Rischiano il posto in 29 su circa 115 dipendenti della divisione. E l’azienda
non sembra avere alcuna intenzione di ammorbidire gli esuberi ricorrendo a
soluzioni alternative, come agli ammortizzatori sociali. Per questo, i sindacati
hanno dichiarato lo stato di agitazione in Dsquared2, l’azienda di moda fondata
dai gemelli Caten. La possibilità dei licenziamenti tiene banco da diversi mesi.
Inizialmente ne erano previsti una trentina, poi il numero è stato fissato a 29.
Tutti a Milano. Si tratta solo ed esclusivamente di figure di ufficio, non sono
in ballo tagli nella rete retail per la quale – apprende Ilfattoquotidiano.it –
è prevista la fusione in un’unica società, mentre attualmente i negozi
appartengono a una controllata.
“Le misure che hanno proposto per riassorbire gli esuberi non sono state molte
né idonee. In alcuni casi hanno detto di voler concedere forme contrattuali
diverse, tipo partita iva. Parliamo di sforzi limitati”, dice Stefania Ricci
della Filcams Cgil Milano. Da parte di Dsquared2, aggiunge, “c’è stata chiusura
totale sugli ammortizzatori sociali, come sempre nel settore della moda di
lusso, probabilmente per ragioni di immagine”.
Zero possibilità anche di ricorrere a scivoli e prepensionamenti, poiché sono
coinvolti quasi esclusivamente under 50. Il tempo stringe. La procedura
sindacale dovrebbe chiudersi il 15 gennaio, ma verrà probabilmente prorogata e
dopo si aprirà la fase amministrativa con la convocazione da parte della Regione
Lombardia. Filcams, Fisascat Cisl e Uiltucs hanno firmato una nota congiunta con
la quale dichiarato lo stato di agitazione e continuano a chiedere, oltre
all’azzeramento dei licenziamenti, il “sostegno concreto al reddito” dei
lavoratori, un “piano industriale rispettoso” e “vere soluzioni interne di
ricollocazione”. Avvisa Ricci: “I dipendenti sono compatti e arrabbiati. Si
stanno valutando in maniera determinata iniziative di lotta”.
L'articolo Dsquared2, 29 dipendenti a rischio licenziamento a Milano: sindacati
sul piede di guerra proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Licenziamenti
L’intelligenza artificiale ci sta già rubando il lavoro? L’ondata di
licenziamenti annunciati negli ultimi mesi negli Stati Uniti da grandi gruppi di
settori che vanno dalla tecnologia al retail rende la domanda inevitabile. Ma
dietro i massicci piani di ridimensionamento del personale ci sono quasi sempre
ragioni più banali rispetto all’adozione di chatbot in grado di sostituire i
colletti bianchi. Vedi preoccupazioni per l’andamento dell’economia complici i
dazi voluti da Donald Trump, vendite in calo causa pressione sui prezzi (vero
tallone d’Achille dell’amministrazione del tycoon) e consumi stagnanti, errori
gestionali a cui occorre rimediare. E la vecchia tentazione di tagliare i costi
per migliorare i margini e così compiacere gli investitori. Basti dire che nei
primi undici mesi dell’anno, se si considerano anche la pubblica amministrazione
e l’industria manifatturiera, oltreoceano sono stati ufficializzati oltre 1,1
milione di esuberi, di cui 153mila solo a ottobre: è il livello più alto dal
2020. Ma, secondo una ricognizione della società di outplacement Challenger,
Gray & Christmas solo in 55mila casi l’AI è stata citata come esplicita
“giustificazione” della riduzione della forza lavoro. Le motivazioni prevalenti
sono invece legate a condizioni di mercato, chiusure e ristrutturazioni. Seguite
dall’impatto dei licenziamenti collettivi targati Doge.
OBIETTIVO “SNELLIMENTO” PER COMPIACERE GLI AZIONISTI
Tra le Big tech, Amazon è il caso più eclatante. A cavallo della pandemia ha più
che raddoppiato la forza lavoro in scia al boom dell’e-commerce. A fine ottobre
è arrivato il primo brusco dietrofront, con l’annuncio di 14.000 tagli nella
divisione corporate. Parte, secondo Reuters, di un più ampio piano che potrebbe
prevedere in tutto fino a 30mila esuberi. Se è vero che una parte dei posti
eliminati saranno sostituiti da nuove mansioni legate all’AI, i tagli puntano
soprattutto a snellire l’organizzazione per convincere Wall Street che il
gruppo, a fronte dei 125 miliardi investiti quest’anno in infrastrutture cloud e
data center per la stessa intelligenza artificiale, resta attento all’efficienza
e a salvaguardare i margini di profitto.
