C’era una volta la Juventus. Istituzione, egemonia sul calcio italiano. C’era
una volta e non c’è più perché oggi di quel potere intoccabile, non solo
metaforicamente, rimane poco o niente. Sul mercato è una squadra con scarso
appeal, che attira solo giocatori di seconda fascia. Le rivali dirette per il
quarto posto si chiamano Como, Bologna, Roma e oggi tutti scendono in campo
convinti di poterla battere o comunque giocarsela alla pari, quando c’è stato un
momento in cui le avversarie quasi non si presentavano allo Stadium. Anche gli
arbitri hanno finalmente dismesso la famosa sudditanza che per anni ha segnato
la Serie A. Insomma, nessuno sembra più rispettare la vecchia signora. E
l’offerta di Thether ne è l’ultima dimostrazione.
Il particolare momento storico dei bianconeri va al di là della mediocrità dei
risultati sportivi: la stagione non è compromessa, come dimostra anche la
fondamentale vittoria a Bologna; è difficile pensare che possa regalare grandi
soddisfazioni ma si può ancora salvare, centrando i primi quattro posti da cui
dipende la qualificazione in Champions. La notizia della settimana però è la
proposta d’acquisto di Thether. O meglio lo sarebbe stata, se l’offerta non
fosse troppo ridicola, a tratti quasi grottesca, per essere vera.
Ci sono diversi motivi per cui Elkann non avrebbe mai potuto prenderla sul
serio, e infatti non l’ha fatto. Uno, per la valutazione: offrendo 725 milioni
per il 65,4% di Exor, Thether ha valutato il club 1,1 miliardi, 1,4 compresi i
debiti. È vero che il prezzo per azione è superiore a quello attuale in Borsa
(2,66 euro invece di 2,2), ma parliamo del club più importante d’Italia, con una
fanbase di milioni di tifosi e un impianto di proprietà. Se il Milan è stato
venduto a 1,2 miliardi di euro, la Juve ne vale sicuramente di più. Poi ci sono
tempistiche e modalità della proposta. Arrivata nel bel mezzo della trattativa
per la cessione del gruppo Gedi, ed è impensabile che Exor possa concludere
contemporaneamente due partite così delicate: equivarrebbe ad una fuga
precipitosa dall’Italia, e invece alla famiglia Agnelli sono sempre piaciute le
cose ordinate (almeno per le apparenze). Thether aveva dato una settimana di
tempo per accettare, Exor ci ha messo ancora meno per rifiutare.
Vedremo se il comunicato di John Elkann ha messo un punto alla vicenda o ci
saranno sviluppi. Quel che è certo è che dieci anni fa, o anche solo cinque anni
fa, quando la Juventus era la vera Juventus, una cosa del genere non sarebbe mai
potuta accadere. Un’offerta irricevibile, presentata da un socio di minoranza
opaco e sempre più ostile, per approfittare della situazione della società,
manco fosse sul mercato alla disperata ricerca di un compratore, o peggio ancora
soltanto per farsi pubblicità sulle spalle del club. Nel recente passato è
successo all’Inter e Milan in banter era, ai tempi di Thohir e Yonghong Li, mai
ai bianconeri. Fino ad oggi. La dice lunga su quanto in basso sia sprofondata la
Juventus.
Senza entrare nel merito di chi siano Devasini e Ardoino, delle ombre che
aleggiano intorno al loro business e che sono state più volte raccontate dal
Fatto. Senza tantomeno riabilitare la famiglia Agnelli/Elkann, ciò ha fatto in
Italia e nel calcio italiano. Guardandola solo con gli occhi del tifoso
juventino, chi oggi si augura la cessione (e sono in tanti) dovrebbe
interrogarsi su cosa vorrebbe dire passare dalle mani di Exor a quelle di
Thether. Da uno dei più potenti gruppi italiani (benché il legame con l’Italia
sia quasi completamente dissolto, e proprio la Juve rischia di rimanerne
l’ultimo lembo) a una società di stablecoin con sede legale a El Salvador.
Certo, la recente gestione Elkann è stata fallimentare (anche se le vedove di
Andrea Agnelli dovrebbero ricordarsi chi ha ridotto la società in queste
condizioni, tra bilanci fuori controllo, plusvalenze fittizie e penalizzazioni).
I tempi dell’egemonia bianconera probabilmente sono finiti, il nuovo piano
industriale si basa sull’autofinanziamento e non fa sognare i tifosi. Ma anche
così, con tutti questi limiti e paletti, la Juventus rimane la squadra con
maggiori mezzi a disposizione in Serie A, con la proprietà più solida. Magari un
giorno Exor venderà davvero la Juventus, perché l’operazione di pulizia dei
conti che è stata la priorità del mandato prima di Giuntoli e ora di Comolli
(ben più dell’aspetto sportivo) potrebbe essere propedeutica a una cessione.
