di Francesco Valendino
C’è qualcosa di davvero commovente nell’ottimismo dei nostri eurocrati. Mentre
l’economia tedesca affonda, la Francia è politicamente paralizzata e i governi
europei cadono come birilli, a Bruxelles hanno trovato la soluzione a tutto:
imbarcare l’Ucraina nell’Unione Europea entro il 1° gennaio 2027. Non un giorno
di più.
La notizia, spifferata dal Financial Times, svela l’ultima genialata partorita
sull’asse Kiev-Bruxelles per ingraziarsi il nuovo padrone, Donald Trump. Il
piano è semplice e, come tutte le cose semplici pensate dai complessi burocrati
europei, demenziale: offriamo a The Donald una via d’uscita. Lui non deve
spendere più un dollaro per Zelensky, e in cambio noi ci accolliamo la
ricostruzione, i debiti e la difesa di un Paese in guerra, facendolo entrare
nell’Ue a tempo di record.
Siamo di fronte al capolavoro dell’ipocrisia. Per decenni, la solenne
Commissione Europea ci ha fatto una testa così con il “merito”. La Turchia
aspetta dal secolo scorso, i Balcani occidentali sono in sala d’attesa da
vent’anni, costretti a misurare la curvatura delle banane e a riformare i codici
civili fino all’ultima virgola per aprire mezzo capitolo negoziale. Per
l’Ucraina, invece, vale il telepass. Dei 36 capitoli negoziali necessari – che
richiedono riforme strutturali ciclopiche in un Paese che, prima dell’invasione
russa, Transparency International classificava come il più corrotto d’Europa
dopo la Russia – Kiev non ne ha chiuso nemmeno uno. Ma che importa? Quando la
geopolitica chiama, lo Stato di diritto risponde: “Obbedisco”.
La parte più esilarante, però, è il metodo. Per far passare questa follia serve
l’unanimità, e c’è quel guastafeste di Viktor Orban che continua a dire niet. E
qui i nostri atlantisti “de sinistra”, quelli che dipingono Trump come il nuovo
Hitler, a chi si affidano? A Trump stesso. Il piano prevede che sia il tycoon
americano a torcere il braccio all’amico Orban per costringerlo a dire sì. Siamo
al cortocircuito: l’Europa “dei valori” prega il mostro arancione di usare
metodi da gangster per violare le proprie regole interne.
Ma c’è un dettaglio che i nostri strateghi da aperitivo fingono di ignorare.
L’articolo 42.7 del Trattato dell’Unione Europea. È la clausola di mutua difesa,
che è persino più vincolante dell’articolo 5 della Nato: obbliga gli Stati
membri a prestare aiuto “con tutti i mezzi in loro potere” a chi viene
aggredito. Traduzione per i non addetti ai lavori: se l’Ucraina entra nell’Ue
mentre è in guerra o in una tregua armata, e Putin spara un petardo oltre il
confine, l’Italia, la Francia e la Germania sono giuridicamente in guerra con la
Russia.
Ecco il vero “piano di pace”: trasformare un conflitto locale in una guerra
continentale automatica. E tutto questo viene venduto come un compromesso.
Mosca, ci dicono, dovrebbe accettare di buon grado. Peccato che al Cremlino
sappiano leggere i trattati meglio di Von der Leyen. Offrire alla Russia
un’Ucraina nell’Ue ma fuori dalla Nato è come offrire a un diabetico una torta
alla panna dicendogli che è senza zucchero perché sopra non c’è la ciliegina.
La perseveranza è una virtù, ma l’idiozia è un vizio. E a Bruxelles sembrano
averne fatto una dottrina politica.
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L'articolo Far entrare l’Ucraina nell’Ue segnerà l’inizio della nostra guerra
con la Russia proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Unione Europea
Assistiamo a sempre più surreali dibattiti sulla necessità di rilanciare
l’Unione Europea rendendola finalmente un protagonista militare all’altezza dei
difficili tempi che corrono, ovvero del presunto tradimento statunitense. Tali
dibattiti evidenziano una volta di più la pessima qualità del ceto politico e
giornalistico italiano, espressione purtroppo veridica di un Paese alla deriva
sotto l’egida della pessima Meloni con la sua Armata Brancaleone di incapaci e
profittatori, nonché dell’altrettanto pessima finta opposizione piddina che
sulle questioni cruciali della pace e della guerra dimostra tutta la sua
subalternità alle forze dominanti.
Tutti costoro vaneggiano enunciando tesi sconnesse e destituite del benché
minimo fondamento, perché si ostinano a negare, come ogni psicopatico che si
rispetti, alcune verità del tutto elementari e inconfutabili.
Primo. La destabilizzazione tentata undici anni fa in Ucraina dalla Nato contro
la Russia e buona parte del popolo ucraino è fallita.
Secondo. Tale fallimento rientra nel quadro d’insieme del naufragio storico
dell’Occidente coloniale e neocoloniale. E’ definitivamente concluso, per
fortuna, il lungo periodo, durato circa 500 anni, dell’egemonia occidentale sul
pianeta.
Terzo. L’Occidente che sta tramontando definitivamente ha dominato il pianeta in
questi cinque secoli avvalendosi di strumenti di morte: guerre di sterminio,
genocidi e oppressione di moltitudini in Africa, America Latina, Asia. Non c’è
quindi nessun presunto primato in materia di diritti umani e democrazia da
rivendicare. La democrazia e lo Stato di diritto vivono attualmente una crisi
profonda e tendenzialmente esiziale proprio nel cuore stesso dell’Occidente
capitalistico.
Quarto. Il genocidio del popolo palestinese, tuttora in atto nonostante la finta
tregua di Sharm El Sheik, costituisce un’ulteriore mefitico sussulto del
corpaccio agonizzante dell’Occidente. Ne è protagonista lo Stato d’Israele,
governato da una compagine di nazisionisti che praticano apartheid, pulizia
etnica e massacri in modo non differente da quello che fu all’epoca il Terzo
Reich nazista e per tale motivo sono oggi sotto accusa in tutto il mondo, anche
in sedi giudiziarie riconosciute come la Corte internazionale di giustizia e la
Corte penale internazionale. Complici del genocidio sono del resto gli Stati
occidentali che da sempre finanziano e armano Israele coprendone i crimini, con
in testa Stati Uniti, Germania e Italia.
Quinto. Consapevole della decadenza occidentale in atto, il presidente
statunitense Donald Trump sta tentando una disperata manovra di contenimento
all’insegna del cosiddetto “Make America Great Again”. In tale ambito Trump
cerca un accordo con la Russia, nell’illusoria convinzione di dividerla dalla
Cina e in quella altrettanto demenziale di resuscitare la dottrina Monroe
affermando il proprio predominio in America Latina scatenando guerre
d’aggressione contro il Venezuela ma anche contro Colombia, Messico, Brasile,
Cuba. Si veda al riguardo il recente documento relativo alla Strategia nazionale
degli Stati Uniti. Contemporaneamente Trump sta pricedendo alla fascistizzazione
dello Stato all’insegna del razzismo contro i migranti.
