P er degli inspiegabili sommovimenti dell’algoritmo, qualche settimana fa sul
mio feed è comparso un video postato da un anonimo profilo privato, non
dissimile da quello di qualsiasi vostro conoscente o amico. A prima vista il
reel postato da @aaayushh245 – questo il nome dell’account – non è troppo
diverso dai migliaia di contenuti che ogni giorno invadono Instagram o Tik Tok:
una sequenza di spezzoni visivi dalla durata di pochi frame, montati uno di
seguito all’altro, con un breve testo in primo piano e un sottofondo musicale
d’accompagnamento.
Solo che in questo caso, a differenza del solito pattume che dura lo spazio di
uno scroll, il reel si differenziava non solo per la scelta musicale, piuttosto
dissonante rispetto al contesto, ma anche per il messaggio stesso veicolato dal
testo. Sul ritornello di The Winner Takes It All degli Abba, infatti, il video
proponeva una sequenza di palazzi in fiamme, rivolte, scontri con la polizia,
folle che incitano alla devastazione e al linciaggio. È questa una testimonianza
di quanto accaduto in Nepal a inizio settembre, dove, a seguito del divieto di
utilizzo dei social media e in risposta agli altissimi livelli di corruzione,
giovani e giovanissimi sono scesi in piazza, di fatto rovesciando il governo in
carica nell’arco di 48 ore. La “rivolta della Gen Z” – com’è stata denominata a
seguito dell’età della maggior parte dei manifestanti – è, a conti fatti, una
rivoluzione che – attraverso una votazione su Discord! – ha portato Sushila
Karki, ex presidente della Corte suprema, a essere la prima donna premier del
Paese.
Questo risultato, com’è immaginabile, è frutto di un’ingente e incontrollata
dose di violenza, che il summenzionato video non manca di mostrare. Hanno fatto
il giro del web le immagini del ministro delle Finanze che, spogliato, viene
inseguito nel fiume dai manifestanti. Il Parlamento, come la casa del primo
ministro e di altri membri di spicco dell’amministrazione nepalese sono stati
dati alle fiamme. Stessa sorte è toccata all’hotel Hilton di Katmandu, alle sedi
dei media considerati vicini all’establishment, ma anche alla sede del Nepali
Congress, il principale partito di opposizione. Sher Bahadur Deuba, leader
dell’opposizione, e la moglie Arzu Rana Deuba, a capo del ministero degli Affari
esteri, sono stati filmati mentre venivano presi a calci e pugni. Il bilancio
parla di oltre 400 feriti e decine di morti, tra cui anche la moglie dell’ex
primo ministro Jhala Nath Khanal, arsa viva quando la folla ha appiccato fuoco
alla sua casa.
L’elemento di fatale attrazione del video, però, è proprio la consapevolezza
dell’autore dell’ambiguità di una protesta dal basso che si alimenta e ha
successo attraverso la violenza. Infatti, mentre le immagini scorrono, la
scritta in sovrimpressione recita: “Abbiamo vinto! Ma a che prezzo? Forse è
quello che serviva. Dobbiamo accettare questo fatto: rivoluzione e violenza
procedono mano nella mano. Eppure, resta da capire se abbiamo vinto davvero”.
> L’agire esplicitamente violento della protesta nepalese viene situato in una
> zona grigia, in cui affiorano dubbi sulla legittimità e sulla necessità del
> gesto, così come sulle sue conseguenze.
Questa testimonianza è eccezionale non tanto perché mostra la geopolitica
internazionale in presa diretta, quanto perché è una delle rare volte in cui
l’azione politica viene tematizzata in un modo non univoco dai suoi stessi
protagonisti. Di conseguenza, l’agire esplicitamente violento della protesta
viene situato in una zona grigia, in cui affiorano dubbi sulla legittimità e
sulla necessità del gesto, così come sulle sue conseguenze. Il caso
discretamente istruttivo del Nepal riassume una serie di temi che, nonostante lo
strepitio di voci in merito alla violenza fisica e verbale nell’agone politico
contemporaneo, sembrano quasi assenti dal dibattito mainstream sul tema. Al di
là della retorica del giusto-o-sbagliato, il video di @aaayushh245 esemplifica
alcune questioni dirimenti, che toccano non solo le modalità di fruizione della
violenza, ma anche la legittimità e le conseguenze di tale posizionamento.