Però un conto è finire nelle mani di Bin Salman (altra indiscrezione non
confermata delle ultime ore), un conto di Thether o di chi per lui. Come si dice
in questi casi: si sa quel che si lascia, non quel che si trova.
X: @lVendemiale
L'articolo Juve, come sei caduta in basso: l’offerta di Thether è l’ultima
mancanza di rispetto verso la Vecchia Signora proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“Sì, ‘abbè, uno ggol abbasta”. Pensi a questa frase, che confonde anche il
compianto Italo Khune, e pensi a Maurizio Gaudino. C’è molto di più però, dietro
al dialetto ereditato a mo’ di paisà, di quel calciatore che in quella finale di
Coppa Uefa diede filo da torcere a Maradona e ai suoi. Nato il 12 dicembre di 59
anni fa a Bruhl in Renania Settentrionale: “È la città di Steffi Graf” ricordava
spesso Maurizio, che in fondo la campionessa era lei, lui veniva dalla strada.
Già, non poteva essere altrimenti: papà di Orta di Atella, minatore, partito per
la Renania per fare il camionista. Mamma di Frattamaggiore, che in Germania va a
lavorare alla Henkel. E Maurizio, riccioluto e scugnizzello, gioca in strada:
mica facile quando sei figlio di emigranti. A volte essere più forte non basta,
specie quando per un gol fantasma o un fallo reclamato si finisce a botte: a
volte le prendi, a volte le dai. E con quella mentalità Gaudino cresce: piedi
buoni sì, ma senza pensare che bastino ad aprire tutte le porte. Dai campetti
improvvisati passa alle giovanili del Rheinau, tra calcio e scuola ci mette pure
un’altra passione: quella per le auto, possibilmente sportive e veloci, facendo
un apprendistato come meccanico. Passa al Waldhof Mannheim e qui trova il suo
padre calcistico, Klaus Schlappner, che lo fa debuttare a 17 anni in Bundesliga
contro l’Eintracht Braunschweig: dopo 30 minuti in campo, Gaudino viene espulso.
Tuttavia il ragazzo è forte: diventa titolare fisso e attira le attenzioni dei
grandi club. Nel 1987 passa allo Stoccarda, che l’anno successivo trascina in
finale di Coppa Uefa. Di fronte c’è proprio il suo Napoli, suo senza virgolette
visto che ad accoglierlo all’aeroporto, nella gara d’andata, ci sono i parenti
con ogni leccornia, e che la mamma intervistata prima della gara dichiara di
augurarsi due cose: che Maurizio segni, e va bene, ma che alla fine vinca il
Napoli, che è sempre il Napoli, pure di fronte a un figlio. Andrà proprio così,
con Gaudino che segnerà spaventando gli azzurri, bravi a ribaltarla al San Paolo
e a dominare la gara di ritorno in Germania portandosi a casa il trofeo.
Il mondo scopre allora quel numero 10 atipico e per la verità già noto ai club
italiani: lo avrebbe preso volentieri il Verona qualche stagione prima, ma non
se ne fece nulla, mentre a prescindere dai club sarebbe stato l’azzurro della
nazionale il sogno di Gaudino, che rifiuta per tre volte le chiamate dell’Under
21 tedesca, prima di rassegnarsi ed accettare, proprio nel 1989.
Calcio e auto, dunque, per quel ragazzo sempre in mise da rockstar: riccioli
lunghi, orecchino, catene d’oro, giacche in pelle e una passione per le Ferrari,
tale da fargli dichiarare apertamente di essere in grado di percorrere la
distanza tra Stoccarda e Monaco di Baviera in meno di un’ora. Una passione che
gli causerà anche qualche incidente: nel 1994 mentre è ospite di un noto talk
show viene arrestato, col conduttore che ci scherzerà anche su “di solito si
viene prima arrestati e poi si va ospiti nei talk show, non il contrario”.
L’accusa è di una presunta frode assicurativa: se la caverà con una multa e una
pena sospesa.
Dalla Germania in quel periodo passa in Inghilterra, in prestito al Manchester
City, offrendo sprazzi della sua classe, per poi tornare in patria, e poi in
Messico alla corte di Marcelo Bielsa al Club America, con tanto di preparazione
atletica a 3500 metri d’altezza, su di un vulcano. Torna ancora in Germania,
all’Eintracht, per poi dividersi tra Basilea, Bochum e Antalyaspor prima di
chiudere la carriera con una presenza nella squadra che l’aveva lanciato, il
Waldhof Mannehim, e diventare procuratore sportivo.
Resta quell’intervista e tutto quello che c’è dietro e attorno, ma forse il
segreto di Maurizio stava proprio lì: un ragazzo di Mannheim col Vesuvio nel
sangue, capace di tenere insieme romanticismo e ruvidezza. Non è diventato
un’icona, ma è rimasto una storia.
