Rischiano il posto in 29 su circa 115 dipendenti della divisione. E l’azienda
non sembra avere alcuna intenzione di ammorbidire gli esuberi ricorrendo a
soluzioni alternative, come agli ammortizzatori sociali. Per questo, i sindacati
hanno dichiarato lo stato di agitazione in Dsquared2, l’azienda di moda fondata
dai gemelli Caten. La possibilità dei licenziamenti tiene banco da diversi mesi.
Inizialmente ne erano previsti una trentina, poi il numero è stato fissato a 29.
Tutti a Milano. Si tratta solo ed esclusivamente di figure di ufficio, non sono
in ballo tagli nella rete retail per la quale – apprende Ilfattoquotidiano.it –
è prevista la fusione in un’unica società, mentre attualmente i negozi
appartengono a una controllata.
“Le misure che hanno proposto per riassorbire gli esuberi non sono state molte
né idonee. In alcuni casi hanno detto di voler concedere forme contrattuali
diverse, tipo partita iva. Parliamo di sforzi limitati”, dice Stefania Ricci
della Filcams Cgil Milano. Da parte di Dsquared2, aggiunge, “c’è stata chiusura
totale sugli ammortizzatori sociali, come sempre nel settore della moda di
lusso, probabilmente per ragioni di immagine”.
Zero possibilità anche di ricorrere a scivoli e prepensionamenti, poiché sono
coinvolti quasi esclusivamente under 50. Il tempo stringe. La procedura
sindacale dovrebbe chiudersi il 15 gennaio, ma verrà probabilmente prorogata e
dopo si aprirà la fase amministrativa con la convocazione da parte della Regione
Lombardia. Filcams, Fisascat Cisl e Uiltucs hanno firmato una nota congiunta con
la quale dichiarato lo stato di agitazione e continuano a chiedere, oltre
all’azzeramento dei licenziamenti, il “sostegno concreto al reddito” dei
lavoratori, un “piano industriale rispettoso” e “vere soluzioni interne di
ricollocazione”. Avvisa Ricci: “I dipendenti sono compatti e arrabbiati. Si
stanno valutando in maniera determinata iniziative di lotta”.
L'articolo Dsquared2, 29 dipendenti a rischio licenziamento a Milano: sindacati
sul piede di guerra proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Moda
Un laboratorio aperto dedicato al futuro del Made in Italy sostenibile. Questa è
stata la prima edizione di Dressing the Future – Indossare il Futuro. L’evento,
promosso e ideato dall’IDI (Italian Design Institute) col patrocinio dalla Città
di Milano, era dedicato al futuro sostenibile del Made in Italy e si è tenuto il
5 dicembre negli spazi del centro culturale milanese Cascina Cuccagna, con
grande partecipazione di pubblico, esperti e addetti ai lavori.
La giornata – mix di arte, design e impresa – ha permesso alla nuova generazione
del design italiano di confrontarsi con professionisti, artisti, cittadini e
ricercatori. Ad aprire l’edizione l’area espositiva, inaugurata verso le 10 e
composta da diverse installazioni. Lo spazio centrale è stato dedicato ai
progetti provenienti dai corsi di Textile Design, Modellistica 2D-3D Fashion
Art, Modellistica Sposa & Haute Couture e ActiWear Design che hanno dato forma
alla nuova direzione del design contemporaneo. Insieme a loro, le opere di
Laurent Barnavon come Ce n’est qu’une impression, Milano 25 in collaborazione
con l’Officiel e quelle di Sara Conforti Hofer – definite un intreccio di
“abito, memoria e identità” – come Centosettantaperottanta – What Comes First?
in collaborazione con AtWork, Moleskine Foundation, Miroglio Group e il
Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli. Ad accompagnare l’esposizione, i
paesaggi sonori prodotti dagli studenti del Corso di Sound Design.
In parallelo, nell’area Art & Circular Fashion si sono tenuti i workshop
tematici, definiti “il cuore formativo della giornata”. Presso la sartoria Filo
Dritto e nelle sale della Cascina si è aperta ai partecipanti la possibilità di
sperimentare tematiche e approcci legati alla progettazione responsabile e
all’economia circolare. Alcuni esempi sono stati i corsi di origami applicato al
design zero waste (tenuto da Barnavon), la mappatura del riciclo tessile (con
Marco Piu), la modellazione somatica 3D (proposta da Carlo Galli), la
co-creazione pittorica (di Sarah Bowyer con Humana People to People Italia) e la
creazione di grucce sostenibili (tenuta da Cristina Mandelli). Sponsor
dell’evento le aziende Bonaveri e Philips.
Nel tardo pomeriggio spazio al talk “Re-immaginare il Made in Italy tra cultura,
impresa e sostenibilità”, moderato da Aurora Magni di Blumine . Il tema della
discussione è stato l’urgenza – da parte del mondo del design contemporaneo – di
ripensare la filiera produttiva attraverso una visione “sostenibile, creativa,
inclusiva, etica e innovativa”. Ospiti d’onore figure da sempre impegnate in tal
senso come Annibale D’Elia, Caterina Mazzei, Paolo Foglia, Alfio Fontana, Simone
Pavesi, Luisa della Morte e Zoe Romano. In seguito, Carbonara (affiancato da
Tania Sette, Educational Manager di IDI) ha conferito le targhe dell’evento a
dei docenti impegnati alla crescita dell’istituto: Roberto De Santis, Letizia
Schatzinger, Armando Bruno, Ceasar in rappresentanza del padre Simone Micheli,
Maurizio Corbi, Amilcare Incalza e Pierpaolo Tagliola del partner AG&P
Greenscape.