Fruizione
Sulla scia di Noam Chomsky e del suo classico La fabbrica del consenso. La
politica e i mass media (1988), pare oggi vieppiù lampante che la presunta
neutralità degli organi di informazione sia minata di continuo, anche nei Paesi
considerati fari della democrazia, in un’ottica di costruzione del consenso per
mezzi propagandistici. E d’altra parte pare pienamente compiuta la profezia di
Guy Debord contenuta in La società dello spettacolo (1967), come dimostra il
recente Lo stratega contro (2025) a firma di Gabriele Fadini, che conferma
l’attualità del filosofo francese. In una società in cui la spettacolarizzazione
della vita quotidiana operata dai mezzi di comunicazione ha raggiunto lo zenith,
saturando con la sua presenza ogni momento della vita privata, si decuplicano le
possibilità di essere sottoposti a immagini di violenza mediatizzata, ovvero
veicolata dai media.
Se si considerano insieme la parzialità delle narrazioni mainstream e la
spettacolarizzazione dell’oggetto dell’informazione, mi parrebbe utile, posti di
fronte all’evenienza della violenza, interrogarsi non solo sul cosa, ma sul come
viene veicolata, narrata, propagandata e, spesso, omessa la violenza. Poiché la
presenza del medium a fare da filtro tra noi e l’evento reale – una guerra, un
omicidio, una rissa tra manifestanti e polizia, continuate voi – non è neutra:
provare a capirne la natura parziale e l’effetto che genera sul contenuto
potrebbe essere importante per un’analisi che non si fermi alla violenza in sé,
ma che provi a porla in rapporto causale con il contesto.
È chiaro, per fare un esempio, che le immagini dei militanti dell’Isis che
decapitano i prigionieri politici a favore di telecamere porta lo spettatore
immediatamente a empatizzare col condannato. Tuttavia, il modo in cui quelle
immagini ci sono state proposte, segmentate all’interno al flusso di altre
notizie, programmi e pubblicità, rende complesso ricordare che l’ascesa di
al-Qaeda – da cui poi avrà vita l’Isis – è frutto anche del vuoto di potere
creato dall’invasione statunitense in Iraq nel 2003.
> Il processo di spettacolarizzazione del conflitto comporta un livellamento
> verso il basso del cuore semantico dell’informazione, una riduzione della
> violenza a contenuto mediatico.
Allo stesso modo, le immagini dei bombardamenti in Ucraina generano subito una
risposta emotiva nel pubblico occidentale. Tuttavia, questa ha reso difficoltosa
la ricostruzione del complesso panorama geopolitico che ha fatto da sfondo al
logorio dei rapporti tra Russia e blocco occidentale. Il processo di
spettacolarizzazione del conflitto – iniziato forse da qualche parte tra la
prima Guerra del Golfo e l’attacco alle Torri gemelle – comporta un livellamento
verso il basso del cuore semantico dell’informazione, una riduzione della
violenza a contenuto mediatico, a slide di Instagram, a video di TikTok, creato
velocemente per essere consumato velocemente e altrettanto velocemente gettato
via.