L'articolo Ti ricordi… la storia di Maurizio Gaudino, lo scugnizzo tedesco che
fece tremare il Napoli di Maradona proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tra Tarantino e la Disney Pixar. Sì, i confini delle Domeniche Bestiali sono
così vasti che se si parlasse di cinema potresti metterci dentro di tutto. Una
rustica bestialità tarantiniana, con un bombardamento approssimativo grazie ad
“armi” agricole fino ad arrivare alle emozioni come nel film “Inside Out”, e
ovviamente nelle Domeniche Bestiali quali possono essere le emozioni dominanti?
Imbarazzo, in tantissimi toni diversi.
VOLANO GHIANDE
La gamma dei “lanci” dagli spalti al campo è ampia e nonostante questa
sciagurata rubrica ormai abbia una certa età, va riconosciuta la propensione al
rinnovamento. Come in Promozione Liguria, con la multa da 300 euro comminata al
Santerenzina: “Per la condotta dei propri sostenitori i quali al 38′ st
colpivano con alcune ghiande l’AA2 alla schiena e alla testa, senza provocare
conseguenze lesive”.
SAN SEVERO CITTÀ APERTA
Chi può dimenticare il capolavoro di Roberto Rossellini, primo capitolo della
trilogia della guerra antifascista? Nessuno, tanto che a San Severo tentano di
emularlo, almeno seguendone i concetti, lasciando aperto tutto: “La porta dello
spogliatoio arbitrale presentava la serratura rotta sicché lo spogliatoio è
rimasto aperto ed incustodito. La recinzione che separava i tifosi dagli
spogliatoi risultava aperta”. Aperture che hanno fruttato una multa da cento
euro per il San Severo Calcio 1922, che gioca in Promozione.
SLIPING BEAUTY
In India si sono spinti ancora oltre: il giocatore spagnolo Iker Guarrotxena è
stato espulso… prima ancora di cominciare. Motivo: gli slip del colore
sbagliato. La scena è stata questa: il guardalinee guarda l’intimo, l’arbitro
guarda il guardalinee, il giocatore guarda nel vuoto, chiedendosi dove abbia
sbagliato nella vita. Va a cambiarsi, ma dopo aver risposto all’arbitro in
maniera volgare. Risultato: rosso diretto pre-fischio. Un traguardo storico: non
era mai successo che la biancheria facesse più danni di un fallo da dietro.
I FIGLI SO PIEZZ E…
E poi c’è il momento “famiglia” che non ti aspetti: il calciatore Danilo in
un’intervista post partita e il figlio di 6 anni. Il Flamengo campione in
Libertadores ha appena vinto anche il campionato in Brasile. Ai microfoni delle
tv ci va proprio l’ex capitano della Juventus, in quel clima di festa
accompagnato dal figlioletto, che pensa bene in favor di microfono di prodursi
in un “Io tifo Fluminense”, squadra acerrima rivale del Flamengo. Imbarazzato
Danilo gli tappa la bocca, e poi scrive sui social “Una settimana senza tv e
videogame”.
L'articolo Il record di Guarrotxena: espulso prima del fischio d’inizio, tutta
colpa degli slip del colore sbagliato | Domeniche Bestiali proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Quanto accaduto in Milan-Lazio – il contestato rigore non concesso all’ultimo
minuto per braccio di Pavlovic – rappresenta un punto davvero basso per i
fischietti italiani. Non tanto per la decisione, tutto sommato corretta. Ma per
come è stata presa: davanti al monitor, l’arbitro Collu si è letteralmente
inventato un fallo in attacco pur di non schierarsi, per non rischiare di
sbagliare o dare torto ai colleghi che l’avevano richiamato al Var. Se avesse
confermato la scelta iniziale tutti gli avrebbero fatto i complimenti. Se avesse
dato il rigore, non sarebbe stato uno scandalo, considerato che comunque si
trattava di un tocco netto e decisivo, per quanto oggettivamente involontario.
Così invece ha preso in giro giocatori, allenatori e milioni di tifosi, facendo
capire che questa classe arbitrale è capziosa e in malafede: pur di difendere se
stessa è pronta anche a dichiarare il falso. Dunque non ha più alcuna
credibilità. E non è la prima volta che lo dimostra.
Formalmente, tutto ciò non ha niente a che fare con quello che sta succedendo
all’Aia in queste settimane. Eppure si fa fatica a non pensare che le tensioni,
gli scandali, le manovre sull’associazione e i loro vertici poi non si
ripercuotano anche sulla serenità in campo degli arbitri. È notizia di qualche
giorno che la procura Figc ha notificato la conclusione delle indagini ad
Antonio Zappi, presidente dell’Aia. Gli vengono contestate presunte pressioni
legate al cambio degli organi tecnici di Serie C e Serie D: per far posto a
Orsato e Braschi – due grandi ex arbitri, che lui appena eletto voleva
coinvolgere nel suo nuovo progetto alla guida dell’Aia – Zappi ha “suggerito” ai
dirigenti in carica (Ciampi e Pizzi) di dimettersi, prospettando loro soluzioni
alternative.