Grande soddisfazione da parte degli organizzatori, che non hanno nascosto il
proprio orgoglio per la riuscita del festival. Tania Sette ha affermato che
l’evento “si è rivelato un successo soprattutto per la capacità di mettere in
dialogo innovazione, sostenibilità e visione creativa” e ha fatto notare come
“l’atmosfera dinamica e collaborativa ha evidenziato che il cambiamento non è
soltanto possibile, ma già in atto. Ed i protagonisti sono soprattutto i
giovani”. Il fondatore di IDI, Nicola Carbonara, ha definito l’occasione “un
progetto nato dalla volontà di creare uno spazio autentico dove formazione,
creatività e innovazione potessero incontrarsi”.
L'articolo A Milano la prima edizione di Dressing the Future, l’evento di design
per un Made in Italy sostenibile proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’avviso sui display delle poltroncine rosse avverte il pubblico sui contenuti
violenti e sulle scene a tinte forti. La storia racconta di una donna, Katerina
che desidera affermare la sua libertà e affrancarsi dal marito che le è stato
imposto. Appassionata e desiderosa di libertà, si innamora, tradisce e uccide.
In piazza, i cori delle proteste dei sindacati e dei gruppi pro Palestina – “No
al colonialismo, vergogna!” – fanno da controcanto al rito mondano della Prima.
Dentro, nel ventre dorato del Piermarini, la stagione lirica 2025/26 si apre con
“Una Lady Macbeth del distretto di Mtsensk” di Dmitrij Shostakovich, diretta da
Riccardo Chailly, mentre platea e palchi si trasformano in un teatro nel teatro:
quello dei look, degli omaggi e dei messaggi silenziosi affidati agli abiti.
Sul tappeto rosso arrivano uno dopo l’altro imprenditori, politici, artisti,
volti dello spettacolo. Pierfrancesco Favino, in impeccabile smoking blu grigio
scuro Armani, sfila al fianco di Anna Ferzetti, avvolta in un abito blu e verde
smeraldo tempestato di leggere brillantezze, anche questo firmato Armani. È uno
dei tandem più eleganti della serata, quasi un manifesto vivente di quello che
sarà il fil rouge dell’inaugurazione: la memoria ancora freschissima di Giorgio
Armani, scomparso il 4 settembre, e un tributo compatto al suo lessico di
sobrietà e rigore. Ma si sente l’assenza anche di Ornella Vanoni, altra habitué.
Achille Lauro, con il suo ricciolo di capelli che cade sulla fronte, sceglie uno
smoking Dolce&Gabbana, completato da mocassino di vernice e una spilla di
brillanti a forma di corolla. “Sono contento di essere spettatore per una
volta”, dice sorridendo. Mahmood, anche lui al debutto alla Scala, opta per un
particolare smoking Versace: giacca nera, papillon, panciotto nero con ricami
oro che ricordano i toreri spagnoli. “Sono felice, è la mia prima volta”,
confessa, visibilmente emozionato all’idea di essere, per una sera, dall’altro
lato del palcoscenico. Quando si incontrano nell’amezzato durante il primo
intervallo si abbracciano e si salutano come due vecchi amici che non si vedono
da tempo: sono spontanei e anche un filo imbarazzati davanti alla raffica di
domande dei cronisti, ma se la cavano alla grandissima. Non ci sono né la
premier Meloni né il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma tra gli
ospiti più attesi c’è Liliana Segre, affezionatissima al Teatro, presente su
incarico proprio di Mattarella. “Opera scandalosa ma interessante”, dirà a fine
spettacolo, cogliendo in poche parole lo spirito della serata: un’opera che fu
censurata per anni nell’Unione Sovietica, riportata al suo pieno potenziale
sulla scena scaligera.
Il ministro della Cultura Alessandro Giuli, unico membro del governo presente,
arriva accolto dal prefetto Claudio Sgaraglia, dal governatore della Lombardia
Attilio Fontana e dal sindaco Beppe Sala davanti all’ingresso del Piermarini.
“Buonissima la Prima, grande prova d’orchestra”, commenterà poi. Accanto a Sala,
elegantissima, la compagna Chiara Bazoli in un sofisticato Giorgio Armani Privé
in velluto nero, con corpetto destrutturato e punti luce sul décolleté: uno dei
look più fotografati della serata. Con lei, in Armani Privé, anche Giovanna
Salza e Anna Olkhovaya, moglie dell’ex sovrintendente Dominique Meyer.