Sesto. In questo quadro gli Stati Uniti, consapevoli – più e meglio degli ottusi
europei – della situazione di crisi terminale dell’Occidente, hanno deciso di
abbandonare la nave che sta affondando, lasciando gli europei a pagare il conto
della guerra in Ucraina e auspicando in sostanza la fine dell’Unione Europea.
Settimo. I dementi e corrotti governanti europei stanno scegliendo la via della
guerra contro la Russia, sia perché la potente lobby degli armamenti chiede il
riarmo, sia perché la militarizzazione della società sembra loro la risposta più
adeguata di fronte alla crisi della democrazia europea. Piuttosto che mollare il
potere personaggi come Merz, Macron, Stamer e Meloni sono pronti alla catastrofe
bellica. Per questo lanciano in continuazione allarmi infondati sulla presunta
aggressività russa, spingono fino all’inverosimile l’acceleratore sul riarmo,
impoverendo ulteriormente le loro economie e le loro società, ostacolano
irresponsabilmente il raggiungimento di una pace definitiva in Ucraina,
alimentando le pulsioni revansciste di Zelensky & C., rendendosi in tal modo
colpevoli, come lo fu all’epoca Boris Johnson, quando sabotò poco dopo
l’invasione russa il raggiungimento di un accordo di pace a Istanbul, della
morte di decine di migliaia di giovani ucraini e russi.
Prendere atto dei sette postulati appena enunciati costituisce la necessaria
operazione di pulizia preliminare per continuare a parlare di Europa. Ciò
comporta evidentemente una vera e propria rivoluzione concettuale e politica che
veda la rimozione delle attuali sconfitte, decotte e corrotte classi dominanti
europee per aprirsi a una prospettiva di pace e cooperazione nell’ambito di un
mondo multipolare, mentre la ruota della storia si rimette in moto, nonostante e
contro l’Unione Europea in disfacimento.
L'articolo L’Ue è fallita insieme all’intero Occidente: sette motivi per
prenderne atto (e da cui ripartire) proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’accordo tra Parlamento e Consiglio Ue sul pacchetto Omnibus I che comprende
l’allentamento delle restrizioni per le aziende su due diligence e reportistica
ambientale, annunciato non più tardi di una settimana fa dalla presidenza di
turno danese, continua a generare dubbi e proteste. Non solo quelle dei partiti
più sensibili alle questioni ambientali e dei diritti umani che hanno denunciato
quello che è solo l’ultimo colpo assestato al Green Deal, con il Partito
Popolare Europeo che per riuscirci ha chiesto il supporto dell’estrema destra,
ma anche quelle delle organizzazioni più attente nel monitoraggio di fenomeni di
corruzione e conflitto d’interessi. Per questo dieci associazioni hanno scritto
al Comitato consultivo sulla condotta dei membri sottolineando il potenziale
conflitto d’interesse dell’eurodeputato Jörgen Warborn (Ppe), a capo della
relazione ma allo stesso tempo presidente di SME Europe, associazione legata ai
Popolari che, si legge sul suo sito, si batte per i diritti delle piccole e
medie imprese in diversi settori. Proprio quei soggetti che otterrebbero
maggiori benefici dal nuovo accordo raggiunto in Ue.
L’incarico di Warborn alla Presidenza di Small and Medium Entrepreneurs of
Europe non è un segreto: compare nel board del loro sito ufficiale insieme ad
altri europarlamentari ed ex membri, compreso Antonio Tajani, e ha esplicitato
il suo incarico anche nella sua dichiarazione di interessi privati. I firmatari
della lettera di protesta sottolineano però che, “sebbene sia un’entità
giuridica separata e né un partito politico europeo né una fondazione, SME
Europe opera di fatto come un’ala di lobbying del Partito Popolare Europeo. Come
stabilito nel suo statuto, SME Europe ‘è la rete politica indipendente di
organizzazioni politiche cristiano-democratiche e conservatrici e pro-business.
Il suo obiettivo principale è contribuire a plasmare la politica dell’Ue in modo
più favorevole alle Pmi‘”.
Questo, a loro dire, si scontra con il ruolo svolto dall’eurodeputato
all’interno della commissione Giuridica del Parlamento Ue, come membro
supplente, e soprattutto come “relatore di taluni requisiti in materia di
rendicontazione di sostenibilità aziendale e di dovere di diligenza
(2025/0045(COD)), una proposta legislativa della Commissione volta, tra le altre
cose, a ridurre l’onere di rendicontazione per le imprese più piccole”. Ciò che
i firmatari sottolineano è che nella sua dichiarazione di consapevolezza di
conflitto d’interesse per l’incarico affidato, Warborn ha pensato che non fosse
necessario menzionare il proprio incarico in SME Europe.
I firmatari continuano poi ricordando le prese di posizione dell’eurodeputato in
occasione delle discussioni sulla proposta: “Nella sua bozza originaria di
relazione della commissione egli ha proposto emendamenti che avrebbero
ulteriormente ristretto l’ambito delle imprese soggette a determinati obblighi
di rendicontazione rispetto alla proposta della Commissione. Durante un
dibattito in plenaria su tale fascicolo il 22 ottobre 2025, Warborn ha
sollecitato gli eurodeputati a votare a favore del mandato per i negoziati
interistituzionali al fine di ‘fornire chiarezza alle imprese europee’,
concentrandosi, tra l’altro, su ‘piccole imprese, medie imprese’. Nel 2025, sia
immediatamente prima sia dopo la sua nomina a relatore, il sig. Warborn ha
partecipato a numerosi eventi organizzati da SME Europe. Il 7 febbraio 2025 ha
parlato a un evento organizzato da SME Europe al Parlamento europeo, dove ha
sottolineato ‘l’urgente necessità di ridurre gli oneri normativi per stimolare
la crescita delle imprese in Europa’ e ha ‘evidenziato che [l’ambito del
Pacchetto Omnibus] rimane limitato, coprendo solo una frazione dei settori e
delle politiche’. Il 29 aprile 2025 ha parlato all’Economic Leadership Forum di
SME Europe. L’agenda corrispondente lo indicava sia come Presidente di SME
Europe sia come Co-Chair dello SME Circle per un punto dell’ordine del giorno e,
tre ore dopo, come relatore per il Primo pacchetto Omnibus di semplificazione
per un diverso punto dell’ordine del giorno”.