Al di là di alcune stranezze nell’inchiesta (le versioni contrastanti fornite
dal denunciante; il ruolo di Viglione, avvocato e uomo ombra della Figc: a lui,
e non alla Procura, arriva l’esposto, a lui si rivolge Ciampi dopo aver parlato
con Zappi) potremmo interrogarci su dove finisca una consueta, magari non troppo
edificante, modalità di gestione del potere e dove inizi l’illecito, rimettendo
alle istituzioni il verdetto. Questo se la giustizia sportiva fosse una cosa
seria. Siccome invece tutti sappiamo che non lo è (la sua mancanza di autonomia
è una delle ragioni per cui il ministro Abodi dovrebbe affrettarsi a toglierla
una volta per sempre dalle mani delle Federazioni), è forte il sospetto che
anche in questo caso la procura stia agendo come manganello del potere politico,
per togliere di mezzo di Zappi, colpevole sicuramente di aver gestito male certe
situazioni, ma forse anche e soprattutto di essersi messo di traverso alla
Federazione (un film già visto col suo predecessore Trentalange…).
Sarà una casualità, l’inchiesta è entrata nel vivo dopo che il n.1 Aia ha
espresso la sua contrarietà ai progetti di riforma di Gravina. Come noto, la
Figc infatti vorrebbe creare un nuovo soggetto (la cosiddetta PGMOL,
Professional Game Match Officials Limited, sul modello inglese) sotto cui far
confluire l’élite arbitrale, circa 20 fischietti professionisti, quindi
praticamente solo la Serie A: una vera e propria società, con soci la Figc e la
Lega Calcio (non l’Aia), la cui direzione tecnica sarebbe affidata probabilmente
ancora a Gianluca Rocchi, l’attuale designatore, vicino ai vertici federali e
invece ormai in disgrazia all’interno della sua Associazione, dove a fine anno
verrebbe sostituito (anche per sopraggiunti limiti di mandato).
Le tempistiche sembrano intrecciarsi. Zappi, che non ha alcuna intenzione di
dimettersi, probabilmente sarà deferito prima di Natale e poi squalificato ad
inizio 2026, per arrivare all’appello a marzo, in coincidenza con gli spareggi
della nazionale, vero spartiacque per la gestione Gravina: se li supererà
indenne, a quel punto il presidente Figc potrà procedere con le sue riforme
(arbitri e magari anche l’assurda riduzione di promozioni e retrocessioni).
Cambiare tutto, per non cambiare nulla come sempre.
La classe arbitrale italiana ha bisogno davvero di essere azzerata e
ricostruita, ma non così. Rocchi guida gli arbitri italiani da anni (saranno 5
il prossimo giugno) e la sua strapagata gestione è stata disastrosa. Sotto di
lui, che non si è mai preso una responsabilità, si è avuto un netto
peggioramento delle prestazioni, non sono cresciuti fischietti giovani e
affidabili. E se è vero che in campo gli errori non sono suoi – anzi, lui è
sempre bravissimo, a parole col senno di poi –, questi sono il frutto anche di
direttive confuse e di una comunicazione supponente. Di un gruppo che non
esiste, dove ognuno ormai va per conto suo. Questa riforma – che avrebbe come
principale se non unico effetto quello di lasciare al comando uno degli artefici
del disastro – assomiglia tanto ad una restaurazione: togliere autonomia agli
arbitri, per rimetterli sotto il potere politico e di chi dovrebbero dirigere.
Il problema non lo risolverà la FederCalcio. Il problema è (anche) la
FederCalcio.
X: @lVendemiale
L'articolo La mani della Federcalcio sugli arbitri allo sbando: l’indagine sul
capo dell’Aia e le trame di Gravina proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tra meno di un mese è Natale. Tra poco più di un mese è Capodanno. Al netto
delle notizie sensazionali che Domeniche Bestiali è stata in grado di fornirvi
in questo centinaio di battute la riflessione che ne deriva è che è quasi tempo
di festeggiare. Ma Domeniche Bestiali è una rubrica che gioca d’anticipo, con
tutti i rischi che ne derivano. E infatti la voglia di festeggiare sui campetti
di provincia e fuori genera i soliti mostri e mostriciattoli: dai fuochi
d’artificio allo spumante, dal festeggiare in solitudine ai saluti ai cugini.
PARENTI SERPENTI
Eh sì, le feste natalizie sono il tripudio del calore familiare: si sta con i
nonni, si ritrovano gli zii, i cugini che tanto ci stanno simpatici e a volte
pure qualcosa in meno. In tal caso, si sa, armarsi di sorriso a 32 denti e voce
finto calorosa per l’accoglienza sperando di ignorarsi per la restante parte
della giornata. Ma a volte proprio non si riesce a nascondere l’ostilità, come i
ragazzi della Corea del Nord Under 17, che nei mondiali di categoria hanno
salutato i loro rivali pari età giapponesi prendendoli a pugni. Sì, con pugni
anche piuttosto vigorosi sulle spalle, che hanno lasciato di stucco i nipponici.
