“Sì, ‘abbè, uno ggol abbasta”. Pensi a questa frase, che confonde anche il
compianto Italo Khune, e pensi a Maurizio Gaudino. C’è molto di più però, dietro
al dialetto ereditato a mo’ di paisà, di quel calciatore che in quella finale di
Coppa Uefa diede filo da torcere a Maradona e ai suoi. Nato il 12 dicembre di 59
anni fa a Bruhl in Renania Settentrionale: “È la città di Steffi Graf” ricordava
spesso Maurizio, che in fondo la campionessa era lei, lui veniva dalla strada.
Già, non poteva essere altrimenti: papà di Orta di Atella, minatore, partito per
la Renania per fare il camionista. Mamma di Frattamaggiore, che in Germania va a
lavorare alla Henkel. E Maurizio, riccioluto e scugnizzello, gioca in strada:
mica facile quando sei figlio di emigranti. A volte essere più forte non basta,
specie quando per un gol fantasma o un fallo reclamato si finisce a botte: a
volte le prendi, a volte le dai. E con quella mentalità Gaudino cresce: piedi
buoni sì, ma senza pensare che bastino ad aprire tutte le porte. Dai campetti
improvvisati passa alle giovanili del Rheinau, tra calcio e scuola ci mette pure
un’altra passione: quella per le auto, possibilmente sportive e veloci, facendo
un apprendistato come meccanico. Passa al Waldhof Mannheim e qui trova il suo
padre calcistico, Klaus Schlappner, che lo fa debuttare a 17 anni in Bundesliga
contro l’Eintracht Braunschweig: dopo 30 minuti in campo, Gaudino viene espulso.
Tuttavia il ragazzo è forte: diventa titolare fisso e attira le attenzioni dei
grandi club. Nel 1987 passa allo Stoccarda, che l’anno successivo trascina in
finale di Coppa Uefa. Di fronte c’è proprio il suo Napoli, suo senza virgolette
visto che ad accoglierlo all’aeroporto, nella gara d’andata, ci sono i parenti
con ogni leccornia, e che la mamma intervistata prima della gara dichiara di
augurarsi due cose: che Maurizio segni, e va bene, ma che alla fine vinca il
Napoli, che è sempre il Napoli, pure di fronte a un figlio. Andrà proprio così,
con Gaudino che segnerà spaventando gli azzurri, bravi a ribaltarla al San Paolo
e a dominare la gara di ritorno in Germania portandosi a casa il trofeo.
Il mondo scopre allora quel numero 10 atipico e per la verità già noto ai club
italiani: lo avrebbe preso volentieri il Verona qualche stagione prima, ma non
se ne fece nulla, mentre a prescindere dai club sarebbe stato l’azzurro della
nazionale il sogno di Gaudino, che rifiuta per tre volte le chiamate dell’Under
21 tedesca, prima di rassegnarsi ed accettare, proprio nel 1989.
Calcio e auto, dunque, per quel ragazzo sempre in mise da rockstar: riccioli
lunghi, orecchino, catene d’oro, giacche in pelle e una passione per le Ferrari,
tale da fargli dichiarare apertamente di essere in grado di percorrere la
distanza tra Stoccarda e Monaco di Baviera in meno di un’ora. Una passione che
gli causerà anche qualche incidente: nel 1994 mentre è ospite di un noto talk
show viene arrestato, col conduttore che ci scherzerà anche su “di solito si
viene prima arrestati e poi si va ospiti nei talk show, non il contrario”.
L’accusa è di una presunta frode assicurativa: se la caverà con una multa e una
pena sospesa.
Dalla Germania in quel periodo passa in Inghilterra, in prestito al Manchester
City, offrendo sprazzi della sua classe, per poi tornare in patria, e poi in
Messico alla corte di Marcelo Bielsa al Club America, con tanto di preparazione
atletica a 3500 metri d’altezza, su di un vulcano. Torna ancora in Germania,
all’Eintracht, per poi dividersi tra Basilea, Bochum e Antalyaspor prima di
chiudere la carriera con una presenza nella squadra che l’aveva lanciato, il
Waldhof Mannehim, e diventare procuratore sportivo.
Resta quell’intervista e tutto quello che c’è dietro e attorno, ma forse il
segreto di Maurizio stava proprio lì: un ragazzo di Mannheim col Vesuvio nel
sangue, capace di tenere insieme romanticismo e ruvidezza. Non è diventato
un’icona, ma è rimasto una storia.
L'articolo Ti ricordi… la storia di Maurizio Gaudino, lo scugnizzo tedesco che
fece tremare il Napoli di Maradona proviene da Il Fatto Quotidiano.