Obiettivo “dimagrimento” anche per Microsoft, che nonostante ottimi risultati di
bilancio sta portando avanti un piano da 15mila esuberi mirato a “ridurre i
livelli gestionali”, le procedure e i ruoli interni. Sul modello di Google, che
nell’ultimo anno – mentre destinava 85 miliardi di spese in conto capitale agli
impianti necessari per alimentare nuovi servizi di intelligenza artificiale – ha
silenziosamente eliminato un terzo dei manager che gestivano piccoli team e
offerto buonuscite agli impiegati di una decina di divisioni.
A sua volta Oracle, prima del maxi accordo da 300 miliardi di dollari con OpenAI
per la vendita di potenza di calcolo e dell’annuncio di corposi investimenti per
rispondere alla “crescente domanda di servizi AI”, ha deciso di compensare il
boom dei costi con una ristrutturazione senza precedenti. Previsti almeno 3mila
licenziamenti tra Usa, Canada, India e Filippine nelle business unit dedicate a
cloud e servizi finanziari, ma gli analisti prevedono che il numero potrebbe
salire a 10mila.
TAGLI COME REAZIONE A UNA CRISI
Poi c’è chi taglia per salvare i bilanci a fronte di un business in calo, o dopo
errori di valutazione e crisi reputazionali. Intel ridurrà la forza lavoro di
oltre il 20% (più di 20mila persone) rispetto a fine 2024 per salvare il
salvabile dopo aver perso il treno del boom dei chip per AI, comparto dominato
da Nvidia e AMD, e investito troppo in progetti che non hanno portato i ritorni
sperati. Meta, le cui spese in infrastrutture per l’AI hanno superato i 70
miliardi, secondo il Wall Street Journal si prepara a ridurre dal 10 al 30% il
personale della divisione dedicata al metaverso, che dal 2020 ha bruciato oltre
60 miliardi di dollari non ha mai generato i risultati attesi.
Dal canto suo UPS, che quest’anno ha ridotto del 50% il volume delle consegne
effettuate per Amazon perché poco redditizie, ha eliminato 48.000 posizioni tra
impiegati e addetti operativi: licenziamenti che dipendono per la maggior parte
dalla chiusura di un centinaio di magazzini e dalla riduzione dei volumi nel
tentativo di difendere i profitti minacciati dalla politica tariffaria di Trump.
Hanno tutta l’aria di tagli vecchio stile, per tagliare i costi a fronte di
risultati finanziari non brillanti, anche quelli di big come Target e Starbucks.
A fine ottobre Michael Fiddelke, nuovo ad della catena di grandi magazzini
dell’abbigliamento, ha annunciato come primo atto il taglio di 1.800 ruoli
corporate – circa l’8% del personale che lavora nella sede centrale – per
“semplificare la struttura” e alleggerire i costi fissi proteggendo i margini.
La multinazionale del caffè, alle prese con un business in rallentamento, ha
reagito a sua volta con chiusure e due round di licenziamenti tra i colletti
bianchi, per un totale di 2mila persone. Da questo lato dell’Atlantico pure il
colosso del cibo confezionato Nestlé, reduce dallo scandalo del licenziamento
dell’amministratore delegato causa relazioni improprie con un subordinato,
progetta di uscire dall’angolo e spingere ulteriormente profitti già elevati con
una cura da cavallo a base di maggiore “efficienza” somministrata dal nuovo
numero uno Philipp Navratil, che lascerà a casa 16mila dipendenti.
QUANDO L’AI SOSTITUISCE COMPITI RIPETITIVI
Molto più circoscritti i casi in cui l’AI viene davvero già utilizzata per
sostituire forza lavoro umana. ServiceNow, piattaforma di servizi cloud per le
aziende che hanno necessità di gestire flussi di lavoro digitali, utilizza
agenti AI per gestire 24 ore al giorno compiti ripetitivi nell’Information
technology, nel customer service, nello sviluppo software e negli acquisti.
Salesforce (servizi di gestione delle relazioni con i clienti) a settembre ha
deciso di ridurre di 4mila unità i lavoratori dedicati al supporto ai clienti
perché secondo l’ad Marc Benioff “servono meno teste”: oltre il 50% del lavoro è
già stato automatizzato. Mentre il colosso tecnologico Hp a fine novembre ha
ufficializzato tra 4mila e 6mila tagli (circa il 10% della forza lavoro)
nell’ambito di un piano per “snellire” la struttura e incorporare nei suoi
processi l’intelligenza artificiale per accelerare lo sviluppo di nuovi prodotti
e gestire il supporto ai clienti. E ancora: nel settore legale, come ha
raccontato il Financial Times, grandi studi come Clifford Chance e Bryan Cave
Leighton Paisner hanno ridotto rispettivamente del 10 e dell’8% le posizioni nei
servizi di staff, citando come motivazione anche una maggiore adozione di
strumenti di intelligenza artificiale.
