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La violenza e noi
P er degli inspiegabili sommovimenti dell’algoritmo, qualche settimana fa sul mio feed è comparso un video postato da un anonimo profilo privato, non dissimile da quello di qualsiasi vostro conoscente o amico. A prima vista il reel postato da @aaayushh245 – questo il nome dell’account – non è troppo diverso dai migliaia di contenuti che ogni giorno invadono Instagram o Tik Tok: una sequenza di spezzoni visivi dalla durata di pochi frame, montati uno di seguito all’altro, con un breve testo in primo piano e un sottofondo musicale d’accompagnamento. Solo che in questo caso, a differenza del solito pattume che dura lo spazio di uno scroll, il reel si differenziava non solo per la scelta musicale, piuttosto dissonante rispetto al contesto, ma anche per il messaggio stesso veicolato dal testo. Sul ritornello di The Winner Takes It All degli Abba, infatti, il video proponeva una sequenza di palazzi in fiamme, rivolte, scontri con la polizia, folle che incitano alla devastazione e al linciaggio. È questa una testimonianza di quanto accaduto in Nepal a inizio settembre, dove, a seguito del divieto di utilizzo dei social media e in risposta agli altissimi livelli di corruzione, giovani e giovanissimi sono scesi in piazza, di fatto rovesciando il governo in carica nell’arco di 48 ore. La “rivolta della Gen Z” – com’è stata denominata a seguito dell’età della maggior parte dei manifestanti – è, a conti fatti, una rivoluzione che – attraverso una votazione su Discord! – ha portato Sushila Karki, ex presidente della Corte suprema, a essere la prima donna premier del Paese. Questo risultato, com’è immaginabile, è frutto di un’ingente e incontrollata dose di violenza, che il summenzionato video non manca di mostrare. Hanno fatto il giro del web le immagini del ministro delle Finanze che, spogliato, viene inseguito nel fiume dai manifestanti. Il Parlamento, come la casa del primo ministro e di altri membri di spicco dell’amministrazione nepalese sono stati dati alle fiamme. Stessa sorte è toccata all’hotel Hilton di Katmandu, alle sedi dei media considerati vicini all’establishment, ma anche alla sede del Nepali Congress, il principale partito di opposizione. Sher Bahadur Deuba, leader dell’opposizione, e la moglie Arzu Rana Deuba, a capo del ministero degli Affari esteri, sono stati filmati mentre venivano presi a calci e pugni. Il bilancio parla di oltre 400 feriti e decine di morti, tra cui anche la moglie dell’ex primo ministro Jhala Nath Khanal, arsa viva quando la folla ha appiccato fuoco alla sua casa. L’elemento di fatale attrazione del video, però, è proprio la consapevolezza dell’autore dell’ambiguità di una protesta dal basso che si alimenta e ha successo attraverso la violenza. Infatti, mentre le immagini scorrono, la scritta in sovrimpressione recita: “Abbiamo vinto! Ma a che prezzo? Forse è quello che serviva. Dobbiamo accettare questo fatto: rivoluzione e violenza procedono mano nella mano. Eppure, resta da capire se abbiamo vinto davvero”. > L’agire esplicitamente violento della protesta nepalese viene situato in una > zona grigia, in cui affiorano dubbi sulla legittimità e sulla necessità del > gesto, così come sulle sue conseguenze. Questa testimonianza è eccezionale non tanto perché mostra la geopolitica internazionale in presa diretta, quanto perché è una delle rare volte in cui l’azione politica viene tematizzata in un modo non univoco dai suoi stessi protagonisti. Di conseguenza, l’agire esplicitamente violento della protesta viene situato in una zona grigia, in cui affiorano dubbi sulla legittimità e sulla necessità del gesto, così come sulle sue conseguenze. Il caso discretamente istruttivo del Nepal riassume una serie di temi che, nonostante lo strepitio di voci in merito alla violenza fisica e verbale nell’agone politico contemporaneo, sembrano quasi assenti dal dibattito mainstream sul tema. Al di là della retorica del giusto-o-sbagliato, il video di @aaayushh245 esemplifica alcune questioni dirimenti, che toccano non solo le modalità di fruizione della violenza, ma anche la legittimità e le conseguenze di tale posizionamento. Fruizione Sulla scia di Noam Chomsky e del suo classico La fabbrica del consenso. La politica e i mass media (1988), pare oggi vieppiù lampante che la presunta neutralità degli organi di informazione sia minata di continuo, anche nei Paesi considerati fari della democrazia, in un’ottica di costruzione del consenso per mezzi propagandistici. E d’altra parte pare pienamente compiuta la profezia di Guy Debord contenuta in La società dello spettacolo (1967), come dimostra il recente Lo stratega contro (2025) a firma di Gabriele Fadini, che conferma l’attualità del filosofo francese. In una società in cui la spettacolarizzazione della vita quotidiana operata dai mezzi di comunicazione ha raggiunto lo zenith, saturando con la sua presenza ogni momento della vita privata, si decuplicano le possibilità di essere sottoposti a immagini di violenza mediatizzata, ovvero veicolata dai media. Se si considerano insieme la parzialità delle narrazioni mainstream e la spettacolarizzazione dell’oggetto dell’informazione, mi parrebbe utile, posti di fronte all’evenienza della violenza, interrogarsi non solo sul cosa, ma sul come viene veicolata, narrata, propagandata e, spesso, omessa la violenza. Poiché la presenza del medium a fare da filtro tra noi e l’evento reale – una guerra, un omicidio, una rissa tra manifestanti e polizia, continuate voi – non è neutra: provare a capirne la natura parziale e l’effetto che genera sul contenuto potrebbe essere importante per un’analisi che non si fermi alla violenza in sé, ma che provi a porla in rapporto causale con il contesto. È chiaro, per fare un esempio, che le immagini dei militanti dell’Isis che decapitano i prigionieri politici a favore di telecamere porta lo spettatore immediatamente a empatizzare col condannato. Tuttavia, il modo in cui quelle immagini ci sono state proposte, segmentate all’interno al flusso di altre notizie, programmi e pubblicità, rende complesso ricordare che l’ascesa di al-Qaeda – da cui poi avrà vita l’Isis – è frutto anche del vuoto di potere creato dall’invasione statunitense in Iraq nel 2003. > Il processo di spettacolarizzazione del conflitto comporta un livellamento > verso il basso del cuore semantico dell’informazione, una riduzione della > violenza a contenuto mediatico. Allo stesso modo, le immagini dei bombardamenti in Ucraina generano subito una risposta emotiva nel pubblico occidentale. Tuttavia, questa ha reso difficoltosa la ricostruzione del complesso panorama geopolitico che ha fatto da sfondo al logorio dei rapporti tra Russia e blocco occidentale. Il processo di spettacolarizzazione del conflitto – iniziato forse da qualche parte tra la prima Guerra del Golfo e l’attacco alle Torri gemelle – comporta un livellamento verso il basso del cuore semantico dell’informazione, una riduzione della violenza a contenuto mediatico, a slide di Instagram, a video di TikTok, creato velocemente per essere consumato velocemente e altrettanto velocemente gettato via. Parlando della cultura promossa dai media, Jean Baudrillard diceva che nella società odierna “questa diviene oggetto di consumo nella misura in cui […] diviene sostituibile e omogenea (sebbene gerarchicamente superiore) ad altri oggetti”. Qualcosa di simile si potrebbe dire per la violenza. Nel cyberspazio generato dai media, da un punto di vista di fruizione, non c’è praticamente nessuna differenza, per esempio, tra una guerra e la sintesi di una partita di calcio. Ma capirne le modalità di fruizione è essenziale per stabilire delle contronarrazioni che tematizzino la violenza in senso storico, critico e politico. Il rischio, altrimenti, è quello di relazionarci di fronte a essa nello stesso modo in cui il tifoso prende parte al rito collettivo della partita, in cui si amano i buoni – la propria squadra – e si odiano i cattivi – gli avversari. Riflessione L’omicidio dell’attivista della destra americana estrema Charlie Kirk, colpito da un’arma da fuoco durante un incontro con gli studenti in un campus universitario nello Utah, è abbastanza esplicativo della reazione dell’opinione pubblica di fronte alla violenza. Nonostante in Italia fosse già tarda serata, per puro caso ho avuto l’occasione di seguire in diretta sui media americani la cronistoria dell’evento. Fin dai primissimi minuti il popolo di Internet si è spaccato tra chi glorificava Kirk come martire della libertà di pensiero e del diritto di parola e chi gioiva per l’attentato a danno di un pericoloso promotore di ideologie intolleranti e violente. Questa dialettica degli schieramenti opposti è stata subito fatta propria dai politici statunitensi e poi europei. I repubblicani hanno addossato le colpe dell’omicidio alla sinistra fintamente liberale, rea di incitare all’odio e di voler silenziare chi non la pensa come loro. I democratici, pur condannando in toto l’omicidio, hanno respinto al mittente, dicendo che è invece la destra MAGA (Make America Great Again) a fomentare un clima di violenza in un Paese in cui il tema del possesso delle armi è, oggettivamente, un problema. E tutto questo ben prima che venisse arrestato il presunto autore dell’attentato, il ventiduenne Tyler Robinson che, stando a quanto si conosce al momento, non corrisponde all’identikit del pericoloso leftist radicale a cui si pensava nelle prime ore. > L’omicidio di Charlie Kirk, colpito da un’arma da fuoco durante un incontro > con gli studenti in un campus universitario nello Utah, è abbastanza > esplicativo della reazione dell’opinione pubblica di fronte alla violenza. Nonostante l’omicidio di Kirk rientri in uno scontro tutto statunitense tra MAGA e liberals, anche da noi accuse, controaccuse, strumentalizzazioni e propaganda hanno subito fatto perdere il punto della questione. Il modo in cui l’omicidio è stato narrato, ha fatto sì che si sia passati immediatamente dal fatto, alle possibilità strumentali del fatto. Eradicata dal rapporto di causalità con il contesto americano, la violenza è stata usata solo in senso simbolico per un fuoco incrociato di slogan – che, per inciso, di certo non stemperano gli animi, ma anzi li infiammano, trasferendo sul piano verbale la violenza fisica. Mi pare esplicativo che l’intero spettro della sinistra internazionale abbia speso molte energie per “prendere le distanze” dal killer. Non solo è un paradosso logico doversi distanziare da qualcuno con cui non si ha nessuna vicinanza fattuale, ma farlo per dover ribadire quello che è naturalmente e giuridicamente un caposaldo del dibattito democratico – la condanna della violenza – è un’aporia del sistema. Il fatto che io stesso mi senta qui obbligato a esplicitare la ferma condanna rispetto a quanto accaduto per evitare di incappare in accuse di giustificazionismo è esplicativo di come la violenza, anche a sinistra, sia ormai introiettata nel discorso politico solo per la sua componente spettacolarmente simbolica, mentre manca qualsiasi tipo di analisi materialista. Un’operazione di questo genere non rientra, storicamente, né negli interessi, né, forse, nelle capacità di una destra che trae il suo potere mediatico – e anche il suo appoggio elettorale – dalla semplificazione per estremi e dalla polarizzazione del dibattito, per cui l’uso strumentale della violenza è di supporto alla creazione del consenso e al mantenimento del potere – e qui si guardi, ancora, al già citato Chomsky. Tuttavia, è lecito aspettarsi da chiunque afferisca all’ampio spettro della sinistra un approccio alla violenza in campo politico che sappia interpretarla attraverso l’analisi delle condizioni materiali, delle basi economiche e delle relazioni tra classi sociali, piuttosto che attraverso valori e ideali astratti. Un approccio di questo tipo non è solo legittimo, ma necessario per provare a capire a favore di chi gioca la violenza. Chi trae vantaggio dall’uso della violenza in campo politico? Quali rapporti di forza si nascondono dietro l’uso della violenza? E, soprattutto, quale influenza ha la violenza sull’agentività del nostro schieramento politico nell’ottica di una rinata (ma forse mai estinta) lotta di classe? Al di là dei possibili discorsi etici sul personaggio, se analizzato in quest’ottica, l’omicidio Kirk non sono sicuro vada a vantaggio della sinistra democratica. L’evento, infatti, fornisce alla destra trumpiana – e poi internazionale – non solo un martire, ma il lasciapassare ideologico per l’inasprimento di una retorica securitaria che diventa poi pratica repressiva. E poco importa se il presunto killer non è un radicale, fricchettone, esaltato di sinistra, né che, negli ultimi dieci anni, la percentuale degli omicidi riconducibili alla destra estrema sul numero di azioni violente commesse a fini ideologici negli Stati Uniti sia di oltre il 75% (dati: Anti Defamation League). Tutto ciò, tra l’altro, non sposta di una virgola i rapporti di forza rispetto alle rivendicazioni delle classi sociali povere e delle minoranze nei confronti della repressione statale. > Non solo è un paradosso logico doversi distanziare da qualcuno con cui non si > ha nessuna vicinanza fattuale, ma farlo per dover ribadire quello che è > naturalmente e giuridicamente un caposaldo del dibattito democratico – la > condanna della violenza – è un’aporia del sistema. Dall’altra parte, quello che non si sta riuscendo a fare nel caso di Kirk, è riuscito, almeno in parte, con Gaza. Dico “in parte”, perché ancora una volta l’analisi materialista del genocidio è stata condotta pressoché in toto al di fuori della politica dei partiti e promossa dalla società civile, da attivisti, da organi di ricerca indipendenti e da un’esigua parte della stampa internazionale. Questi attori, però, hanno contribuito a mantenere viva l’attenzione sui crimini commessi da Israele, tanto a livello mediatico che politico, attraverso un’intensa attività di mobilitazione dal basso. Il movimento pro-Palestina è stato abile nel tenere insieme tanto la condanna alla violenza contro i civili, quanto l’analisi degli interessi politici ed economici che sostanziano l’intento genocidario – poi rilanciati in sede istituzionale dai report della relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese (Genocide as Colonial Erasure e From Economy of Occupation to Economy of Genocide). La condanna ideologica, unita a un’analisi materialista del genocidio, non solo ha impedito una lenta, ma spesso inesorabile assuefazione alla violenza, ma ha denunciato in maniera fragorosa la vergognosa complicità nella mattanza di un Occidente “necrocapitalista”, razzista e imperialista. Il successo, almeno parziale, di tale narrazione mi pare verificabile se si considera che anche nel dibattito mainstream molti sono costretti a riconoscere la propaganda sionista per quello che è. Il “conflitto per la liberazione degli ostaggi” è per tanti – anche per l’ONU, ma non per molti vessilliferi del moderatismo – un genocidio. I tentativi di manipolazione dell’opinione pubblica da parte di Israele – come l’invio di influencer nella Striscia per testimoniare i presunti aiuti umanitari da parte dell’Idf – risultano grotteschi. Le parole di ministri come Smotrich e Ben-Gvir non sono più le boutade di qualche estremista, ma le dichiarazioni d’intenti di criminali di guerra. Questo, come si può vedere, non vuol dire che la politica assecondi o sostenga le richieste del movimento pro-Pal. Anzi, tutt’altro. Ma la verità sostanziale dei fatti affiancata a principi di carattere etico-morale fornisce il fuoco ideologico delle rivendicazioni che, nell’intento dei manifestanti, non sono destinate a rimanere solo sul piano simbolico dell’utopia. Azione Per quello che se ne capisce, l’approccio fin qui descritto diventa il minimo comune denominatore necessario nel momento in cui la speculazione teorica vuole diventare pratica attiva. Come dimostra il prima citato esempio del Nepal, è possibile che arrivi un momento in cui sarà doveroso interrogarsi sulla necessità o meno della violenza, su come esercitarla e in che grado. Mi pare superfluo ribadire – ma di questi tempi non è mai troppo – che l’adesione totale alla non-violenza è il presupposto minimo per poter partecipare al dibattito democratico. E tuttavia, il paradosso democratico enunciato da Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici (1945) impone un certo grado di repressione verso gli intolleranti al fine di salvaguardare lo stesso sistema democratico. In termini pratici, come ci insegnano innumerevoli esempi di storia, questo si traduce in una continua negoziazione sulla necessità e sulla legittimità della violenza in senso politico quando le regole del gioco democratico vengono meno. Quale dialettica è possibile con un’ipotetica squadraccia fascista che viene a rastrellare gli oppositori politici? Interrogato sulla questione, Sandro Pertini, figura che difficilmente potrà essere accusata di populismo, la risposta pareva averla molto chiara. E tuttavia, nelle nostre società contemporanee pare un sacrilegio anche solo teorizzare una possibile risposta violenta, pure laddove questa risponda