Una giornata di lavoro nei campi durava almeno undici ore, sotto il sole cocente
o sotto la pioggia, respirando anche residui di pesticidi. Lavoratori
considerati come animali, braccianti stranieri, ovviamente, massacrati per 2.70
euro l’ora meno della metà della paga prevista dal contratto di lavoro ovvero
7,50. Un sistema di sfruttamento radicato, violento e strutturato come una
catena di montaggio agricola forzata che avveniva nella campagne di Napoli e
Caserta.
Qui nel maggio del 2024 erano intervenuti i Carabinieri del comando per la
Tutela del lavoro e del gruppo di Aversa, ma nulla è cambiato. E oggi, dopo le
indagini, gli investigatori hanno hanno notificato le misure agli indagati che
devono rispondere di caporalato e sfruttamento. La giudice per le indagini
preliminari di Napoli Nord, Pia Sordetti, ha disposto i domiciliari per un
imprenditore agricolo italiano, per sua moglie, cittadina albanese, e per un
cittadino indiano. Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per un
secondo cittadino indiano.
Nell’ordinanza di custodia cautelare firmata da, viene sottolineato come i
braccianti – prevalentemente stranieri e spesso irregolari – erano sottoposti a
condizioni di lavoro disumane, retribuzioni illegali e un regime costante di
minacce e coercizione psicologica. “Voi siete delle pecore, figli di puttana…se
volete lavorare è così altrimenti non venite più…” urlava il caporale al minimo
cenno di protesta. I lavoratori, in tuta e stivali, venivano prelevati poco
prima dell’alba a Villa Literno. In piedi o accovacciati “le pecore”
-soprattutto indiani e bulgari – venivano smistate nei campi.
TURNI DI 15 ORE, INSULTI E NESSUNA PROTEZIONE: IL TRATTAMENTO DEI BRACCIANTI
I lavoratori, secondo gli inquirenti, venivano reclutati e trasportati all’alba
su furgoni adibiti al trasporto merci, ammassati nella parte posteriore o nelle
sedute anteriori, in violazione di ogni norma di sicurezza. Una volta nei campi,
iniziava una giornata lavorativa di 14-15 ore, con 11 o 12 ore effettive di
attività, bruciati dal sole o fradici di pioggia. Le pause si riducevano a 10 o
15 minuti, insufficienti anche solo per mangiare un panino.
Lavoratori massacrati ed esposti anche rischi per la salute. L’uso di
dispositivi di protezione individuale – come mascherine o guanti – era
completamente assente. Chi accusava un malore veniva minacciato di essere
cacciato: “Chi si allontanava veniva minacciato di non rientrare più a
lavorare”, annota la giudice. La retribuzione era fissa: circa 40 euro al giorno
– 45 o 50 per alcune nazionalità – per 11-12 ore di lavoro, equivalenti a una
paga di circa 2,70 euro l’ora, meno della metà dei minimi previsti dal contratto
agricolo. Altri venivano pagati “a cassetta”, con la pressione costante di
raggiungere una quota minima per accedere al pasto o al compenso giornaliero:
“Senza la quota non si mangia”. L’ambiente lavorativo era segnato da insulti
continui e umiliazioni.
LA RETE CRIMINALE: IL VERTICE AI CONIUGI SALZANO, LA GESTIONE AI CAPORALI
Dalle carte emerge un sistema piramidale con ruoli definiti e responsabilità
precise. Al vertice, secondo la procura di Napoli Nord, l’imprenditore Agostino
Salzano e sua moglie Mirjeta Lusha. Il primo impartiva ordini, definiva ritmi e
modalità di lavoro, gestiva i fondi e coordinava le attività; la seconda curava
l’intermediazione, l’organizzazione delle “squadre”, il prelievo dei braccianti
dai luoghi di residenza, la logistica quotidiana. Al livello operativo, due
caporali di origine indiana: Raghuvender Singh,che si faceva chiamare Michele,
figura centrale nella gestione quotidiana: reclutamento dei lavoratori,
sorveglianza nei campi, organizzazione del trasporto, gestione dei pagamenti e
imposizione dei ritmi. Sunil Singh, detto Piccolino, suo collaboratore diretto,
incaricato di controllare e retribuire la manodopera. Secondo l’indagine, Singh
Raghuvender avrebbe inoltre trattenuto una “tassa” illegale dagli stipendi dei
connazionali indiani, per un totale di 73.800 euro.
SFRUTTAMENTO E CAPORALATO: LE ACCUSE
Agli indagati vengono contestati l’intermediazione illecita e lo sfruttamento
del lavoro. L’imprenditore avrebbe anche cercato di condizionare i braccianti
durante i controlli, arrivando a minacciare un dipendente di morte – “ti taglio
le vene” – se avesse raccontato la verità alle forze dell’ordine. Secondo i
militari dell’Arma il gruppo di lavoro variava tra i 40 e gli 80 braccianti –
“cani morti e pure scemi” nelle parole dell’indagata -a fronte di otto contratti
regolari. La gip ha disposto il sequestro preventivo dei beni: quasi 470mila
euro a carico dei coniugi i Salzano e Lusha, considerati profitto dello
sfruttamento e del risparmio sui salari e sui contributi; e i 73.800 euro a
Raghuvender Singh. Sono stati sequestrati anche i mezzi utilizzati per il
trasporto dei lavoratori.