Non mancano però i casi in cui il tentativo di rimpiazzare lavoratori con
chatbot finisce con un buco nell’acqua: la fintech Klarna, nota per i pagamenti
rateizzati (“Buy now, pay later”), contava di sostituire 800 impiegati full-time
del customer service, ma la scorsa primavera ha dovuto fare marcia indietro
perché la qualità del servizio si è rivelata troppo bassa. Speculare la parabola
di Ibm, che due anni fa aveva congelato 7.800 assunzioni per ruoli di back
office da sostituire con assistenti virtuali: ha ottenuto risparmi per 4,5
miliardi e nel frattempo ha aumentato la forza lavoro in settori come
l’ingegneria del software, il marketing e le vendite, in cui l’interazione tra
esseri umani è premiante. Bicchiere mezzo pieno per il gruppo. Non per gli
impiegati – “circa 200” nelle risorse umane, secondo il ceo Arvind Krishna – il
cui lavoro viene ora svolto da agenti AI.
Il fatto che AI e automazione non siano ancora la ragione principale dei
licenziamenti non significa ovviamente che nel medio periodo l’impatto non si
vedrà. Goldman Sachs prevede nei prossimi tre anni una potenziale riduzione
della forza lavoro dell’11% da parte delle aziende Usa, soprattutto nei servizi
ai clienti.
L'articolo L’AI ci sta già rubando il lavoro? Negli Usa 1,1 milioni di
licenziamenti da inizio anno, ma dietro c’è soprattutto l’ossessione per i
margini di profitto proviene da Il Fatto Quotidiano.
Il rischio è che i licenziamenti scattino proprio a Natale, colpendo oltre
duecento persone tra Milano e San Giovanni in Marignano. Per questo arriva il
grido di “forte preoccupazione” della Filctem Cgil sulla vertenza del Gruppo
Aeffe, che controlla gli storici marchi della moda Moschino e Alberta Ferretti.
L’azienda ha avviato una procedura di licenziamento collettivo a ottobre 2025,
la seconda nel giro di un anno, e riguarda 221 dipendenti sui 540 della società.
L’azienda è in crisi: il bilancio semestrale 2025 registra ricavi per circa 100
milioni di euro, con un ulteriore -27,8% rispetto al 2024, che già si era chiuso
con un calo del 21%. Sulla vicenda è in piedi un tavolo con il Mimit e il
ministero del Lavoro, vista la natura strutturale della crisi che ha investito
il gruppo negli ultimi due anni. I ministeri hanno manifestato la disponibilità
a mettere in campo soluzioni che azzerino i licenziamenti concedendo
ammortizzatori sociali in deroga (la cassa attuale terminerà il 12 gennaio) e
supportando la ricerca di partner industriali, oltre ad aprire al Fondo di
salvaguardia. Ma al momento non si è smosso nulla.
Ora la Filtcem Cgil Milano, quella sotto la quale ricade il maggior impatto dei
licenziamenti con 120 dipendenti interessati nelle sedi di via San Gregorio e
via Donizetti, dove ci sono gli showroom e gli uffici delle funzioni creative e
commerciali del gruppo, lancia un nuovo grido d’allarme chiedendo una “maggiore
assunzione di responsabilità” da parte del Gruppo Aeffe, affinché “si evitino
licenziamenti a ridosso delle festività natalizie”. La “priorità – sottolinea il
sindacato – è la salvaguardia dei posti di lavoro e la difesa di due marchi
simbolo del made in Italy, inseriti in un settore già duramente colpito da
ripetute crisi”.
Il prossimo appuntamento al tavolo di crisi del Mimit, fissato per il 21
gennaio, sarà decisivo. Anche se il Gruppo Aeffe è intenzionata a procedere per
la sua strada: “L’azienda – insiste la Filtcem -dovrà presentare un piano
concreto di risanamento e rilancio, aprendo a percorsi negoziali che
garantiscano le massime tutele per chi lavora: sia per chi resterà, sia per chi
dovesse essere coinvolto in eventuali uscite”. Sindacati e ministero sono anche
in attesa dell’esito – previsto entro fine dicembre – dell’analisi dell’esperto
indipendente Riccardo Ranalli, nominato dalla Camera di Commercio della Romagna
per il piano di risanamento nell’ambito della composizione negoziata della
crisi.