solamente a scopi difensivi. > Il movimento pro-Palestina è stato abile nel tenere insieme tanto la condanna > alla violenza contro i civili, quanto l’analisi degli interessi politici ed > economici che sostanziano l’intento genocidario. A questo proposito, vale la pena riprendere le parole del sociologo francese Nicolas Framont pubblicate nella newsletter di settembre del progetto di estetica politica Iconografie (@iconografiexxi). Framont sottolinea come, al di là dell’ordinamento giuridico-costituzionale sulla base del quale giudichiamo qualsiasi forma di violenza dal basso come intrinsecamente esecrabile, chi detiene il potere – la “classe borghese”, per lui – esercita nei fatti un grado di violenza altissimo, giustificato in quanto statalizzato. Le élite del potere capitalista, dunque, non solo continuano a teorizzare la necessità della violenza, ma non hanno nessuna remora nell’esercitarla, in spregio a qualsiasi tipo di ordinamento giuridico. Di esempi, anche in questo caso, se ne potrebbero fare molti: dalla repressione violenta delle manifestazioni di piazza da parte della polizia – pratica talmente diffusa che ormai non fa più notizia – alla violenza nelle carceri, fino, per venire a un caso specificatamente italiano, al trasferimento forzato nei centri per migranti in Albania. Per rendersi conto del grado di violenza introiettato e normalizzato da parte degli apparati statali, basta una lettura dei report annuali di Amnesty International. Rispetto a questa legittimazione de facto della violenza da parte di chi detiene il potere – che non vuol dire solo potere legislativo, ma anche economico – mi sembra significativo il post che Trump ha pubblicato su Truth in data 6 settembre, con il quale minacciava Chicago di un inasprimento delle politiche anti-immigrazione e una maggior repressione da parte delle forze dell’ordine federali. Il post, accompagnato da un’immagine generata dall’Intelligenza artificiale con il presidente degli Stati Uniti in panni militari in un chiaro riferimento al film Apocalypse Now, recitava: “‘Mi piace l’odore delle deportazioni al mattino…’ Chicago sta per scoprire perché è chiamato Dipartimento della GUERRA”. Ancora una volta, tuttavia, l’esempio più denso di senso rimane il genocidio in corso a Gaza, per la sua capacità di dare forma plastica – addirittura quantificabile, negli oltre 60.000 morti – alla pratica omicida portata avanti nel nome della “democrazia” israeliana e dell’Occidente “civilizzato”. La radicalità della violenza perpetrata sulla pelle del popolo palestinese è esplicativa della morale vergognosa con cui il consesso delle grandi democrazie dell’Occidente non prova, nei fatti, nessun tipo di moto di fronte all’eccidio di civili inermi, ma si affretta a gettare strali e biasimo su un manifestante che tira un sampietrino durante una manifestazione. Per dirla con le parole di Franco Palazzi, autore di La politica della rabbia (2021), “da una parte lo stato liberaldemocratico fa manifestamente impiego di numerose forme di violenza tanto diretta […], quanto indiretta […]; dall’altra la menzione della violenza appare ammissibile nella sfera pubblica liberaldemocratica unicamente nel registro retorico della condanna”. Per Palazzi, “queste contraddizioni sono il frutto della scarsa capacità contemporanea di pensare la politica al di là dell’ipoteca, a un tempo istituzionale e concettuale, dello stato moderno”. Ma è proprio da questo tipo di squilibri che deriverebbe, secondo Framont, la simpatia di larghe fasce della popolazione verso figure come quella di Luigi Mangione, sospettato di aver assassinato Brian Thompson, CEO del colosso assicurativo UnitedHealthcare. Framont – autore di Saint Luigi (2025), un saggio sul culto mediatico e ideologico riscosso proprio dal presunto killer italoamericano – afferma che di fronte alla crescente, assidua violenza a cui le classi meno abbienti sono sottoposte, gesti estremi come quello di Mangione servono a ricordarci che servirebbe ristabilire un equilibrio tra le parti. > Le élite del potere capitalista, dunque, non solo continuano a teorizzare la > necessità della violenza, ma non hanno nessuna remora nell’esercitarla, in > spregio a qualsiasi tipo di ordinamento giuridico. Tuttavia, al pari dell’assassinio di Kirk, delitti come l’assassinio di Thompson, se condannabili da un punto di vista morale, rischiano di essere perfino controproducenti nell’ottica materialista del conseguimento degli obiettivi. Che l’uso omicidiario della violenza – ma anche, per esempio, la devastazione di negozi e beni comuni durante gli scontri di piazza – possa essere però allo stesso tempo una forma di lotta di classe e un gesto populista non deve trarre in inganno. Stabilita la legittimità ideologica delle richieste degli oppressi verso gli oppressori, c’è poi la riflessione sulle strategie. Fermandosi solo agli esempi fatti fin qui, i gesti eclatanti di Mangione e Robinson non muovono oltre il piano simbolico, privi di qualsiasi potenzialità nell’ottica di una rinegoziazione dello status quo. Di fronte al populismo di questa violenza performativa, è doveroso però che le sinistre internazionali inizino almeno a tematizzare le strategie attraverso le quali difendersi rispetto alla violenza del sistema, catalizzando la rabbia popolare in una lotta dove il nemico non si farà scrupoli ad uccidere se questo assicura il mantenimento fattuale del potere. In fondo, quello che pare domandarsi @aaayushh245 nel suo video sul Nepal è: può esistere una violenza generativa? L'articolo La violenza e noi proviene da Il Tascabile.
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Noialtri girardiani
“C hissà che direbbe se fosse ancora vivo” si sospira pensando a tutti i grandi maestri che ci hanno lasciato e che, per un motivo o per l’altro, supponiamo avrebbero tanto da dire sulla nostra povera contemporaneità. L’idea è che i nostri tempi, che costoro non hanno fatto in tempo a vedere, portino il segno visibile delle loro intuizioni finalmente avverate oppure che presentino nuove sfide che sembrano fatte apposta per essere interpretate dalla loro cassetta degli attrezzi teoretica. Non sono il solo a pensare che entrambe queste affermazioni siano vere per René Girard, il grande filosofo e antropologo francese scomparso precisamente dieci anni fa, il 4 novembre 2015. Non sono il solo a pensare che il mondo che abitiamo da quindici anni a questa parte sia particolarmente suscettibile di analisi girardiane, un mondo che Girard ha fatto in tempo a scorgere ma non a commentare: le sue ultime apparizioni pubbliche risalgono alla fine del primo decennio degli anni Duemila quando la rivoluzione tecnologica che ci avrebbe costretto a parlare di “capro espiatorio” quasi ogni santo giorno era appena iniziata. Non sono il solo a pensare, infine, che proprio i social network siano, da un lato una sorta di piastra di Petri del pensiero girardiano, dall’altro un acceleratore di queste dinamiche che rende le sue riflessioni più attuali che mai. Già ai suoi tempi Girard notò che la diffusione nella società della locuzione “capro espiatorio”, tanto nel linguaggio giornalistico quanto in quello quotidiano, comportava importanti conseguenze. A differenza di tanti pensatori che sono gelosissimi della loro ridefinizione tecnica di un concetto noto a tutti e passano la loro carriera a squalificare gli usi “barbari” di quella parola che è diventata il centro del loro programma teorico, Girard riconobbe un sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione del termine, fondata su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del senso comune. Proprio da questa comprensione generale però, come vedremo, deriva secondo lui la progressiva perdita di efficacia del meccanismo e, allo stesso tempo, una proliferazione dei fenomeni ascrivibili allo stesso: di quelli veri e di quelli falsi. La chiamo Teoria del tutto perché la teoresi di Girard non mancava certo di ambizione o di sistematicità. Spaziando tra antropologia, psicologia, sociologia e storia delle religioni, con un pugno di intuizioni debitamente sviluppate e interconnesse, Girard pretese di spiegare la condizione umana nel suo insieme e, quasi en passant, la natura di Dio stesso: di quello vero e di quelli falsi. Tanto sviluppate e interconnesse sono queste intuizioni ‒ e la Teoria del tutto che ne segue ‒ che è complicato introdurle quali strumenti di analisi del presente senza un approfondimento adeguato. Allo stesso tempo, l’originalità di queste intuizioni fa sì che un’esposizione a volo d’uccello dei principali assunti del pensiero girardiano risulterebbe, alla meglio, una cascata di affermazioni arbitrarie e, alla peggio, uno sproloquio da manicomio. > Girard riconobbe un sostanziale accordo tra la sua raffinatissima comprensione > del termine, fondata su una vera e propria Teoria del tutto, e quella del > senso comune. Sì, le convinzioni di Girard sul mondo sono così radicali che solo enunciarle in un testo breve come questo rischia solo di scandalizzarvi e farvi scappare quanto più lontano possibile dal suo universo mentale. Ho pensato quindi di proporvi tre ipotesi fondamentali e indigeribili del pensiero girardiano e, insieme a queste, una versione diminuita delle stesse, una sorta di argomento minore ‒ apocrifo e di mia invenzione ‒ che limita la portata dell’affermazione originaria ma ci consente di metterle al lavoro sulla contemporaneità senza che il lettore sia costretto a confrontarsi con l’intera opera girardiana per farsi un’idea dettagliata, positiva o negativa che sia. Infatti le ho chiamate ipotesi ma, come ho anticipato, il suo pensiero è così interconnesso che ciascuna di queste affermazioni può essere fatta discendere dall’altra e viceversa. Girard stesso, nel corso della sua vita, ha presentato la sua Teoria del tutto partendo da punti diversi che, con quelli che definiva “ragionamenti a spirale”, reintegravano e giustificavano quelle che nel saggio precedente erano le premesse. L’omicidio collettivo fondativo Freud e Girard si azzuffano nel fango. Volano botte da orbi retoriche. Il secondo accusa il primo di aver frainteso tutto quello che ha intuito, che il triangolo non è edipico, che i tuoi genitori non c’entrano niente, il triangolo è la base delle relazioni umane punto e basta (ci arriviamo). Rotolando per terra attraverso i secoli e i millenni, giungono all’alba dei tempi. Lì, in una radura poco distante, si sta consumando una scena incredibile e spaventosa: una dozzina di ominidi sta uccidendo a mani nude un loro simile. Il Padre della psicanalisi punta il dito ed esclama “Guarda! L’omicidio del Padre primordiale ad opera dei suoi Figli! La nascita della Civiltà”. > Le convinzioni di Girard sul mondo sono così radicali che enunciarle rischia > di scandalizzarvi e farvi scappare quanto più lontano possibile dal suo > universo mentale. Girard si alza da terra, si ricompone e, con il suo Main Theme che suona in sottofondo, sussurra: “Sigmund… come al solito non hai capito niente eppure hai capito tutto”. Più o meno così ci presenta Girard il suo confronto intellettuale con Sigmund Freud, in particolare con la sua opera maledetta Totem e tabù (1913). Maledetta perché, come ci riporta il nostro, già in quegli anni tutti i freudiani la evitavano come la peste. E se non potevano fare a meno di parlarne, lo facevano con mille mani avanti e esecrando il più scandaloso passo falso del loro maestro, questa idea ridicola e preoccupante che l’umanità sia sorta dall’omicidio di un Padre Primordiale da parte dell’Orda Primitiva composta dai suoi Figli coalizzati contro di lui. Girard, con una soddisfazione intellettuale che non riesce a nascondere, dice il contrario: buttate pure tutto Totem e tabù, se non l’intera opera freudiana, ma lasciatemi l’omicidio collettivo che è l’unica intuizione assolutamente geniale e assolutamente vera che egli ha avuto. Anche questa intuizione, a dire il vero, la smussa e la radicalizza insieme. I legami familiari, dice, non c’entrano nulla. Ogni società è sorta sul cadavere di un individuo, un individuo qualsiasi, un capro espiatorio, ucciso da tutti i membri del gruppo che hanno convogliato su di lui tutta la violenza che li metteva gli uni contro gli altri, trovando finalmente unità. Questo evento non è accaduto una volta per tutte, come sembra credere Freud, ma più volte per ogni civiltà umana, in cicli che possiamo sintetizzare così: i rapporti in un gruppo si guastano progressivamente fino a giungere a un’ostilità diffusa che Girard chiama “crisi mimetica” (vedremo perché); una volta scatenatasi, questa violenza può avere due esiti: l’estinzione del gruppo stesso attraverso una catena di rappresaglie omicide senza fine, oppure l’omicidio collettivo di un membro scelto a caso che si assume, insieme, la colpa di tutta la violenza che correva per la società e il merito della pace che segue questa ritrovata unità: il capro espiatorio. Da questa pace sorgono tutte le istituzioni culturali che garantiranno la pace interna fino alla prossima crisi mimetica. Ora vi chiederete: e Girard, tutte queste cose, come le sa? Risponde lui: analizzando le istituzioni stesse, su tutte i riti e i miti. È pacifico che questo fenomeno fondamentale non può più essere osservato direttamente ma, sostiene Girard, le tracce che ha impresso nella storia culturale dell’uomo sono chiarissime e univoche. Ogni rito è per lui una messa in scena della crisi originaria e dell’omicidio collettivo che l’ha risolto, che serve a sfogare la violenza e ripristinare le forze positive che l’hanno seguita “la prima volta”. Ogni rito, infatti, era in origine un rito di sacrificio, di sacrificio umano per la precisione, e solo modificazioni successive hanno trasformato la maggior parte di questi, prima in sacrifici animali e poi in rappresentazioni via via più allusive o giocose della violenza reale, come l’aggressione collettiva di fantocci. I miti, dal canto loro, sono la narrazione mistificata di questo episodio omicida che informa i riti e, a cascata, tutte le istituzioni religiose e sociali, cioè il sacro stesso. A subire la violenza, nel mito, è un dio o un uomo in seguito divinizzato che paga per delle colpe che gli vengono attribuite nel racconto medesimo. Per Girard, infatti, ogni mito è il racconto di questo omicidio insensato ma narrato dal punto di vista dei persecutori stessi che si convincono della colpevolezza della vittima. Proprio come i riti, anche i miti vedono evoluzioni che marginalizzano o mistificano ulteriormente l’evento reale da cui traggono origine, trasformandolo in una disputa, un esilio o un allontanamento/suicidio volontario. Facile formulare un’obiezione ‒ che è stata effettivamente mossa ‒ a tutto ciò: Girard opera un cherry picking e/o un’interpretazione forzata dei materiali mitici e rituali al fine di affermare l’universalità della sua scoperta. > Ogni società è sorta sul cadavere di un individuo, un individuo qualsiasi, un > capro espiatorio, ucciso da tutti i membri del gruppo che hanno convogliato su > di lui tutta la violenza che li metteva gli uni contro gli altri, trovando > finalmente unità. Nei limiti di questo articolo, sacrifichiamo volentieri l’universalità per mantenere la capacità esplicativa di molti miti e rituali che presentano con inquietante ricorrenza il simulacro di una violenza collettiva. Tra queste storie, ve n’è una che non consideriamo neppure mito ma realtà storica e che ha avuto una certa influenza sull’umanità. Girard ci mette gli occhi sopra e afferma che è, contemporaneamente, sempre la stessa storia e una completamente diversa. L’eccezionalità del Cristianesimo Duemila anni fa un uomo fu ucciso da persone che, a suo dire, non sapevano quello che facevano. Duemila anni dopo, oltre due miliardi di persone considerano quell’uomo figlio di Dio e tra queste c’era anche René Girard. In chiusura de La violenza e il sacro, la sua prima grande opera di taglio antropologico uscita nel 1972 e dalla quale ho estratto le nozioni che vi ho sintetizzato prima, Girard lancia al lettore una sorta di cliffhanger, anticipando che “l’ampliamento di tale teoria in direzione giudeo-cristiano” sarà rinviata a opere successive. Niente suggerisce al lettore che la tradizione giudaico-cristiana farà eccezione all’unità di tutti i riti fin lì tratteggiata dall’autore. Immaginate lo stupore quando l’opera annunciata si intitola con una suggestiva frase estratta dal Vangelo. Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo esce nel 1978. Da lì in poi, l’opera di Girard diventa ‒ o forse si rivela ‒ una serratissima apologetica cristiana che trae i suoi argomenti dalle precedenti ricerche antropologiche, sociologiche, psicologiche e letterarie. Lungi dall’essere la riproposizione del mito del dio ucciso e risorto, per Girard il cristianesimo è la rivelazione della falsità del mito stesso, l’evento che una volta per tutte mostra le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, ovverosia la mistificazione sacrificale dell’omicidio collettivo. Sì, la storia è proprio la stessa ma per la prima volta è interpretata correttamente, viene cioè raccontata dal punto di vista della vittima innocente e non da quello dei persecutori. Questo è forse il boccone girardiano più difficile da ingoiare, soprattutto se il lettore fa parte di quei sei miliardi circa che non sono affatto convinti che quell’uomo lì fosse figlio di Dio. Eppure il centro del ragionamento girardiano non è quasi toccato dall’effettiva esistenza di un essere superiore, creatore del cielo e della terra ecc. La rivelazione cristiana per lui coincide con la rivelazione del meccanismo vittimario e può pertanto essere “accettata” anche da una prospettiva materialista. L’unico accenno di “argomento ontologico” a sostegno dell’esistenza di Dio si trova in pochi e frettolosi passaggi che stabiliscono, sulla logica degli altri argomenti ontologici, che solo un essere superiore avrebbe potuto svegliare gli uomini e rivelare loro la radice della propria violenza, attraverso la croce. In questo senso, l’eccezionalità cristiana in Girard può essere ricevuta come la pars construens della sua proposta teorica, il Che fare? di fronte a tutta la violenza del mondo che per Girard coincide con l’aspetto di radicale non-violenza del messaggio evangelico. Se la Passione racconta per la prima volta in modo veritiero cos’è un capro espiatorio, colui che viene “odiato senza ragione”, l’insegnamento di Cristo è tutto orientato a scongiurare con ogni mezzo l’insorgere di questa violenza. Porgi l’altra guancia; chi è senza peccato scagli la prima pietra; non giudicate, per non essere giudicati; e infine “Voi avete udito che fu detto: ‘Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico’. Ma io vi dico: ‘Amate i vostri nemici’”: Girard legge la novità evangelica come questa profilassi estrema contro l’innesco della violenza, un pacifismo così radicale da essere inaccettabile e infatti inaccettato tutt’ora, duemila anni dopo la rivelazione. > La rivelazione cristiana per lui coincide con la rivelazione del meccanismo > vittimario e può pertanto essere “accettata” anche da una prospettiva > materialista. Ci resta da capire quale sia l’innesco della violenza per Girard, cos’è che scatena, dapprima il tutti contro tutti e poi il tutti contro uno. Le basi di questa risposta le gettò nella sua prima opera, un’opera di critica letteraria incentrata sul desiderio, quando ancora non sapeva ‒ per sua stessa ammissione ‒ le ramificazioni antropologiche, sociologiche e infine religiose cui quella singola intuizione lo avrebbe condotto. Il desiderio mimetico L’estate scorsa, per un paio di settimane, l’opinione pubblica si è scandalizzata per un gruppo Facebook chiamato “Mia moglie” in cui decine di migliaia di mariti italiani pubblicavano foto delle loro consorti ‒ sembra quasi sempre senza consenso ‒ affinché venissero rese oggetto del desiderio di una folla di altri uomini sconosciuti. Lo scandalo si è giustamente concentrato non tanto sul gioco erotico in sé quanto sulla diffusa assenza di consenso al gioco stesso da parte delle donne coinvolte loro malgrado. Stupisce però che quasi nessuno si sia comunque interrogato sul perché questi ormai mitici trentaduemila uomini italiani si trovassero tutti a loro agio in una perversione apparentemente così specifica e marginale che non ha neppure una vera e propria traduzione nella nostra lingua ‒ il cuckolding. Quasi nessuno eccetto un’autrice che, proprio su queste pagine, ha correttamente parlato di “classica diffrazione di stampo girardiano” per descrivere ciò che stava avvenendo lì. E infatti non sarebbe poi così esagerato indicare il cuckolding come forma universale del desiderio secondo Girard. Di questo stavano litigando lui e Freud mentre si rotolavano nel fango. Il Padre della psicanalisi ha introdotto il triangolo con il complesso d’Edipo mentre per Girard il triangolo è la forma di tutte le relazioni e quella edipica è solo la prima di queste ma non ha nessun primato epistemologico nella genesi del desiderio. Nella sua prima opera, Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), analizzando un pugno di classici moderni ‒ Cervantes, Stendhal, Flaubert e Dostoevskij ‒ Girard individua la struttura fondamentale del desiderio nella triangolazione tra un soggetto, un mediatore (in seguito chiamato anche modello/ostacolo) e un oggetto. Il desiderio è mimetico perché imita sempre il desiderio altrui, si fa dire da altri chi o cosa desiderare. Allo stesso tempo, il desiderio dell’imitatore riverbera sul mediatore, innescando quella rivalità che è l’origine di ogni violenza. Se tutto questo sembra astratto, ritorniamo a ciò che succedeva in quel gruppo: i mariti tornano a desiderare le proprie mogli solo se le vedono desiderate da altri e, forse ancora più sconvolgente a ben guardare, gli altri desiderano queste donne che intravedono in fotografie pessime e male inquadrate solo perché gli viene detto che appartengono a qualcun altro. Il desiderio degli “aspiranti bull” del gruppo è, paradossalmente, molto più strano del desiderio dei “cuck” che cedono la loro donna alla massa. In un mondo in cui la pornografia più esplicita è ovunque, costoro si eccitano alla vista di mezzo corpo femminile in costume solo perché un mediatore sconosciuto gli dice: “Questa è mia moglie”. Non concepisco migliore argomento in favore dell’esistenza del desiderio mimetico girardiano nella sua purezza che questo. > Il desiderio è mimetico perché imita sempre il desiderio altrui, si fa dire da > altri chi o cosa desiderare. Allo stesso tempo, il desiderio dell’imitatore > riverbera sul mediatore, innescando quella rivalità che è l’origine di ogni > violenza. I membri di “Mia moglie”, però, non accedono mai alla rivalità mimetica e quindi alla violenza proprio in quanto perversi: sono riusciti a dirottare il loro desiderio rivalitario in una reciprocità collaborativa che, tra le altre cose, tende a far scomparire l’oggetto del desiderio lasciandoli in balia di un desiderio reciproco. Pollastrini suggerisce giustamente, sulla scorta del Challengers di Guadagnino ‒ come del caso Schreber di Freud ‒ che a sedimentarsi è un desiderio omosessuale. Ma non va sempre così, anzi, quasi mai. Girard afferma che l’oggetto del desiderio tende sempre a eclissarsi ma per lasciare spazio a una rivalità che odia senza neanche più bisogno dell’invidia o della gelosia: è la crisi dei doppi. I due contendenti, ormai dimentichi dell’oggetto della contesa, si recriminano l’un l’altro le stesse colpe, le stesse accuse. Niente più li distingue. Un tipico oggetto del desiderio che, molto più delle mogli, si presta a questa repentina scomparsa è l’onore. Chi ha offeso chi? Chi per primo, chi per secondo, chi ha esagerato nella risposta a un’offesa che non era poi così grave? La disputa verbale precede quella fisica e si allarga a macchia d’olio in tutta la società: è la crisi mimetica. Solo una cosa può risolvere questa crisi, già lo sapete, ma ora sapete anche perché: il capro espiatorio assume su di sé tutte le recriminazioni, tutte le colpe, tutta la catena di accuse ormai inestricabile che aveva diviso la collettività. Lui e solo lui è l’origine dell’odio, della frustrazione, della gelosia che proviamo. Una volta che lo abbiamo ucciso tutti insieme, ci ritroviamo in pace: “la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo”. Lungi dall’essere un pretesto per misere liti, per Girard, la mimesi reciproca è il vero motore dell’ominizzazione, ciò che ci ha resi umani, l’inizio di tutto il processo. Imitandosi a vicenda, gli ominidi escono dal dominio del “montaggio istintuale”, accedono a una nuova classe di desideri e quindi di conflitti. Si scatena la violenza e uccidono uno di loro. Si calmano. Lo seppelliscono con un cumulo di pietre: una piramide rudimentale, priva di punta, proprio come le più antiche tombe di cui abbiamo testimonianza. Da qui, attraverso numerosi cicli, nasce la civiltà con i suoi riti, i suoi miti, le sue istituzioni. Mi rendo conto ora che forse, ancora più di Cristo morto e risorto, sia questo il boccone girardiano più ostico, l’idea che la mimesi sia allo stesso tempo il vero motore del salto compiuto dall’Homo sapiens sapiens e la realtà ultima di ogni nostro desiderio. Anche qui possiamo però ridurre la portata universale dell’affermazione girardiana dirigendo l’attenzione su quanti dei nostri desideri sono mimetici senza che ce ne rendiamo conto. Fino alla fine, da Menzogna romantica e verità romanzesca in poi, Girard ha difeso la tesi per cui ogni desiderio è mimetico e il desiderio oggettuale è relegato all’ambito del “montaggio istintuale”, malamente definito e ricondotto ai più bassi gradini della piramide di Maslow. Senza cercare di dimostrare l’inesistenza totale del desiderio oggettuale, noi possiamo fare a meno di questo assolutismo e ipotizzare che il mimetismo sia una componente fondamentale di tanti nostri desideri che raramente mettiamo a fuoco. Ora siamo pronti per affrontare la contemporaneità da girardiani scettici. I fondamenti dei nostri capri espiatori In questi ultimi dieci anni tanti hanno evocato Girard, spinti da un mondo che sembrava sempre più ostinato a dargli ragione. Spesso, però, è stato evocato superficialmente, senza cioè integrare i fondamenti della sua teoria che, abbiamo visto, non è d’altronde facile da comunicare. Di fronte al moltiplicarsi di fenomeni quali le shitstorm, la call out culture, la cancel culture, il politicamente corretto, a tanti saliva alla bocca la parola “capro espiatorio” e, con questa, il nome del grande studioso che ci ha intitolato la sua opera più famosa. All’interno di queste riflessioni, però, il ruolo di Girard si riduce spesso all’averci genericamente “messo in guardia” contro un fenomeno brutto e cattivo ‒ il capro espiatorio ‒ che si è stranamente moltiplicato nella nostra società, chissà perché. Tanto più grande è stato Girard da averci dato gli strumenti per interpretare le cause profonde del fenomeno e cioè quel meccanismo di cui abbiamo appena parlato, chiamato mimetismo. Se tutti riconoscono che i capri espiatori si sono moltiplicati grazie all’imporsi del social network, Girard ci fornisce la chiave per decifrare che tipo di tendenze sono incentivate da queste nuove forme di socialità e come queste portino a fenomeni di capro espiatorio. > Lungi dall’essere un pretesto per misere liti, per Girard, la mimesi reciproca > è ciò che ci ha resi umani, l’inizio di tutto il processo. Imitandosi a > vicenda, gli ominidi escono dal dominio del “montaggio istintuale”, accedono a > una nuova classe di desideri e quindi di conflitti. Quando Girard formulava la sua teoria mimetica non era semplice mostrare che dietro ogni nostro desiderio c’è l’imitazione, cioè l’ammirazione per un modello che ci indica cosa desiderare. Il cuckolding è il diorama del desiderio mimetico perché Girard stesso, quando doveva scendere nel dettaglio, tra tutti i desideri mimetici, selezionava i triangoli amorosi per illustrarne il funzionamento. Invece, per rendere conto del mimetismo della stragrande maggioranza dei desideri, Girard deve ricorrere alla dicotomia mediazione interna/mediazione esterna: i desideri di mediazione interna sono quelli, come i triangoli amorosi, in cui il modello/ostacolo è vicino a te, in carne ed ossa, un rivale nel senso proprio del termine; quelli di mediazione esterna sono i desideri ispirati da un mediatore lontano nello spazio e nel tempo, da un mediatore astratto, come possono essere i mass-media novecenteschi che ti fanno desiderare di avere una Ferrari perché ce l’hanno i ricchi. Anticipando le critiche, Girard non riduce la mediazione esterna a un’innovazione contemporanea, e apre il saggio con l’esempio del Don Chisciotte che imita il desiderio di Amadigi di Gaula, un predecessore fittizio inventato da Cervantes come modello di cavaliere errante. La mediazione esterna, insomma, nasce con la cultura e, a livello cronologico, segue di poco l’apparizione della mediazione interna, quella che ha destato le prime rivalità tra gli ominidi che si sono placate solo tramite ricorrenti omicidi collettivi. E se il social network comportasse la confusione e il collasso di mediazione esterna e mediazione interna? I modelli sul social network siamo tutti noi, gli uni per gli altri, conosciuti e sconosciuti. Mediatori interni e mediatori esterni sono posti sullo stesso piano, tutti su quel piedistallo chiamato “profilo” che attira sguardi, attenzioni, amori, odi e invidie. Più di ogni altra cosa approvazioni pubbliche, quel pulsantino fondamentale nell’economia del social network chiamato “like” che altro non è che un indice di gradimento, un indice che indica cosa desiderare, in quanto già desiderato. Il sociologo Niklas Luhmann chiamava queste dinamiche “osservazione di secondo ordine” e, in tempi recenti, il filosofo Hans-Georg Moeller ha adoperato la categoria per descrivere come “profilistica” la nuova tecnologia dell’identità inaugurata dal social network. In ottica girardiana, il social network è la più perfetta macchina mimetica perché registra e ci mostra tutti i nostri desideri reciproci. Sul social network davvero ogni desiderio è desiderio dell’altro. Insomma, se abbiamo assunto che i fenomeni di capro espiatorio si sono moltiplicati per via dei social network e possiamo dimostrare indipendentemente che sono anche uno degli ambienti più mimetici in cui l’umanità si sia trovata a vivere, possiamo persino rovesciare la domanda e dire che ciò che abbiamo davanti agli occhi conferma l’intuizione girardiana: il social network è la prova del nesso tra mimesi e capro espiatorio, la piastra di Petri che rivela la connessione profonda tra una società che si imita senza sosta e che senza sosta si ritrova ad odiare collettivamente alcuni membri della società stessa. L’inconsistenza dei nostri capri espiatori Abbiamo anticipato che, già nel corso della sua vita, Girard osserva un duplice e paradossale movimento dei capri espiatori: si moltiplicano ma non funzionano più. Le ragioni che individua sono due e complementari. Intanto, sempre più raramente uccidiamo i nostri capri espiatori e quindi non accediamo al momento catartico che segue un vero e proprio omicidio collettivo, ma se uccidiamo sempre più di rado è proprio perché non ci crediamo più fino in fondo. La diffusione del termine “capro espiatorio” testimonia proprio questo: la (lenta) presa di coscienza che l’umanità sta facendo del suo meccanismo fondatore. Anche la più approssimativa comprensione del termine rimanda a una violenza che si scatena senza ragione su un singolo o su un gruppo come “diversivo” o “sfogo” di determinate energie. > In ottica girardiana, il social network è la più perfetta macchina mimetica > perché registra e ci mostra tutti i nostri desideri reciproci. Sul social > network davvero ogni desiderio è desiderio dell’altro. D’altro canto, queste “energie” ‒ che Girard inquadra come mimesi ‒ sono ancora qui e pertanto i capri espiatori continuano ad essere ricercati senza che nessuno di questi svolga il suo compito fino in fondo. Ancora una volta, la situazione che osserviamo sui social network sembra confermare ed esasperare il fenomeno. Se osservate con attenzione una qualsiasi shitstorm noterete non solo che, ovviamente, non si conclude con un omicidio ma che produce tutta una serie di shitstorm minori lungo i suoi bordi. I capri espiatori si moltiplicano letteralmente all’interno dello stesso evento. Alcuni di questi sono semplicemente i difensori del capro espiatorio originale che, in questo contesto, diversamente da una lapidazione vera e propria, possono trovare il coraggio di farsi avanti, rischiando molto ma non la morte immediata. Altri, ancora più interessanti, fanno parte della cerchia dei persecutori. A differenza della folla anonima che lapida e che ritrova l’unità in questo gesto collettivizzante, i persecutori del social network hanno nomi e cognomi, profili ricchi di storia e contraddizioni, facilmente accessibili. “Come si permette LUI di parlare?” si chiede a un certo punto qualcuno che sposta lo sguardo dalla vittima selezionata a un suo collega con la pietra in mano. Pervertendo il senso ultimo della parabola dell’adultera, ovverosia comprendendolo solo parzialmente, il lapidatore virtuale scopre che nessuno è senza peccato, nessuno può scagliare la prima pietra tranne, guarda caso, sé stesso. Il colmo si raggiunge quando, durante questo spostamento, il persecutore che ha selezionato una vittima secondaria arriva persino a condannare il meccanismo di “capro espiatorio” per meglio colpevolizzare il suo nemico, senza rendersi conto di averne appena eretto un altro. La conoscenza del meccanismo di “capro espiatorio” indebolisce la pratica ma viene contemporaneamente messa al lavoro per individuare la vittima perfetta, il colpevole assoluto che finalmente e una volta per tutte chiuderà il ciclo della violenza. Ma chi è questa vittima? L’incertezza dei nostri capri espiatori L’omicidio fondativo, l’eccezionalità cristiana, la mimesi di ogni desiderio: abbiamo visto che nel pensiero girardiano ce ne sono di affermazioni che un tempo avremmo definito “problematiche”, prima che questa parola prendesse a significare “offensive per qualcuno”. Ma c’è n’è una che potrebbe essere la più problematica di tutte e la sua problematicità ha a che fare direttamente con una certa permalosità