Parlando della cultura promossa dai media, Jean Baudrillard diceva che nella
società odierna “questa diviene oggetto di consumo nella misura in cui […]
diviene sostituibile e omogenea (sebbene gerarchicamente superiore) ad altri
oggetti”. Qualcosa di simile si potrebbe dire per la violenza. Nel cyberspazio
generato dai media, da un punto di vista di fruizione, non c’è praticamente
nessuna differenza, per esempio, tra una guerra e la sintesi di una partita di
calcio. Ma capirne le modalità di fruizione è essenziale per stabilire delle
contronarrazioni che tematizzino la violenza in senso storico, critico e
politico. Il rischio, altrimenti, è quello di relazionarci di fronte a essa
nello stesso modo in cui il tifoso prende parte al rito collettivo della
partita, in cui si amano i buoni – la propria squadra – e si odiano i cattivi –
gli avversari.
Riflessione
L’omicidio dell’attivista della destra americana estrema Charlie Kirk, colpito
da un’arma da fuoco durante un incontro con gli studenti in un campus
universitario nello Utah, è abbastanza esplicativo della reazione dell’opinione
pubblica di fronte alla violenza. Nonostante in Italia fosse già tarda serata,
per puro caso ho avuto l’occasione di seguire in diretta sui media americani la
cronistoria dell’evento. Fin dai primissimi minuti il popolo di Internet si è
spaccato tra chi glorificava Kirk come martire della libertà di pensiero e del
diritto di parola e chi gioiva per l’attentato a danno di un pericoloso
promotore di ideologie intolleranti e violente.
Questa dialettica degli schieramenti opposti è stata subito fatta propria dai
politici statunitensi e poi europei. I repubblicani hanno addossato le colpe
dell’omicidio alla sinistra fintamente liberale, rea di incitare all’odio e di
voler silenziare chi non la pensa come loro. I democratici, pur condannando in
toto l’omicidio, hanno respinto al mittente, dicendo che è invece la destra MAGA
(Make America Great Again) a fomentare un clima di violenza in un Paese in cui
il tema del possesso delle armi è, oggettivamente, un problema. E tutto questo
ben prima che venisse arrestato il presunto autore dell’attentato, il
ventiduenne Tyler Robinson che, stando a quanto si conosce al momento, non
corrisponde all’identikit del pericoloso leftist radicale a cui si pensava nelle
prime ore.
> L’omicidio di Charlie Kirk, colpito da un’arma da fuoco durante un incontro
> con gli studenti in un campus universitario nello Utah, è abbastanza
> esplicativo della reazione dell’opinione pubblica di fronte alla violenza.
Nonostante l’omicidio di Kirk rientri in uno scontro tutto statunitense tra MAGA
e liberals, anche da noi accuse, controaccuse, strumentalizzazioni e propaganda
hanno subito fatto perdere il punto della questione. Il modo in cui l’omicidio è
stato narrato, ha fatto sì che si sia passati immediatamente dal fatto, alle
possibilità strumentali del fatto. Eradicata dal rapporto di causalità con il
contesto americano, la violenza è stata usata solo in senso simbolico per un
fuoco incrociato di slogan – che, per inciso, di certo non stemperano gli animi,
ma anzi li infiammano, trasferendo sul piano verbale la violenza fisica.
Mi pare esplicativo che l’intero spettro della sinistra internazionale abbia
speso molte energie per “prendere le distanze” dal killer. Non solo è un
paradosso logico doversi distanziare da qualcuno con cui non si ha nessuna
vicinanza fattuale, ma farlo per dover ribadire quello che è naturalmente e
giuridicamente un caposaldo del dibattito democratico – la condanna della
violenza – è un’aporia del sistema. Il fatto che io stesso mi senta qui
obbligato a esplicitare la ferma condanna rispetto a quanto accaduto per evitare
di incappare in accuse di giustificazionismo è esplicativo di come la violenza,
anche a sinistra, sia ormai introiettata nel discorso politico solo per la sua
componente spettacolarmente simbolica, mentre manca qualsiasi tipo di analisi
materialista.