L'articolo Il gruppo che controlla Moschino e Alberta Ferretti licenzia 221
persone: “Rischio che perdano il lavoro a Natale” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Cosa si può dire e cosa, al contrario, non si può dire nel dibattito pubblico?
Negli ultimi anni l’ultradestra ha fatto passare l’idea che, tanto a livello
internazionale, quanto a livello italiano, si sia imposta una forma di censura
informale, il “politicamente corretto”. In sintesi, ci sarebbero opinioni, idee
e parole che non possono più essere né pensate né proferite, perché invise ai
“poteri forti”, pena l’emarginazione se non il silenziamento nel dibattito
pubblico.
Fin qui siamo di fronte a una delle caratteristiche dell’ultradestra
internazionale: spacciarsi per vittima, per quella “parte” schiacciata da una
maggioranza di bigotti e “buonisti” quando, al contrario, il “politicamente
scorretto” che professa è una sorta di nuovo mainstream, accolto e spesso ben
retribuito, tanto dal potere politico quanto da quello mediatico. A sostenere la
tesi della dittatura del “politicamente corretto” infatti sono solitamente
personaggi che godono di enorme spazio mediatico sui principali canali
mainstream, da quelli TV a quelli radio. E che, quindi, quelle idee e quelle
parole le pronunciano con forza davanti a milioni e milioni di persone che le
ascoltano quotidianamente.
Vannacci e Cruciani sono solo due degli esempi di un “politicamente scorretto”
che si spaccia per minoranza vessata e che, al contrario, gode di piena
cittadinanza, offerta tanto dal potere politico – un partito politico di governo
come la Lega che consegna a Vannacci una candidatura prima e una vice-segreteria
federale poi – quanto da quello mediatico ed economico (La Zanzara va in onda
quotidianamente su Radio24, organo della Confindustria).
Questo non significa, però, che tutte le opinioni, idee e parole possano essere
liberamente espresse. La censura esiste, solo che non risiede lì dove
l’ultradestra vorrebbe indirizzare i nostri sguardi. Ci sono cioè ambiti in cui
ognuna e ognuno di noi è considerato cittadina e cittadino e, in quanto tale,
titolare di diritti che può esercitare in determinati luoghi: la propria casa,
la strada, finanche i social network. Esistono però altri luoghi fisici in cui
smettiamo di essere cittadini, in cui un diritto costituzionalmente garantito
come la libertà di espressione troppo spesso non arriva: i posti di lavoro.
Non perché ci siano norme che vietano formalmente l’esercizio dei nostri
diritti, sulla carta rimangono. Ma è come se la Costituzione formale si fermasse
ai cancelli delle fabbriche e all’interno dei luoghi di lavoro vigessero altre
leggi.
Il licenziamento di Michele Madonna, operaio della ex Jabil di Marcianise (CE),
oggi TMA, e dirigente dell’Unione Sindacale di Base (USB), testimonia proprio la
distanza tra leggi formali e leggi “reali”.
Michele è stato licenziato il 24 novembre perché, sostiene l’impresa TMA, si
sarebbe “interrotto il rapporto fiduciario”. A far venire meno la fiducia –
termine scelto dal Vocabolario della lingua italiana Treccani come parola
dell’anno 2025 – sarebbero state le dichiarazioni che Michele ha rilasciato in
diverse occasioni (riportate nella lettera di contestazione dell’11 novembre),
criticando la cessione dello stabilimento di Marcianise e dei suoi 406
dipendenti, già superstiti di precedenti spacchettamenti, dalla multinazionale
statunitense Jabil alla piccola TMA. Un’operazione che una sindacalista della
Fiom aveva così descritto: “È come voler far entrare un sottomarino in una
scatoletta di tonno”.
Michele Madonna ha esercitato la sua libertà di espressione, osando criticare
una cessione aziendale e avanzando dubbi sulla possibilità di tenuta sul lungo
termine di produzioni e occupazione. Se il dissenso è il sale della democrazia,
è evidente che c’è chi concepisce le fabbriche come caserme in cui l’unica
espressione consentita è “signorsì signore”. Criticare l’impresa, ecco il
“politicamente scorretto” che per davvero è sottoposto a censura e addirittura a
licenziamento. E, guarda caso, è la libertà dell’operaio di criticare la propria
azienda che non viene difesa dall’ultradestra che pure si sgola all’urlo
“libertà, libertà, libertà”.
Essere oggi al fianco di Michele Madonna non significa solamente difendere la
possibilità di un lavoratore di mantenere il proprio reddito e il proprio posto
di lavoro; significa difendere un’idea di democrazia sostanziale e, al contempo,
rifiutare quella di una democrazia formale che si arresta sulla soglia dei
luoghi di lavoro. Significa rivendicare l’idea – questa sì “politicamente
scorretta” – che le imprese non siano piccoli Staterelli in cui vige una sorta
di Ancient Regime, un modello, cioè, in cui la volontà del padrone è
paragonabile a quella del Re Sole, una volontà che si fa legge e che si impone
al di sopra della Costituzione formale.
