Per anni ci siamo raccontati una storia rassicurante: le donne, una volta
arrivate al potere, sarebbero più refrattarie alla corruzione, più attente al
bene comune, meno inclini ai giochi sporchi che da sempre segnano la politica e
gli affari. Una narrazione comoda, utile a legittimare le – sacrosante –
politiche di parità, ma che oggi, alla prova dei fatti, mostra tutte le sue
crepe. Il caso di donne in posizioni apicali, coinvolte in vicende giudiziarie
di estrema gravità, racconta un’altra verità: quando una donna entra davvero nel
cerchio del potere, entra anche nel suo lato oscuro. Non è il genere a fare da
diga al malaffare, ma la qualità – o l’assenza – delle istituzioni che
dovrebbero contenerlo.
Ed è qui che il “mirabile testo” dei colleghi Lucio Picci e Alberto Vannucci, Lo
Zen e l’arte della lotta alla corruzione, che invito a leggere, viene
sistematicamente tradito da una lettura ideologica che gli è estranea. Nel
celebre passaggio in cui, evocando Benigni, si chiedono “la donna, la donna, la
donna… o l’omo?”, gli autori ricordano che molti studi empirici e sperimentali
sembrano mostrare, in media, una minore propensione femminile alla disonestà:
più attenzione ai beni comuni, minore tolleranza verso i comportamenti
scorretti, maggiore disponibilità a sacrificare il vantaggio privato a favore
dell’interesse collettivo. Ma nello stesso capitolo precisano, con onestà
intellettuale, che a contare non sono i cromosomi, con buona pace del ministro
della Giustizia, bensì la struttura dei valori culturali e l’assetto
istituzionale.
La “robustezza del presidio femminile” nei Paesi meno corrotti, spiegano gli
autori, è soprattutto il sintomo di uno Stato inclusivo, meritocratico,
trasparente, capace di valorizzare competenze e responsabilità, anche femminili.
È l’ambiente che genera legalità, non il sesso di chi occupa le poltrone.
Il problema nasce quando questa riflessione sofisticata viene ridotta, nel
dibattito pubblico, a uno slogan: più donne ai vertici uguale meno corruzione.
Da quel momento, la correlazione complessa si trasforma in dogma morale, e il
dogma viene usato come surrogato di riforma istituzionale: invece di cambiare
regole, controlli, trasparenza, ci si illude che basti cambiare il genere
dell’élite. I casi recenti non confutano Picci e Vannucci, confutano questa
lettura ingenua.
Là dove la selezione della classe dirigente avviene dentro partiti chiusi,
cordate affaristiche, filiere di potere cementate da scambi opachi, l’ingresso
delle donne non purifica nulla: semplicemente rende misto ciò che prima era
esclusivamente maschile. Se per fare carriera bisogna accettare un certo grado
di complicità, di silenzio, di partecipazione alle pratiche borderline, questo
varrà allo stesso modo per uomini e donne. E infatti vediamo progressivamente
emergere figure femminili in tutte le zone grigie del sistema: nei consigli di
amministrazione, nelle giunte, nelle interfacce tra politica, burocrazia
“creativa” e imprenditoria relazionale.
Chiamarle in causa come presunte “traditrici del genere” è un comodo esercizio
misogino, ma nasconde il punto essenziale: non sono loro ad aver corrotto il
sistema, è il sistema ad averle inglobate, selezionandole proprio perché
compatibili con le sue regole non scritte.
Da giurista, la prima cosa che va ribadita è ovvia ma decisiva: tutte le persone
citate nelle cronache giudiziarie – donne o uomini che siano – sono presunte
innocenti fino a sentenza definitiva. Ma questo non ci impedisce di interrogarci
sul piano politico e criminologico. Se, man mano che la presenza femminile
aumenta, nell’elenco degli indagati per corruzione, appalti truccati,
finanziamenti distorti, significa che una parità l’abbiamo effettivamente
raggiunta: la parità nell’accesso al rischio penale. È la conferma che il genere
non è uno scudo etico, ma una variabile sociologica che incrocia potere e
opportunità.
In fondo, l’idea della donna “anticorpo naturale” contro la corruzione ha svolto
due funzioni simmetriche. Da un lato, ha offerto a governi, partiti e burocrazie
un alibi a basso costo: invece di aprire archivi, tracciare i flussi, rafforzare
controlli indipendenti, bastava inserire qualche figura femminile nei gangli
decisionali o nei vertici delle Istituzioni e rivendere l’operazione come svolta
etica. Dall’altro, ha caricato le donne di un compito impossibile: redimere
moralmente strutture che restavano perfettamente intatte.
Oggi, quando un’inchiesta investe una leader donna, lo stesso sistema che
l’aveva esibita come simbolo di integrità se ne serve per l’operazione opposta:
dimostrare che “sono tutte uguali”, che la questione di genere era solo una
moda, e riportare il discorso sul terreno rassicurante del cinismo
generalizzato. È un gioco a somma negativa che fa due danni: indebolisce il
femminismo politico serio, quello che chiede potere e responsabilità a pieno
titolo, e rende ancora più difficile guardare alla corruzione per ciò che è
davvero: un fenomeno sistemico, che nasce nei meccanismi di formazione delle
decisioni pubbliche, nella privatizzazione degli spazi di controllo, nella
cattura delle istituzioni da parte di reti organizzate.
Il vero insegnamento del libro di Picci e Vannucci, oggi, dovrebbe essere
questo: smettiamola di chiedere alle donne di salvare la moralità della
Repubblica. Concentriamoci finalmente su ciò che davvero può ridurre il
malaffare: procedure trasparenti, dati aperti, responsabilità personali
tracciabili, organi di controllo indipendenti e in grado di indagare chiunque,
senza distinzione di sesso, ruolo o appartenenza. La parità più urgente, in
Italia, non è tra donne oneste e uomini disonesti, ma tra cittadini e cittadine
ugualmente tutelati da istituzioni che funzionano. Il resto è retorica, spesso
in malafede.
L'articolo Smettiamo di chiedere alle donne di salvare la moralità della
politica! Il genere non è uno scudo etico proviene da Il Fatto Quotidiano.