Alla luce di tutto ciò, concludono i firmatari della missiva, “riteniamo che la
posizione di Warborn come Presidente di SME Europe, in combinazione con il suo
ruolo di relatore per il fascicolo sopra menzionato, possa costituire un
possibile conflitto di interessi”. Richiesta appoggiata anche dal Movimento 5
Stelle con una dichiarazione dell’europarlamentare Mario Furore: “Questo caso
dimostra ancora una volta che l’Ue è soffocata da vergognosi conflitti di
interesse. Non si può servire l’interesse dei cittadini e poi, al contempo,
quello delle potenti lobby che li vogliono calpestare. Il regolamento sulla due
diligence in voto domani al Parlamento europeo è un regalo alle grandi compagnie
che già oggi soffocano le piccole imprese e gli artigiani con una concorrenza
impari. Noi voteremo contro, la destra invece, a partire da Fratelli d’Italia e
Lega, lo sosterrà dimostrando ancora una volta di essere gli scendiletto di
multinazionali e grandi comitati d’affari”.
L'articolo Ue allenta i controlli ambientali per le aziende, protesta delle
associazioni: “Conflitto d’interessi. Il relatore legato a lobby per le imprese”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Riccardo Bellardini
Io credo che nello sconquasso generale che domina il quadro geopolitico globale,
l’Unione Europea possa ritrovare ancora la sua saggezza, o più precisamente il
senno, buttato via negli ultimi anni, sostituito da una lucida, inquietante
follia guerrafondaia. Ancora c’è tempo, forse, per evitare il peggio, e a mio
avviso la via da percorrere è solo una: riaprire il canale diplomatico con
Putin. Sì. L’unione deve tornare a parlare con Hitler 2.0.
Non in via indiretta, fingendo da una parte disposizione a discutere l’accordo
negoziale già improntato dall’America, spingendo poi dall’altra l’acceleratore
sulla militarizzazione anti-russa della società a tutti i livelli. Deve
incontrare dal vivo lo Zar, guardarlo in faccia di fronte ad un tavolo. Parlare
con lui, coi suoi collaboratori. Tornare a riallacciare rapporti concreti,
tangibili, mettersi in prima linea nell’iniziativa negoziale. Solo così
spariglierebbe le carte. Donald Trump perderebbe il suo ruolo da unico
pacificatore mondiale che ormai gli viene riconosciuto in ogni sede, mancando
davvero soltanto la conquista del Nobel, e in tal caso sarebbe un premio unico
nel suo genere, consegnato a chi ha nei fatti formalizzato una pulizia etnica,
quella palestinese, spacciandola per pace (oh, che pace sublime!).
A quel punto Trump non potrebbe più dire peste e corna della piccola Europa, per
decenni fiero zerbino degli Usa. Dovrebbe starsene almeno per un po’ in disparte
a guardare. Papa Leone XIV ritiene che non è possibile escludere l’Europa dalle
trattative di pace, ma a sua Santità vorrei dare una notizia: é lei che si è fin
dall’inizio autoesclusa. Dall’Unione Europea non sentiamo che frasi incendiarie
da tre anni. I fragori delle armi li ascoltiamo già nelle frasi dei leader
sprezzanti del vecchio continente, che sembrano correre con gioia il pericolo
mortale, forse perché saranno i civili comuni quelli inevitabilmente più esposti
ai drammi di una catastrofe bellica, mentre loro avranno modo di trovare il
salvacondotto.
Se l’Unione europea è diversa dai barbari, se si ritiene emblema dei diritti
umani e delle libertà, riprenda la via della diplomazia, completamente
seppellita sotto la coltre di un riarmo dissanguante per le economie nazionali.
Parlare con Putin non significa consegnargli la vittoria. Significa tentare di
ottenere una distensione che il leader russo non sembra disdegnare, dal momento
che da Mosca le uniche minacce che sentiamo sono in realtà risposte alle minacce
subite dal blocco occidentale, con in testa l’Ue fomentata dal riarmo, dunque
sono minacce solo perché l’informazione allineata le vende come tali. Vorrei
tanto essere un complottista qualsiasi nel sostenere ciò. Purtroppo però non è
così. Finite le patrie e gli slanci identitari, non resta che l’odio, dunque ci
inculcheranno l’odio nei confronti dei russi, e lo faranno i paladini delle
libertà.
Loro, i capi di quel progetto di pace che fu l’Unione Europea, se tutto
procederà senza deviazioni ci educheranno ad aver paura del nemico orientale e a
provare astio nei suoi confronti, così ci verrà pure la voglia di neutralizzarlo
con un’arma di ultima generazione. Loro, difensori inarrivabili dei diritti
umani, ci insegneranno ad odiare. Proprio loro. Tuttavia un cambio di direzione
è ancora possibile: si può parlare a voce più bassa e tendere la mano, perché il
mondo non si può permettere una guerra nucleare.
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dichiarato che l’Italia
ripudia la guerra. Ha riportato il testo di un articolo costituzionale ormai de
facto completamente dimenticato, violato senza ritegno. Il Capo dello Stato si
attivi, se quest’articolo è davvero ancora valido, pressando il governo
nazionale per indurlo ad un cambio di strategia da discutersi anche in sede
europea. L’Unione Europea può tornare credibile soltanto se alla legge del più
forte sostituisce la riabilitazione e la valorizzazione di un canale che l’ha
sempre contraddistinta: quello diplomatico.
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L'articolo L’Ue può ancora ritrovare il senno buttato nella follia bellicista
riaprendo il dialogo con Putin proviene da Il Fatto Quotidiano.
Lo hanno presentato come un Consiglio europeo decisivo per il futuro sostegno
dell’Ue all’Ucraina, nel quale si cercherà un’intesa da chiudere prima della
pausa natalizia. Ma al vertice tra i 27 capi di Stato e di governo del 15-19
dicembre che porta sul tavolo il delicatissimo tema dell’utilizzo degli asset
russi congelati a garanzia del prestito per sostenere Kiev, l’Unione europea
arriva di nuovo sgretolata. Da settimane, i vertici di Bruxelles ostentano
ottimismo: si lavora senza sosta, dicono, esiste una “larga maggioranza“,
aggiungono sostenendo che si percepiscono segnali positivi in vista del summit.
Ma tra chi da anni ormai si oppone a un ulteriore inasprimento dei rapporti con
la Russia, chi teme di incorrere in richieste di risarcimento plurimiliardarie e
chi non può ignorare la posizione contraria degli Stati Uniti, tenere insieme i
pezzi della cristalleria Bruxelles richiederà l’ennesimo sforzo diplomatico.