generalizzata che Girard stesso vedeva crescere già nel suo tempo. Proprio colui che ha dedicato la sua vita di studioso al riscatto delle vittime sulle quali abbiamo fondato la civiltà, sin dagli anni Novanta, osserva attorno a sé una propensione ad occupare il ruolo della vittima in modo indebito. L’idea non suonerà nuova al lettore italiano perché è la tesi centrale del saggio nostrano più discusso sul tema, Critica della vittima di Daniele Giglioli, uscito ormai più di dieci anni fa. Per Girard, questa tendenza a posizionarsi all’interno di quello che Giglioli chiama “paradigma vittimario” accompagna e cresce insieme alla consapevolezza generalizzata sul meccanismo del capro espiatorio. Il ragionamento è semplice: quanto più riconosciamo che alcuni vengono odiati senza ragione e poi riscattati, tanto più abbiamo la tentazione di identificarci in costoro e vivere i nostri conflitti come una persecuzione che chiede giustizia. E a questo punto, sia in Girard sia in Giglioli, compare l’idea problematica che rischia di squalificare l’intero discorso: la distinzione tra vittime false e vittime vere. In più punti Girard intrattiene l’idea dell’assoluta innocenza della vittima quando si trova effettivamente perseguitata. Oltre a Cristo ‒ che lo è per dogma ‒, lo stesso viene detto di Giobbe, di Edipo, degli ebrei nelle persecuzioni medievali. In Giglioli, che sembra criticare la posizione della vittima in quanto tale, compaiono qui e lì delle vittime dichiaratamente false che sembrano alludere all’esistenza delle vittime vere, o perlomeno “più vere”: c’è Silvio Berlusconi e la sua persecuzione giudiziaria come simbolo universalmente condiviso dai suoi lettori di sinistra di vittima falsa, ma anche il popolo ebraico (di nuovo) che oggi eredita la posizione vittimaria dai “titolari effettivi”, cioè le autentiche vittime dell’Olocausto. > Quanto più riconosciamo che alcuni vengono odiati senza ragione e poi > riscattati, tanto più abbiamo la tentazione di identificarci in costoro e > vivere i nostri conflitti come una persecuzione che chiede giustizia. L’errore che si costeggia con questi discorsi non è la volontà di distinguere le vittime vere da quelle false ‒ cioè riconoscere empiricamente che si sono date, si danno e si daranno persone completamente innocenti delle accuse loro rivolte e persone che inventano di sana pianta dei torti mai subiti. L’errore è immaginare che questa distinzione sia in qualche modo autoevidente, il punto di partenza del discorso stesso quando invece è il suo precarissimo punto di arrivo. E non lo dico io ma Girard stesso. Lo dice implicitamente in tutta la sua opera ma anche esplicitamente: “Non pensiamo che per sfuggire alla responsabilità della violenza sia sufficiente rinunciare all’iniziativa violenta. Ma nessuno si accorge mai di prendere questa iniziativa. Perfino i soggetti più violenti credono di reagire a una violenza che proviene dagli altri”. Ogni violenza è agita da qualcuno che crede di averla già subita, da qualcuno che si percepisce come vittima. Di questo ci parla la crisi mimetica dei doppi che si rilanciano le stesse accuse, da qui viene la violenza per Girard: non da una generica “aggressività animale” ma da un reciproco senso di ingiustizia subita. Così in Girard la posizione della vittima è sia quella di colui che viene infine accerchiato ma anche quella di coloro che l’accerchiano, i quali si sentono soggettivamente vittime della sua azione. A riprova dell’attualità di Girard, a pochi anni dalla sua morte, si è diffuso uno slogan che ha segnato il rapporto irrazionale che stavamo instaurando con il concetto di vittima, sempre più confusi dal proliferare dei capri espiatori. “Credere alla vittima” è infatti un’assurdità logica ancora prima di un’aberrazione etica. Di per sé, non vuol dire nulla. È una delle più brevi petizioni di principio formulabili. Non puoi chiedere di credere alla vittima poiché dal momento che la definisci tale, già le credi. Se riusciamo ad attribuire un senso alla frase, se l’abbiamo fatta operare nel mondo come significasse qualcosa di compiuto, è perché la vera affermazione al lavoro era ben più sinistra: credi all’accusatore. Credi a chiunque si presenti come una vittima di un torto subito, credi alla colpevolezza di colui che indica. Girard aggiungerebbe qui “senza fare inchieste”, la frase che più lo inquieta nella sua già citata rilettura del Libro di Giobbe in L’antica via degli empi. Ad agire “senza fare inchieste” è il dio del massacro che gli accusatori mobilitano contro Giobbe, ovverosia la folla linciante che si scatena sul primo malcapitato. Giobbe, dal canto suo, mobilita un avvocato difensore che interceda per lui presso l’Altissimo, un Paraclito, il vero Dio dei Vangeli che è il Dio delle vittime. Sebbene Girard mostri con quanta insistenza le Scritture pongano Satana nel ruolo dell’accusatore e Cristo in quello del difensore, non stiamo qui affermando che l’accusa ha sempre torto e la difesa sempre ragione ma che questa dialettica deve quantomeno darsi per evitare che l’umanità risolva la propria violenza a spese di una catena di capri espiatori, più o meno innocenti, più o meno colpevoli, selezionati “senza fare inchieste”. Il luogo in cui questa dialettica dovrebbe avere luogo esiste già ed è ovviamente il tribunale, metonimia dello Stato di diritto, la cui elaborazione nel corso dei secoli, dall’habeas corpus alla presunzione di innocenza, può essere letta come la progressiva tutela di tutti i potenziali capri espiatori dalle grinfie della folla. > Da qui viene la violenza per Girard: non da una generica “aggressività > animale” ma da un reciproco senso di ingiustizia subita. Così in Girard la > posizione della vittima è sia quella di colui che viene infine accerchiato ma > anche quella di coloro che l’accerchiano, i quali si sentono soggettivamente > vittime della sua azione. Se la seconda metà del Novecento ha visto l’emergere del “processo mediatico” come oggettiva regressione resa possibile dai mass-media tradizionali, il social network allarga la ferita e consente all’intera popolazione di istituire processi sommari, ciò che di volta in volta abbiamo chiamato shitstorm, cancel culture, call-out culture etc. C’è davvero da chiedersi, fuori da ogni formulazione retorica, cosa avrebbe detto Girard se avesse avuto gli ultimi dieci anni di fronte agli occhi. Dove si sarebbe soffermata la sua critica in questo mondo che ha globalizzato per davvero il villaggio, in cui le più primitive dinamiche di linciaggio sono riemerse solo a partire da una complessiva virtualizzazione della socialità. Girard ci ha lasciato un problema con due corni: l’assoluta certezza dell’esistenza delle vittime e il necessario sospetto verso chiunque si presenti come vittima, poiché farlo è il primo passo per esercitare la violenza. Eppure non ci ha lasciati privi di strumenti. Con un anticipo spaventoso sui tempi, mentre siamo immersi in uno Zeitgeist che ci intima di rintracciare nella nostra storia personale tutti i modi in cui siamo stati vittime per rinfacciarli al prossimo, Girard afferma che la conversione cristiana è una cosa semplicissima, quella cosa accaduta a San Paolo sulla famosa via: riconoscere sé stessi in quanto persecutori. L'articolo Noialtri girardiani proviene da Il Tascabile.
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Tutti famosi
I n Storia della fama. Genesi di otto miliardi di celebrità (2025), Alessandro Lolli, già autore del seminale La guerra dei meme. Fenomenologia di uno scherzo infinito (2017, 20202) torna a proporre la sua prospettiva sociologica, contemporaneamente rigorosa e idiosincratica, questa volta applicata alla fama. Si tratta di un tema indispensabile per comprendere la socializzazione virtuale, ma anche di una questione che in modi diversi ha attraversato tutte le società: per questo, una “storia” che parte dall’età antica, si sofferma a lungo sulla modernità e arriva infine all’oggi, una fase inedita, secondo Lolli, in cui quello che era un problema che riguardava pochi soggetti diventa affare di massa, con conseguenze immani per i soggetti stessi e, inevitabilmente, per la società. IL TUO LIBRO RICOSTRUISCE COME LA FAMA SIA DIVENTATA UN FENOMENO SEMPRE PIÙ CENTRALE NELLA SOCIETÀ. QUESTO COSA IMPLICA PRECISAMENTE? UN AUMENTO DI SPEREQUAZIONE RISPETTO A UN BENE SEMPRE PIÙ AMBITO O UNA DEMOCRATIZZAZIONE DI QUALCOSA DI ELITARIO PER DEFINIZIONE? La sperequazione della fama secondo me non sta aumentando. Anzi, prendiamo Kanye West e Taylor Swift, rispettivamente il cantante e la cantante più famosi al mondo. Mi sai dire i titoli di cinque canzoni di Taylor Swift? Probabilmente no. Saprai chi è, ne avrai sentite alcune (io ne so forse due). Mentre se ti chiedo titoli di Britney Spears, me li sai dire subito. Oggi le persone in cima alla gerarchia della fama sono meno famose che in passato, per via della targhettizzazione sempre più mirata che il pubblico riceve nei suoi consumi culturali. Certo, diversi famosi oggi riempiono ancora gli stadi e hanno tutto il loro seguito di fedeli, ma non sono più dei fenomeni di massa come potevano esserlo le popstar già solamente dieci o quindici anni fa, quando un’intera generazione guardava MTV. La nostra fruizione della musica allora passava per i media nazionali e le loro canzoni le sentivi per forza. Ora la fruizione passa per degli strumenti che noi addestriamo con i nostri gusti e Taylor Swift potremmo non averla mai sentita (cosa impossibile per Britney Spears a inizio anni 2000). Nessuno è più famoso come ai tempi di quella che definisco la fama paradigmatica. Oggi la fama ritorna cittadina: famosi di livello globale esistono ancora, tutti sanno i loro nomi, ma non ne abbiamo più una reale conoscenza come era un tempo. Quindi la sperequazione secondo me è diminuita, è aumentato invece qualcosa di diverso, ovvero il fatto che sia più facile mettersi nei panni del famoso. Sempre più persone nei panni di un microfamoso ci si sono trovate, tendenzialmente chiunque usi un social network – è questa la tesi del libro. Chiunque abbia i social ha già dovuto gestire degli hater, ad esempio, quindi è più facile l’identificazione. In passato tu, persona normale, quell’esperienza non l’avevi mai avuta. QUINDI MENTRE SI VA VERSO UNA CRESCITA ESPONENZIALE DELLE DISUGUAGLIANZE SUL PIANO ECONOMICO, LE ESPERIENZE CHE FACCIAMO A LIVELLO DI SOGGETTIVAZIONE DIVENTANO SEMPRE PIÙ SIMILI? O È SOLO UN’ILLUSIONE DATA DALLA SENSAZIONE DI LIVELLAMENTO CHE CONSENTE IL VIRTUALE, IN CUI TUTTI POSSONO AVERE UNA PAGINA FACEBOOK, IN CUI “UNO VALE UNO”? I social network si sono presentati in maniera un po’ truffaldina: ti dicevano “a cosa stai pensando?”, si spacciavano come un modo per parlare con i tuoi amici, per esprimerti, e invece erano uno strumento di disintermediazione potentissimo che dava quello che io chiamo “il palcoscenico”, prima verbale poi anche audiovisivo, in mano a tutti, e questa è chiaramente un’esperienza aliena a tutta la storia dell’uomo. Poi possiamo discutere se questo abbia un valore positivo o negativo. Però un pensionato di sessant’anni che scopre che si può fare i video invece di sbraitare al bar di fronte a chi lo sta sentire, magari tramite il passaparola riesce a sfondare (faccio l’esempio del pensionato come persona meno aderente ai linguaggi che ti permettono poi di provare a sfondare davvero conoscendo la logica del medium). Questa è di fatto una cosa democratizzante, o meglio, se democratizzare ha un significato è anche questo. Il post su Facebook, su Twitter e su Instagram per lungo tempo è stato veramente un modo di parlare con gente che bene o male ti conosceva. Eppure proprio lì ci siamo ritrovati tutti famosi, inconsapevolmente, e abbiamo cominciato a dover gestire nel nostro piccolo quel tipo di dinamiche sociali che prima gestivano solo i Ferragnez. Se hai il profilo pubblico arriva uno sconosciuto che ti conosce, magari ti chiede conto di qualcosa che hai fatto o detto altrove, e come fa a saperlo? Chi è questa persona? Un sacco di gente ha avuto queste esperienze ‘famogene’. Il giorno che prendi 100 like a un post e cinque condivisioni, arriva qualcuno che ti tratta letteralmente come un famoso. Ora esistono a tutti gli effetti dei famosi per nicchie, cioè persone che possono campare addirittura di quella fama lì, piccola e rivolta a una bolla. Questa cosa fino a vent’anni fa era completamente inimmaginabile perché la fama viaggiava su media di portata nazionale. E questo sta facendo qualcosa (che esce un po’ fuori dai confini del libro perché è più sul lato della ricezione) di radicale a quella che chiamiamo la cultura pop. Addirittura stiamo andando verso una impossibilità di parlare di cultura pop in senso pieno. Certo il valore accerchiante e centralizzante del mainstream esisterà finché esisteranno i media nazionali che vogliono che tu parli dei Ferragnez, ma in realtà il consumatore già si è abituato a un altro modello. Tipo: se sono un elettore di Calenda tra i 20 e i 25 anni non li guardo i Ferragnez, voglio vedere solo Shy e Rick Dufer. I Ferragnez li subirò con insofferenza, perché ormai siamo abituati ad un modello che è estraneo al concetto stesso di mainstream, cioè io non devo per forza sapere di Taylor Swift. Prima invece o sapevi di Celentano o non sapevi nulla della cultura in cui vivevi, cioè non c’era un famosetto alternativo fatto per te. E questo avrà delle conseguenze che toccheremo con mano a livello sociale tra qualche anno. Non subito, perché forme di mainstream ancora sopravvivono, ma prima o poi YouTube ucciderà definitivamente la radio e la TV. Esisteranno solo microcelebrità, non legate a un modello di iperspecializzazione di competenze quanto a una logica imprenditoriale. Mi spiego: poniamo che io sia un imprenditore che deve fare una ricerca di mercato. Non è che una pizzeria è sbagliata in assoluto aprirla. È sbagliato aprirla in quel quartiere, è sbagliato aprirla senza una unique selling proposition che ti differenzi dai tuoi più vicini competitor. Le persone che partecipano al gioco della fama, se vogliono sfondare, devono tenere conto di tutte queste cose: io chi sono?  Poniamo che io sia un cantante indie: cosa devo cantare, chi sono i miei competitor, come devo rappresentarmi, presso quali fasce? Fare arte diventa molto più simile a un’indagine di mercato, come decidere in che quartiere aprire il mio esercizio commerciale. Il livello di consapevolezza riguardo a questo è la distinzione che io traccio tra social network e social media. Il primo creava fama in modo inconscio e non intenzionale, mentre le piattaforme di social media richiedono un’intenzionalità che è paragonabile esattamente all’imprenditorialità. Già nel momento in cui apri un canale YouTube ragioni come un imprenditore, che deve arrivare a un pubblico, crescere, eccetera. Cioè ragioni come un imprenditore o anche come un artista: qualcuno che fa una proposta sapendo che la sopravvivenza della stessa è legata alla ricezione che avrà. Diversamente dai social network, nel social media tu stai consapevolmente accettando le regole del gioco, sai di stare davvero salendo sul palco, stai facendo davvero una cosa che è fatta per gli altri, per i non conoscenti, per la fama. E si va sempre più in quella direzione. NELLA TUA RICOSTRUZIONE STORICA NON A CASO CERCHI DI FAR VEDERE COME IL DESIDERIO DI FAMA SIA ANCHE INDOTTO. NON È SOLTANTO UNA QUESTIONE PSICOLOGICA, È FORZOSAMENTE GENERATO DA UN SISTEMA PRODUTTIVO. SIA, COME SPIEGHI BENE, TRAMITE IL DESIGN DELLE PIATTAFORME, SIA PER IL FATTO CHE NELL’ECONOMIA POSTINDUSTRIALE “DIVENTARE QUALCUNO” (O DIVENTARE UN BRAND) SEMBRA UNA DELLE POCHE STRADE DISPONIBILI PER GUADAGNARSI DA VIVERE: SENZA QUELLA RICONOSCIBILITÀ SI VALE QUANTO UN’INTELLIGENZA ARTIFICIALE. A FRONTE DI QUESTO, NON È POSSIBILE CHE L’ANONIMATO SIA DIVENTATO UN PRIVILEGIO? NON A CASO MOLTI MILIARDARI VIVONO IN UN ANONIMATO QUASI COMPLETO. TUTTI DESIDERANO NECESSARIAMENTE I RIFLETTORI OPPURE IN REALTÀ LAVORARE DIETRO LE QUINTE (CON UNO STIPENDIO SERIO), POTER CONDIVIDERE LE PROPRIE OPINIONI SOLO CON LE PERSONE CHE TI INTERESSANO INVECE CHE SUI SOCIAL, NON SENTIRSI COSTANTEMENTE OSSERVATI PUÒ AVERE UNA SUA ATTRATTIVA, MA SI SENTE DI NON POTERSELO PIÙ PERMETTERE? Ha assolutamente la sua attrattiva, infatti quello della fama è un potere di seduzione che potremmo definire satanico. Prendiamo appunto la figura del miliardario che si può permettere l’anonimato. Magari su Internet ha una pagina istituzionale oppure non è proprio mai diventato una figura pubblica, però è un qualcuno che secondo me in qualche momento nella sua vita questa cosa l’ha incontrata, ed ha capito sulla sua pelle quanto gli poteva far male. Eppure anche lui è suscettibile a un’offerta di questo tipo – come quando Trump va da Musk e gli dice “senti, vuoi fare il mio braccio destro?”