“I lavoratori erano sottoposti a ritmi massacranti e a condizioni di lavoro e
retributive non conformi e comunque inadeguate” si legge nelle 77 pagina di
ordinanza. Persone esposte senza nessun tipo di cautela a “residui di pesticidi
nocivi, costretti a continuare a lavorare durante le operazioni di pompaggio di
medicinali e pesticidi”. Per questo viene individuata negli indagati una
“spiccata propensione a delinquere”. Indagati che “hanno continuato
nell’attività di sfruttamento con sistematicità allarmante anche dopo i
controlli di maggio 2024.” Il quadro delineato dal giudice descrive un sistema
basato sulla sopraffazione, sulla vulnerabilità dei lavoratori stranieri “con
qualsiasi mezzo”, pur di massimizzare i profitti e senza nessun tipo di pietà
Nell’ordinanza viene citato il caso di un cittadino albanese chiamato Eddi,
bracciante e autista, che è costretto a “medicare” una giornata di risposo per
poter portare il figlio piccolo a una visita specialistica per un intervento. Il
caporale deve essere implorato e rassicurato: “Sì, sì, lo so serve solo per
oggi, ma per altra data posso farlo solo per un appuntamento di operazione di
bambino piccolino” dice il lavoratore che aggiunge che quel giorno, quel
permesso che sarebbe garantito dal contratto, non gli dovrà essere pagato.
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euro l’ora: tre arresti proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Era stato arrestato nel 2018 con l’accusa di aver maltrattato una ragazzina con
“medievali e brutali riti esorcisti”. L’ex sacerdote del Tempio di Casapesenna
(Caserta), Michele Barone, è stato condannato definitivamente a 13 anni di
carcere ed è tornato in carcere per scontare la pena confermata dalla VI sezione
della Corte di Cassazione. La sentenza della Suprema Corte, che ha confermato le
condanne ricevute da Barone nei primi due gradi di giudizio e condannato
definitivamente anche i genitori della minore (all’epoca dei fatti aveva 13
anni), chiude una vicenda “esplosa” nel 2018, quando Barone, all’epoca
sacerdote, venne arrestato al rientro da un pellegrinaggio a Cracovia dopo
un’inchiesta della Squadra Mobile di Caserta perché “incastrato” da un servizio
de Le Iene, imbeccate dalla sorella della 13enne.
Con Barone furono arrestati e finirono ai domiciliari i genitori della vittima e
un funzionario della Polizia di Stato, l’unico ad essere stato poi assolto; il
poliziotto è poi deceduto di Covid nell’aprile del 2021. Per Michele Barone,
dopo l’arresto, arrivarono anche le conseguenze anche sul fonte ecclesiastico:
prima la sospensione del Vescovo di Aversa e infine la decisione di Papa
Francesco di spogliarlo dell’abito talare.
L’ex prete è quindi rimasto in carcere fino al marzo del 2020, quindi è stato
posto ai domiciliari dove è rimasto fino al giugno del 2021. Dai processi è
emerso che Barone e i genitori della 13enne credevano che quest’ultima fosse
indemoniata, e così decisero di sottoporla a riti di esorcismo, praticati dal
prete allora in servizio al Tempio di Casapesenna, senza però alcuna
autorizzazione. Barone fu inoltre accusato di abusi sessuali da due donne, ma da
questa accusa è uscito assolto già in primo grado. È rimasta in piedi invece la
parte relativa ai maltrattamenti subiti dalla 13enne durante i riti esorcistici,
non solo percosse, pressioni e condizionamenti psicologici, ma anche una dieta a
base solo di latte e biscotti, il tutto con il consenso e in presenza dei
genitori della ragazzina
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definitiva per un ex sacerdote proviene da Il Fatto Quotidiano.
Cosa si può dire e cosa, al contrario, non si può dire nel dibattito pubblico?
Negli ultimi anni l’ultradestra ha fatto passare l’idea che, tanto a livello
internazionale, quanto a livello italiano, si sia imposta una forma di censura
informale, il “politicamente corretto”. In sintesi, ci sarebbero opinioni, idee
e parole che non possono più essere né pensate né proferite, perché invise ai
“poteri forti”, pena l’emarginazione se non il silenziamento nel dibattito
pubblico.
Fin qui siamo di fronte a una delle caratteristiche dell’ultradestra
internazionale: spacciarsi per vittima, per quella “parte” schiacciata da una
maggioranza di bigotti e “buonisti” quando, al contrario, il “politicamente
scorretto” che professa è una sorta di nuovo mainstream, accolto e spesso ben
retribuito, tanto dal potere politico quanto da quello mediatico. A sostenere la
tesi della dittatura del “politicamente corretto” infatti sono solitamente
personaggi che godono di enorme spazio mediatico sui principali canali
mainstream, da quelli TV a quelli radio. E che, quindi, quelle idee e quelle
parole le pronunciano con forza davanti a milioni e milioni di persone che le
ascoltano quotidianamente.