“ANDRÀ TUTTO BENE”
Fino a oggi, la strategia della Commissione Ue è stata quella dell’ostentare
ottimismo. A veicolare questo messaggio ha pensato più volte la portavoce della
Commissione, Paula Pinho, che ha spiegato alla stampa come sull’uso degli asset
russi immobilizzati per il sostegno all’Ucraina la Commissione Ue con gli Stati
membri sta cercando “di fare quanti più progressi possibili sui vari elementi
del pacchetto, in modo che una soluzione possa essere trovata al Consiglio
europeo”. In quella direzione si sono spesi anche alti esponenti delle
istituzioni Ue, come il presidente del Consiglio Antonio Costa: “Credo che siamo
molto vicini a trovare una soluzione – ha dichiarato – Per me è certo che il 18
dicembre prenderemo una decisione. Ma, se necessario, continueremo il 19 o il 20
dicembre, fino a raggiungere una conclusione positiva”. Posizione condivisa
anche dal commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis, che l’11
dicembre assicurava: “Stiamo lavorando molto da vicino con le autorità belghe
per affrontare le preoccupazioni che esse hanno. E, in effetti, direi che
abbiamo fatto davvero grandi passi per rispondere”.
L’EUROPA SGRETOLATA
Tutto bene, quindi? Nemmeno per sogno. Il primo ostacolo sono i soliti due Paesi
contrari all’inasprimento di qualsiasi misura sanzionatoria nei confronti della
Russia: l’Ungheria e la Slovacchia. Da Bratislava, il premier Robert Fico ha
fatto sapere che non sosterrà alcuna soluzione che finanzi le spese militari
dell’Ucraina: “La Slovacchia non prenderà parte a piani che non fanno altro che
prolungare le sofferenze e le uccisioni“, ha affermato precisando di conseguenza
che non sosterrà “alcuna soluzione che comprenda la copertura delle spese
militari dell’Ucraina per i prossimi anni”. E l’utilizzo dei beni russi
congelati, ha spiegato, “può minacciare direttamente gli sforzi di pace degli
Usa che prevedono proprio l’utilizzo di tali risorse per la ricostruzione
dell’Ucraina”.
Anche il Paese guidato da Viktor Orban si è detto contrario. Budapest ha votato,
proprio come la Slovacchia, contro l’eliminazione del rinnovo semestrale degli
strumenti sanzionatori nei confronti della Russia, scelta che li ha resi di
fatto a tempo indeterminato. Poi, dopo l’approvazione con larga maggioranza, ha
commentato la scelta affermando che “oggi a Bruxelles si attraversa il Rubicone.
La votazione causerà danni irreparabili all’Unione. Bruxelles abolisce il
requisito dell’unanimità con un solo colpo di penna, il che è chiaramente
illegale“.
Se si trattasse dei ‘soliti noti’ Ungheria e Slovacchia il problema sarebbe
aggirabile: se al voto sul prestito di riparazione garantito dagli asset russi
si ripresentasse l’opposizione di Budapest e Bratislava, si potrebbe comunque
procedere con la maggioranza qualificata che richiede l’ok di almeno 15 Stati
membri e del 65% della popolazione totale. I contrari, però, questa volta sono
molti di più. In primis va tenuta in considerazione soprattutto la posizione del
Belgio che il 10 dicembre ha minacciato azioni legali nel caso in cui venisse
approvato l’uso degli asset russi congelati come garanzia per il prestito
all’Ucraina. Il motivo è semplice: nel piccolo Paese europeo sono conservati,
attraverso Euroclear, la stragrande maggioranza dei beni in questione, ben 185
miliardi sui 210 totali. Un ricorso legale di chi deteneva gli asset prima delle
sanzioni esporrebbe Bruxelles a un maxi-rimborso che, hanno spiegato
dall’esecutivo belga, per il Paese significherebbe “la bancarotta“. Una
posizione dura espressa non da un Paese ‘ribelle’, ma da uno solitamente
allineato alle posizioni della maggioranza degli Stati europei. Tanto che anche
il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha dichiarato quanto fosse importante
che tutti gli Stati membri condividessero le responsabilità economiche per
alleggerire il carico che pesa sulle spalle del Belgio. Negli ultimi giorni, il
clima tra il governo di Bruxelles e le istituzioni Ue sembra essere un po’ più
disteso, segno che le parti stanno trattando e che un punto d’incontro non è
un’utopia.
Se si parla di condivisione dei rischi economici, però, ci sono altri Paesi che
hanno espresso più di una perplessità. La Francia, che detiene circa 19 miliardi
di asset russi congelati, ha chiesto che quelli sul suo territorio venissero
esclusi dal conteggio di quelli utilizzabili come garanzia per il prestito di
sostegno a Kiev. E a dichiararsi molto dubbiosi sono stati anche Bulgaria, Malta
e persino l’Italia. La posizione del governo Meloni è stata chiarita dai due
vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani. “L’Europa prima non c’era, ora mi
sembra che stia boicottando il processo di pace, forse perché Macron, Starmer e
altri leader sono in difficoltà in casa loro e quindi devono portare all’esterno
i problemi francesi e inglesi. Ma noi non siamo in guerra contro la Russia e non
voglio che i miei figli entrino in guerra contro la Russia – ha dichiarato il
leader leghista – Fa bene il governo italiano a tenere una linea di prudenza“.
Tajani ha invece sollevato dubbi di tipo legale: “Noi abbiamo approvato la
proposta di congelare gli asset russi. Ma questo non è un passaggio automatico
sull’utilizzo di questi asset congelati per finanziare l’Ucraina, noi abbiamo
serie perplessità dal punto di vista giuridico. Se fosse evitato qualsiasi
dubbio giuridico si potrebbero utilizzare anche i beni congelati”.
Anche con il ‘no’ di questi Paesi, la mossa potrebbe essere approvata, dato che
a favore resterebbero 21 Paesi e oltre il 79% della popolazione. Lo stesso anche
con l’opposizione della Repubblica Ceca che per ultima, con il neoeletto primo
ministro Andrej Babis, ha dichiarato che “ogni corona ceca è necessaria per i
nostri cittadini, non per altri Stati”, invitando la Commissione a trovare “un
altro modo” per finanziare Kiev.
DIALOGO O SCONTRO?
Alla maggioranza del Consiglio Ue resta quindi da decidere se arrivare a una
decisione la più condivisa possibile o a una sua imposizione in nome della
rapidità d’azione. Col rischio di frantumare i già precari equilibri interni
all’Ue. Lo stesso Dombrovskis sembra non avere le idee chiare a riguardo. Quando
gli è stato chiesto se il finanziamento può essere deciso anche senza il via
libera del Belgio, ha risposto: “Non entrerei in scenari ipotetici. Stiamo
lavorando con gli Stati membri. Stiamo lavorando molto seriamente, come ho
detto, per affrontare le preoccupazioni che il Belgio ha, e spero che riusciremo
a trovare una via da seguire”.
Dietro la riluttanza di alcuni Stati membri, oltre agli interessi particolari,
c’è anche la pressione esercitata dagli Stati Uniti che si sono dichiarati
fermamente contrari all’utilizzo dei beni russi congelati a garanzia del
prestito all’Ucraina, ritenendola una mossa ostile nei confronti di Mosca. E
certamente Washington avrà fatto pressione sulle cancellerie amiche, tanto che
anche Costa ha criticato apertamente l’azione di Washington: “Non possiamo
accettare le interferenze degli Usa, un alleato rispetta la politica interna del
partner”.