E, ancora, essere al fianco di Michele, così come di Pasquale Zeno – vittima di
licenziamento disciplinare ad agosto, a pochi giorni dall’arrivo della nuova
proprietà – e degli operai TMA (ex Jabil) che hanno ricevuto lettere di
contestazione significa non arrendersi al destino di desertificazione
industriale che un’intera classe dominante – di destra, centro, sinistra – ci
regala da decenni come “destino manifesto” e che viene accompagnato da
un’emigrazione che tra il 2011 e il 2024 ha visto partire dalla sola Campania
addirittura 158mila giovani tra i 18 e i 34 anni (dati CNEL).
Martedì essere in piazza a Caserta per il corteo convocato da USB alle 11:00
significa riconoscere nelle parole e nelle azioni di Michele Madonna la difesa
della libertà di espressione, della dignità dei lavoratori, del presente e
futuro occupazionale di un intero territorio contro l’autoritarismo
imprenditoriale e il rischio di un’ulteriore impoverimento produttivo che
contribuirebbe a fare della nostra terra sempre più un “deserto di lavoro”
laddove avevamo “terra di lavoro”.
L'articolo Ecco il vero politicamente scorretto: criticare il proprio posto di
lavoro proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Se passa il principio che Trump decide dall’altra parte del mondo e qui le
aziende chiudono e se ne vanno, rischia di essere seguito a ruota da altre
imprese”. Davanti ai cancelli della Freudenberg di Rho la rabbia è ancora tanta
dopo la decisione dell’azienda (che produce filtri industriali) di chiudere lo
stabilimento lasciando a casa 42 persone. Una scelta che secondo la
ricostruzione dei sindacati sarebbe stata motivata proprio dai “dazi di Trump”.
E così nelle assemblee di ieri e oggi, i lavoratori hanno optato per altre otto
ore di sciopero previsto per il 15 dicembre per “contestare la decisione del
gruppo di chiudere e delocalizzare la produzione negli Stati Uniti e in
Slovacchia”. E proprio in quella giornata i lavoratori si recheranno in
Germania, a Weinheim, per protestare davanti alla sede centrale del Gruppo
Freudenberg e chiedere la disponibilità a un tavolo con un soggetto che sarebbe
interessato al subentro. Intanto davanti ai cancelli dello stabilimento di Rho,
oggi una delegazione del Movimento 5 Stelle guidata dalla deputata Chiara
Appendino e dall’eurodeputato Gaetano Pedullà oltre ai consiglieri regionali di
Pd e Avs ha incontrato i lavoratori criticando gli effetti della politica dei
dazi di Trump: “Per il governo erano un’opportunità – attacca Appendino – ma
sono un’opportunità i 42 licenziamenti?”.
L'articolo L’azienda di Rho lascia 42 lavoratori a casa. “Colpa dei dazi di
Trump. Il rischio è che lo facciano anche altre imprese” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Salvi, quasi tutti, e chi comunque non continuerà a lavorare avrà un cuscinetto
di tempo e di denaro per provare a trovare una nuova collocazione. È in buona
parte rientrata la vertenza Yoox, il colosso dell’e-commerce che aveva
annunciato il licenziamento di 211 persone. Al termine del tavolo al ministero
delle Imprese e del Made in Italy, è stato raggiunto un accordo che prevede una
riduzione degli esuberi strutturali, con 70 dipendenti che lasceranno l’azienda,
l’uso di ammortizzatori sociali e la possibilità di incentivazioni all’esodo su
base volontaria.
A settembre scorso, l’azienda aveva comunicato 211 licenziamenti, tra Bologna e
Milano, giustificandoli con la crisi del settore. A ottobre, il licenziamento
collettivo era stato sospeso in seguito all’incontro tra sindacati, azienda e
istituzioni locali al Mimit. Ora, al termine del confronto, la vertenza è stata
chiusa con un accordo che fa esultare il ministro Adolfo Urso (“Un successo
frutto di un lavoro di squadra”) e il presidente della Regione Emilia-Romagna
Michele De Pascale: “Si sono centrati i tre obiettivi che ci eravamo dati fin
dall’inizio della crisi: la continuità dell’attività aziendale sul territorio di
Bologna, l’attivazione di ammortizzatori sociali e la massima salvaguardia dei
livelli occupazionali nonché l’individuazione di percorsi che garantissero le
migliori condizioni di uscita volontaria per le lavoratrici e i lavoratori che
intendessero farne uso”.