Barbara Berlusconi, oggi nel Consiglio d’amministrazione del Teatro, indossa un
prezioso abito ricamato di Giorgio Armani. “È un abito di qualche collezione
fa”, precisa. “L’ho già indossato altre volte e mi è sembrato un modo bello per
ricordarlo e celebrarlo”. Poi aggiunge il senso del suo nuovo ruolo: “È una
bella emozione, c’è tanto lavoro da parte mia, ma soprattutto questa è
un’occasione importantissima che porta Milano nel mondo”.
La danza è protagonista anche fuori dal palcoscenico. Arrivano in coppia, come
sempre, Nicoletta Manni, étoile della Scala, e il marito Timofej Andrijashenko,
primo ballerino, entrambi in Giorgio Armani. Lei in un elegante abito lungo, lui
in smoking. “Una volta all’anno siamo dall’altra parte del palcoscenico ma
soprattutto per noi è una serata speciale che segna sempre un nuovo inizio”,
racconta Manni. “È una serata importante per Milano, dove vogliamo portare anche
il nome del corpo di ballo della Scala”, aggiunge Andrijashenko.
Il parterre dei danzatori crea quasi un tableau vivant dedicato alla sartoria di
via Borgonuovo: la prima ballerina Virna Toppi in completo Armani; i primi
ballerini Nicola Del Freo, Claudio Coviello e Marco Agostino in smoking della
maison; le prime ballerine Martina Arduino e Alice Mariani in abiti Armani;
Antonella Albano in una tuta elegantissima, moderna e pulita, sempre firmata
Giorgio Armani. Una sfilata collettiva che trasforma la Prima in un grande,
discreto omaggio al “Re Giorgio”.
Nel foyer passa anche Giorgio Pasotti, emozionato per il suo debutto alla Prima
del 7 dicembre. “Avevo visto la prima di un balletto con Roberto Bolle ma non
un’opera lirica”, racconta. “Mi aspetto uno spettacolo molto forte, so che
quest’opera è stata censurata per anni e anni e noi abbiamo il privilegio di
vederla. Evidentemente è qualcosa di molto impattante e per chi viene dal cinema
come me è affascinante”.
Federica Panicucci sceglie un lungo abito da sera elegante e misurato, al fianco
del compagno Marco Bacini. Tra i volti televisivi spunta anche Vittorio
Brumotti, storico inviato di “Striscia la notizia”. Il total black domina,
rassicurando i più tradizionalisti: abiti lunghi, velluti, schiene nude, punti
luce di cristalli, qualche pennellata di colore – fucsia, bianco, verde smeraldo
– ma nessun eccesso urlato. Lontani i tempi della parata di pellicce e
dell’ostentazione in stile Santanché: questa Prima parla con il linguaggio della
misura. O, per dirla con le parole del conduttore televisivo Enzo Miccio: “Il
foyer è un po’ sottotono quest’anno. C’è qualche coroncina, qualche zarina
russa, con queste bellissima mise bianche, ma in generale devo dire che regna la
sobrietà. Nel primo anno senza Giorgio Armani ci sono tantissime signore che
hanno scelto di indossare il suo stile. Come Anna Ferzetti, che ha scelto un
bellissimo abito in tulle ricamato, come la compagna del sindaco Sala (Chiara
Bazoli) e come tantissimi uomini. Tutti in blu Armani, un classico chic senza
tempo. Io però, pensando al gelo della Russia, ho deciso per il bianco”.
Dentro la sala, l’attenzione si sposta sul palcoscenico: “Una Lady Macbeth del
distretto di Mcensk” nella versione originale del 1934 – quella che fece
infuriare Stalin – inaugura la stagione con oltre undici minuti di applausi,
fiori lanciati dai palchi, nessun fischio. Riccardo Chailly, al suo dodicesimo e
ultimo 7 dicembre scaligero, guida l’orchestra con energia e chiarezza,
restituendo tutta la durezza, l’ironia e il tragico paradosso della scrittura di
Šostakovič. Sara Jakubiak, protagonista nel ruolo di Katerina Izmajlova,
racconta così la sua serata: “La mia Katerina? È stata una tigre. Non mi
aspettavo questo successo, non si aspetta mai una cosa del genere nella vita.
Non so dire quanto mi senta fortunata per questo. Penso di aver guidato la
macchina a 200 miglia all’ora in questa esperienza. E sono semplicemente
felicissima”. Accanto a lei, Najmiddin Mavlyanov, Yevgeny Akimov e Alexander
Roslavets compongono un cast solido, capace di fare esplodere tutte le sfumature
taglienti dell’opera.
La regia di Vasily Barkhatov trasporta la vicenda negli anni Cinquanta
dell’Unione Sovietica, mescolando realismo e visioni, violenza e pietà, erotismo
e grottesco. Scene, costumi e luci costruiscono un ambiente essenziale ma
potente, che dialoga con la musica senza sovrastarla. Lo spettacolo conquista
platea e gallerie, in una serata che entra di diritto nel ciclo delle Prime più
applaudite degli ultimi anni. Ma è la forza delle immagini, crude e violente,
oltre alla strepitosa musica che passa dal registro più tragico a quello
talvolta scanzonato, a fare la differenza rispetto ad altre opere. Immagini
ancora oggi di impatto, come quella che vede il suocero molestare Caterina o
quella del palpeggiamento di una lavorante nella cucina del ristorante.