Resta il fatto che l’Europa, ad oggi, appare più frammentata che mai e che
prendere una decisione così determinante per il futuro economico dell’Unione e
per le sue strategie di supporto all’Ucraina affidandosi solo alla maggioranza
qualificata rischia di creare una frattura gigante tra i 27 Stati membri. C’è
tempo fino al 20 dicembre per arrivare a una soluzione diplomatica, altrimenti
Bruxelles si troverà di nuovo a un bivio: ritardare la decisione e aprire a
nuove strategie o forzare la mano e rischiare di spaccare l’Ue in nome del nuovo
whetever it takes in salsa ucraina.
X: @GianniRosini
L'articolo Asset russi congelati, per usarli è determinante l’ultimo Consiglio
Ue dell’anno. Ma l’Europa si presenta sgretolata proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Personalmente, per quel che vale, sono contro i due tiranni, contro il russo
Vladimir Putin e contro l’americano Donald Trump. Però non posso fare a meno di
pensare che Putin non potesse restare fermo mentre la Nato – che non è
un’organizzazione di beneficenza ma un’organizzazione armata offensiva antirussa
che ha già fatto guerre illegali, sanguinose e disastrose in Serbia,
Afghanistan, Iraq, Libia, Siria – cercava di mettere le sue basi militari anche
in Ucraina, dove la Russia è nata. E non riesco neppure a dare torto a Trump che
ha affermato nella recente intervista a Politico che molti leader europei sono
stupidi. Ha ragione: è incredibile quanto i Volenterosi europei siano stupidi.
Tanto stupidi quanto impotenti e masochisti. Meno male che l’Unione Europea è un
condominio di 27 paesi che non riescono a mettersi d’accordo neppure
sull’abolizione (indispensabile!) dell’ora solare.
Altrimenti la Ue ci trascinerebbe in guerra con Mosca. E meno male che sulle
questioni veramente importanti – difesa, sicurezza, guerra e pace, fiscalità,
eccetera – nella Ue si decide solo all’unanimità e non a maggioranza. Così ogni
democrazia europea può prendere le sue decisioni in autonomia.
La questione sorprendente – ma soprattutto tragica – è che gli stupidi leader
europei vogliono spingere Kiev a continuare una guerra che sta già perdendo, che
loro stessi non sono in grado di combattere e nemmeno di finanziare, e che senza
l’aiuto americano – che Trump vuole cessare subito – è già completamente persa.
E’ un po’ come se io pretendessi che il mio amico, peso piuma, continuasse a
finire fino alla morte un combattimento che sta perdendo con Mike Tyson: sarei
un perfetto idiota o un cinico profittatore! La politica europea è tragica per
gli ucraini che, più combattono questa guerra, più perdono terreno e uomini, ma
è disastrosa anche per gli europei.
L’astuto Trump, pur essendo a capo di un esercito ultrapotente, ha capito che
non conviene continuare a combattere inutilmente con la Russia fino a rischiare
una guerra atomica, e corre verso un accordo diretto con Putin, alle spalle
degli ucraini e di Volodymyr Zelensky, l’uomo politico che ha distrutto
l’Ucraina sfidando i russi pur di aderire a una Nato che comunque non lo ha mai
voluto.
Trump ha riconosciuto che la Nato di Joe Biden ha provocato la guerra in Ucraina
minacciando di mettere le basi militari Nato al confine con la Russia e
spingendo l’Ucraina a abbandonare la sua neutralità. Il presidente americano
piuttosto che rischiare una guerra atomica preferisce avviare rapporti pacifici
con Mosca. Al contrario gli europei, che avrebbero tutto l’interesse a
riprendere le forniture russe di gas e di petrolio da Mosca, che non hanno
neppure un esercito, e che quindi non possono pretendere nulla, puntano a una
guerra perpetua con la Russia e a trasformare l’Ucraina in un “porcospino di
acciaio”. Vogliono partecipare alle trattative di pace pur volendo continuare la
guerra. Dio prima rende dementi chi vuole poi mandare in rovina. Così l’Europa
guidata dall’irresponsabile valchiria in miniatura Ursula von der Leyen si
prepara alla guerra con la Russia, prima o seconda potenza atomica mondiale.
Sul piano strategico è ormai chiaro che l’Europa è in una situazione di declino
quasi irreversibile, che è isolata, impotente e arretrata, e che ha disperato
bisogno di amici o almeno di soci: ma gli Usa e la Cina sono troppo potenti per
allearsi con l’Europa, saranno sempre avversari strategici. L’unica grande
potenza che, ovviamente per convenienza, in prospettiva potrebbe esserci amica,
è proprio la Russia, contro cui però gli europei… si stanno armando! Per fortuna
che questa Ue richiede ancora il voto all’unanimità e che l’Italia può staccarsi
dalla follia bellicista della Ue!
Circa l’80% di tutta la legislazione Ue è adottato con voto a maggioranza
qualificata. Su questioni di natura politica e di importanza strategica, come la
difesa e la guerra, il Consiglio Ue deve però votare all’unanimità. Il voto
all’unanimità è oggetto di critica da parte degli europeisti, come il francese
Macron, Mario Draghi, Ursula e lo stesso presidente italiano Sergio Mattarella,
e in generale da parte delle formazioni europeiste di sinistra e di
centrosinistra (come in Italia il Pd). Al contrario i sovranisti, come Giorgia
Meloni e Viktor Orban, vogliono mantenere l’unanimità. Questo è uno dei pochi
casi in cui i cosiddetti sovranisti hanno completamente ragione. Infatti sulle
questioni fondamentali, come la guerra o la pace, ogni popolo deve potere
decidere democraticamente grazie alle sue istituzioni rappresentative.
Dare tutto il potere a Bruxelles sarebbe terribile e antidemocratico! Perfino la
Nato prende le sue decisioni all’unanimità!
L'articolo Per fortuna c’è ancora il voto all’unanimità in Ue: su questo Meloni
e Orban hanno ragione proviene da Il Fatto Quotidiano.
All’assemblea nazionale di Coldiretti, l’intervento di Massimo Cacciari viene
accolto da applausi ripetuti e non rituali. Non è una lectio accademica, ma una
requisitoria politica che tocca nervi scoperti dell’Europa contemporanea, con la
guerra in Ucraina come epicentro di una crisi che, secondo il filosofo, non è
solo militare o geopolitica, ma prima di tutto democratica.
Cacciari parte dalla struttura dell’Unione europea e ne denuncia lo svuotamento
politico: “Si parla della Commissione von der Leyen, ma di fatto quello che
dirige la baracca è l’apparato tecnocratico e burocratico: sono i funzionari,
sono quelli che fanno i dossier, che preparano le strategie, sono loro più che i
membri politici della Commissione”. È qui, sottolinea, che si consuma “un
deficit totale di democratizzazione degli organismi della Comunità europea”. Il
Parlamento europeo appare “sempre più fantasma”, la Commissione “non ha nessuna
diretta legittimazione democratica” e funziona “di fatto da esecutivo”, mentre
le decisioni finali restano in mano agli Stati, in un sistema che a 27 membri
rende “impossibile ogni decisione”.