Un’operazione di questo genere non rientra, storicamente, né negli interessi,
né, forse, nelle capacità di una destra che trae il suo potere mediatico – e
anche il suo appoggio elettorale – dalla semplificazione per estremi e dalla
polarizzazione del dibattito, per cui l’uso strumentale della violenza è di
supporto alla creazione del consenso e al mantenimento del potere – e qui si
guardi, ancora, al già citato Chomsky. Tuttavia, è lecito aspettarsi da chiunque
afferisca all’ampio spettro della sinistra un approccio alla violenza in campo
politico che sappia interpretarla attraverso l’analisi delle condizioni
materiali, delle basi economiche e delle relazioni tra classi sociali, piuttosto
che attraverso valori e ideali astratti. Un approccio di questo tipo non è solo
legittimo, ma necessario per provare a capire a favore di chi gioca la violenza.
Chi trae vantaggio dall’uso della violenza in campo politico? Quali rapporti di
forza si nascondono dietro l’uso della violenza? E, soprattutto, quale influenza
ha la violenza sull’agentività del nostro schieramento politico nell’ottica di
una rinata (ma forse mai estinta) lotta di classe?
Al di là dei possibili discorsi etici sul personaggio, se analizzato in
quest’ottica, l’omicidio Kirk non sono sicuro vada a vantaggio della sinistra
democratica. L’evento, infatti, fornisce alla destra trumpiana – e poi
internazionale – non solo un martire, ma il lasciapassare ideologico per
l’inasprimento di una retorica securitaria che diventa poi pratica repressiva. E
poco importa se il presunto killer non è un radicale, fricchettone, esaltato di
sinistra, né che, negli ultimi dieci anni, la percentuale degli omicidi
riconducibili alla destra estrema sul numero di azioni violente commesse a fini
ideologici negli Stati Uniti sia di oltre il 75% (dati: Anti Defamation League).
Tutto ciò, tra l’altro, non sposta di una virgola i rapporti di forza rispetto
alle rivendicazioni delle classi sociali povere e delle minoranze nei confronti
della repressione statale.
> Non solo è un paradosso logico doversi distanziare da qualcuno con cui non si
> ha nessuna vicinanza fattuale, ma farlo per dover ribadire quello che è
> naturalmente e giuridicamente un caposaldo del dibattito democratico – la
> condanna della violenza – è un’aporia del sistema.
Dall’altra parte, quello che non si sta riuscendo a fare nel caso di Kirk, è
riuscito, almeno in parte, con Gaza. Dico “in parte”, perché ancora una volta
l’analisi materialista del genocidio è stata condotta pressoché in toto al di
fuori della politica dei partiti e promossa dalla società civile, da attivisti,
da organi di ricerca indipendenti e da un’esigua parte della stampa
internazionale. Questi attori, però, hanno contribuito a mantenere viva
l’attenzione sui crimini commessi da Israele, tanto a livello mediatico che
politico, attraverso un’intensa attività di mobilitazione dal basso. Il
movimento pro-Palestina è stato abile nel tenere insieme tanto la condanna alla
violenza contro i civili, quanto l’analisi degli interessi politici ed economici
che sostanziano l’intento genocidario – poi rilanciati in sede istituzionale dai
report della relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese (Genocide as
Colonial Erasure e From Economy of Occupation to Economy of Genocide).
La condanna ideologica, unita a un’analisi materialista del genocidio, non solo
ha impedito una lenta, ma spesso inesorabile assuefazione alla violenza, ma ha
denunciato in maniera fragorosa la vergognosa complicità nella mattanza di un
Occidente “necrocapitalista”, razzista e imperialista. Il successo, almeno
parziale, di tale narrazione mi pare verificabile se si considera che anche nel
dibattito mainstream molti sono costretti a riconoscere la propaganda sionista
per quello che è. Il “conflitto per la liberazione degli ostaggi” è per tanti –
anche per l’ONU, ma non per molti vessilliferi del moderatismo – un genocidio. I
tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica da parte di Israele – come
l’invio di influencer nella Striscia per testimoniare i presunti aiuti umanitari
da parte dell’Idf – risultano grotteschi. Le parole di ministri come Smotrich e
Ben-Gvir non sono più le boutade di qualche estremista, ma le dichiarazioni
d’intenti di criminali di guerra. Questo, come si può vedere, non vuol dire che
la politica assecondi o sostenga le richieste del movimento pro-Pal. Anzi,
tutt’altro. Ma la verità sostanziale dei fatti affiancata a principi di
carattere etico-morale fornisce il fuoco ideologico delle rivendicazioni che,
nell’intento dei manifestanti, non sono destinate a rimanere solo sul piano
simbolico dell’utopia.