Nell’ultima scena del primo atto, fortissima, il regista sceglie una
sovrapposizione di piani temporali: Caterina e il suo amante, Sergej, stanno
consumando la loro passione sulla sedia e sul tavolo del locale mentre attorno
ci sono uomini di potere che fotografano e deridono la donna. Solo lei. Anche se
entrambi pagheranno per aver ucciso. Il secondo atto presenta già nello sviluppo
iniziale un’altra scena violenta. Il garzone amante di Caterina, Sergej, è
tenuto fermo e frustato dal suocero della donna davanti ai suoi occhi. Ma è la
musica Shostakovich la vera protagonista. L’eccellenza del cast vocale, del
coro, della direzione musicale di Chailly, della regia e allestimento
‘cinematografico’. Tutti aspetti capaci di restituire al pubblico passaggi
emotivi e stati d’animo, in una sovrapposizione di piani e dimensioni. Poi il
gran finale con effetti a sorpresa hollywodiani.
Il rito sociale della Prima mostra tutta la sua vitalità. In sala, oltre al
sindaco Sala e al ministro Giuli, il presidente della Corte costituzionale
Giovanni Amoroso, il governatore Attilio Fontana, il Consiglio d’amministrazione
della Scala con Giovanni Bazoli, Barbara Berlusconi, Diana Bracco, Claudio
Descalzi e Melania Rizzoli, gli ex sovrintendenti Carlo Fontana, Alexander
Pereira e Dominique Meyer. A sorpresa, tra gli ospiti internazionali, appare
l’attore britannico Russell Tovey, in un completo Versace con camicia gialla,
molto fotografato. “È uno spettacolo bellissimo ed è davvero un privilegio
essere qui”, dice. “Non ho mai vissuto qualcosa di simile a Milano ed è un onore
essere qui a godermi questo evento”. Sull’opera aggiunge: “Ho preferito la
seconda parte. Continuo a lasciarmi assorbire dall’orchestra. Sono così
affascinato e ipnotizzato nel guardare gli strumenti. È semplicemente magico. È
un’opera difficile e sono contento che ci siano le traduzioni. È una
rappresentazione epica e le scenografie sono incredibili”. Ricorda anche la
storia dell’opera: “È stata vietata in Russia per molti anni e solo negli anni
’70 è stato permesso mostrarla di nuovo. Trovo affascinante che l’arte possa
essere così controversa e che possa suscitare una reazione tale da portare le
persone a vietarla”.
Un record, la “Lady Macbeth” di Šostakovič, lo segna comunque: con 1.896
spettatori e un incasso di 2.679.482 euro, supera di oltre 100mila euro la Prima
della scorsa stagione, diventando l’inaugurazione più redditizia nella storia
del Teatro. Per cinquecento invitati la serata prosegue alla Società del
Giardino, dove lo chef Davide Oldani firma la cena di gala con piatti che
raccontano Milano, dalla vellutata di zucca con polvere di caffè ai cappelletti
al burro nocciola fino al rustin negàa.
L'articolo Prima della Scala 2025, i retroscena dal foyer: Mahmood e Achille
Lauro emozionati (ed elegantissimi). Enzo Miccio: “Look sottotono. C’è qualche
coroncina, qualche zarina russa, ma regna la sobrietà” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Il rischio è che i licenziamenti scattino proprio a Natale, colpendo oltre
duecento persone tra Milano e San Giovanni in Marignano. Per questo arriva il
grido di “forte preoccupazione” della Filctem Cgil sulla vertenza del Gruppo
Aeffe, che controlla gli storici marchi della moda Moschino e Alberta Ferretti.
L’azienda ha avviato una procedura di licenziamento collettivo a ottobre 2025,
la seconda nel giro di un anno, e riguarda 221 dipendenti sui 540 della società.
L’azienda è in crisi: il bilancio semestrale 2025 registra ricavi per circa 100
milioni di euro, con un ulteriore -27,8% rispetto al 2024, che già si era chiuso
con un calo del 21%. Sulla vicenda è in piedi un tavolo con il Mimit e il
ministero del Lavoro, vista la natura strutturale della crisi che ha investito
il gruppo negli ultimi due anni. I ministeri hanno manifestato la disponibilità
a mettere in campo soluzioni che azzerino i licenziamenti concedendo
ammortizzatori sociali in deroga (la cassa attuale terminerà il 12 gennaio) e
supportando la ricerca di partner industriali, oltre ad aprire al Fondo di
salvaguardia. Ma al momento non si è smosso nulla.
Ora la Filtcem Cgil Milano, quella sotto la quale ricade il maggior impatto dei
licenziamenti con 120 dipendenti interessati nelle sedi di via San Gregorio e
via Donizetti, dove ci sono gli showroom e gli uffici delle funzioni creative e
commerciali del gruppo, lancia un nuovo grido d’allarme chiedendo una “maggiore
assunzione di responsabilità” da parte del Gruppo Aeffe, affinché “si evitino
licenziamenti a ridosso delle festività natalizie”. La “priorità – sottolinea il
sindacato – è la salvaguardia dei posti di lavoro e la difesa di due marchi
simbolo del made in Italy, inseriti in un settore già duramente colpito da
ripetute crisi”.