Questo quadro, già fragile, viene aggravato drammaticamente dalla scelta europea
sulla guerra. Cacciari usa un’espressione che colpisce la platea: l’Europa ha
deciso “di andare alla guerra da sola”.
Il paradosso è evidente: “Ormai è chiaro come il sole che gli Stati Uniti non
ritengono più di avere il nemico da questa parte”, perché sanno bene che “la
Russia non rappresenta più nessun reale pericolo, almeno per loro”. La
competizione strategica americana, insiste, “si è spostata tutta sul fronte
dell’Oceano Pacifico” e il messaggio agli alleati europei è netto: “Volete fare
la guerra? Fatevela per conto vostro”.
Le conseguenze sono immediate e pesanti: “Questo significa che le nostre spese
già decise per il riarmo assorbiranno sempre di più le poche risorse che abbiamo
per welfare, per solidarietà, per tutte le politiche sociali ed economiche che
ci servirebbero”. La guerra in Ucraina, così come viene gestita dall’Europa,
diventa il simbolo di una scelta che sacrifica la coesione sociale sull’altare
della militarizzazione, senza una vera discussione politica e senza un mandato
democratico chiaro.
Cacciari non nega che l’Europa sia necessaria, anzi ribadisce il contrario:
“Possiamo fare a meno dell’Europa? No, l’Europa ci è sempre più necessaria
perché è l’unica dimensione all’interno della quale possiamo svolgere politiche
di sviluppo”.
Ma la domanda cruciale resta sospesa: “È possibile ancora, nella situazione in
cui ci troviamo?”. La sua risposta è radicale e spiazzante per il sistema
politico tradizionale: la ricostruzione dell’unità europea non può partire dai
partiti, ma dai corpi intermedi. “È possibile soltanto che i corpi intermedi
europei, e non i partiti, le rappresentanze dei grandi interessi economici,
produttivi, a partire dalla Coldiretti stessa o da organismi simili, da lì
riparte un discorso di ricostruzione dell’unità politica ed economica europea”.
Solo così, sostiene, può avviarsi “un processo di ridemocratizzazione
dell’Unione Europea”.
Il giudizio sulla classe politica continentale è impietoso. “Ma in tutta
l’Europa ci rendiamo conto della forza presunta di questa leadership europea?”,
chiede provocatoriamente. Macron, osserva, “se domani si va a votare prenderebbe
il 15%, forse neanche”; Merz “ha il fiato al collo addirittura di neonazisti”.
Il paradosso, aggiunge, è che “obiettivamente il leader più forte è la Meloni”,
l’unica che conserverebbe una legittimazione elettorale immediata. “Siamo in una
situazione disperante dal punto di vista della rappresentatività dei partiti e
delle forze politiche e questo non è una buona notizia per la democrazia”,
perché “la democrazia non c’è senza partiti, è conflitto e competizione tra
forze politiche organizzate”.
Quando la moderatrice Monica Giandotti chiede se la Russia possa rappresentare
un problema per l’Europa, la risposta di Cacciari è ironica e tagliente: “Certo,
se pensiamo che Putin abbia in testa di invadere l’Europa, è giusto riarmarsi,
anzi non basteranno certamente 100 miliardi, dovremmo dotarci magari anche di un
arsenale atomico adeguato”. Ma il filosofo chiede chiarezza politica. Se la
leadership europea sostiene che la Russia non si ferma a Donbass, Crimea e
Ucraina, ma ha “una volontà di potenza continentale”, allora lo dica
apertamente. “Se mi dicono che dall’altra parte dell’Ucraina non c’è Putin ma
c’è Hitler, va bene, ottimo, ma me lo devono dire nero su bianco”.
In assenza di questa verità esplicita, per Cacciari l’Europa tradisce se stessa
e i suoi fondamenti costituzionali. Ricorda che gli statisti europei avevano
inscritto nelle Costituzioni, “tra cui quella italiana, articolo 11”, un’idea
precisa: l’Europa non come centro egemonico del mondo, ma come spazio di
mediazione. “Capivamo di essere stati detronizzati come grande potenza globale,
però potevamo svolgere una funzione fondamentale di intermediazione, di
compromesso, di dialogo tra le diverse potenze”. Questa era, e dovrebbe essere,
la funzione europea: “l’elemento di rapporto, di dialogo tra mondo mediterraneo,
Maghreb, continente sub-sahariano, Medio Oriente, Russia, Stati Uniti”.
La guerra in Ucraina è la conferma di una rottura storica, che Cacciari fa
risalire a una data precisa: “Tutto cambia quando c’è un momento cruciale, l’11
settembre 2001”. Da lì partono le guerre e l’Europa “comincia a cambiare natura
sui principi fondamentali di pace, di solidarietà”. A determinare questo
slittamento è soprattutto “il crescente strapotere delle grandi corporazioni”,
dall’informazione alle tecnologie, dalla farmaceutica all’agricoltura, “una
dozzina di soggetti fondamentali che stanno inglobando in sé ogni forma
politica”.
Anche i tecnocrati più avvertiti, riconosce Cacciari, ne sono consapevoli:
“Mario Draghi queste cose le sa perfettamente”. Sa che l’annichilimento della
politica produce disastri, perché “conflitti sociali, disuguaglianze” non
possono essere affrontati dal solo punto di vista dell’interesse economico o
tecnico-finanziario. Ma i tecnocrati “non hanno nessun modo di affrontare la
questione, perché il loro linguaggio, la loro cultura è quella”.
Per questo, conclude tra nuovi applausi, la responsabilità ricade su altri
soggetti: “Sta a noi, sta in particolare nella crescita di dimensione politica e
di forza politica dei corpi intermedi”. È da lì, insiste Cacciari, che può
ancora nascere un’Europa capace di parlare di pace e di democrazia mentre
rischia di perderne la sostanza.
L'articolo Cacciari scuote Coldiretti: “Se l’Europa pensa che Putin sia il nuovo
Hitler, si riarmi pure. Ma abbia il coraggio di dimostrarlo” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Il nuovo documento di Strategia di Sicurezza Nazionale di Donald Trump non è una
semplice critica all’Europa. È la prova tangibile di una verità geopolitica
fondamentale: quando si è vassalli di una superpotenza, in questo esempio gli
Usa, quando cambia il vento a Washington deve cambiare tutto anche da noi.
Ma questa volta, il cambiamento non è una semplice sterzata di politica estera.
È un terremoto epocale, una trasformazione a 360 gradi che lascia l’Europa,
abituata a ricevere ordini, nella posizione tragicomica di non sapere cosa fare
quando l’ordine è: “Pensate con la vostra testa.”