Il motivo? Forse per mostrare vigoria fisica e intimidirli. La gara è finita 1 a
1 e il Giappone è passato ai rigori.
SI SBOCCIA
Che Natale è senza brindare? Anche sugli spalti è bello condividere il clima di
festa, anche se può costare caro come nel caso della Folgore Cappella, società
di Prima Categoria Campania multata di 60 euro perché: “propri sostenitori prima
dell’inizio della gara accendevano alcuni fumogeni ritardando l’inizio della
stessa. Tale condotta si ripeteva al minuto ’35 del secondo tempo, provocando la
sospensione della gara per circa ‘5 minuti. infine, veniva lanciato un tappo di
sughero che colpiva il ddg al polpaccio”. Dicono porti fortuna però.
FUOCO ALLE POLVERI
E poi si sa, ci sono i fuochi d’artificio. Quante volte lo zio Ciccio di turno
ha quasi incendiato casa o fatto esplodere una finestra ai vicini? Meglio avere
a portata un estintore. E se non c’è nulla da far scoppiare o brillare? Si
festeggia con l’estintore stesso, che domande! È quel che hanno fatto i
calciatori del San Valentino 1975, ancora Prima Categoria Campania, multati di
150 euro perché “a fine gara, i componenti della squadra San Valentino 1975
facevano uso improprio delle dotazioni di sicurezza presenti nello spogliatoio,
scaricando un estintore durante i festeggiamenti”.
LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI
Eh sì, c’è chi per le feste resta solo. E noi di certo non giudichiamo chi, in
tal caso, cerca compagnia, anche pagando. Che poi l’obiettivo può essere quello
di migliorare se stessi, come l’uomo che in Giappone ha pagato una escort per
accompagnarlo in albergo e… allenarsi come portiere. Già, c’è perfino un video
che testimonia le imprese della coppia nel motel, con tanto di pallone e divisa
da portiere. Ad occhio comunque il protagonista non vale neppure la terza
categoria.
L'articolo Lo strano saluto dell’Under 17 della Corea del Nord: prendono a pugni
i rivali giapponesi | Domeniche Bestiali proviene da Il Fatto Quotidiano.
Se un indizio (la papera nel recupero contro la Juve sul tiro di Adzic) non fa
una prova, e due (il tuffo al rallentatore su McTominay a Napoli) possono ancora
essere una coincidenza, al terzo episodio contro il Milan i dubbi si fanno
ragionevole certezza: Yann Sommer è diventato un problema per l’Inter. Il derby
– quarta sconfitta in campionato, terza in un big match – ha confermato i limiti
dei nerazzurri in quest’avvio di stagione, che assomigliano a quelli del passato
ma in realtà sono ormai molto più individuali e specifici, al punto da potersi
riassumere nella prestazione negativa di un singolo giocatore. Che però è il
portiere ed è determinante.
L’Inter ha perso, come spesso le è accaduto di recente, alla stessa maniera:
dominando l’avversario, creando tante chance senza concretizzarle e poi venendo
punita alla prima, ieri addirittura l’unica occasione. Stavolta, però, Chivu
l’aveva anche preparata bene: al cospetto di una vecchia volpe come Allegri,
consapevoli di quali sarebbero stati i rischi in contropiede, i nerazzurri hanno
giocato un match quasi perfetto, propositivo ma anche accorto, badando con
grande disciplina a non scoprirsi. E infatti hanno sofferto pochissimo
l’avversario. Non è bastato perché nell’unica ripartenza concessa, che non era
nemmeno una vera occasione ma un tiro innocuo da fuori area, Sommer ha lasciato
lì la palla per il tap-in decisivo di Pulisic. Mentre prima e dopo dall’altra
parte, Maignan è stato strepitoso su Thuram, Lautaro e sul rigore di Calhanoglu.
La proverbiale poca cattiveria dei nerazzurri rimane, ma si può dire senza
timore di smentita che a portieri invertiti il derby sarebbe finito tanto a poco
per l’Inter.
Una serata storta può capitare anche ai migliori, il problema è che non è la
prima di Sommer. Quest’anno, quando l’Inter ha perso (Udinese, Juve, Napoli,
Milan), lo ha fatto praticamente sempre per colpa del suo portiere (e nella
lista potremmo metterci anche la vittoria sofferta di Verona, arrivata nel
recupero dopo che le mani piegate di Sommer avevano regalato il momentaneo
pareggio ai padroni di casa). I nerazzurri giocano con l’inquietante sensazione
che ogni tiro subito possa essere gol, che poi è quello che si è verificato
ieri. Un certo déjà-vu di quanto già successo con l’ultimo Handanovic.