Il prossimo appuntamento al tavolo di crisi del Mimit, fissato per il 21
gennaio, sarà decisivo. Anche se il Gruppo Aeffe è intenzionata a procedere per
la sua strada: “L’azienda – insiste la Filtcem -dovrà presentare un piano
concreto di risanamento e rilancio, aprendo a percorsi negoziali che
garantiscano le massime tutele per chi lavora: sia per chi resterà, sia per chi
dovesse essere coinvolto in eventuali uscite”. Sindacati e ministero sono anche
in attesa dell’esito – previsto entro fine dicembre – dell’analisi dell’esperto
indipendente Riccardo Ranalli, nominato dalla Camera di Commercio della Romagna
per il piano di risanamento nell’ambito della composizione negoziata della
crisi.
L'articolo Il gruppo che controlla Moschino e Alberta Ferretti licenzia 221
persone: “Rischio che perdano il lavoro a Natale” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Gli occhi lucidi del padre umiliato in fabbrica. L’epica idealista di Brunello
Cucinelli, dove l’etica incontra senza conflitti il profitto, inizia da qui. Una
scintilla emotiva che si è fatta missione di vita. Il racconto per immagini
della sua filosofica “ossessione per la gentilezza” è andato in scena a
Cinecittà, al Teatro 22, il più grande d’Europa, cornice e battesimo mondiale
del documentario “Brunello. Il visionario garbato” diretto da Giuseppe
Tornatore, dedicato proprio alla storia dell’imprenditore umbro. Il set di Ben
Hur si è illuminato per una notte. Due grandi bracieri accesi, un’esedra di
colonne tra cui spuntavano le figure dei grandi filosofi cari a Cucinelli, da
Pitagora a Socrate, a ricordare che per lui la matematica è “la legge
dell’universo” e che la classicità non è museo, ma bussola morale. Red carpet
color crema, colore “cuccinelliano” per eccellenza, ad accogliere oltre mille
invitati tra star del cinema (Jessica Chastain, Jeff Goldblum, Jonathan Bailey)
e personalità dell’economia e della moda. In prima fila pure Mario Draghi, l’ex
presidente del Consiglio che nel film racconta perché, nel pieno della pandemia,
scelse proprio Cucinelli per portare al G20 di Roma un messaggio di fiducia e
responsabilità. Poi c’è l’ospite che “c’è ma non c’è” (e fa slittare l’inizio
della proiezione): la premier Giorgia Meloni, amica e cliente affezionata – i
suoi tailleur pastello parlano da soli – di Cucinelli.
“Brunello, il visionario garbato” non è un semplice documentario aziendale, e
neppure un biopic tradizionale. Lo chiarisce Tornatore: “Non è un documentario,
non è un film, non è uno spot pubblicitario, ma allo stesso tempo è tutti questi
generi fusi insieme. Lo considero un film sperimentale, dove il documentario
canonico si intreccia con la messa in scena dei capitoli più significativi di un
film che forse non esiste, o forse sì”. La definizione non è retorica. Tornatore
costruisce un’opera poetica e magniloquente, dal respiro dichiaratamente
cinematografico, che in più di un passaggio fa pensare a Nuovo Cinema Paradiso:
non solo perché è uno dei film del cuore di Cucinelli, ma per la stessa capacità
di trasformare il ricordo in racconto universale, la memoria in materia visiva.
Le sequenze di finzione – l’infanzia nella campagna umbra, il padre operaio
umiliato in fabbrica, il ragazzo che passa le ore al bar a discutere di
filosofia – si alternano alle interviste, ai filmati di gioventù, al presente in
cui Brunello cammina tra le campagne di Solomeo, sale sul palco del G20, parla
agli operai in fabbrica. Tutto è cucito dalla colonna sonora di Nicola Piovani.
Al centro del film c’è sempre lui, Cucinelli, quel bambino umbro che “avrebbe
voluto fare il Papa” e invece è diventato un imprenditore della moda di lusso
con un fatturato di 1 miliardo.
La scena chiave – quella che, a suo dire, ha deciso il resto della sua vita – è
l’immagine del padre operaio, che esce per andare a lavorare mentre lui rientra
a casa dall’ennesima nottata con gli amici: “Da ragazzo vidi gli occhi lucidi di
mio padre umiliato e offeso sul lavoro. Ancora oggi non capisco perché si debba
umiliare e offendere. Da quel dolore ho deciso che il sogno della mia vita
sarebbe stata un’impresa che facesse sani profitti, ma con etica, dignità e
morale“. Tornatore mostra il giovane Brunello un po’ sognatore e un po’
perdigiorno: uno che preferisce passare i pomeriggi a giocare a carte al bar con
gli amici che trovare il “posto fisso”, che studia filosofia ma non dà neanche
un esame. Un contrasto che dà al film una tensione quasi romanzesca. È così che
la partita si ribalta. Come una folgorazione, ecco che arriva la grande idea:
fare maglioni di cachemire colorati da donna. È la svolta. Niente più bar, solo
lavoro. E tutto cambia.