Il disorientamento europeo, oggi palese, è la diretta conseguenza di un
fallimento strategico di proporzioni storiche. Come è stato notato, l’Europa,
Italia in prima fila, “ha fallito puntando sulla scommessa militare della
vittoria dell’Ucraina sulla Russia a colpi di invii di armi e di spese
militari”. Abbiamo confuso la solidarietà con una strategia, trasformando il
sostegno a Kiev in una gigantesca scommessa bellica senza via d’uscita,
svuotando arsenali e bilanci senza un piano politico.
In questo quadro, la dichiarazione di Giuseppe Conte – “lasciamo che a condurre
il negoziato siano gli Stati Uniti” – assume un significato rivelatore. Non è
solo un’ammissione di fallimento strategico europeo; è un atto di resa politica.
Conte, nel constatare il disorientamento europeo, non propone un risveglio della
sovranità continentale, ma si schiera di fatto dalla parte dell’America
trumpiana. La sua posizione certifica che, per ampi settori della politica
europea, l’unica alternativa al fallimento dell’atlantismo interventista di
stampo Biden non è l’autonomia, ma un diverso tipo di vassallaggio: quello
realista e isolazionista di Trump.
È la logica del vassallo che, tradito dal proprio signore in una guerra, si
affretta a giurare fedeltà al signore rivale, pur di non dover reggere da solo
il peso della propria difesa.
La diagnosi di Conte sul vicolo cieco europeo resta perfetta: “L’Europa è
completamente disorientata, avevano solo una linea, la vittoria militare sulla
Russia, hanno scommesso su questo e adesso non hanno nessuna alternativa.”
È questo il cuore della crisi. Per tre anni, Bruxelles e le capitali europee
hanno rinunciato a qualsiasi pensiero strategico autonomo, affidandosi alla
narrazione semplicistica di una vittoria militare come unica opzione. Hanno dato
carta bianca a una logica di escalation, senza mai porsi la domanda
fondamentale: e se non vincessimo?
Ora, con Trump alla Casa Bianca che smantella quella stessa strategia, l’Europa
si ritrova come un pilota che ha bruciato tutto il carburante seguendo le
indicazioni di una torre di controllo che ora gli dice: “Trovati un altro
aeroporto, noi chiudiamo.” Il governo italiano, come molti suoi omologhi, è
emblematico di questo cortocircuito: dopo aver puntato tutto su un cavallo, ora
attende passivamente di vedere su quale podio salire, pur di non ammettere la
sconfitta della propria visione.
La reazione dell’establishment atlantista alle critiche è stata istruttiva.
Invece di un esame di coscienza, abbiamo assistito a una recita difensiva che
bolla come “inaccettabili e irresponsabili” le affermazioni che mettono in
discussione la strategia militare, ribadendo il mantra che “non si tratta di una
scommessa… ma di sostenere la resistenza”.
Peccato che sia proprio questa distinzione semantica a essere crollata sotto il
peso dei fatti. Sostenere la resistenza, senza un obiettivo politico chiaro e
realistico, diventa una scommessa. Una scommessa costosissima, pagata con
risorse sottratte alle vere emergenze nazionali: il crollo della produzione
industriale, gli stipendi erosi, le tasse in aumento, le liste d’attesa
sanitarie, l’insicurezza delle strade.
La proposta di risposta – più integrazione europea, più difesa comune – suona
come la richiesta di avere più dosi della stessa medicina che ci ha portato allo
stallo attuale. È l’illusione che il problema sia la quantità di Europa, non la
sua qualità strategica. Il vero “cortocircuito” è quello di chi vede la
debolezza europea e propone come soluzione di cedere ancora più sovranità a
un’entità che ha appena dimostrato un fallimento strategico monumentale.
Le dichiarazioni di Trump e le reazioni scomposte rivelano uno spartiacque. Da
una parte c’è chi riconosce l’impossibilità di una vittoria militare e invoca
una posizione europea “più negoziale” e un’autonomia reale. Dall’altra, c’è chi
rimane aggrappato al dogma interventista, anche di fronte all’evidenza del suo
fallimento e al tradimento del proprio protettore d’oltreoceano.
Trump ha lanciato una sfida letale all’Europa: indebolirla economicamente e
umiliarla politicamente, mentre le intima di diventare autonoma. La
trasformazione è a 360 gradi perché smaschera tutte le ipocrisie su cui si è
retta l’alleanza atlantista post-1989: l’Europa non è un alleato alla pari, ma
un vassallo; la sua sicurezza non è un interesse vitale americano, ma un costo
da ridurre.
L’Europa non sa come gestire questa trasformazione perché per decenni ha
disimparato a pensare in termini di interessi nazionali e realpolitik. Ha
scambiato l’obbedienza per strategia. La data del 2027 fissata dal Pentagono per
la nostra “autonomia” suona ora come una condanna. Siamo come vassalli a cui il
signore feudale, dopo averli impoveriti con tasse per una guerra inutile,
restituisce un feudo devastato dicendo: “Ora arrangiatevi.”
La tragedia non è il disprezzo di Trump, ma la nostra incapacità di raccogliere
la sfida. Dobbiamo scegliere: continuare a essere vassalli di un impero che ci
disprezza, o diventare finalmente architetti del nostro destino, cominciando dal
riconoscere che la pace in Ucraina non è una sconfitta, ma l’unico interesse
razionale per un continente che ha smarrito la bussola e sta bruciando le
proprie risorse in una scommessa già persa.
L'articolo L’Europa vassalla degli Usa ora non sa cosa fare: la tragedia non è
il disprezzo di Trump, ma l’incapacità d’azione proviene da Il Fatto Quotidiano.
Nel corso della trasmissione Battitori liberi, su Radio Cusano Campus, l’ex
ambasciatrice Elena Basile interviene sul conflitto in Ucraina e sul piano di
pace di Donald Trump, con un’analisi durissima delle scelte di politica estera
dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica.
Basile apre definendo “sbalorditivo” il comportamento di Bruxelles sulla
situazione a Kiev: “Mi sembra che Trump stia facendo uno sforzo per la
situazione in Ucraina. È alquanto sbalorditivo vedere che l’Unione Europea non
critica Trump per la sua dottrina militare relativa all’America Latina, né per
il genocidio a Gaza e neanche per questa tregua che sembra soprattutto un
protettorato coloniale. Non critica Trump per il suo atteggiamento di confronto
aggressivo con la Cina per Taiwan, ma critica Trump perché sconfessa le
politiche neoconservatrici americane“.
L’ex ambasciatrice si concentra poi sulla natura dell’espansionismo atlantico:
“Cosa sono le politiche neoconservatrici americane? Sono l’espansionismo della
Nato che, in base ai principi ipocriti e senza fondamento del liberal order,
dovrebbero significare l’espansione della democrazia e dei diritti individuali.