Azione
Per quello che se ne capisce, l’approccio fin qui descritto diventa il minimo
comune denominatore necessario nel momento in cui la speculazione teorica vuole
diventare pratica attiva. Come dimostra il prima citato esempio del Nepal, è
possibile che arrivi un momento in cui sarà doveroso interrogarsi sulla
necessità o meno della violenza, su come esercitarla e in che grado. Mi pare
superfluo ribadire – ma di questi tempi non è mai troppo – che l’adesione totale
alla non-violenza è il presupposto minimo per poter partecipare al dibattito
democratico. E tuttavia, il paradosso democratico enunciato da Karl Popper in La
società aperta e i suoi nemici (1945) impone un certo grado di repressione verso
gli intolleranti al fine di salvaguardare lo stesso sistema democratico.
In termini pratici, come ci insegnano innumerevoli esempi di storia, questo si
traduce in una continua negoziazione sulla necessità e sulla legittimità della
violenza in senso politico quando le regole del gioco democratico vengono meno.
Quale dialettica è possibile con un’ipotetica squadraccia fascista che viene a
rastrellare gli oppositori politici? Interrogato sulla questione, Sandro
Pertini, figura che difficilmente potrà essere accusata di populismo, la
risposta pareva averla molto chiara. E tuttavia, nelle nostre società
contemporanee pare un sacrilegio anche solo teorizzare una possibile risposta
violenta, pure laddove questa risponda solamente a scopi difensivi.
> Il movimento pro-Palestina è stato abile nel tenere insieme tanto la condanna
> alla violenza contro i civili, quanto l’analisi degli interessi politici ed
> economici che sostanziano l’intento genocidario.
A questo proposito, vale la pena riprendere le parole del sociologo francese
Nicolas Framont pubblicate nella newsletter di settembre del progetto di
estetica politica Iconografie (@iconografiexxi). Framont sottolinea come, al di
là dell’ordinamento giuridico-costituzionale sulla base del quale giudichiamo
qualsiasi forma di violenza dal basso come intrinsecamente esecrabile, chi
detiene il potere – la “classe borghese”, per lui – esercita nei fatti un grado
di violenza altissimo, giustificato in quanto statalizzato. Le élite del potere
capitalista, dunque, non solo continuano a teorizzare la necessità della
violenza, ma non hanno nessuna remora nell’esercitarla, in spregio a qualsiasi
tipo di ordinamento giuridico.
Di esempi, anche in questo caso, se ne potrebbero fare molti: dalla repressione
violenta delle manifestazioni di piazza da parte della polizia – pratica
talmente diffusa che ormai non fa più notizia – alla violenza nelle carceri,
fino, per venire a un caso specificatamente italiano, al trasferimento forzato
nei centri per migranti in Albania. Per rendersi conto del grado di violenza
introiettato e normalizzato da parte degli apparati statali, basta una lettura
dei report annuali di Amnesty International. Rispetto a questa legittimazione de
facto della violenza da parte di chi detiene il potere – che non vuol dire solo
potere legislativo, ma anche economico – mi sembra significativo il post che
Trump ha pubblicato su Truth in data 6 settembre, con il quale minacciava
Chicago di un inasprimento delle politiche anti-immigrazione e una maggior
repressione da parte delle forze dell’ordine federali. Il post, accompagnato da
un’immagine generata dall’Intelligenza artificiale con il presidente degli Stati
Uniti in panni militari in un chiaro riferimento al film Apocalypse Now,
recitava: “‘Mi piace l’odore delle deportazioni al mattino…’ Chicago sta per
scoprire perché è chiamato Dipartimento della GUERRA”.