Vannacci e Cruciani sono solo due degli esempi di un “politicamente scorretto”
che si spaccia per minoranza vessata e che, al contrario, gode di piena
cittadinanza, offerta tanto dal potere politico – un partito politico di governo
come la Lega che consegna a Vannacci una candidatura prima e una vice-segreteria
federale poi – quanto da quello mediatico ed economico (La Zanzara va in onda
quotidianamente su Radio24, organo della Confindustria).
Questo non significa, però, che tutte le opinioni, idee e parole possano essere
liberamente espresse. La censura esiste, solo che non risiede lì dove
l’ultradestra vorrebbe indirizzare i nostri sguardi. Ci sono cioè ambiti in cui
ognuna e ognuno di noi è considerato cittadina e cittadino e, in quanto tale,
titolare di diritti che può esercitare in determinati luoghi: la propria casa,
la strada, finanche i social network. Esistono però altri luoghi fisici in cui
smettiamo di essere cittadini, in cui un diritto costituzionalmente garantito
come la libertà di espressione troppo spesso non arriva: i posti di lavoro.
Non perché ci siano norme che vietano formalmente l’esercizio dei nostri
diritti, sulla carta rimangono. Ma è come se la Costituzione formale si fermasse
ai cancelli delle fabbriche e all’interno dei luoghi di lavoro vigessero altre
leggi.
Il licenziamento di Michele Madonna, operaio della ex Jabil di Marcianise (CE),
oggi TMA, e dirigente dell’Unione Sindacale di Base (USB), testimonia proprio la
distanza tra leggi formali e leggi “reali”.
Michele è stato licenziato il 24 novembre perché, sostiene l’impresa TMA, si
sarebbe “interrotto il rapporto fiduciario”. A far venire meno la fiducia –
termine scelto dal Vocabolario della lingua italiana Treccani come parola
dell’anno 2025 – sarebbero state le dichiarazioni che Michele ha rilasciato in
diverse occasioni (riportate nella lettera di contestazione dell’11 novembre),
criticando la cessione dello stabilimento di Marcianise e dei suoi 406
dipendenti, già superstiti di precedenti spacchettamenti, dalla multinazionale
statunitense Jabil alla piccola TMA. Un’operazione che una sindacalista della
Fiom aveva così descritto: “È come voler far entrare un sottomarino in una
scatoletta di tonno”.
Michele Madonna ha esercitato la sua libertà di espressione, osando criticare
una cessione aziendale e avanzando dubbi sulla possibilità di tenuta sul lungo
termine di produzioni e occupazione. Se il dissenso è il sale della democrazia,
è evidente che c’è chi concepisce le fabbriche come caserme in cui l’unica
espressione consentita è “signorsì signore”. Criticare l’impresa, ecco il
“politicamente scorretto” che per davvero è sottoposto a censura e addirittura a
licenziamento. E, guarda caso, è la libertà dell’operaio di criticare la propria
azienda che non viene difesa dall’ultradestra che pure si sgola all’urlo
“libertà, libertà, libertà”.
Essere oggi al fianco di Michele Madonna non significa solamente difendere la
possibilità di un lavoratore di mantenere il proprio reddito e il proprio posto
di lavoro; significa difendere un’idea di democrazia sostanziale e, al contempo,
rifiutare quella di una democrazia formale che si arresta sulla soglia dei
luoghi di lavoro. Significa rivendicare l’idea – questa sì “politicamente
scorretta” – che le imprese non siano piccoli Staterelli in cui vige una sorta
di Ancient Regime, un modello, cioè, in cui la volontà del padrone è
paragonabile a quella del Re Sole, una volontà che si fa legge e che si impone
al di sopra della Costituzione formale.
E, ancora, essere al fianco di Michele, così come di Pasquale Zeno – vittima di
licenziamento disciplinare ad agosto, a pochi giorni dall’arrivo della nuova
proprietà – e degli operai TMA (ex Jabil) che hanno ricevuto lettere di
contestazione significa non arrendersi al destino di desertificazione
industriale che un’intera classe dominante – di destra, centro, sinistra – ci
regala da decenni come “destino manifesto” e che viene accompagnato da
un’emigrazione che tra il 2011 e il 2024 ha visto partire dalla sola Campania
addirittura 158mila giovani tra i 18 e i 34 anni (dati CNEL).
Martedì essere in piazza a Caserta per il corteo convocato da USB alle 11:00
significa riconoscere nelle parole e nelle azioni di Michele Madonna la difesa
della libertà di espressione, della dignità dei lavoratori, del presente e
futuro occupazionale di un intero territorio contro l’autoritarismo
imprenditoriale e il rischio di un’ulteriore impoverimento produttivo che
contribuirebbe a fare della nostra terra sempre più un “deserto di lavoro”
laddove avevamo “terra di lavoro”.
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lavoro proviene da Il Fatto Quotidiano.