La Nato non è più l’alleanza militare offensiva utilizzata dagli anni ’90 in poi
dopo la fine dell’Unione Sovietica per le guerre ad ampio raggio dei neocon
americani, ma diventa ‘culla della civiltà’. Ed è veramente per me inquietante
vedere tante belle persone, giornalisti di inchiesta, analisti e accademici,
oltre ai diplomatici e ai politici, affermare che oggi l’essenza dell’Europa
liberal democratica è l’Europa che difende l’espansionismo della Nato».
Basile lega questa impostazione direttamente alla guerra in Ucraina: “Secondo
loro, questa guerra si può concludere solo con la disfatta della Russia, che
invece come sappiamo sul campo sta vincendo. Bisogna continuare con una politica
dei blocchi e utilizzare l’Ucraina, paese fallito, che oggi tutto è tranne che
una democrazia, l’Ucraina svenduta agli interessi di potenze straniere, il
popolo ucraino come carne da macello per continuare una guerra».
L’ex diplomatica ricorda come fino al 2008 le principali potenze dell’Europa
continentale non condividessero l’ipotesi dell’ingresso di Kiev e Tbilisi nella
Nato: “La Merkel, la Francia, l’Italia erano abbastanza inquieti per questa
politica neoconservatrice di conflitto con la Russia, perché questi leader
sapevano che era contraria agli interessi dei popoli europei. Dal 2014 in poi ha
prevalso il colpo di Stato: l’Europa si allinea perché in ambito Nato vengono
delle regole da sempre, l’egemone statunitense decide e l’Europa si allinea”.
Richiama anche il precedente della guerra in Iraq: “Fu infatti uno scandalo
quando Francia, Germania e Belgio si rifiutarono di andare in guerra con l’Iraq.
A quel tempo tutta la borghesia liberal democratica europea era contro le guerre
neoconservatrici di Bush. Alla fine l’Europa non solo si è arresa, ma obbedisce
ancora a dei poteri americani, ma quelli veri“.
Savino Balzano introduce poi la recente polemica sul mancato invito a Giorgia
Meloni al vertice di Londra, riportando il commento critico di Corrado Augias.
Basile risponde: “A me sembra terribile che Corrado Augias abbia questo da
criticare alla Meloni, a lui forse piace invece che Merz incontri Netanyahu“.
E aggiunge una critica diretta alla retorica dei “volenterosi”: “Starmer, Macron
e Merz non incontrano l’unico criminale di guerra riconosciuto, Putin (non si sa
bene perché), in quanto, come sappiamo, non è comparabile quello che fa la
Russia in Ucraina a quello che fa Israele a Gaza. Questi tre leader, che secondo
Augias difendono i valori dell’Europa, sarebbero i buoni rispetto a una Meloni,
non lo so, neofascista, che quindi non sposa i valori liberali e democratici».
L’ex ambasciatrice legge la postura della premier come un equilibrio tattico:
“La Meloni fa benissimo a sostenere timidamente Trump e a non sganciarsi
completamente, come ha fatto Orban, dallo stato profondo che è rappresentato
dalle lobby delle armi. Da politica abile la Meloni cerca di non tradire la sua
tradizione politica, che ha in Trump un punto di riferimento, e dall’altra sa
benissimo che l’Europa potrebbe scalzarla dal potere, come ha fatto con
Berlusconi, da un momento all’altro se lei veramente si opponesse a chi
veramente comanda in Europa”.
Per Basile questa “ambiguità costruttiva” diventa un meccanismo di sopravvivenza
politica: “La Meloni è forse quella un po’ più furba. Noi vorremmo degli uomini
di Stato rispetto a Starmer, a Merz, a Macron che sono ridicoli“.
Secondo l’ex diplomatica, il comportamento delle leadership europee resta
immutato indipendentemente dal colore politico: “Se ci fosse il Pd al potere,
nei confronti di Gaza e di Trump sarebbe lo stesso“.
E conclude: “Non è vero che Starmer, la von der Leyen e Macron non fanno anche
loro quello che fa la Meloni. Loro vanno in ginocchio a Washington, perché alla
fine i dazi li pagano, perché alla fine cercano sempre di barcamenarsi tra
quelli che sono i loro veri padroni, che sono delle burocrazie asservite ai
poteri finanziari, alle lobby, e il presidente degli Stati Uniti è colui che
decide la politica Nato”.
L'articolo Ucraina, l’ex ambasciatrice Basile: “Meloni è furba e
costruttivamente ambigua. Il Pd avrebbe fatto come lei su Gaza e su Trump”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’Unione Europea sta riflettendo sulla possibilità di concedere altri cinque
anni di vita ai motori a combustione all’interno delle auto ibride, posticipando
così alcuni effetti del divieto previsto per il 2035. L’eventuale scelta
arriverebbe dopo settimane di pressioni da parte di Paesi come Italia e Polonia
e di diversi costruttori, che temono un’accelerazione eccessiva nella corsa
all’elettrico, con possibili ricadute sull’intero comparto automobilistico.
La Commissione europea presenterà una proposta che consentirebbe a plug-in
hybrid ed extended-range electric vehicles (EREV) di restare sul mercato fino al
2040, a condizione che utilizzino biocarburanti avanzati ed e-fuel, combustibili
sintetici prodotti con CO₂ riciclata e energia rinnovabile. L’idea è di
mantenere l’obiettivo delle emissioni zero per le nuove auto entro il 2035,
introducendo però una fase di transizione più morbida per i costruttori e per i
Paesi più legati alla produzione tradizionale.
Molti aspetti restano, tuttavia, da definire. Bisogna stabilire quante ibride
potranno essere vendute dopo il 2035 e fissare parametri chiari sulla qualità
dei carburanti alternativi. Gli e-fuel promettono neutralità climatica, ma sono
ancora costosi e di difficile diffusione; i biocarburanti, invece, suscitano
dubbi riguardo alla reale sostenibilità e all’impatto sulle coltivazioni
alimentari.
Nel pacchetto atteso nei prossimi giorni (forse il 16 dicembre, ma potrebbe
essere ulteriormente posticipato) dovrebbe rientrare anche il rinvio della
revisione del sistema che misura le emissioni reali delle ibride plug-in, oggi
basato su dati di laboratorio poco rappresentativi dell’uso quotidiano.
La possibile proroga offrirebbe respiro all’industria europea, impegnata nella
trasformazione verso l’elettrico. Ma per le associazioni ambientaliste rischia
di diventare una porta aperta a nuove deroghe, rallentando la decarbonizzazione
del settore e mettendo l’Europa in una posizione meno competitiva rispetto alla
Cina, ormai leader nel mercato delle batterie.
L'articolo UE valuta una proroga di cinque anni per le auto ibride prima dello
stop ai motori termici nel 2035 proviene da Il Fatto Quotidiano.