Cosa si può dire e cosa, al contrario, non si può dire nel dibattito pubblico?
Negli ultimi anni l’ultradestra ha fatto passare l’idea che, tanto a livello
internazionale, quanto a livello italiano, si sia imposta una forma di censura
informale, il “politicamente corretto”. In sintesi, ci sarebbero opinioni, idee
e parole che non possono più essere né pensate né proferite, perché invise ai
“poteri forti”, pena l’emarginazione se non il silenziamento nel dibattito
pubblico.
Fin qui siamo di fronte a una delle caratteristiche dell’ultradestra
internazionale: spacciarsi per vittima, per quella “parte” schiacciata da una
maggioranza di bigotti e “buonisti” quando, al contrario, il “politicamente
scorretto” che professa è una sorta di nuovo mainstream, accolto e spesso ben
retribuito, tanto dal potere politico quanto da quello mediatico. A sostenere la
tesi della dittatura del “politicamente corretto” infatti sono solitamente
personaggi che godono di enorme spazio mediatico sui principali canali
mainstream, da quelli TV a quelli radio. E che, quindi, quelle idee e quelle
parole le pronunciano con forza davanti a milioni e milioni di persone che le
ascoltano quotidianamente.
Vannacci e Cruciani sono solo due degli esempi di un “politicamente scorretto”
che si spaccia per minoranza vessata e che, al contrario, gode di piena
cittadinanza, offerta tanto dal potere politico – un partito politico di governo
come la Lega che consegna a Vannacci una candidatura prima e una vice-segreteria
federale poi – quanto da quello mediatico ed economico (La Zanzara va in onda
quotidianamente su Radio24, organo della Confindustria).
Questo non significa, però, che tutte le opinioni, idee e parole possano essere
liberamente espresse. La censura esiste, solo che non risiede lì dove
l’ultradestra vorrebbe indirizzare i nostri sguardi. Ci sono cioè ambiti in cui
ognuna e ognuno di noi è considerato cittadina e cittadino e, in quanto tale,
titolare di diritti che può esercitare in determinati luoghi: la propria casa,
la strada, finanche i social network. Esistono però altri luoghi fisici in cui
smettiamo di essere cittadini, in cui un diritto costituzionalmente garantito
come la libertà di espressione troppo spesso non arriva: i posti di lavoro.
Non perché ci siano norme che vietano formalmente l’esercizio dei nostri
diritti, sulla carta rimangono. Ma è come se la Costituzione formale si fermasse
ai cancelli delle fabbriche e all’interno dei luoghi di lavoro vigessero altre
leggi.
Il licenziamento di Michele Madonna, operaio della ex Jabil di Marcianise (CE),
oggi TMA, e dirigente dell’Unione Sindacale di Base (USB), testimonia proprio la
distanza tra leggi formali e leggi “reali”.
Michele è stato licenziato il 24 novembre perché, sostiene l’impresa TMA, si
sarebbe “interrotto il rapporto fiduciario”. A far venire meno la fiducia –
termine scelto dal Vocabolario della lingua italiana Treccani come parola
dell’anno 2025 – sarebbero state le dichiarazioni che Michele ha rilasciato in
diverse occasioni (riportate nella lettera di contestazione dell’11 novembre),
criticando la cessione dello stabilimento di Marcianise e dei suoi 406
dipendenti, già superstiti di precedenti spacchettamenti, dalla multinazionale
statunitense Jabil alla piccola TMA. Un’operazione che una sindacalista della
Fiom aveva così descritto: “È come voler far entrare un sottomarino in una
scatoletta di tonno”.
Michele Madonna ha esercitato la sua libertà di espressione, osando criticare
una cessione aziendale e avanzando dubbi sulla possibilità di tenuta sul lungo
termine di produzioni e occupazione. Se il dissenso è il sale della democrazia,
è evidente che c’è chi concepisce le fabbriche come caserme in cui l’unica
espressione consentita è “signorsì signore”. Criticare l’impresa, ecco il
“politicamente scorretto” che per davvero è sottoposto a censura e addirittura a
licenziamento. E, guarda caso, è la libertà dell’operaio di criticare la propria
azienda che non viene difesa dall’ultradestra che pure si sgola all’urlo
“libertà, libertà, libertà”.
Essere oggi al fianco di Michele Madonna non significa solamente difendere la
possibilità di un lavoratore di mantenere il proprio reddito e il proprio posto
di lavoro; significa difendere un’idea di democrazia sostanziale e, al contempo,
rifiutare quella di una democrazia formale che si arresta sulla soglia dei
luoghi di lavoro. Significa rivendicare l’idea – questa sì “politicamente
scorretta” – che le imprese non siano piccoli Staterelli in cui vige una sorta
di Ancient Regime, un modello, cioè, in cui la volontà del padrone è
paragonabile a quella del Re Sole, una volontà che si fa legge e che si impone
al di sopra della Costituzione formale.
E, ancora, essere al fianco di Michele, così come di Pasquale Zeno – vittima di
licenziamento disciplinare ad agosto, a pochi giorni dall’arrivo della nuova
proprietà – e degli operai TMA (ex Jabil) che hanno ricevuto lettere di
contestazione significa non arrendersi al destino di desertificazione
industriale che un’intera classe dominante – di destra, centro, sinistra – ci
regala da decenni come “destino manifesto” e che viene accompagnato da
un’emigrazione che tra il 2011 e il 2024 ha visto partire dalla sola Campania
addirittura 158mila giovani tra i 18 e i 34 anni (dati CNEL).
Martedì essere in piazza a Caserta per il corteo convocato da USB alle 11:00
significa riconoscere nelle parole e nelle azioni di Michele Madonna la difesa
della libertà di espressione, della dignità dei lavoratori, del presente e
futuro occupazionale di un intero territorio contro l’autoritarismo
imprenditoriale e il rischio di un’ulteriore impoverimento produttivo che
contribuirebbe a fare della nostra terra sempre più un “deserto di lavoro”
laddove avevamo “terra di lavoro”.
L'articolo Ecco il vero politicamente scorretto: criticare il proprio posto di
lavoro proviene da Il Fatto Quotidiano.