Anche allora la società aveva atteso uno o forse anche due anni di troppo per
l’avvicendamento, esponendo quello che è stato una bandiera nerazzurra ad una
conclusione poco onorevole della carriera. Anche Sommer sembra ormai “arrivato”.
È stato uno dei protagonisti della cavalcata in Champions (la parata in
semifinale su Yamal resterà nella storia di questo sport), ma ad una certa età
(compirà 37 anni a dicembre) il calo può essere repentino, e anche fisiologico.
Tanto più che Sommer non è mai stato un grande portiere: dopo una carriera tra
Basilea e Mönchengladbach, ha toccato il suo apice a 34 anni, come riserva di
Neuer al Bayern, e poi è arrivato all’Inter come alternativa low-cost dopo la
cessione di Onana, più per la sua esperienza e abilità con i piedi che fra i
pali. Una soluzione che poteva andar bene finché era al top della forma: se
perde anche l’esplosività con cui compensava un fisico non statuario – quella
per dire che gli è mancata ieri sul tiro di Saelemaekers –, forse non è più
adeguato a questi livelli.
Ovviamente però l’Inter è vittima soltanto di se stessa, perché si è andata lei
a cacciare in questo guaio, ripetendo un errore già commesso in passato. Il
mercato estivo insufficiente non ha saputo prevedere il problema. Così come
l’investimento fatto due anni fa su Josep Martinez rimane inspiegabile. L’Inter
non ha mai creduto davvero nello spagnolo, che per altro le poche volte in cui è
stato impiegato ha sempre fatto bene. Quest’anno, quando si sarebbe dovuto
spingere subito sull’alternanza, non l’ha fatto. E poi è arrivata la tragedia
dell’incidente stradale in cui è deceduto un anziano: se Martinez fosse
diventato prima il titolare nerazzurro, probabilmente sarebbe stato più semplice
rimetterlo in campo. Adesso, dopo quanto successo, diventa davvero complicato
sostituire Sommer.
Di fatto, l’Inter ora come ora non ha alternative che sperare in una ripresa
dello svizzero. E questo può diventare davvero un fattore, guardando quanto
stanno facendo gli altri: non è un caso forse che in testa ci sia la Roma di
Svilar, in questo momento il portiere più forte del campionato, seguito dal
Milan di Maignan, mentre i rigori parati da Milinkovic hanno regalato al Napoli
4 punti. L’Inter con Sommer ne ha persi diversi, tutti decisivi. I teorici
ancora si dividono se gli scudetti si vincano con l’attacco o con la difesa. Ma
non c’è dubbio che a volte si possano anche perdere in porta. L’Inter ne sa
qualcosa.
X: @lVendemiale
L'articolo Inter, Sommer è diventato un problema: la differenza con le big sta
tutta in porta proviene da Il Fatto Quotidiano.
Zero. Tanti erano i gol che i tifosi del Como avevano visto al Sinigallia fino
ad allora. Un allora che porta la data del 24 novembre di 40 anni fa, col
campionato di Serie A già all’undicesima giornata.Per la verità già l’anno prima
il gol era stato un problema per i lariani nel massimo campionato: ne erano
arrivati 17 in 30 partite e il capocannoniere era stato Morbiducci con soli tre
gol, ma la squadra guidata da Ottavio Bianchi ne aveva beccati solo 27, roba da
vetta della classifica e si era salvata senza grossi problemi. Quell’anno però,
con mister Roberto Clagluna alla guida, era partito male: solo tre pareggi e una
vittoria in dieci giornate, nessun gol in casa.
Il pubblico esplode, perciò, quando contro la Sampdoria arriva dopo pochi minuti
un lancio lungo che scavalca la difesa, con l’attaccante che lascia rimbalzare
il pallone e spara un bel sinistro potente e preciso all’angolino. È Dan
Corneliusson, svedese, arrivato l’anno prima a Como. Figlio di un pescatore,
aveva trascorso l’infanzia sull’isolotto di Hönö, giocando a pallacanestro e a
calcio: si fa notare però in quest’ultimo sport, guadagnandosi l’ingresso nelle
giovanili del Göteborg.
Per restarci deve trasferirsi in città, da solo, e studiare: lui va a scuola con
profitto e si distingue negli allenamenti, guadagnandosi l’esordio e il
passaggio in prima squadra. Poche distrazioni, al massimo qualche vacanza
estiva: una in particolare a dieci anni, in campeggio, a Como, come ha ricordato
anche in un’intervista a La Provincia di Como. In poco tempo diventa titolare
sotto la guida di Sven Goran Eriksson e nel 1982, giovanissimo, si guadagna
l’accesso alla finale di Coppa Uefa, timbrando tre gol nella manifestazione.