Infine una massima che Cucinelli, dal canto suo, ripete spesso anche fuori dallo
schermo: “Mi sento custode e non proprietario, quindi non ho paura di perdere“.
Nel doc di Tornatore arriva verso la fine, quando ormai lo spettatore ha visto
Solomeo trasformata in borgo ideale, con il teatro, l’accademia, i paesaggi
curati come giardini rinascimentali, i laboratori dove l’orario di lavoro è
compatibile con la vita, le retribuzioni sopra la media. Il film non nasconde il
successo, ma lo mette continuamente in relazione con un senso di responsabilità
quasi monastica.
La sequenza conclusiva, che resta addosso anche dopo i titoli di coda, è
costruita come una metafora sportiva e morale. Tornatore ha scelto il gioco
delle carte come fil rouge del film, con una “partita finale” che viene giocata
tra un passaggio e l’altro della sua vita: in campo ci sono il Brunello di oggi
e quello bambino. La partita è vinta, sembra dirci il film, non perché è
arrivato il successo, ma perché il bimbo di ieri e l’uomo di oggi restano, in
fondo, la stessa persona. “La mia in fondo è una storia di determinazione e di
passione – riflette Cucinelli -. Vorrei che fosse d’ispirazione per tutti i
giovani che ancora cercano la propria strada. È dai sogni che nasce la vera
crescita spirituale dell’essere umano”.
“Brunello. Il visionario garbato” sarà nelle sale italiane il 9, 10 e 11
dicembre. Cucinelli, 72 anni, è l’ultimo di tre fratelli di una famiglia di
contadini mezzadri. Nel 1978 fonda il brand che porta il suo nome, trasformando
negli anni il piccolo borgo umbro di Solomeo nel quartier generale dell’azienda
che oggi fattura oltre un miliardo di euro. “Il mio epitaffio?”, dice, “Vorrei
che ci sia scritto “era un uomo garbato”.
L'articolo Brunello Cucinelli “visionario garbato” nel nuovo film di Tornatore:
dall’infanzia in campagna ai pomeriggi a giocare a carte al bar, la vita e la
storia del “re del cachemire” proviene da Il Fatto Quotidiano.
La nuova categoria dei Fashion Awards ha riconosciuto il talento di Kate Hawley
per i lavoro sui costumi dell'ultimo capolavoro di Guillermo del Toro, con Mia
Goth e Jacob Elordi
È stata la Bbc, per prima, a dedicarle un servizio: la nuova campagna di
Valentino per la borsa Garavani DeVain, realizzata con l’intelligenza
artificiale, sta scatenando un’ondata di reazioni indignate. Nel giro di poche
ore la notizia ha fatto il giro del web, finendo sulle pagine del Daily Mail e
di molti altri giornali britannici, che hanno raccolto decine di commenti —
spesso spietati — degli utenti sui social. Il motivo? Un video surreale e
dichiaratamente generato con AI, pubblicato sul profilo Instagram della maison e
subito diventato virale, non tanto per l’impatto artistico quanto per le accuse
di essere uno spot “inquietante” e “disturbante“.
IL VIDEO NEL MIRINO DELLE CRITICHE
Il video criticato è il secondo capitolo del progetto “Digital Creative Project”
di Valentino, che ha coinvolto nove artisti, cinque dei quali hanno utilizzato
strumenti di AI generativa. Lo spot è firmato in particolare dall’artista
digitale Total Emotional Awareness, che secondo la maison ha trasformato la
borsa in “un viaggio attraverso geometrie caleidoscopiche e pura immaginazione”.
Il contenuto è un collage “surreale” e visionario: modelle che emergono da
un’opulenta borsa d’oro, braccia che si fondono per formare il logo Valentino e
corpi che si trasformano in una massa vorticosa. Il brand, correttamente, aveva
etichettato il post come contenuto generato dall’AI ma il punto non è neanche
tanto l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, quanto il risultato che ne è
scaturito. I commenti si sono moltiplicati, definendo il visual come “surreale”,
“inquietante”, “scadente” e chiedendo: “È deludente da una casa di moda
couture”. Molti si sono chiesti se l’azienda fosse stata “hackerata” mentre
altri tuonavano: “Ma cosa ca** stiamo vedendo?”.
IL COMMENTO DEGLI ESPERTI
Il fallimento del progetto Valentino risiede nel valore percepito della
tecnologia. Per gli esperti, l’uso dell’AI da parte di un marchio che vende
borse da oltre 2.000 dollari invia un messaggio devastante: “I clienti tengono i
brand di lusso a uno standard più elevato”, ha spiegato Dr. Rebecca Swift di
Getty Images. L’esperta ha sottolineato che la piena trasparenza non è
sufficiente a mascherare il timore che il marchio stia privilegiando il costo
rispetto all’arte. Anne-Liese Prem, di Loop Agency, ha identificato il vero
problema: “Quando l’AI entra nell’identità visiva di un brand, le persone temono
che il marchio stia scegliendo l’efficienza a scapito dell’arte. Il pubblico
legge l’operazione come cost-saving mascherato da innovazione”.