. Non è detto che i soldi che ha siano una motivazione sufficiente per rifiutare quel livello di esposizione lì, con tutti i suoi pro e contro. Infatti nel libro cito Houellebecq che in Le particelle elementari sostiene, erroneamente, che le rockstar siano più ricche di banchieri e imprenditori. Di fatto non è così, eppure, comprensibilmente, la vita della rock star gli appare molto più invidiabile di quella di un miliardario anonimo. A dispetto dei soldi. Questo passaggio secondo me è fondamentale per la contemporaneità: in passato se eri famoso, nel senso proprio del termine, eri anche almeno benestante, perché voleva dire che avevi avuto accesso alla carriera propriamente detta della fama, quindi eri un cantante, un politico, uno scrittore affermato, eccetera eccetera e quindi avevi anche soldi. Oggi questa unione tra i soldi e la fama si è slegata. Ci sono delle persone, ad esempio una mia amica che fa l’influencer da 100.000 followers e rotti, che non ha manco i soldi per piangere perché non ha mai fatto advertising. Lei è una forza culturale significativa nel suo ambiente, un’influencer politica, ha un’esposizione che però non si traduce in soldi. Questo anche per via delle sue scelte etiche, ma pure se le avesse tradite forse si faceva al massimo uno stipendio da entry level, se cominciava a fare le pubblicità degli shampoo con la falce e il martello… Eppure lei è una che ha influenza, ha fama, ha potere sulla cultura, viene riconosciuta in tanti ambienti. Quindi come tante figure simili vive tutti gli aspetti della fama, ma non riceve la proporzionalità che ti aspetteresti in denaro. La seconda caratteristica tipica del contemporaneo è che paradossalmente questo non rende una persona come questa influencer meno invidiabile. Ti faccio un esempio: preferiresti 100.000 like o 100 €? Tra 100.000 like e 100 € secondo me tutti sceglierebbero i like. Se sei un imprenditore molto ricco e però sei poco attraente, le donne magari ti cercano ma solo perché gli fai fare la bella vita nelle terrazze di Dubai, non sei un vero oggetto del desiderio. Al contrario, se sei famoso stai su un palco, tutti ti guardano, tutti vorrebbero averti o essere te, insomma è una forma di amore. Quella è la cosa più ambita. Forse è un amore falso, ma a me non interessa giudicare: dovrei diventare moralista e il mio non voleva essere un testo moralista, cerco di descrivere la fama fino a un punto in cui tu lettore puoi trarre tutto il tuo giudizio. Quello che interessa a me è constatare che quell’amore lì ha un potere di seduzione fortissimo. LA TUA ANALISI È MOLTO OGGETTIVA INFATTI. NON GIUDICANDO MAI I MECCANISMI PSICOLOGICI CHE SONO ALLA BASE DELLE RELAZIONI FAMOGENE PERÒ SEMBRI IMPLICITAMENTE NATURALIZZARLI, CONSIDERARLI INEVITABILI. NON DISCUTI AD ESEMPIO LA GRATIFICAZIONE GARANTITA DALLA FAMA, COME SE FOSSE OVVIO CHE CHIUNQUE NON POSSA CHE AMBIRVI. DIRESTI CHE LA FAMA LOGORA CHI NON CE L’HA? La fama è un potere, qui inteso non come un’istituzione, ma come una cosa che agisce sull’animo, e se vogliamo dare un nome preciso a questo potere è un amore senza volto, quello che si riceve dal pubblico, l’amore della folla anonima. Quindi è un amore degenerato, ma rimane un amore, cioè un riconoscimento. Certo, ha un valore puramente quantitativo: la fama si caratterizza proprio in questo rispetto a tutte le altre relazioni, quelle relazioni che non sono famogene perché io so con chi sto parlando e da chi vengo riconosciuto, da chi vengo validato, da chi vengo amato, da chi vengo odiato. Si ha un rapporto di fama quando io non so queste cose, quindi ciò che conta è solo il numero. Intendiamoci, la fama logora anche chi ce l’ha. Ma il fatto è che la fama può essere negativa, positiva, o anche, e questo è cruciale, troppo ristretta rispetto al tuo sforzo: nel momento in cui giochi a quel gioco, puoi decidere di uscirne a causa della delusione. Raramente comprendi in maniera morale e spirituale che questa cosa ti sta facendo del male, più spesso comprendi che hai fallito a quel gioco e che continuarlo vuol dire esporti sempre di più alla percezione di un fallimento. Quel bisogno di validazione non può che aumentare esponenzialmente: lo disse una volta Gipi, una persona che non cito nel libro ma che avrei dovuto perché da quindici anni in ogni intervista parla proprio di questo. La prima volta che lo vidi dal vivo, a una presentazione nel 2013, parlò di quando divenne famoso. In effetti fu il primo fumettista italiano a raggiungere quei livelli di fama, ben prima di Zerocalcare; se ricordi andò dalla Bignardi nel 2008, è lì che si è cominciato a parlar di graphic novel, a nobilitare il fumettista come artista eccetera. Parlando di questo lui parlava di applausi, che oggi chiameremmo like. Diceva che nel momento in cui ne hai presi 100.000, il buco che hai dentro ora vale 100.000. Quando ne prendi “solo” 1.000, quindi, ti senti vuotissimo. Se non ne avessi mai presi né 100.000 né 1.000, ne prendi 100 e sei supercontento. Insomma sviluppi un’assuefazione alla fama, come con una droga, e quindi più hai un riconoscimento, più hai bisogno almeno di quella soglia là, tutto il resto è un fallimento. Quindi è questo, secondo me, più che un motivo moralistico stile “ho capito che questa è una via sbagliata” a far sì che la gente si chiami fuori. Tante persone si ritirano come coping per un fallimento percepito: mi convinco di non valere più nulla, quindi non vale neanche più la pena stare qua a provarci. Tanto vale che faccio la vita vera. NELLA SUA PREFAZIONE, FRANCESCO PACIFICO PARLA DELL’UMILIAZIONE CHE STA DIETRO A TUTTO IL MECCANISMO DELLA FAMA, LA CHIAMA UNO “SQUALLIDO IPEROGGETTO”, UN PO’ COME CHRISTOPHER LASCH NEL SUO FAMOSO LA CULTURA DEL NARCISISMO NEL SOTTOTITOLO PARLAVA DI “UN’EPOCA DI DISILLUSIONI COLLETTIVE”, SVELANDO INSOMMA LA POCHEZZA UMANA, SOCIALE E RELAZIONALE DI CUI IL NARCISISMO ERA UNA CONSEGUENZA PRIMA CHE UNA CAUSA. PERÒ POI LEGGENDO IL TUO LIBRO TU SEMBRI INTERESSATO, PIÙ CHE A DECOSTRUIRE LA FAMA E IL BISOGNO DI FAMA, A SVELARNE IN MODO UN PO’ DIALETTICO IL MECCANISMO DESIDERANTE CHE VI SI ESPRIME. AD ESEMPIO, RICONOSCI CHE NEL FAN C’È UN DESIDERIO MIMETICO E UNA VOLONTÀ DI IDENTIFICAZIONE, MA INSISTI PIÙ CHE ALTRO SUL DESIDERIO ESPLICITAMENTE EROTICO CHE RENDE TALE IL FAN. Perché il desiderio erotico è l’ultimo passo prima dell’identificazione. In questo senso è fondamentale la figura della groupie, cioè il fan che si risolve fin dove si può risolvere, perché il rapporto sessuale è questa unione di due corpi, il momento in cui non potresti essere più vicino di così a una persona (che non conosci davvero): qual è la cosa più forte che puoi fare con chiunque? Farci l’amore, no? Con chiunque con cui non hai un altro rapporto invece molto più mentale e spirituale. E quindi sì, quella è la forma che prende nel momento in cui provi ad attualizzarla. L’identificazione invece è un meccanismo psicologico ancora precedente: una delle forze che ci spingono ad ammirare qualcuno di così distante è mettersi nei suoi panni. Questo emerge spesso in tutta quella serie di produzioni testuali che sono la difesa del famoso da parte del fan. C’era un giornalista del Foglio di cui non farò il nome, che per anni ha difeso strenuamente quasi ogni settimana nella sua rubrica i Ferragnez. Se la prendeva con “gli invidiosi” che li criticavano, difendendoli con i soliti argomenti: “tu non sei nessuno, loro stanno a fare i soldi, guarda che bella vita”. Lo muoveva un meccanismo di pura identificazione. Se vuoi, anche di sopravvivenza: se io non sto dalla tua parte, tu mi schiacci. Lui si stava ponendo direttamente nel salotto dei Ferragnez per usare quella violenza contro quelli che in realtà erano molto più simili a lui. Ed è qualcosa di diverso dalla cortigianeria, perché è una cortigianeria tutta proiettiva, immaginaria: che io sappia lui non ha mai avuto davvero accesso alle prebende dei Ferragni, è tutta una difesa psicologica, preventiva. Se io con la mente non mi metto nella parte del rosicone, del perdente, vuol dire che sono un vincente. Voi in questo momento state subendo questo potere che riconosco schiacciante, proprio per questo io devo stare dalla parte del potente. Devo dire “ma guarda che sfigati, che passano il giorno a criticarli mentre loro fanno la bella vita”. Mentre mi esprimo così, io sono già accanto a loro, ai potenti. Non sono tra le schiere dei rosiconi, perché l’ho appena detto, che io no, io non rosico. E questo nell’atteggiamento della difesa del famoso è secondo me la forza principale, lì proprio si vede come si struttura questa cosa: come un asservimento di fronte a questo potere di cui si riconosce la forza. Quanto più riconosci il potere schiacciante del famoso, tanto più ti inchini, diventi un fan. Come dico nel libro, sia essere hater che essere fan sono due modi di difendersi. Se fai l’hater (che è la cosa forse più naturale di fronte a un potere che riconosci come tale), stai anche ammettendo che ti sta facendo del male, cioè che tu rispetto a lui non sei nessuno, cioè stai ammettendo questa differenza. Se invece ti dici “no no, loro fanno bene, io sono con loro, anzi, hai visto come fanno rosicare gli altri”, stai vaneggiando di essere non solo con loro ma come loro, quindi non toccato da questi sentimenti qua, di inferiorità e invidia. QUESTO SPIEGHEREBBE ANCHE QUELLA DINAMICA A CUI ACCENNI SECONDO CUI NON DESIDERIAMO SOLTANTO ESSERE FAMOSI, MA DESIDERIAMO ANCHE AVERE QUALCUNO DI FAMOSO DA AMMIRARE DA LONTANO. IL FAN PUÒ SICURAMENTE AVERE UN SACCO DI RISENTIMENTO, MA POTREBBE COMUNQUE PREFERIRE AVERE DEI RAPPORTI FAMOGENI CON DEI MODELLI PIUTTOSTO CHE AFFRONTARE UNA DISILLUSIONE RISPETTO A QUESTI MITI. INSOMMA ABBIAMO BISOGNO DI AUTORITÀ? Senz’altro, le persone vogliono qualcuno che le guidi proprio perché non ci sono più tre partiti e una chiesa, e magari quattro o cinque famosi che ne incarnano le visioni, a dirti cosa fare. Adesso le figure che ammiri e che prendi a modello sono delle celebrità di nicchia, qualcuno che incarna un tuo flavour di personalità, che ha gli interessi tuoi, che ha una visione morale tua… tua o sua: chi è stato il primo a contaminare l’altro non si sa più. L’ho scelto perché mi corrispondeva o ho iniziato a modellarmi su di lui? Io non credo che questa funzione scomparirà, anzi questa funzione diventerà ancora più forte, come il tuo legame di vicinanza con l’autorità che ti sei scelto. Il tuo Shy di Breaking Italy funziona molto meglio di Pippo Baudo, perché è fatto su misura: è comunque grande, di quella grandezza necessaria per funzionare come un modello, come padre, come maître à penser, però hai l’illusione (che poi non è un’illusione) che l’hai scelto tu, cioè che è comunque qualcosa di coerente col tuo percorso di vita. Prima, una persona alla TV aveva il conduttore di centrodestra, quello democristiano, quello comunista, e tra questa rosa limitata aveva molta più facilità a dire “quello non mi rappresenta, mi è stato calato dall’alto e quindi sì, sono un po’ più d’accordo con quello piuttosto che con quell’altro”, ma se io invece mi sono scelto il mio influencer, l’adesione diventa totale. Questo spiega anche molto astensionismo, la morte della politica rappresentativa: la gente non è più abituata a scendere a compromessi. Certo, ci sono ancora personalità come Trump e Berlusconi che hanno qualcosa che sfugge a questa logica, cioè non sono amati per le singole questioni che condividi con loro, ma per un carisma eccezionale. Nati per ammaliare il prossimo, che sia una tavolata o una nazione intera. Loro sono dei veri e propri famosi nel senso del divismo. Ma sono rari: la “taylorizzazione” (nel senso di “taylor made”, fatto su misura) dei consumi culturali, politici, spirituali, chiamali come vuoi, insomma il fatto che io fruisco la cultura in una maniera sempre più personalizzata, è ciò che fa sì che nessun partito mi rappresenti. I partiti sono dei pachidermi novecenteschi, che non sono pensati per me. Devono prendere un bacino elettorale e quindi avere molta più ampiezza e meno precisione, mentre siamo ormai abituati a un rispecchiamento molto più preciso. EPPURE TU SOSTIENI, A RAGIONE TROVO, CHE, A DISPETTO DI CHI PARLA DI INDIVIDUALISMO, A CAUSA DELLA TECNOLOGIA SIAMO SEMPRE PIÙ MEDIATI E PIÙ SOCIALI: LE PERSONE DIPENDONO COSTANTEMENTE E SEMPRE DI PIÙ DA UN FEEDBACK ESTERNO, IN UN CERTO SENSO SONO MENO ISOLATE E MENO AUTONOME DI UN TEMPO, PARADOSSALMENTE. E IL RISCHIO CHE FAI INTRAVEDERE IN QUESTO RAPPORTO DI CONTROLLO SOCIALE È, INEVITABILMENTE, IL CONFORMISMO. Esatto, sono convinto che la nostra società sia molto più conformista di quelle del passato. La società tradizionale aveva appunto queste agenzie morali, come la Chiesa e lo Stato (al massimo incarnate in alcune voci che ne facevano le veci, ad esempio la famiglia), che erano più rigide ma erano poche, individuabili, e distanti. Qua invece tu sei conformista in ogni momento in cui ti esprimi sul social network proprio per via del feedback costante. In ogni momento ricevi approvazione o disapprovazione. Il social network poi funziona anche tramite bolle, che sono ambienti dei quali conosci già gli orientamenti e le opinioni: tu già prima di ragionare su un tema conosci i posizionamenti dei tuoi pari, hai già in testa questa mappa di opinioni. Per dirla in maniera positiva, diciamo, hai già la società dentro di te, con tutto quello che comporta, di bene e di male. E di male comporta un’autocensura preventiva, una riduzione proprio della libertà di pensiero. Come diceva William James, “molte persone credono di pensare invece riordinano i propri pregiudizi”, e oggi molte persone credono di pensare invece riordinano le voci altrui nella loro testa. Cercano di farle combaciare con la loro percezione del mondo. È una cosa che vivo su me stesso e che vedo molto spesso nella forma che prendono talvolta certe prese di posizione, piene di mani avanti, di considerazioni preliminari… INSOMMA TU LAMENTI UNA CARENZA DI INDIVIDUALISMO, PIUTTOSTO CHE DENUNCIARNE L’ECCESSO COME È ORMAI CONSUETUDINE FARE. E UN ALTRO PUNTO CHE FAI AL RIGUARDO È QUELLO SULLE IDENTITY POLITICS. La critica che si fa spesso alle identity politics da sinistra (in uno spettro che va dalla sinistra estrema all’area rosso-bruna o comunitaria/tradizionalista) è che sarebbero individualiste, espressione dell’ideologia della società delle merci, trionfo del capitalismo, come gli influencer insomma. Ora, il problema è che l’individualismo non è una posizione dell’ego, è una teoria filosofico-politica, e se noi la applichiamo a influattivisti ispirati alle identity politics capiamo che in realtà queste ultime hanno come presupposto proprio la scomparsa dell’individuo: la persona parlante non è un individuo ma è membro di una o più comunità oppresse, e solamente in virtù di questa appartenenza prende parola ed è legittimato a esprimersi. Cosa che peraltro chiunque aderisca a questa visione rivendicherebbe: non sono individualisti, sono collettivisti (di tanti collettivi – è questa l’intersezionalità). Ogni soggettività è formata da una serie di linee di oppressioni, di situazioni per le quali una volta sei nel gruppo privilegiato e una volta nel gruppo oppresso. Io sono convinto che non sia una teoria individualista, e come ti dicevo sono convinto che lo pensino anche quelli che la professano. Quello su cui forse avrebbero da ridire è il fatto che questo loro modo di pensare ben si accorda anche alla logica dei social, dove infatti c’è sempre una persona che sta parlando e che gode di quella esposizione e di quella pubblicità ma è legato all’altro lato, alla comunità perché tutto il suo valore è misurato dalle reaction e dai follower che prende. Cioè l’influencer si esprime per cercare di cogliere un riscontro che è immediato, verificabile, numerico come non lo è mai stato prima nella storia, neanche ai tempi delle hit parade. Lì al massimo potevi ipotizzare che una canzone fosse andata male per via di alcuni motivi che comprendevi a posteriori, invece il sistema del social media ti dà delle metrics precise. Ecco, la soggettività che si espone su un social media è una soggettività molto fragile, che si mette in mano agli altri, le sue parole contano quanto quest’altra collettività le fa contare. E quindi secondo me non solo non sono individualiste filosoficamente proprio alla base le politiche identitarie, ma non è individualista neanche l’utente tipo di un social media: è troppo legato al giudizio altrui, non ha nulla di quella teoria dell’individuo che si differenzia da una società ed è portatore di diritti e di valori a sé propri… Che poi anche questa possa essere una finzione è un altro discorso, ma è una finzione in cui alcune persone si riconoscono e pensano che il mondo dovrebbe essere formato appunto da individui non da pecore. Un social media ti rende egoista, perché ti nutre l’ego quando prendi quelle reazioni, ma non un individualista. RISPETTO A CHI PENSA CHE LE POLITICHE IDENTITARIE SIANO UNA RISPOSTA O UNA REAZIONE ALL’ALT-RIGHT, TU LE LEGGI COME INVECE UNA “RISPOSTA ALLA NEVROSI DELLE SINISTRE STORICHE”. Dico che secondo me sono una filiazione della sinistra. Tra la critica poniamo di un Fusaro o di uno Zhok che le associa all’individualismo e quella di un Jordan Peterson che parla di marxismo culturale, penso che abbia ragione quest’ultimo: è un marxismo che chiaramente perde la centralità della classe, ma ne acquista tot altre che si articolano allo stesso modo. Riprende cioè dal marxismo questa struttura secondo cui c’è una parte della società che opprime e sfrutta e una parte della