L’andata della finale in Svezia era finita 1 a 0, l’Amburgo credeva nella
rimonta in Germania, ma è proprio Dan in apertura di primo tempo a far capire
che le cose sarebbero andate diversamente, aprendo le danze con un bel gol di
sinistro al volo.
Passa allo Stoccarda dove vince il titolo, poi lo vorrebbe il Torino, ma
preferisce Hernandez: nel 1984 è il Como ad accaparrarselo per un miliardo e
mezzo di lire. Il primo anno Dan Corneliusson mette a segno solo due gol, anche
se si fa apprezzare dal pubblico per generosità, guadagnandosi la riconferma per
la stagione successiva. Accanto a lui il giovane Stefano Borgonovo, ad ispirarli
il brasiliano Dirceu: la partenza non è col botto, come detto, ma con l’arrivo
di Rino Marchesi viene invertita la rotta. Il Como ritrova fiducia, gioco e
soprattutto gol. È meno frenetico rispetto al talentuoso Borgonovo, più lineare,
più “classico”: si allarga, tiene la palla, apre corridoi. Comincia a segnare
con maggiore continuità, ma soprattutto fa giocare bene gli altri. Marchesi se
ne innamora subito: lo ritiene uno di quei calciatori silenziosi che rendono
armoniosa una squadra, senza pretendere titoli sui giornali.
In quelle stagioni Corneliusson scopre davvero l’Italia. Vive Como con
discrezione: ama camminare sul lungolago la mattina presto, quando la città deve
ancora svegliarsi, e spesso si sofferma a guardare i pescatori, come suo padre
sull’isola di Hönö. Ogni tanto riceve visite dalla famiglia svedese, sorpresa
dalla quantità di tifosi che lo fermano per strada. A lui, che veniva da
un’infanzia semplice, fatta di barche, vento freddo e campetti polverosi, sembra
quasi irreale ritrovarsi in una piccola città che però vive il calcio con una
passione da metropoli.
In campo Dirceu illumina, Borgonovo entusiasma, e Corneliusson mette insieme
movimenti, sacrificio e una serie di gol pesanti. Memorabile quello alla
Juventus in Coppa Italia, in una serata gelida, con il Sinigallia coperto da una
neve sottile. Un sinistro improvviso, potente, che sbuca dal nulla e finisce
all’angolino: è uno dei lampi che i tifosi ricordano ancora oggi, uno di quei
momenti in cui sembra che tutto, per un attimo, giri dalla parte giusta. Un gol
che permette ai lariani di superare il turno e di sognare la finale, ma nella
gara contro la Samp ai supplementari un oggetto colpisce l’arbitro e al Como
viene assegnata la sconfitta a tavolino.
A Como Dan Corneliusson rimane cinque stagioni, diventando un punto fermo non
solo della squadra ma anche dell’ambiente. Si fa voler bene per il modo educato
di stare in gruppo, per la timidezza mai scambiata per distacco, per quella
puntuale disponibilità a fermarsi con i più piccoli fuori dagli allenamenti. In
campo è un lavoratore, un attaccante di raccordo come oggi se ne vedono pochi,
capace di dare equilibrio e profondità. Non è un goleador puro, ma è uno di
quelli che “ci sono sempre”: nelle partite sporche, quando servono le spalle
larghe e il carattere, è il primo ad alzare la testa.
Col tempo impara anche l’italiano, che parla con un accento dolce e
cantilenante, soprattutto impara ad amare un certo modo di vivere: lento,
affacciato sull’acqua, fatto di saluti, di piazze, di visi conosciuti. Racconta
spesso che Como è stata la sua seconda casa, più ancora di Stoccarda. E non è un
caso che torni periodicamente, ogni volta accolto come un amico che si era
soltanto allontanato per un po’.
Dopo Como ci saranno altre avventure, altre maglie, in particolare Wettingen e
Malmo. Ma il ricordo più pieno è quello di un ragazzo svedese arrivato dal
freddo con una valigia leggera e un sinistro educato, capace di trovare un posto
nel cuore di una città che ancora oggi ne custodisce i gol, i sorrisi e la
gentilezza. E allora il cerchio si chiude. Quel bambino che a dieci anni passò
un’estate in campeggio sul lago senza immaginare nulla del suo futuro, finì per
tornarci da uomo e da calciatore affermato, regalando ai comaschi emozioni che
il tempo non ha scolorito.
L'articolo Ti ricordi… Dan Corneliusson, il ragazzo venuto dal freddo che a Como
ha lasciato gol, silenzi e sorrisi proviene da Il Fatto Quotidiano.
L’ennesima figuraccia della nazionale contro la Norvegia almeno ha un merito:
spazzare via la narrazione spinta ultimamente dalla FederCalcio, dal ct Gattuso
al disperato presidente Gravina, e sposata da troppi commentatori
accondiscendenti, che non andiamo ai Mondiali per colpa del regolamento. Che è
assurdo rimanere fuori per una sola sconfitta (intanto sono diventate due). Che
il girone in Sudamerica è più semplice e che ci sono troppe africane. Una
retorica insopportabile, piagnona e anche vagamente suprematista quando sostiene
una presunta superiorità del pallone europeo rispetto agli altri continenti,
smentita ancora una volta dal campo.
