C’è un ufficio marketing, da qualche parte nei palazzi della Difesa italiana
guidata con mano ferma dal ministro Guido Crosetto, dove qualcuno ha deciso che
perfino la guerra ha bisogno di un restyling culturale. Il mantra è: efficienza
letale e “genio italiano”. In questa cornice i nomi non sono etichette neutre,
ma connettori fra le cose e il loro senso. Per questo, mi colpisce leggere che
un nuovo sistema missilistico integrato, una rete complessa di sensori e
attuatori capaci di incenerire minacce ipersoniche, sia stato battezzato
“Michelangelo Security Dome”. E a produrlo è Leonardo, il colosso nazionale
degli armamenti.
Michelangelo e Leonardo, due nomi che, nella nostra memoria collettiva,
rimandano a cappelle affrescate, cupole, disegni visionari, bellezza. Vederli
legati a un sistema d’arma nuovo di zecca, a radar, missili, “effettori”
coordinati, disturba parecchio. Almeno me. Per cui mi chiedo: che cosa è andato
così storto?
È una questione di buon gusto e di coerenza simbolica. Abbiamo già digerito,
quasi senza accorgercene, lo scandalo originale. Leonardo S.p.A. è da anni il
marchio di un’azienda leader del settore delle armi che gioca su questa
ambiguità. Il nome di Leonardo da Vinci, vegetariano convinto che comprava gli
uccelli al mercato solo per liberarli dalle gabbie, è diventato sinonimo globale
di elicotteri d’attacco, caccia addestratori e sistemi di puntamento. Certo,
Leonardo disegnava macchine da guerra per Ludovico il Moro, ma lo faceva per
finanziare la sua arte, con il disprezzo dell’intellettuale costretto a
sporcarsi le mani. Oggi quel nome è un brand della più grande industria bellica
d’Italia, fattura 18 miliardi l’anno ed è in crescita, ovviamente, per le
logiche dilaganti della guerra permanente. È normale associare l’Uomo Vitruviano
ai floridi bilanci di tale azienda? Propongo di cambiargli nome.
L’operazione Michelangelo alza l’asticella della perversione culturale. Qui si
gioca sull’evocazione. Chiamare “Michelangelo Security Dome” un sistema d’arma
serve a pulire la coscienza dell’acquirente. Dalla cupola della Basilica da cui
officia Papa Leone XIV, disegnata dal Buonarroti, alla cupola antimissile. È il
“Made in Italy” che piace a Giuli, Santanché, Lollobrigida e Crosetto, applicato
alle logiche della difesa contro la Russia di Putin e le sue voglie
espansionistiche. Il radar di questo nuovo armamento si chiama Kronos: vabbè, è
greco e significa “tempo”, ma qui almeno c’è coerenza, dato che Crono divora i
suoi figli, metafora perfetta della guerra. Anche i francesi hanno chiamato le
loro navi militari con i nomi di filosofi o matematici, vedi la classe
“Descartes”, ma qui da noi il trend tocca vette di ipocrisia inarrivabili.
Vero è che da anni le parole gestite dalla politica cercano di stravolgere i
significati. E quindi le guerre diventano “operazioni di pace”, i bombardamenti
“interventi umanitari”, i missili “peacekeeper”, le bombe “intelligenti”, le
deportazioni forzate “zone umanitarie”. Nel settore civile, le aziende più
inquinanti si tingono di “green“, “eco”, “planet”, mentre vendono l’esatto
contrario. I nomi servono a costruire una narrazione in cui ciò che distrugge
appare come qualcosa che protegge.
Forse è il momento di dirlo, anche se nessuno ascoltasse. Ci sono nomi che
dovrebbero restare legati alla vita, alla conoscenza, alla scienza, all’arte.
Non per moralismo, ma per igiene simbolica e mentale. Perché il modo in cui
chiamiamo le cose finisce, piano piano, per cambiare il modo in cui le pensiamo.
E un Paese che usa i suoi geni del Rinascimento per battezzare armi rischia di
dimenticare che la sua grandezza è nata dall’arte, dalla musica, dalla
letteratura, non da radar e missili.
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vette di ipocrisia inarrivabili proviene da Il Fatto Quotidiano.