Il caso Valentino, che segue di pochi mesi quello di Guess (criticata per aver
usato modelle AI in Vogue), dimostra che il rischio è elevatissimo: “Senza una
forte idea emotiva dietro, l’AI generativa può rendere il lusso meno umano in un
momento in cui le persone vogliono la presenza umana più che mai”, ha
sintetizzato la Prem. L’errore della maison italiana è stato quello di
sottovalutare il bisogno di autenticità e manualità da parte di un pubblico che,
spendendo cifre esorbitanti, esige che l’oggetto sia frutto del genio umano, e
non di un algoritmo.
L'articolo “Inquietante”, “Surreale”, “Ma cosa ca** stiamo vedendo?”: la nuova
pubblicità di Valentino creata con l’Intelligenza Artificiale fa discutere. La
Bbc accende il caso, il web insorge proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’inchiesta della Procura di Milano sull’ipotizzato caporalato nelle filiere
della moda, che ha portato i carabinieri del Nucleo per la Tutela del Lavoro a
chiedere documenti e atti a 13 grandi gruppi del settore, accende nuovamente i
riflettori sul sistema degli appalti e subappalti. A sottolinearlo sono le
segreterie generali di Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil, che leggono
l’azione della magistratura come una conferma delle criticità da loro denunciate
da tempo.
“L’inchiesta della Procura milanese sul caporalato, che ieri ha portato i
carabinieri del nucleo per la Tutela del Lavoro nelle sedi di 13 grandi Gruppi
della Moda è l’ennesima conferma delle nostre denunce sulla diffusa illegalità
nella catena degli appalti e dei subappalti. I riflettori della magistratura
sono nuovamente puntati sulle filiere produttive del settore”, affermano i
sindacati, ricordando che l’indagine potrebbe ora allargarsi: dopo i primi
provvedimenti di amministrazione giudiziaria, non si esclude l’applicazione
delle misure previste dal Testo unico antimafia o una vera e propria
contestazione del reato di caporalato, nell’ambito della legge 231 sulla
responsabilità amministrativa delle imprese.
I sindacati puntano il dito contro i grandi marchi, accusati di beneficiare dei
profitti senza farsi carico delle responsabilità della filiera: “Crediamo sia
inaccettabile che i grandi marchi, beneficiari di bilanci record, possano avere
una sorta di beneplacito che li esclude da ogni responsabilità, rispetto alle
condotte delle ditte cui danno in appalto le lavorazioni”, denunciano Filctem,
Femca e Uiltec. Da qui la richiesta di un intervento del Governo sul disegno di
legge dedicato alle piccole e medie imprese, già approdato in Senato e ora
all’esame della Camera: “Per questo chiediamo che il Governo ci ascolti rispetto
alle modifiche da apportare al ddl sulle pmi (di iniziativa del ministro Urso,
ndr). Non è possibile escludere o alleggerire la posizione di responsabilità
solidale del committente sugli appalti e subappalti, specialmente in presenza di
presunti ‘modelli di controllo’ interni”.
Le tre sigle riassumono poi le loro proposte in cinque punti che mirano a
rafforzare la legalità nelle filiere produttive. “Stop all’emendamento ‘Salva
committenti’, con il ritiro immediato degli articoli del ddl pmi che
alleggeriscono la responsabilità dei brand sugli illeciti lungo la filiera;
nessuna scorciatoia per chi lucra sullo sfruttamento e realizza così forme di
dumping sulle migliaia di aziende che agiscono correttamente, quindi sì alla
responsabilità solidale effettiva; maggiori controlli ispettivi lungo tutta la
catena produttiva, anche con l’ausilio di indici di congruità per individuare i
subappalti a rischio illegalità; applicazione puntuale del Contratto Collettivo
Nazionale di Lavoro, senza eccezioni, in ogni segmento della filiera;
tracciabilità etica, con l’introduzione di una certificazione sul rispetto dei
diritti e delle norme in ogni fase della produzione”. Secondo i sindacati, solo
un intervento strutturale potrà evitare che le irregolarità emerse in queste
settimane si ripresentino nel tempo, garantendo condizioni di lavoro dignitose e
una concorrenza leale tra imprese.
L'articolo Moda e caporalato, i sindacati contro i grandi marchi: “Stop al
‘salva committenti’” proviene da Il Fatto Quotidiano.
La contesa, che sembrava chiusa da anni, è riesplosa: Nicolas Puech, uno degli
eredi della famiglia fondatrice di Hermès, ha intentato una causa civile contro
LVMH e Bernard Arnault, chiedendo un risarcimento di oltre 14 miliardi di euro.
Il motivo del contendere è l’accusa che la sua ex consulenza patrimoniale abbia
ceduto illegalmente milioni di titoli Hermès a beneficio del gruppo Arnault.
LVMH respinge ogni accusa, parlando di una “campagna stampa manifestamente
coordinata” contro il gruppo.
L’ACCUSA: “SEI MILIONI DI AZIONI CEDUTE ALL’INSAPUTA”
La vicenda, come riporta il Corriere della Sera, ruota attorno a presunte
manovre avvenute più di quindici anni fa, legate all’ingresso progressivo di
LVMH nel capitale di Hermès, culminato a fine anni 2000 con una quota del 23%.
