito utilizzate a fini di assistenza umanitaria all’interno dei confini
americani, avevano espresso il timore di essere coinvolti in disordini,
proteste, violenze, repressione che non fanno solitamente parte delle loro
incombenze.
Ne era nata una diatriba legale – come peraltro in ogni altra città Usa dove
sono stare dispiegate le truppe – che ha avuto un esito temporaneo la settimana
scorsa, quando una giudice federale di Washington DC ha stabilito che la
combinazione di truppe provenienti da diversi Stati, riunite a Washington sotto
un comando centrale, costituisce un uso illecito – e quindi “probabilmente
illegale” – della Guardia Nazionale. La giudice ha sospeso la sua decisione fino
all’11 dicembre, per rendere anche possibile il ricorso, poi puntualmente
arrivato, dell’amministrazione. Oltre al ricorso, è però a questo punto arrivato
anche l’attacco di Washington. Il segretario alla giustizia, Pete Hegseth, ha
subito annunciato l’invio nella capitale di altri 500 soldati. Intanto, il
generale di brigata David L. McGinnis, ex capo di stato maggiore della “National
Guard Association of the United States”, afferma che l’attacco rappresenta “un
altro buon motivo per cui dobbiamo schierare la Guardia Nazionale in ogni strada
di ogni città democratica del Paese”. Aspettiamoci dunque, nei prossimi giorni,
un rinnovato slancio retorico da parte di Trump e dei suoi alleati nel chiedere
il dispiegamento di militari per le strade di mezza America.
L'articolo Così Trump proverà a sfruttare la sparatoria di Washington: attacchi
a Biden, stretta su immigrazione e sicurezza ed espulsioni di massa proviene da
Il Fatto Quotidiano.