società che è oppressa e sfruttata. Il marxismo però ha in sé, secondo me, anche l’universalismo, perché il punto è l’abolizione delle classi, l’obiettivo è un mondo in cui non viene più sfruttato nessuno. Se applichi questo discorso alla razza o al genere bisogna capire cosa vuol dire l’abolizione di razza e genere come strutture simboliche. Lì spesso diventa molto più forte la variante operaista del marxismo, in cui una parte che si riconosce come oppressa (in quanto neri, in quanto donne, in quanto gay…) si pone come primo obiettivo il conflitto e la distruzione della controparte. Cosa che poi, calata nella realtà dei fatti, si trasforma semplicemente nel pretendere da questa controparte un tornaconto, fosse anche una visibilità. Anche qui Jordan Peterson non sbaglia nell’individuare questo meccanismo che lui, semplificando, chiama tribalismo. SOSTIENI CHE LA FAMA NON È UN RAPPORTO DI PRODUZIONE, MA DI CONSUMO. C’È CHI CI SI MANTIENE PERÒ. IN MODO MOLTO DIRETTO, AD ESEMPIO, TRAMITE ONLYFANS, COME RACCONTI BENE NELL’ULTIMO CAPITOLO SUL FUTURO DELLA FAMA. UN CASO EMBLEMATICO PER CHIEDERSI CHI COMANDA DAVVERO NEI RAPPORTI DI FAMA: IL FAMOSO (PIÙ POTENTE DEI FAN), O I FAN (DA CUI IL FAMOSO DIPENDE PER ESSERE TALE)? OnlyFan è paradigmatico perché svela che ogni rapporto di libero professionismo è prostituzione. Il famoso stereotipico è un artista che se può fare quella cosa come carriera, come sostentamento, è perché è letteralmente un venduto, perché è una persona che vende quella cosa lì ed è dipendente da un acquirente. Nelle interviste spesso emerge che tipo di rapporto ha con i suoi acquirenti, ovvero con i suoi fan: li odia. Li odiano sia Noyz Narcos sia le Onlyfansers, perché sono delle persone con cui non hanno nessun rapporto, mentre i fan hanno un rapporto completamente fantasmatico con loro, e loro sanno di esserne dipendenti. Dipendenti però non dal singolo fan, bensì dal fan collettivo, quindi quando il fan dice “ti boicotterò” pensa di avere un potere che non ha, perché non ha un sindacato, non è organizzato come un corpo collettivo. Marx spiega bene come i rapporti diseguali e sproporzionati possono essere resi dialettici se quella massa di singole persone che producono plusvalore si organizzano. Le opere di boicottaggio collettive possono funzionare in questo senso. Quindi in un certo senso la cancel culture è un atto sindacale: la cancel culture riuscita è una protesta dei fan che nella loro indignazione etica nei confronti di un famoso formano questo sindacato. Certo, è la folla linciante girardiana, ma è anche un sindacato, cioè è una forza talmente grande da impattarti sul serio ‒ e infatti il famoso si rende conto che deve rendere conto: farà ad esempio la pubblica scusa, dovrà ritrattare, insomma, deve farci i conti in qualche modo. Questa asimmetria si inverte solamente nel momento in cui tu hai a che fare con il tuo fan collettivo. Questo perché il famoso vale di più di un non famoso. Ma l’operaio l’ha sempre saputo in qualche misura che lui singolarmente per la Fiat non vale nulla, e che vale solamente se è organizzato, il fan lo sa un po’ di meno. Avendo questo rapporto emotivo con il famoso, vive un’illusione di mutuo riconoscimento, di reciprocità. C’È QUALCOSA DI POLITICO QUINDI IN QUESTA INDIGNAZIONE PUBBLICA E COLLETTIVA? La call out culture, cioè il momento inaugurale della cancel culture, il momento in cui la gente si indigna perché un famoso ha fatto qualcosa di sbagliato o qualcosa che è percepito come tale, è qualcosa di più della sanzione di un uso illegittimo della fama. Al famoso viene rimproverato non solo ciò che ha detto e pensato, che sì, è anche sbagliato in assoluto, ma è davvero sbagliato perché lui ha un seguito: lui è responsabile di tutto quel following che ha. C’è qualcosa di molto profondo che emerge in alcuni episodi di tentata cancellazione: quando si comprende che forse il fatto in sé non era così grave ma lo diventa perché quella persona è così famosa, la folla di fatto si sta vendicando della fama; quello che sta facendo pagare al famoso di turno è il fatto stesso di essere famoso. Si arriva così a un certo punto in cui cade la maschera. Le persone rivelano di essere oltraggiate dal potere arbitrario che questa persona ha, che non può essere giustificato dal fatto che è un grandissimo attore e quindi può anche influenzare nel bene e nel male. Il problema non è che non puoi influenzare nel male, si arriva a un certo livello del ragionamento collettivo secondo cui non li potresti influenzare neanche nel bene: il potere, la visibilità, il follow che hai non è assurdo solo il giorno che sei ubriaco e scrivi la N word su Twitter, è assurdo anche tutti gli altri giorni in cui non la scrivi. Se la dice mio nonno a Natale, infatti, non è così grave come se la dice Manuel Agnelli. Quello che tu imputi a Manuel Agnelli non è tanto che l’ha detta, ma che l’ha detta di fronte a 100.000 persone. E se semplifichi i vari termini di questo discorso come se fosse un’equazione, ti rendi conto che non c’è nulla che lo legittimi neanche quando dice il giusto. Non c’è un mandato popolare che qualcuno gli ha dato per dire il giusto, quindi nel momento in cui dice qualcosa di sbagliato, dici “ma perché questo sta qua?”. In molti casi il punto passa dall’uso illegittimo del potere alla stessa legittimità di questo potere. Sei stato irresponsabile, ma questa responsabilità perché ce l’hai? Associare fama e merito (“ce l’hai perché hai tanti follower, e li hai perché sei bravo”), è un discorso che arriva come razionalizzazione di una violenza che inconsciamente il follower sa di stare subendo. Questo discorso razionalizzante in cui ciò che è reale è razionale ed è giusto e viva così, durante tutto il Novecento viene messo in discussione. Per gli antichi la fama era un attributo che veniva già a chi se l’era meritato, perché era una persona carica di responsabilità, era un governante, cioè aveva una legittimazione ulteriore. Nel corso della storia della fama, tutti abbiamo capito che la fama può essere arbitraria, cioè che un famoso può essere stato semplicemente graziato dal Signore. Magari ha avuto una mezza idea buona, però la verità, quello su cui si basa tutto questo potere, è che ti sei trovato alla fine al posto giusto al momento giusto. La storia della fama è anche una storia di come è cresciuto questo sospetto nei confronti della fama: tutti oggi abbiamo una qualche cognizione del fatto che nessuna fama è pienamente legittima, pienamente meritata. L'articolo Tutti famosi proviene da Il Tascabile.
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L’ ultima opera di Jean-Luc Godard, Adieu au langage (2014), chiude un discorso che il cineasta ha condotto nell’arco di tutta la sua filmografia. L’opera si articola a partire dal pretesto di un melodramma amoroso inconsistente, attorniato dalla Storia e dalla contemporaneità, che premono all’unisono per insidiare i pensieri dei protagonisti, alle prese con la svilente contingenza del vivere quotidiano. Le riflessioni enunciate con indisciplina dai due personaggi, incapaci di comunicare, coincidono con quelle del regista. Così, senza alcuna ragione apparente, Josette (Héloise Godet) si rivolge a Gédéon (Kamel Abdelli) e racconta: “Quando un bambino, entrando nella camera a gas, ha chiesto alla madre perché, l’SS ha risposto: kein warum”. Nessun perché. La violenza assoluta non ha ragione alcuna. Nel dopoguerra, la denuncia di quanto accaduto nei campi di sterminio nazista lasciò attonita un’intera generazione di intellettuali e artisti, chiamati a interrogarsi sulle rappresentazioni possibili dell’indicibile e dell’insensatezza. Al contrario, in merito a quanto sta accadendo in Palestina, si producono incredibili quantità di contenuti testuali e visivi, nella forma di articoli di giornale, caption dei post sui social media, reel e caroselli, immagini con disclaimer ed edulcorati servizi televisivi. Nessun utente al mondo ha davvero il tempo per poter fruire di tutte le informazioni condivise, né per poterne verificare l’esattezza o le intenzioni. Si tratta di una valanga di materiali e risorse travolgente e al contempo inefficace. Una tale vanità dipende dal fatto che non esistono parole per nominare le atrocità di un genocidio come quello in corso da quasi due anni, specialmente se finanziato e normato da potenze che si appellano ai valori democratici dello Stato di diritto. Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso. Se tutto è opinabile, senza alcun fondamento teoretico, e nemmeno le immagini che catturano la realtà possono essere considerate veritiere, se gli accordi internazionali non sono rispettati dalle stesse istituzioni che le hanno redatte, allora il linguaggio non ha più alcuno scopo, né senso di esistere. > Non è stato possibile sviluppare alcun tipo di dispositivo linguistico per > dare un senso all’insensatezza, alla vertigine dinanzi all’abisso nichilista > nel quale sprofonda la coscienza, ogni volta che le parole e le convenzioni, i > patti e la giurisprudenza vengono svuotati di senso. Nel quadro teorico di Michel Foucault, il linguaggio è uno dei dispositivi che rientra nelle tecnologie del sé attraverso le quali individui e collettività possono esercitare la libertà di autodeterminarsi e trasformarsi, al di fuori delle dinamiche egemoniche. Partendo dall’assunto secondo cui le tecnologie del sé sono sempre ostacolate dalle tecnologie del potere, è possibile osservare come, a partire dall’inizio del nuovo millennio, l’oppressione imposta alla libera autodeterminazione dei popoli e delle soggettività sia da ricondurre agli interessi degli oligarchi ultramiliardari dell’industria digitale, correlati ai profitti dell’industria bellica. L’influenza di quest’ultima, nella sua forma più apertamente oscena, si manifesta nelle politiche per il riarmo dei Paesi occidentali, finanziato con denaro pubblico. Perciò, dal momento in cui le tecnologie del sé sono state sistematicamente impoverite e capitalizzate dalle tecnologie del potere, si potrebbe dire che la profezia di Herbert Marcuse si sia del tutto avverata: i soggetti del sistema capitalista, identificandosi come individui senza società, sono invero schiacciati da quella stessa società a una sola dimensione, privati del pensiero critico e incapaci di esprimersi liberamente. L’indottrinamento di massa opprime il pensiero, il logos, fino a indurlo all’“universo totalitario della razionalità tecnologica”, nella quale il dislivello fra il linguaggio come tecnologie del sé e gli altri dispositivi del potere rende la parola antiquata, inadeguata e sempre in ritardo rispetto a ciò che la corrompe. Così, la civiltà occidentale ha perso la capacità di nominare ciò che produce, di dare un senso alle conseguenze delle proprie azioni. L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che utilizzano o, per meglio dire, dalle quali si fanno utilizzare. Di conseguenza, oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini senza fornire concetti, appiattendo la parola solamente a un misero cliché unidimensionale. La crisi del linguaggio è un tema degli anni Venti del nuovo millennio, ma è soprattutto una delle questioni novecentesche per antonomasia. Il secolo breve è stato attraversato dall’ultimo colpo di coda del pensiero positivista e puntellato da catastrofi come l’insediarsi dei totalitarismi, la pianificazione dell’olocausto e le persecuzioni nazifasciste ai danni di qualsiasi soggetto non fosse conforme al pensiero unico. A partire dal linguaggio, tutti gli irrisolti del Novecento si ripropongono nell’epoca attuale in una forma esasperata. Se dalle ceneri della Seconda guerra mondiale sono sorte le parole che compongono la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e solo settantasette anni dopo il mondo è nelle mani dei neofascisti; se le sorti della civiltà umana dipendono dalla volontà di Trump e Netanyahu, di al-Sisi ed Erdoǧan, di Orbán e Putin, di Bolsonaro e Milei, allora i diritti universali sono solo cliché. Lo sono anche le parole degli intellettuali che tentano di tenere insieme i valori democratici, rinnegandoli. Sulla maggior parte dei quotidiani occidentali, si sostituisce il termine resistenza con terrorismo e si rinnega la legittimazione politica di Hamas, eletto da un popolo senza Stato e senza costituzione, poiché occupato. Al contempo, l’informazione mainstream non fatica a riconoscere come democratico l’esito che ha portato Netanyahu a essere presidente dell’entità colonialista israeliana dal 1996 al 1999, dal 2009 al 2021 e dal 29 dicembre 2022 a oggi. > L’iperconnessione tecnologica della contemporaneità ha definitivamente privato > gli individui delle capacità di attribuire significato alle parole che > utilizzano: oggi il linguaggio è composto da unità che designano immagini > senza fornire concetti. Parrebbe che una lunga tradizione stia conducendo l’umanità alla fine della Storia, al collasso della civiltà, senza troppi intoppi. La crisi del pensiero occidentale è imbrigliata in un vortice che lo costringe in un presente continuo, senza memoria né futuro. Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia davanti all’orrore, lo smascheramento del logos come dispositivo e la messa in discussione dei valori fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha permeato il mondo intero. Pertanto, un’opera come Persona (1966), una delle più note di Ingmar Bergman, soprattutto se esaminata attraverso l’analisi critica di Susan Sontag, può essere considerata estremamente contemporanea. In uno dei capitoli centrali della raccolta di saggi intitolata Stili di volontà radicale (1969), Sontag si dedica al film del cineasta svedese a partire da alcune falle argomentative, mosse dalla critica culturale dell’epoca, per poi concentrarsi sulle questioni esistenziali e metafisiche che rendono Persona un’opera sempiterna, ma anche un esempio canonico di cinema moderno. Lo fa sottolineando come sia del tutto inutile, per non dire svilente, ridurre un lavoro del genere a un dramma psicologico da camera, o peggio a un tentativo di estetizzare la natura cannibalica dell’artista rispetto alla realtà, intesa come materia prima di cui nutrirsi per creare o performare. La sinossi del film, nella sua versione più essenziale, è la storia di Elisabeth (Liv Ullmann), una famosa attrice di teatro, e della sua infermiera Alma (Bibi Andersson), incaricata di prendersi cura della paziente e di stimolarla a riprendere l’uso della parola, alla quale ha deliberatamente rinunciato. La psichiatra si è fatta convinta di aver compreso il caso di Elisabeth. Esclude disturbi mentali o danni neurali e sostiene che la sua paziente voglia smettere di parlare perché non intende più recitare né sul palcoscenico, né al di fuori. Non vuole più mentire e per farlo, escludendo il suicidio, non le resta che rifugiarsi nel mutismo. Così come Bergman trascende sul legame passionale o sessuale fra le due protagoniste, allo stesso modo agisce rispetto al piano dell’etica, della psicologia e della narrazione lineare, perché, seguendo l’analisi critica di Sontag, il cineasta “può fare molto di più che limitarsi a raccontare una storia”. Il suo obiettivo è quello di coinvolgere il pubblico in modo più diretto su altre questioni. La de-drammatizzazione, come modalità narrativa, prevede che il significato di un film non sia determinato dalla trama. La filosofa e intellettuale femminista contrappone concettualmente l’andamento progressivo e lineare della narrazione, tipica dei film hollywoodiani, a quello composto da “continui rimandi retrospettivi o incrociati”, che invitano a “un’esperienza ripetuta, alla visione multipla”, esigendo che “lo spettatore o il lettore ideale si collochi simultaneamente in punti diversi della narrazione”; un espediente che “ovvia alla necessità di stabilire uno schema cronologico convenzionale”. In Persona, il nodo concettuale è quello delle variazioni sul tema del raddoppiamento, “quali la duplicazione, l’inversione, lo scambio reciproco, l’unità e la scissione, la ripetizione”, che impedisce di interpretare l’azione dei personaggi in modo univoco. I livelli di lettura si articolano, da un lato, in una dimensione più superficiale, incentrata sul duello identitario; dall’altro, in una chiave più astratta, che mette in scena il conflitto tra componenti mitiche di un medesimo Io, lacerato tra corruzione e ingenuità. Ancora, il tema del raddoppiamento è soprattutto un’idea di forma, più che di sostanza, poiché il raddoppiamento si manifesta anche in senso metacinematografico, cioè metalinguistico. Al duello fra identità, Sontag preferisce concentrarsi sull’ambiguità insita nel linguaggio, costituito, nella sua ultima essenza, da significato e significante. L’elemento autoriflessivo non è sovrapposto all’azione drammatica, ma corrisponde al livello di lettura privilegiato dall’autore, dedicato alla forma e al tema del raddoppiamento. > Sono ancora terribilmente attuali l’inerzia davanti all’orrore, lo > smascheramento del logos come dispositivo e la messa in discussione dei valori > fondanti della civiltà egemonica e colonizzatrice, che ha permeato il mondo > intero. Nella seconda parte di Stili di volontà