Puech, un erede che risiede in Svizzera, sostiene che il suo ex consulente
patrimoniale, Eric Freymond (deceduto a luglio), avrebbe ceduto milioni di
titoli Hermès a beneficio di LVMH senza il suo consenso. L’operazione, secondo
la versione dell’erede, avrebbe riguardato un danno quantificabile in circa 6
milioni di azioni, pari al 5,76% del capitale, oggi valutate 14,3 miliardi. A
complicare il quadro, il giornale francese Le Canard Enchaîné ha riportato che
Freymond avrebbe ammesso davanti ai giudici, poco prima di morire, di aver
ceduto nel 2008 a LVMH 4,8 milioni di quei titoli, oltre ad altre cessioni
minori.
LA REPLICA DI LVMH: “CONTROVERSIA RISOLTA DA ANNI”
La risposta di LVMH è stata immediata e intransigente. Il gruppo e il suo
azionista “ribadiscono con forza di non aver, in alcun momento, distolto azioni
di Hermès International in qualunque modo o all’insaputa di chiunque, né di
detenere alcuna azione ‘occulta’, contrariamente a quanto lascia intendere il
signor Puech”. Il colosso del lusso sottolinea inoltre che l’intera contesa
storica con Hermès si era già chiusa da anni, con un accordo siglato nel 2014
sotto l’egida del Tribunale di commercio di Parigi. I giudici, nel 2015, avevano
persino emesso un’ordinanza di non luogo a procedere.
LA BATTAGLIA LEGALE
Nonostante la chiusura del contenzioso in passato, Puech ha avviato un’azione
penale nel 2024 contro Freymond e ora la causa civile. LVMH, che accusa Puech di
aver deciso di rivolgersi alla giustizia francese solo dopo essere stato
respinto “più volte da quella svizzera”, si riserva di intraprendere “qualsiasi
azione necessaria per far valere i propri diritti”. La Procura di Parigi ha
confermato che l’inchiesta penale è “ancora in corso” nonostante il decesso
dell’ex gestore. La prossima udienza civile è fissata per il 19 febbraio 2026. A
più di un decennio di distanza, la battaglia tra i giganti del lusso si sposta
di nuovo nelle aule giudiziarie.
L'articolo Guerra tra titani: l’erede di Hermès accusa Bernard Arnault e chiede
14 miliardi di euro di risarcimento a Lvmh, ecco perché proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Dolce&Gabbana, Prada, Versace, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent,
Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White
Operating.
Dall’alba fino alla sera di mercoledì il pubblico ministero Paolo Storari ha
lavorato con i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro: ha notificato 13
ordini di consegna documenti ad altrettante case di moda. Tutte spuntate nei
fascicoli sugli opifici cinesi clandestini nel ruolo di committenti, che
affidano la produzione ad appaltatori e subappaltatori, che operano violando le
leggi sul lavoro e la sicurezza.
Da anni denuncio – anche su queste pagine – l’esistenza di una vera e propria
alleanza criminale tra grandi marchi del lusso e il sistema del caporalato che
infetta le filiere del Made in Italy.
Oggi, grazie al lavoro della Procura di Milano, abbiamo l’ennesima conferma:
tredici nuovi brand, da Versace a Gucci, da Prada a Dolce&Gabbana, sono stati
raggiunti da ordini di esibizione documentale per il loro coinvolgimento,
diretto o indiretto, in una catena produttiva fondata sullo sfruttamento.
Non si tratta di casi isolati. È un sistema. Un sistema che appalta e subappalta
fino a sette livelli; che chiude gli occhi davanti a laboratori-dormitorio
gestiti illegalmente, dove lavoratori e lavoratrici – spesso migranti – sono
costretti a turni massacranti, senza diritti, senza sicurezza, senza dignità.
È lì che nascono le borse da migliaia di euro, prodotte a pochi spiccioli, con
ricarichi fino al 10.000%. I brand si rifugiano dietro al loro prestigio,
talvolta deridendo il lavoro della magistratura che lo sporcherebbe; si
nascondono dietro alle leggi ad hoc apparecchiate dal Governo, dietro agli audit
interni e a modelli organizzativi di facciata.
Tuttavia, la realtà è che in questi opifici si sanguina, si suda sfruttamento e
ogni tanto si muore, come accaduto a quel giovane del Bangladesh, morto nel 2023
a Trezzano sul Naviglio durante il suo primo giorno di lavoro. Come tanti altri
invisibili, sacrificati sull’altare del profitto.
Impossibile parlare ancora di “onore” dei marchi. Non basta più difendere
l’immagine buona del Made in Italy, dei “ricchi brava gente”. Serve verità.
Serve giustizia. Serve una riforma radicale delle filiere produttive. E serve il
coraggio di dire i nomi. Perché chi produce lusso sulla pelle degli ultimi non
può più nascondersi. La dignità del lavoro non è negoziabile e il vero prestigio
dell’Italia non sta nei loghi cuciti sulle etichette, ma nei diritti garantiti a
chi quelle etichette le cuce.
L'articolo Da anni denuncio un’alleanza criminale nella moda tra brand di lusso
e caporalato: si tratta di un sistema proviene da Il Fatto Quotidiano.