Dolce&Gabbana, Prada, Versace, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent,
Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White
Operating.
Dall’alba fino alla sera di mercoledì il pubblico ministero Paolo Storari ha
lavorato con i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro: ha notificato 13
ordini di consegna documenti ad altrettante case di moda. Tutte spuntate nei
fascicoli sugli opifici cinesi clandestini nel ruolo di committenti, che
affidano la produzione ad appaltatori e subappaltatori, che operano violando le
leggi sul lavoro e la sicurezza.
Da anni denuncio – anche su queste pagine – l’esistenza di una vera e propria
alleanza criminale tra grandi marchi del lusso e il sistema del caporalato che
infetta le filiere del Made in Italy.
Oggi, grazie al lavoro della Procura di Milano, abbiamo l’ennesima conferma:
tredici nuovi brand, da Versace a Gucci, da Prada a Dolce&Gabbana, sono stati
raggiunti da ordini di esibizione documentale per il loro coinvolgimento,
diretto o indiretto, in una catena produttiva fondata sullo sfruttamento.
Non si tratta di casi isolati. È un sistema. Un sistema che appalta e subappalta
fino a sette livelli; che chiude gli occhi davanti a laboratori-dormitorio
gestiti illegalmente, dove lavoratori e lavoratrici – spesso migranti – sono
costretti a turni massacranti, senza diritti, senza sicurezza, senza dignità.
È lì che nascono le borse da migliaia di euro, prodotte a pochi spiccioli, con
ricarichi fino al 10.000%. I brand si rifugiano dietro al loro prestigio,
talvolta deridendo il lavoro della magistratura che lo sporcherebbe; si
nascondono dietro alle leggi ad hoc apparecchiate dal Governo, dietro agli audit
interni e a modelli organizzativi di facciata.
Tuttavia, la realtà è che in questi opifici si sanguina, si suda sfruttamento e
ogni tanto si muore, come accaduto a quel giovane del Bangladesh, morto nel 2023
a Trezzano sul Naviglio durante il suo primo giorno di lavoro. Come tanti altri
invisibili, sacrificati sull’altare del profitto.
Impossibile parlare ancora di “onore” dei marchi. Non basta più difendere
l’immagine buona del Made in Italy, dei “ricchi brava gente”. Serve verità.
Serve giustizia. Serve una riforma radicale delle filiere produttive. E serve il
coraggio di dire i nomi. Perché chi produce lusso sulla pelle degli ultimi non
può più nascondersi. La dignità del lavoro non è negoziabile e il vero prestigio
dell’Italia non sta nei loghi cuciti sulle etichette, ma nei diritti garantiti a
chi quelle etichette le cuce.
L'articolo Da anni denuncio un’alleanza criminale nella moda tra brand di lusso
e caporalato: si tratta di un sistema proviene da Il Fatto Quotidiano.