L’accordo sarà ora votato dalle lavoratrici e dai lavoratori di Yoox. Nata nel
2000 dalla mente dell’imprenditore emiliano-romagnolo Federico Marchetti,
l’azienda fu la start up “unicorno” emiliana, in grado di raggiungere, non
quotata in Borsa, una valutazione di mercato di almeno 1 miliardo di dollari.
Nel 2015 si è fusa con la la britannica Net-à-Porter e nel 2018 è passata di
mano: Ynap fu comprata dal colosso svizzero Richemont, proprietario tra l’altro
degli orologi Cartier e delle penne Montblanc. A ottobre 2024 Richemont ha
sottoscritto un accordo per la vendita alla tedesca Mytheresa, completato in
primavera. La nuova proprietà, che fa capo Luxesperience, ha dichiarato una
riduzione di ricavi 191 milioni nell’ultimo esercizio e perdite complessive
superiori a 2 miliardi negli ultimi due anni e lanciato una riorganizzazione,
che prevede un accentramento delle funzioni attualmente svolte da Yoox a livello
di gruppo.
L'articolo Yoox ritira il licenziamento collettivo, raggiunto l’accordo al
ministero: 70 esuberi in meno e incentivi all’esodo proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Licenziata, tra le altre cose, perché avrebbe dato del tu a una socia. Il
Circolo Canottieri Roma, esclusivo club della Capitale affacciato sul Tevere, ha
dato il benservito dopo vent’anni di servizio a una dei suoi addetti alle
pulizie, che però ha impugnato il licenziamento in tribunale ritenendolo
ingiusto. A riportare la vicenda è l’edizione romana di Repubblica: la prima
contestazione rivolta all’inserviente, si legge, è proprio quella di essersi
rivolta all’iscritta – manager e moglie di un primario – usando il pronome
sbagliato, il “tu” al posto del “lei”. Oltre a questo, il presidente del circolo
ha sostenuto che la donna avesse lanciato un asciugamano addosso alla stessa
socia, in quel momento incinta e distesa su un lettino col pancione, e le ha
contestato una serie di altri comportamenti già in passato oggetto di sanzioni
minori.
La lavoratrice, riporta Repubblica, si è difesa in una lettera scritta di suo
pugno, sostenendo di essersi sempre rivolta alla manager con garbo, dandole del
“lei”, e di averle fatto gli auguri per la gravidanza poche ore prima. Ha negato
inoltre di averle lanciato il telo. Ma il vertice del Canottieri Roma,
“all’esito di una attenta ed approfondita verifica”, ha ritenuto le
giustificazioni “inattendibili e contraddette dalle prove in possesso” e ha
proceduto al licenziamento. Ora la questione si sposta davanti al giudice del
lavoro: la prima udienza è in programma a gennaio.
L'articolo “Ha dato del tu a una socia”: addetta alle pulizie licenziata porta
in tribunale il Circolo Canottieri Roma proviene da Il Fatto Quotidiano.
di Enzo Ravanelli
È sempre più evidente il disegno dietro al quale si cela la cessione di
Telecontact a DNA, ovvero il licenziamento dei dipendenti del contact center di
Tim. A tale proposito, ciò che noi dipendenti chiediamo con forza anche
attraverso le nostre azioni presenti e future alla Casa Madre, ai Sindacati e
alle Istituzioni non è il mancato riconoscimento degli incentivi previsti in
questi casi dalla legge, ma l’annullamento di tutta questa operazione messa in
piedi mesi or sono.
Non è difficile provare che non si tratta “solamente” di un’esternalizzazione,
ma di un licenziamento mascherato. E, come si suol dire, tre indizi fanno una
prova.
Primo indizio: la “prospettata” possibilità di avere nuove committenze anche
nell’ambito della digitalizzazione, facendo fare corsi appositi ai dipendenti
della newco. Purtroppo, però, sfugge il piccolo particolare che in questi casi,
come prevede la legge, vadano vinte delle gare d’appalto e che non c’è mai, a
prescindere, la certezza di vincerle e di vincere tutte quelle a cui si
partecipa.
Secondo indizio: la recente creazione di DNA, creata appositamente a questo
scopo e che si tratta di una Società a responsabilità limitata con capitale
versato di soli 10.000 euro, nella quale confluiscono anche 1.591 lavoratori
provenienti da una Società per Azioni.
Terzo e ultimo indizio: le solite voci di esuberi che girano da anni nel gruppo
Tim e che hanno portato, tra le altre, alla cessione della rete (con il
benestare di un governo che si definisce sovranista) e dei dipendenti ad essa
collegati al fondo americano Kkr.