Nelle ultime settimane sono stati tirati in ballo troppi argomenti, tutti
sbagliati, per giustificare il fallimento azzurro. Il regolamento è quello,
uguale per tutti. Questa è la terza edizione di fila che non vinciamo il girone
di qualificazione, pur partendo per due volte su tre dalla prima fascia: non
potrà essere sempre un caso. Chi rivendica le 6 vittorie in 8 partite, dimentica
volutamente di ricordare che proprio per come è concepito il format europeo,
tutte le altre avversarie a parte la Norvegia erano ridicole. E poi non risulta
che Turchia e Slovacchia, nazionali che hanno fatto un percorso simile
all’Italia e con tutta probabilità pure dovranno passare dagli spareggi, stiano
frignando come noi.
Ancora più sgradevole l’attacco alle altre confederazioni (che infatti non è
passato inosservato nel resto del mondo: un’altra brutta figura per il calcio
italiano). La prossima edizione a 48 squadre è di certo un’incognita e
probabilmente un’esagerazione, ma il calcio ormai è un fenomeno globalizzato e
non si può tornare indietro. Ricordare come ha fatto Gattuso gli anni Novanta,
in cui all’Europa spettavano 14 posti su 24, più del 50%, significa rimpiangere
tempi passati di diritti acquisiti, che non hanno più senso di esistere. Di
sicuro si qualificheranno tante cenerentole con un livello tecnico inferiore al
nostro, ma il senso della Coppa del Mondo è proprio quello. Parlare di ranking e
posti riservati non è troppo dissimile dal ricreare la tanto avversata Superlega
anche per le nazionali. Poi che le sudamericane abbiano un vantaggio competitivo
appartenendo ad una confederazione con solo 10 Stati è nei numeri, ma bisogna
guardare la composizione complessiva. La Uefa rimane quella con più posti (16 su
48) e comunque la seconda (alle spalle solo della Conmebol, appunto) per
percentuale di partecipanti sul totale delle federazioni membro (29,1%).
Lamentarsi non ha senso. Tanto più che alle ultime due partecipazioni, nel 2010
e nel 2014, siamo usciti rimediando figuracce contro Nuova Zelanda e Costa Rica,
proprio quei Paesi che secondo Gattuso avrebbero meno diritto di noi a
qualificarsi.
Non c’è nessuna ingiustizia. Al massimo po’ di sfiga, nell’aver pescato in
seconda fascia una nazionale con un attacco stellare, che proprio quest’anno è
sbocciata in tutto il suo potenziale dopo che invece aveva steccato altre
qualificazioni: a Euro 2024 la Norvegia è rimasta fuori arrivando terza alle
spalle persino della Scozia, e anche allora c’erano Haaland, Sorloth &C.;
stavolta le ha vinte tutte con una media di quasi 5 gol a partita, decisiva per
tagliarci le gambe nella differenza reti. Aggiungiamo che qualcosa nelle
qualificazioni si può migliorare. Non tanto nella distribuzione dei posti fra i
continenti, quanto nel format europeo. Lo ha ammesso anche lo stesso presidente
della Uefa, Aleksandr Ceferin. I gironi a 4-5 squadre sono effettivamente troppo
bloccati, si rischia di rimanere imprigionati in un gruppo di ferro o viceversa
percorsi scontati. Adottare anche per le nazionali la formula che tanto successo
sta avendo con la nuova Champions, ovvero una classifica unica con 8 partite da
giocare tutte con avversari diversi, poterebbe probabilmente più meritocrazia e
anche un pizzico di imprevedibilità (certo bisognerà trovare una quadra sul
calendario perché le partecipanti Uefa sono addirittura 54).
Queste però sono tutte riflessioni di contorno. Non andiamo ai Mondiali, almeno
per il momento, non per colpa di qualche cavillo ma perché abbiamo perso due
volte sue due contro la Norvegia (non la Francia, o la Spagna), con un aggregato
di 1-7. Perché abbiamo vinto al 90’ in Moldova, al 95’ contro Israele, sempre
faticando e di misura, mentre i nostri rivali segnavano a raffica. Perché
abbiamo una rosa modesta, due ct (Spalletti e Gattuso) uno peggio dell’altro,
una dirigenza federale completamente inadeguata. Ci meritiamo i playoff, come
Congo e Curacao (che anzi magari si qualificherà direttamente). Questa è la
nostra dimensione. Continuare ad accampare scuse significa solo non guardare in
faccia la realtà.
X: @lVendemiale
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Mondiali più di Congo o Curacao proviene da Il Fatto Quotidiano.