Ancora una volta, tuttavia, l’esempio più denso di senso rimane il genocidio in
corso a Gaza, per la sua capacità di dare forma plastica – addirittura
quantificabile, negli oltre 60.000 morti – alla pratica omicida portata avanti
nel nome della “democrazia” israeliana e dell’Occidente “civilizzato”. La
radicalità della violenza perpetrata sulla pelle del popolo palestinese è
esplicativa della morale vergognosa con cui il consesso delle grandi democrazie
dell’Occidente non prova, nei fatti, nessun tipo di moto di fronte all’eccidio
di civili inermi, ma si affretta a gettare strali e biasimo su un manifestante
che tira un sampietrino durante una manifestazione.
Per dirla con le parole di Franco Palazzi, autore di La politica della rabbia
(2021), “da una parte lo stato liberaldemocratico fa manifestamente impiego di
numerose forme di violenza tanto diretta […], quanto indiretta […]; dall’altra
la menzione della violenza appare ammissibile nella sfera pubblica
liberaldemocratica unicamente nel registro retorico della condanna”. Per
Palazzi, “queste contraddizioni sono il frutto della scarsa capacità
contemporanea di pensare la politica al di là dell’ipoteca, a un tempo
istituzionale e concettuale, dello stato moderno”. Ma è proprio da questo tipo
di squilibri che deriverebbe, secondo Framont, la simpatia di larghe fasce della
popolazione verso figure come quella di Luigi Mangione, sospettato di aver
assassinato Brian Thompson, CEO del colosso assicurativo UnitedHealthcare.
Framont – autore di Saint Luigi (2025), un saggio sul culto mediatico e
ideologico riscosso proprio dal presunto killer italoamericano – afferma che di
fronte alla crescente, assidua violenza a cui le classi meno abbienti sono
sottoposte, gesti estremi come quello di Mangione servono a ricordarci che
servirebbe ristabilire un equilibrio tra le parti.
> Le élite del potere capitalista, dunque, non solo continuano a teorizzare la
> necessità della violenza, ma non hanno nessuna remora nell’esercitarla, in
> spregio a qualsiasi tipo di ordinamento giuridico.
Tuttavia, al pari dell’assassinio di Kirk, delitti come l’assassinio di
Thompson, se condannabili da un punto di vista morale, rischiano di essere
perfino controproducenti nell’ottica materialista del conseguimento degli
obiettivi. Che l’uso omicidiario della violenza – ma anche, per esempio, la
devastazione di negozi e beni comuni durante gli scontri di piazza – possa
essere però allo stesso tempo una forma di lotta di classe e un gesto populista
non deve trarre in inganno. Stabilita la legittimità ideologica delle richieste
degli oppressi verso gli oppressori, c’è poi la riflessione sulle strategie.
Fermandosi solo agli esempi fatti fin qui, i gesti eclatanti di Mangione e
Robinson non muovono oltre il piano simbolico, privi di qualsiasi potenzialità
nell’ottica di una rinegoziazione dello status quo. Di fronte al populismo di
questa violenza performativa, è doveroso però che le sinistre internazionali
inizino almeno a tematizzare le strategie attraverso le quali difendersi
rispetto alla violenza del sistema, catalizzando la rabbia popolare in una lotta
dove il nemico non si farà scrupoli ad uccidere se questo assicura il
mantenimento fattuale del potere. In fondo, quello che pare domandarsi
@aaayushh245 nel suo video sul Nepal è: può esistere una violenza generativa?
L'articolo La violenza e noi proviene da Il Tascabile.