Pertanto, tutti noi 1.591 dipendenti di Telecontact ribadiamo ad alta voce il
nostro no a questo matrimonio.
IL BLOG SOSTENITORE OSPITA I POST SCRITTI DAI LETTORI CHE HANNO DECISO DI
CONTRIBUIRE ALLA CRESCITA DE ILFATTOQUOTIDIANO.IT, SOTTOSCRIVENDO L’OFFERTA
SOSTENITORE E DIVENTANDO COSÌ PARTE ATTIVA DELLA NOSTRA COMMUNITY. TRA I POST
INVIATI, PETER GOMEZ E LA REDAZIONE SELEZIONERANNO E PUBBLICHERANNO QUELLI PIÙ
INTERESSANTI. QUESTO BLOG NASCE DA UN’IDEA DEI LETTORI, CONTINUATE A RENDERLO IL
VOSTRO SPAZIO. DIVENTARE SOSTENITORE SIGNIFICA ANCHE METTERCI LA FACCIA, LA
FIRMA O L’IMPEGNO: ADERISCI ALLE NOSTRE CAMPAGNE, PENSATE PERCHÉ TU ABBIA UN
RUOLO ATTIVO! SE VUOI PARTECIPARE, AL PREZZO DI “UN CAPPUCCINO ALLA SETTIMANA”
POTRAI ANCHE SEGUIRE IN DIRETTA STREAMING LA RIUNIONE DI REDAZIONE DEL GIOVEDÌ –
MANDANDOCI IN TEMPO REALE SUGGERIMENTI, NOTIZIE E IDEE – E ACCEDERE AL FORUM
RISERVATO DOVE DISCUTERE E INTERAGIRE CON LA REDAZIONE. SCOPRI TUTTI I VANTAGGI!
L'articolo Noi dipendenti di Telecontact chiediamo che Tim annulli questa
esternalizzazione proviene da Il Fatto Quotidiano.
Sapete cos’è un ‘test del carrello’? Martedì scorso ho denunciato alla Camera
come altri due cassieri fossero stati licenziati dalla Pam di Livorno con la
tecnica del “cliente invisibile”. Dico altri due perché prima era scoppiato il
caso gravissimo di Siena: il licenziamento disumano e pretestuoso di un delegato
sindacale 62enne, che a quelle casse lavorava da 13 anni e tra cinque sarebbe
andato in pensione. Un lavoratore che, tra l’altro, era già stato sottoposto al
test, superandolo.
Il licenziamento in tronco di Fabio Giomi, delegato sindacale di 62 anni, a soli
cinque anni dalla pensione, con moglie invalida e figli a carico, ha fatto
finalmente clamore. Ha raccontato lui, Fabio Giomi, come sono andate le cose:
“Un giorno si è presentato in cassa un ispettore per farmi questo test del
carrello”; aveva nascosto diversi articoli minuscoli (lacci per capelli, matite
per gli occhi, maschere per il viso) dentro le casse di birra da quindici
bottiglie, sfruttando la fessura laterale. “Mi ha detto che avrei dovuto aprire
le scatole e controllare cosa c’era dentro. Mi disse che, volendo, lui con
questo sistema mi avrebbe ‘rubato l’anima’ e che questa cosa avrebbe avuto delle
conseguenze”.
Ma bisogna vedere il quadro grande: circa 60 lavoratori verranno messi alla
porta da Pam tra Siena, Livorno, Firenze e Roma. Perché, insieme all’abuso del
“test del cliente fantasma”, c’è la chiusura del supermercato di Campi Bisenzio
(45 posti di lavoro a rischio). Una “riorganizzazione” completa sulla pelle dei
lavoratori e delle lavoratrici.
E, a quanto pare, dopo i tre che hanno fatto rumore, ci sarebbero stati altri
licenziamenti e contestazioni a pioggia, sempre nei confronti di dipendenti a
tempo indeterminato e con una lunga anzianità, più “costosi” dei giovani
neoassunti con contratti più precari.
Nessun ripensamento, al momento, dell’azienda sui licenziamenti a Livorno e
Siena dopo l’incontro a Roma tra Pam e i sindacati Filcams Cgil, Fisascat Cisl e
Uiltucs, a cui l’azienda si è presentata con un “addetto alla sicurezza”.
Licenziamenti dall’intento vessatorio e intimidatorio, in un clima che le
lavoratrici e i lavoratori descrivono come sempre più teso. Eppure, la dirigenza
sostiene che il test rappresenti uno strumento legittimo per garantire
l’efficienza operativa e il controllo interno. Invece, è un atto in contrasto
con lo Statuto dei lavoratori, che sancisce che il controllo del corretto
adempimento della mansione debba essere esercitato dal datore o da collaboratori
chiaramente riconoscibili. In contrasto anche con la giurisprudenza consolidata,
orientata a riconoscere che i controlli possano essere effettuati soltanto se il
datore sospetta illeciti o comportamenti fraudolenti.