radicale, ci si può soffermare sulle descrizioni di alcune sequenze che manifestano episodi di autoriflessione metacinematografica, collocati sia all’inizio, sia alla fine del film, componendo una cornice. Si menziona anche il monologo ripetuto due volte da Alma sulla maternità di Elisabeth, dove i loro volti in primo piano si alternano come unici protagonisti dell’inquadratura, fino a spartirla per metà, confondendosi. Il mezzo cinematografico non si nasconde, ma divelta lo schermo; sfida la sospensione dell’incredulità esercitata dallo spettatore e lo disillude per condurlo a riflettere. Sontag inquadra la scena culturale internazionale nella quale scrisse il saggio dedicato a Persona, citando una frase estrapolata dalla nota lettera di Pier Paolo Pasolini a Marco Bellocchio, nella quale osserva come nel cinema moderno “si sente continuamente la presenza della macchina da presa”. In realtà, Pasolini si riferiva non tanto a Bergman quanto a Godard rispetto all’individuazione della nascita del cinema di poesia. Nella lettera, riconduce il cinema delle origini a questa categoria “a causa soprattutto, probabilmente, delle restrizioni prosodiche del muto”. Nel ripercorrere la storia del cinema, prosegue fino a rintracciare la perdita di lirismo nelle ragioni commerciali, che ha condizionato la settima arte a esprimersi in prosa, in uno stile che predilige il dramma alla forma e la narrazione al linguaggio. Al contrario, nel cinema di poesia, traspare ogni elemento teorico o materico che compone il mezzo cinematografico, sovrapponendosi alla diegesi. Senza cadere in congetture elitarie, Pasolini non pone gerarchicamente un linguaggio al di sopra dell’altro e per di più sostiene che “si sono avuti dei capolavori di prosa – veri e propri romanzi – mettiamo da Ford a Bergman.” Rispetto a quello pasoliniano, il punto di vista di Sontag è differente: in Persona, il lirismo è dato dal movimento di flessione metalinguistico, da una cura della forma, che svela la mano dell’autore e trascura la trama. Lo dimostra con l’analisi del monologo di Alma, a seguito del quale i volti delle due protagoniste convergono, accennando a come Bergman, in senso brechtiano, alteri il ruolo dello spettatore. Se si manifesta la presenza della macchina da presa, allora ciò che si filma perde lo statuto di realtà documentata: il mezzo non appare più neutrale, assume il ruolo di strumento attraverso cui la realtà è manipolata per essere immortalata e resa visibile. Nel cinema moderno, la differenza fra le produzioni hollywoodiane del dopoguerra e i film d’autore, secondo Sontag, deriva da un atteggiamento stilistico: “quello che i cineasti contemporanei mostrano sempre più spesso è il processo stesso della visione, fornendo ragioni o prove dell’esistenza di modi diversi di vedere la stessa cosa, che lo spettatore può sperimentare simultaneamente o sequenzialmente”. In Persona, i momenti dialettici della riflessione metacinematografica conducono a un’autofagocitazione del film stesso, in linea con “l’iper-raffinata autocoscienza dell’arte contemporanea, che condurrebbe a una sorta di autocannibalismo”, ma anche a una “liberazione di nuove energie di pensiero e di sensibilità”. La lettura proposta diverge da quella di Pasolini non solamente rispetto al mutamento di relazione fra autore, linguaggio cinematografico e spettatore. Secondo l’autrice, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme e oggettiva. L’autore di Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole (1957) e Sussurri e grida (1972) sposta l’attenzione su ciò che della realtà non si può raccontare. In Stili di volontà radicale, Sontag introduce il concetto di principio di intensità per il quale nei film di Bergman “i personaggi che percepiscono qualcosa intensamente finiscono per consumare, per esaudire, ciò che sanno e sono costretti a passare ad altro” perché “ogni conoscenza profonda e indefessa si rivela prima o poi deleteria”. Malgrado ogni epoca storica ne abbia prodotte di svariate, incongrue fra loro e spesso anacronistiche, l’umanità non può ambire ad alcuna verità assoluta. E sebbene ogni individuo della specie umana debba necessariamente ricondurre le proprie esperienze, il proprio vissuto, a una singola unità soggettiva, nessuno può rientrare in un’unica definizione identitaria, poiché nemmeno l’identità personale è assoluta o immutabile, ma sempre composita, ambigua e volubile. Riflettere sull’artificio dell’individualità conduce a una vertigine “in cui sprofonda la coscienza” minando il coesistere in società: “Se per conservare l’identità personale occorre salvaguardare l’integrità della maschera, e se la verità su una persona comporta sempre il suo smascheramento, l’incrinatura della maschera, la verità sulla vita nel suo complesso, comportano lo sgretolamento dell’intera facciata, dietro cui si cela una crudeltà assoluta”. > Secondo Sontag, Bergman supera Bertolt Brecht e aggiunge un altro elemento > allo shock dello svelamento, mostrando non solo la presenza della macchina da > presa, ma anche l’impossibilità di catturare e restituire una realtà uniforme > e oggettiva. L’esistenza tiene in serbo un destino ineludibile e con esso quello che Sontag, rispetto al tema centrale di Bergman in Persona, definisce come “violenza dello spirito”, evidente nella sequenza iniziale del film. La cornice d’apertura metalinguistica è composta dal susseguirsi di una carrellata di immagini rapide, sia conturbanti che perturbanti: si alterna la visione di un chiodo conficcato a colpi di martello sul palmo di una mano a quella di un pene in erezione, il sacrificio di un monaco buddista nel Vietnam del Sud all’inquadratura stretta sui cadaveri di un obitorio. Oltre all’orrore, Bergman mostra una platea vuota, il palcoscenico e chi lo calpesta con una maschera di trucco sul volto. L’attrice è Elisabeth, la stessa che, nell’articolarsi del film, più volte si sofferma su immagini di violenza assoluta, come la nota fotografia del bambino deportato dal ghetto di Varsavia, o su altre, identiche a quelle dell’incipit, come quella del bonzo che si dà fuoco a Saigon. L’utilizzo di riferimenti alla contemporaneità nel film di Bergman non ha la stessa valenza politica di quelli presenti nelle opere di Jean-Luc Godard, bensì ha lo scopo di dire l’indicibile, mostrare l’inimmaginabile, al di sopra di qualsiasi considerazione sulla morale o sulla politica. Come sottolinea Sontag, “Bergman fa un uso estetico della violenza”, divergendo dalla retorica progressista dell’epoca. Una successione simile di fotogrammi disturbanti sull’orrore dell’abisso si può ritrovare nell’ultimo film di Lars von Trier: The House That Jack Built (2018). L’espediente narrativo è quello di entrare nella mente di un serial killer, compiendo una discesa agli inferi, in una catabasi sempre più surreale, dove il protagonista pluriomicida è accompagnato da Virgilio. Il montaggio seziona il film in capitoli, puntellati di sequenze extradiegetiche, dove il tema principale riguarda il precetto classicista del kalòs kai agathós e il ruolo dell’etica nel fare arte. Jack è un narcisista patologico, ossessivo compulsivo e predisposto alle dipendenze. È convinto di essere dotato di eccezionale talento artistico e crede che sarebbe potuto diventare un grande architetto, se solo non glielo avessero impedito. Il suo unico scopo è quello di realizzare un edificio iconico. Nel tentativo di raggiungere la consacrazione artistica, l’ostacolo principale nel quale si imbatte il protagonista dipende dal fatto che la casa costruita da Jack è composta da materiali del tutto inediti nel campo dell’edilizia, dato che quelli solitamente impiegati non lo soddisfacevano abbastanza. Si tratta di cadaveri umani congelati, modellati e assemblati l’uno a l’altro per mano del sedicente architetto. Rispetto al rapporto fra etica e arte, il punto di vista di Jack risulta particolarmente esplicito in una delle scene finali del film, quando dichiara che “tutte le icone che hanno avuto e avranno sempre un impatto sul mondo sono per me arte stravagante”. L’affermazione, pronunciata in voice over, è sottolineata da una carrellata di filmati e immagini che ritraggono i dittatori del Novecento e le peggiori atrocità, delle quali sono i principali responsabili: mucchi di cadaveri ammassati con una macchina spalatrice, persone ancora vive nelle baracche dei lager nazisti, cadaveri lanciati in fosse comuni, mutilati di guerra, bambini malnutriti ridotti a scheletri. Secondo il protagonista, il suo modo di fare arte è quello di svelare l’indicibile e mostrare il male assoluto, per definirlo nichilisticamente solo come una mera categoria morale, relativa al bene, assente in natura e presente solo nella logica del pensiero umano. Il bene e il male, il bello e il brutto sono artifici. È possibile commettere dei crimini perfetti così come è possibile riconoscere il bello nella decadenza o persino nella decomposizione della materia. Nel dialogare con Virgilio, Jack espone le sue ragioni, paragonando il processo di decomposizione di un essere umano con quelli adottati per la produzione di vini da dessert. Cita il gelo, la disidratazione e l’utilizzo della muffa nobile come le tre più comuni forme di decomposizione degli uvaggi e chiosa: “È il degrado a nobilitare il grappolo vivo, fino a farlo diventare un’opera d’arte”. In The House That Jack Built, l’estetica della morte e della violenza rappresenta il filo conduttore di tutto il film. Tornando a Bergman, il male, l’abisso e l’orrore si manifestano in Persona a partire da un altro principio nichilista, ovvero la dissoluzione dell’identità delle due protagoniste. Il processo di annullamento e disgregazione della personalità dei due soggetti avviene a partire dalla messa in discussione del ruolo del linguaggio, definito da Sontag come il dispositivo capace di “gettare un ponte sull’abisso”. La parola definisce, mette ordine, crea la norma e stabilisce i confini necessari per significare sia il soggetto che parla, sia l’oggetto di cui si parla. L’autrice non trascura il contesto in seno al quale avviene la contestazione del linguaggio negli ambiti del cinema moderno e della letteratura dell’epoca, citando, fra i tanti, Jean-Luc Godard, Michelangelo Antonioni, Gertrude Stein e Samuel Beckett. Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”. Se Elisabeth ha deciso scientemente di preferire il mutismo e rinunciare all’oralità, Alma è impegnata nella verbalizzazione del mondo a fini terapeutici, come atto generoso e benefico, compiuto per il benessere della sua paziente. Il dramma o la rottura avviene nel momento in cui il silenzio diviene violento, provocatorio e crudele. Sontag definisce il mutismo di Elisabeth come strumento di inganno, di smascheramento e di autorivelazione. Per tutta la durata del film, la narrazione procede per sottrazione o per “assenze di enunciazione” che, a poco a poco, minano la fiducia riposta nel linguaggio da parte di Alma, portandola a farsi carico dell’angoscia di Elisabeth. Lo scambio di identità fra le due protagoniste avviene attraverso il vuoto che l’attrice crea in risposta al tentativo dell’infermiera di mostrare il linguaggio come un dispositivo innocuo. Lo sforzo compiuto da Alma le si ritorce contro: la verbalizzazione del mondo, priva di alcun tipo di interlocuzione, rivela l’insensatezza della parola e la sua pericolosa contingenza. In modo analogo, il silenzio attorno alla condizione palestinese ‒ oppure il rumore assordante dei discorsi svuotati di contenuto ‒ riflette la stessa impossibilità di comunicazione autentica. Il linguaggio, anziché fungere da ponte, diventa strumento di esclusione, rimozione, delegittimazione. > Con Persona, Bergman si spinge oltre al tema dell’incomunicabilità o del > fallimento della parola e si concentra sul dimostrare “l’assenza di un > linguaggio appropriato, di un linguaggio veramente pieno”. Sontag usa la lente del cinema di Godard per comprendere lo sviluppo del tema del linguaggio in Bergman. Entrambi sono definiti come “asceti esemplari”, “grandi eroi culturali” e al contempo “grandi distruttori”, ma il cineasta francese lo è stato con ancor più scientezza, contribuendo a tracciare il solco di una tendenza che accomuna le forme d’arte dell’epoca, ovvero quella all’autoreferenzialità. La produzione di opere meta-artistiche ha lo scopo di risemantizzare la relazione fra artista e pubblico, di riconfigurare la sensibilità degli spettatori, e Godard lo ha fatto a partire dalla realtà fuori dal cinema, dalla contemporaneità e dalla politica, mettendo in scena idee astratte. Come lui stesso dichiarava, “Noi cineasti, come i romanzieri, siamo condannati ad analizzare il mondo e la realtà”. Si definiva un saggista o un romanziere, immerso nel contesto della letteratura moderna, per la quale non è più d’interesse raccontare la vita delle persone, raccontare una storia, ma piuttosto scrivere solamente della vita. Rifiutando radicalmente le strutture formali della narrativa, Godard erige un cinema poetico e concettuale, fatto di trame intermittenti e grossolane, al contrario di quelle delle opere di Bergman, che Sontag definisce come “indeterminate”. Ambiva ad abitare la realtà tramite una struttura filmica che utilizzi il presente come tempo verbale e che stia nel solco fra la perfezione delle idee, del seducente artificio insito nel logos, e “l’opacità brutale della condizione umana”. Il linguaggio filmico adottato dall’autore di Bande à part (1964) è in totale apertura verso il pensiero astratto e il mondo delle idee; pertanto è dissociativo, composto da una colonna sonora intermittente, un montaggio rapido e inquadrature disorientanti. Godard trasgredisce la regola estetica del punto di vista unitario, annullando la distinzione tra narrazione in prima persona e in terza persona, “facendo della persona del cineasta l’elemento strutturale centrale della narrazione cinematografica” e che però non corrisponde “a una lucida intelligenza autoriale”. In altre parole, l’autore fuori campo è dotato di una coscienza turbata e più estesa rispetto ai personaggi del film. Muovendosi nella scena modernista, Godard confonde le prospettive narrative per favorire un maggiore rigore formale, dall’effetto alienante. Si tratta di un metodo che consente l’apertura verso la concettualizzazione astratta di ciò che non può essere espresso attraverso la logica di una narrazione lineare e che consente di esplorare il cinema, facendo cinema. > La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il > linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al > controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, > fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione. Ordinando il discorso in soggetto e oggetto, il linguaggio è capace di mediare e definire. Di fatto, se non esistono definizioni di identità senza la parola, mettere in discussione la normatività del dispositivo linguistico significa smascherarne l’artificiosità e dubitare di qualsiasi assolutismo, ma anche della presunta autenticità dietro alla determinazione di ogni individualità. Il cinema è il mezzo individuato da Godard per distruggere e demistificare il linguaggio, proprio perché è “la truffa più bella del mondo”, parafrasando il titolo del film collettivo di cui il cineasta francese diresse il quinto episodio, Il profeta falsario (1964). Sulla scia della riflessione proposta da Sontag, rinunciare a una narrazione sensata e lineare, porre l’attenzione sul significante e non sul significato, consente di “incorporare il caso” attraverso l’improvvisazione. Catturare ciò che sfugge alla logica significa stare nella spontaneità della contingenza. Godard lo ha fatto attraverso l’utilizzo di auricolari per guidare gli attori, in un dialogo diretto con la macchina da presa, ma anche conservando suoni extradiegetici o rumori ambientali nelle tracce audio e arrivando sul set senza una scaletta tecnica o un piano di regia dettagliato. La radicalità del gesto godardiano stava nell’aver previsto, già dagli anni Sessanta, la dissoluzione imminente della parola come veicolo di senso. Il suo cinema, rinunciando programmaticamente alla linearità narrativa, intuiva una condizione di spaesamento cognitivo che oggi si è pienamente realizzata: l’incapacità collettiva di discernere, comunicare e comprendere. In questo scenario, le immagini non raccontano più, ma si accumulano, svuotate di forza semantica; le parole si moltiplicano, ma non incidono. La realtà contemporanea ha ormai superato l’immaginazione più distopica. Il linguaggio è probabilmente il primo dispositivo tecnologico sfuggito al controllo dell’umanità, incapace di utilizzarlo senza esserne sopraffatto, fino ad arrivare alla sua totale dissoluzione, alla quale attualmente si assiste. Oggi, di autori come Bergman e Godard, Sontag e Pasolini si sente la mancanza; del logos rimane solo la sua rigida e sadica spietatezza, tale per cui l’intellighenzia occidentale si è interrogata per quasi due anni sull’utilizzo appropriato del termine genocidio, scrollando video e immagini del massacro di un popolo, finanziato con il benestare della sedicente società civile. L'articolo Oltre la parola proviene da Il Tascabile.