Di fronte a esplicita domanda, Pam Panorama non ha saputo dire quale sia
l’incidenza dei furti alle casse automatiche, dove una sola cassiera deve
sovrintendere fino a otto postazioni. Invece, ha mostrato la chiara volontà di
colpire dipendenti più anziani, magari con limitazioni su salute e sicurezza.
Intanto, assistiamo dappertutto a un preoccupante ritorno dei licenziamenti
ritorsivi nei confronti dei lavoratori sindacalizzati. A fine ottobre – solo per
citare un caso – un delegato sindacale Fiom-Cgil è stato convocato dalla
dirigenza, invitato a lasciare immediatamente i locali aziendali e raggiunto da
una lettera di licenziamento per soppressione della mansione. Un licenziamento
puramente ritorsivo dopo le tensioni seguite al mancato rinnovo del contratto
nazionale.
Al tavolo nazionale di confronto tra Pam e sindacati, l’azienda non ha fatto
nemmeno mezzo passo indietro, respingendo persino la proposta di trasformare i
licenziamenti in provvedimenti disciplinari. Le distanze sono risultate
incolmabili e l’azienda ha confermato tutti i licenziamenti nei vari punti
vendita della Toscana.
Siamo di fronte a licenziamenti dall’evidente intento vessatorio e
intimidatorio. Lo stesso Fabio Giomi, divenuto simbolo di questa vertenza, ha
dichiarato: “Se certe cose restano isolate, le aziende continueranno a fare ciò
che vogliono”.
Liberali e sovranisti hanno passato anni a dirci che l’articolo 18 era un
ferrovecchio di cui non c’era più bisogno, decenni a sostenere la “flexsecurity”
che ci avrebbe reso tutti più liberi, ma si sono offerti soltanto strumenti alle
aziende per sostituire il lavoro stabile con lavoro precario e liberarsi delle
figure scomode. E la realtà arretra sempre più al di qua delle conquiste del
movimento operaio e di tutti i lavoratori e le lavoratrici che hanno lottato
perché i propri diritti fossero difesi dalla legge.
Somministrati, fantasmi di tutto il mondo, uniamoci perché il nemico non sono i
clienti invisibili ma i padroni di sempre. Con i loro alleati di oggi e di
sempre.
L'articolo Pam caccia tre dipendenti col ‘test del carrello’: licenziamenti
dall’intento intimidatorio proviene da Il Fatto Quotidiano.
Verizon è pronta a tagliare circa 15.000 posti di lavoro varando il più grande
licenziamento mai effettuato dall’azienda di telecomunicazioni statunitense. Le
uscite – anticipate da alcuni media Usa e non commentate dall’azienda –
riguarderanno circa il 15% della forza lavoro del colosso e dovrebbero avvenire
già la prossima settimana. Secondo il Wall Street Journal, Verizon punta a
efficientare i costi così da far fronte al rallentamento della crescita del ramo
aziendale che si occupa della fornitura di Internet e wireless.
Buona parte dei tagli verranno effettuati con licenziamenti, con un riduzione
del 20% delle posizioni dirigenziali, mentre altri impiegati usciranno dal
perimetro aziendale – stando a quanto si apprende – con il passaggio di 180
negozi di proprietà a store in franchising. La ristrutturazione è una delle
prime mosse del nuovo Ceo Daniel Schulman, già a capo di PayPal e Virgin Mobile,
nominato a ottobre. Un intervento a gamba tesa sui costi della struttura che –
sostiene – è dettato dalla necessità di non aumentare i prezzi per il cliente,
una strategia che a suo avviso porterebbe a un business “insostenibile” senza
una maggiore crescita degli abbonati.
L’azienda impiegava circa 100.000 persone negli Stati Uniti neanche due anni fa
e aveva già tagliato quasi 20.000 dipendenti nei tre anni precedenti. La
situazione sarebbe ulteriormente peggiorata negli ultimi tempi con una forte
crescita delle rivali AT&T e T-Mobile in termini di clienti. La perdita di
abbonati ha portato a un rallentamento del titolo quotato a Wall Street e a una
prima reazione di Verizon che ha lanciato un “prezzo bloccato” per i propri
abbonati, ma anche i concorrenti hanno adottato la medesima strategia
neutralizzando la scelta del colosso.
L'articolo Verizon taglia 15.000 posti di lavoro: licenziamento record negli Usa
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