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Il lato oscuro dei social network di Serena Mazzini
N el 2014, la campagna/performance Wages for Facebook denunciava il nostro essere lavoratorə sfruttatə dalle compagnie tech che possiedono i social network che utilizziamo quotidianamente. > La chiamano amicizia, noi lo chiamiamo lavoro non retribuito. Con ogni like, > chat, tag o poke la nostra soggettività li fa guadagnare. Loro la chiamano > condivisione. Noi lo chiamiamo furto. […] > Chiedere un salario per Facebook significa rendere visibile il fatto che le > nostre opinioni ed emozioni sono state distorte per una specifica funzione > online, per poi esserci riproposte come un modello a cui tuttə dovremmo > conformarci se vogliamo essere accettati in questa società. Traslando le rivendicazioni emerse negli anni Settanta da Wages for housework (Retribuzione per il lavoro domestico), la campagna portava alla luce le condizioni materiali di un mondo in apparenza totalmente astratto, quello della rete. Ma in che senso non siamo semplici utenti, ma siamo ormai soprattutto lavoratorə sfruttatə per il profitto delle aziende tech? Nel suo libro Il lato oscuro dei social network. Come la rete ci controlla e manipola (2025), Serena Mazzini ci spiega questo e altri meccanismi che si celano dietro agli scroll, ai click e ai post che produciamo quotidianamente. In questo suo primo saggio, che ha il pregio di essere estremamente comprensibile e scorrevole, Mazzini, la quale ha lavorato a lungo nell’ambito della comunicazione come strategist, racconta di aver analizzato i dati delle piattaforme quotidianamente, per servirsene per aiutare influencer a creare contenuti “affinché apparissero più sinceri, autentici e credibili”. Diviso in capitoli che si soffermano su vari aspetti delle dinamiche social, il libro è la breve storia di come la rete è passata dall’essere un sogno di comunità e collaborazione globale, a diventare uno strumento di controllo, manipolazione e potere, portandoci a vivere e creare un mondo in cui tutto è sintetico e artificiale, mentre si impegna ad apparire autentico; che si tratti di prodotti, mete turistiche, hobby, i nostri rapporti o la nostra stessa identità. > La rete è diventato un mondo in cui tutto è sintetico e artificiale, mentre si > impegna ad apparire autentico; si tratti di prodotti, mete turistiche, hobby, > i nostri rapporti o la nostra stessa identità. Quando Internet ha cominciato a diffondersi nelle nostre case, quasi nessunə si sarebbe aspettatə che cosa sarebbe diventato. Sebbene le dinamiche che adesso vediamo esplose fossero contenute in nuce in quei primi esperimenti di connessione globale – da subito, per esempio, la creazione di una identità virtuale parallela in cui nascondersi/rifugiarsi caratterizzava l’esperienza dei forum e delle chat – ci sono alcune tappe che hanno segnato in maniera irreversibile il nostro rapporto con il digitale, ma che soprattutto hanno permesso al digitale di instaurare quella che nel libro è definita come una vera e propria “mutazione antropologica”. Chi si ricorda Indymedia tra gli anni Novanta e i Duemila, non poteva immaginare cosa sarebbe accaduto con l’avvento di Facebook nel 2004, che Mazzini indica giustamente come una delle tappe principali di questa mutazione. Nel 2010, la nascita di Instagram e l’inserimento della fotocamera anteriore nell’iPhone, hanno marcato in maniera definitiva l’impatto del visivo come dominio inscalfibile delle nostre quotidianità. Se all’inizio di Facebook postavamo degli “aggiornamenti” un po’ goffi, in seguito all’avvento di queste novità “lo smartphone divenne un dispositivo per la condivisione immediata di esperienze personali; e i social network, da piattaforme web, divennero applicazioni accessibili sempre e ovunque, capaci di trattenere l’attenzione degli utenti e di integrarsi in maniera capillare nella vita quotidiana”. Difficile pensare, nella storia recente, a un cambiamento così drastico ed enorme nei modi in cui percepiamo noi stessi, le altre persone e il mondo circostante, difficile pensare a qualcosa che più di questo ha modificato le nostre abitudini e i nostri modi di vivere le relazioni e gli spazi. Ma torniamo ai salari: in che senso siamo lavoratorə sfruttatə? I sensi sono in realtà molteplici. Wages for Facebook affermava che “quando parliamo di Facebook non stiamo parlando di un lavoro come gli altri, ma della manipolazione più pervasiva, della violenza più sottile e mistificata che il capitalismo ha recentemente perpetrato contro di noi”. La nostra presenza sui social network, ormai dovremmo saperlo, non è neutra. Qualunque nostra attività è registrata e utilizzata come dato, merce preziosissima nell’economia tecnocapitalista. I nostri like, le nostre interazioni con post, reel, video, gli articoli che leggiamo, le pagine che seguiamo, i prodotti che cerchiamo online, tutto serve ad alimentare quell’enorme tesoro che sono i dataset, che le aziende utilizzano per creare il loro profitto e per alimentarlo, propinandoci, attraverso gli algoritmi, contenuti sempre più mirati e sempre più targettizzati, creando bolle e realtà parallele che contribuiscono a dividere e parcellizzare le popolazioni (e che contribuiscono inoltre allo sviluppo dei software di Intelligenza artificiale). Questa visione non è semplicemente riflesso di un timore legato alla paura del “progresso” o alla demonizzazione degli strumenti digitali, ma è piuttosto, come afferma anche Mazzini, l’osservazione di una realtà fattuale: siamo prodotti, e al contempo lavoriamo gratuitamente. Uno dei modi in cui l’utilizzo dei social ha completamente plasmato la nostra realtà è esemplificato in maniera estremamente evidente dalla maniera in cui la politica istituzionale se ne è servita per creare bolle di opinione e polarizzare l’opinione pubblica. Mazzini riassume bene il modo in cui Donald Trump se ne è servito per raccogliere un consenso sempre maggiore, coalizzandosi anche con i proprietari delle aziende tech. Stiamo assistendo proprio in questi mesi alle dinamiche (e ai teatrini) fra Trump ed Elon Musk, personaggio sempre più al centro della politica statunitense. Un esempio più circoscritto, ma anche più vicino geograficamente, è la cosiddetta Bestia, il meccanismo propagandistico ideato da Luca Morisi per sostenere Matteo Salvini nell’acquisizione di consenso e voti a partire dal 2017. > Non si tratta di paura del “progresso” o di demonizzazione degli strumenti > digitali, è l’osservazione di una realtà fattuale: siamo prodotti, e al > contempo lavoriamo gratuitamente. Mazzini dedica un lungo capitolo al fenomeno dello sharenting – termine coniato dalla crasi tra share (condividere) e parenting (genitorialità) – nel quale racconta, attraverso numerosi esempi, di come le bambine e i bambini vengano usati da alcune famiglie per produrre alti profitti, talvolta in grado di mantenere l’intera famiglia e permettere una vita agiata. Ma a che prezzo? Come zia di due nipoti molto piccole mi interrogo moltissimo, così come i loro genitori, sul modo in cui le forme sociali influenzano i loro comportamenti, il loro umore, i loro gusti in quanto persone socializzate come donne. Ancor di più, lo faccio in relazione all’influenza che hanno i social network nella creazione di un immaginario sessualizzante e sessualizzato anche per bambine molto piccole. Ma la questione non è individuale. Prima di tutto, il prezzo che lə bambinə soggette allo sharenting pagano è quello di non avere un’infanzia libera, soprattutto libera dallo sguardo altrui. Queste bambine e questi bambini vengono ripresi in ogni momento della loro quotidianità (mentre mangiano, giocano, fanno il bagno, si vestono), esposti in momenti di vulnerabilità (quei reel che ci fanno tanto ridere con i bambini che piangono disperati perché sgridati o perché si sono fatti male giocando), utilizzati come fenomeni da baraccone o, peggio ancora, fatti recitare una parte. Un esempio estremamente inquietante che viene fatto nel libro è quello di Wren Eleanor, una bambina che fin dai tre anni è stata mostrata su un profilo TikTok gestito dalla madre, che la esponeva anche attraverso video ambigui e sessualizzanti, in cui la bambina mangiava cibi di forma fallica o aveva atteggiamenti provocatori. Analizzando l’account era evidente che quei video fossero i contenuti con più visualizzazioni del profilo, e che fossero anche molto spesso pieni di commenti riconducibili a reti di pornografia infantile. Il caso Wren ha fatto emergere un movimento spontaneo, con molte persone che hanno chiesto alla madre di cancellare i video e che hanno cominciato a parlare dei problemi legati a questo tipo di account. Ma il fenomeno è enorme ed estremamente produttivo e sono numerosi i genitori che non rispettano il consenso delle loro figlie, pensando evidentemente di possederle, al punto da utilizzare la loro infanzia come merce. Il canale Fantastic Adventures, per esempio, era gestito da una madre che sottoponeva i figli a privazioni di cibo e violenze di altro genere per obbligarli a partecipare ai video. Oppure il caso emerso l’anno scorso in cui la figlia dell’influencer Ruby Franke ha testimoniato nel processo in cui la madre è stata accusata per abusi su minori, raccontando l’esperienza di chi cresce come vittima del family vlogging. Casi come questi, ci dice Mazzini, “ci mostrano come dietro i contenuti apparentemente innocui e divertenti, in cui i bambini sembrano sempre felici, spensierati e amati, possa nascondersi una realtà ben diversa”. Pensiamo che sia divertente vedere il video di un bambino che fa qualcosa di buffo, o che sia innocuo l’utilizzare i propri figli per produrre canali YouTube pieni di contenuti di intrattenimento, ma “ignoriamo che quei bambini, che vediamo sorridere per intrattenere i nostri, potrebbero essere costretti a ripetere le stesse scene decine di volte, imparare copioni precisi […] per assecondare i desideri di genitori inebriati dall’algoritmo”. Questi fenomeni, che sembrano riguardare solo chi lavora effettivamente con l’immagine della propria famiglia e dei propri figli, sono in realtà estremamente pervasivi della quotidianità di molte persone, e si concretizzano per esempio nel caricamento costante di foto e video che ritraggono bambinə anche molto piccolə senza oscurare il volto; pratica che, dice anche Mazzini, fino a un certo punto era una prassi delle regole non scritte dei social. > Il prezzo che lə bambinə soggette allo sharenting pagano è quello di non avere > un’infanzia libera dallo sguardo altrui. Il capitolo sullo sharenting è seguito da una riflessione molto interessante sul modo in cui i social hanno modificato il nostro rapporto con la morte – argomento affrontato in maniera puntuale anche dal tanatologo Davide Sisto – al punto da permetterci di scrivere dei messaggi che potranno poi essere pubblicati sui nostri profili alla nostra morte. Anche quello che Mazzini chiama “capitalismo della pietà” – che consiste in video di persone che vanno in giro a regalare soldi a chi si dimostra “buono” – ha molto spazio nel libro, così come il “reality show della malattia”, per cui vengono messe in mostra malattie, disabilità, situazioni di disagio sociale e psicologico al fine di guadagnare visualizzazioni (e quindi denaro). Messa in questi termini, verrebbe voglia di scappare da ogni forma di socialità digitale. Forse, in parte, sarebbe auspicabile, ma la realtà è che per molte di noi utilizzare questi strumenti è ancora utile (per alcune persone necessario) e che, afferma Mazzini, disertare completamente da alcuni spazi sociali online – come è stato fatto nella disiscrizione di massa da Twitter, ora X, dopo l’acquisto della piattaforma da parte di Elon Musk – può portare alla creazione di bolle di violenza e radicalizzazione di destra inscalfibili. Al contempo, boicottare alcune piattaforme e cercare forme di socialità online alternative è più che positivo. I social network si sono succeduti nel tempo e se alcuni hanno avuto la meglio sugli altri è stato per la loro capacità di rispondere ad alcune esigenze, ma queste esigenze possono cambiare. Alla fine del saggio Mazzini riflette anche su questo e, pur senza fornire esplicitamente delle alternative precise, evidenzia la necessità di smettere di accettare passivamente un sistema che in realtà non ci sta facendo del bene, e di concedere così tanto potere a queste piattaforme sulle nostre vite. Servirebbero, anche, delle azioni di politica istituzionale che invece tardano ad arrivare, per proteggere i dati dellə utenti, per limitare la possibilità di utilizzo da parte delle aziende, per informare le persone piccole e giovani riguardo al funzionamento delle tecnologie e dei social network. Serve però soprattutto, a suo avviso, un cambiamento di immaginario e di cultura in cui “piattaforme, brand, agenzie, creator e utenti” lavorino in direzione comune, ma anche e principalmente che la comunicazione abbandoni la sua ossessione per la viralità, cercando modalità che avvicinino utenti e creator, che responsabilizzino lə utenti e non li trattino da oggetti passivi. Mazzini ci invita a chiederci: > Vogliamo davvero accettare di essere parte di un meccanismo che si nutre di > noi, trasformando le nostre vite in semplici dati per macchine insaziabili? > […] Per anni abbiamo lavorato gratuitamente, in silenzio, trasformando la > nostra presenza digitale in una merce da vendere al miglior offerente. […] > Riprenderci il controllo significa soprattutto guardare oltre gli schermi, > ritrovando valore nelle comunità fisiche che spesso abbiamo trascurato. Questi > spazi, fragili ma preziosi, offrono la possibilità di costruire relazioni > autentiche, dove l’interazione non è filtrata da algoritmi o metriche di > successo. Il primo passo per uscire dagli schermi forse è ricordarci che tutto quello che vediamo delle vite altrui attraverso i social è una costruzione fatta per mostrarsi migliore, per raccontare un’idea di vita e, molto più di frequente, venderci qualcosa. L'articolo Il lato oscuro dei social network di Serena Mazzini proviene da Il Tascabile.
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