Conversione industriale – la mia vignetta per Il Fatto Quotidiano oggi in
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L'articolo Conversione industriale proviene da Il Fatto Quotidiano.
Tag - Guerra
C’è un ufficio marketing, da qualche parte nei palazzi della Difesa italiana
guidata con mano ferma dal ministro Guido Crosetto, dove qualcuno ha deciso che
perfino la guerra ha bisogno di un restyling culturale. Il mantra è: efficienza
letale e “genio italiano”. In questa cornice i nomi non sono etichette neutre,
ma connettori fra le cose e il loro senso. Per questo, mi colpisce leggere che
un nuovo sistema missilistico integrato, una rete complessa di sensori e
attuatori capaci di incenerire minacce ipersoniche, sia stato battezzato
“Michelangelo Security Dome”. E a produrlo è Leonardo, il colosso nazionale
degli armamenti.
Michelangelo e Leonardo, due nomi che, nella nostra memoria collettiva,
rimandano a cappelle affrescate, cupole, disegni visionari, bellezza. Vederli
legati a un sistema d’arma nuovo di zecca, a radar, missili, “effettori”
coordinati, disturba parecchio. Almeno me. Per cui mi chiedo: che cosa è andato
così storto?
È una questione di buon gusto e di coerenza simbolica. Abbiamo già digerito,
quasi senza accorgercene, lo scandalo originale. Leonardo S.p.A. è da anni il
marchio di un’azienda leader del settore delle armi che gioca su questa
ambiguità. Il nome di Leonardo da Vinci, vegetariano convinto che comprava gli
uccelli al mercato solo per liberarli dalle gabbie, è diventato sinonimo globale
di elicotteri d’attacco, caccia addestratori e sistemi di puntamento. Certo,
Leonardo disegnava macchine da guerra per Ludovico il Moro, ma lo faceva per
finanziare la sua arte, con il disprezzo dell’intellettuale costretto a
sporcarsi le mani. Oggi quel nome è un brand della più grande industria bellica
d’Italia, fattura 18 miliardi l’anno ed è in crescita, ovviamente, per le
logiche dilaganti della guerra permanente. È normale associare l’Uomo Vitruviano
ai floridi bilanci di tale azienda? Propongo di cambiargli nome.
L’operazione Michelangelo alza l’asticella della perversione culturale. Qui si
gioca sull’evocazione. Chiamare “Michelangelo Security Dome” un sistema d’arma
serve a pulire la coscienza dell’acquirente. Dalla cupola della Basilica da cui
officia Papa Leone XIV, disegnata dal Buonarroti, alla cupola antimissile. È il
“Made in Italy” che piace a Giuli, Santanché, Lollobrigida e Crosetto, applicato
alle logiche della difesa contro la Russia di Putin e le sue voglie
espansionistiche. Il radar di questo nuovo armamento si chiama Kronos: vabbè, è
greco e significa “tempo”, ma qui almeno c’è coerenza, dato che Crono divora i
suoi figli, metafora perfetta della guerra. Anche i francesi hanno chiamato le
loro navi militari con i nomi di filosofi o matematici, vedi la classe
“Descartes”, ma qui da noi il trend tocca vette di ipocrisia inarrivabili.
Vero è che da anni le parole gestite dalla politica cercano di stravolgere i
significati. E quindi le guerre diventano “operazioni di pace”, i bombardamenti
“interventi umanitari”, i missili “peacekeeper”, le bombe “intelligenti”, le
deportazioni forzate “zone umanitarie”. Nel settore civile, le aziende più
inquinanti si tingono di “green“, “eco”, “planet”, mentre vendono l’esatto
contrario. I nomi servono a costruire una narrazione in cui ciò che distrugge
appare come qualcosa che protegge.
Forse è il momento di dirlo, anche se nessuno ascoltasse. Ci sono nomi che
dovrebbero restare legati alla vita, alla conoscenza, alla scienza, all’arte.
Non per moralismo, ma per igiene simbolica e mentale. Perché il modo in cui
chiamiamo le cose finisce, piano piano, per cambiare il modo in cui le pensiamo.
E un Paese che usa i suoi geni del Rinascimento per battezzare armi rischia di
dimenticare che la sua grandezza è nata dall’arte, dalla musica, dalla
letteratura, non da radar e missili.
L'articolo Leonardo produce il Michelangelo Security Dome: un trend che tocca
vette di ipocrisia inarrivabili proviene da Il Fatto Quotidiano.
“Sì, dopo il 7 ottobre i giovani che obiettano come noi sono aumentati, il
nostro movimento cresce, ma è troppo lento. Non si può aspettare che la società
israeliana cambi per fermare il genocidio e la pulizia etnica: la comunità
internazionale deve agire ora”. Hanno fatto 2.700 chilometri da Tel Aviv per
diffondere questo messaggio, ne faranno altre centinaia in giro per l’Italia per
essere sicuri che venga ascoltato, accompagnati in un tour da Assopace
Palestina. Ido Elam e Ella Keidar Greenberg sono due giovani di 19 anni,
obiettori di coscienza o refusenik, come si dice in Israele. Hanno rifiutato di
prestare servizio nell’esercito quando sono stati chiamati a farlo raggiunta
l’età della leva obbligatoria, come capita a tutti i ragazzi e ragazze
israeliane. “Sono attivista contro l’occupazione nei Territori palestinesi da
quando ho 14 anni, avendo conosciuto l’apartheid in West Bank mi è stato subito
chiaro che non potevo prendere parte alla politica di pulizia etnica messa in
pratica dal nostro governo a Gaza”, spiega al Fatto Ella Greenberg.
Il 19 marzo 2025, a 18 anni, mentre da quattro era già un’attivista transgender,
si è presentata al centro di reclutamento di Tel Hashomer con in mano la lettera
di chiamata, e ha dichiarato il suo rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza,
l’opposizione all’occupazione e alla guerra in generale. La mossa le è costata
un mese di carcere, da cui è uscita l’11 aprile scorso. Aleggia la minaccia di
ulteriori misure penali, ma in realtà per Ella, come gli altri refusenik, il
trattamento è stato piuttosto lieve, se paragonato a quello riservato ai
cittadini e non di origine palestinese incarcerati nel Paese (quasi la metà in
detenzione amministrativa senza accuse formulate, secondo le ong dei diritti
umani di Israele). “Ora siamo persone libere”, continua Greenberg, “le punizioni
per gli obiettori sono piuttosto lievi perché le autorità ci tengono a evitare
di farci diventare dei martiri agli occhi degli altri israeliani”. Lei e Ido
Elam sono i volti più vista dell’associazione Mesarvot, ossia “noi rifiutiamo”
in ebraico, rete che si concentra sull’opposizione al servizio militare
obbligatorio e all’occupazione dei territori palestinesi.
Piuttosto, come capita a molti attivisti radicali israeliani che definiscono
fuori dai denti le politiche del governo di Gerusalemme come apartheid e pulizia
etnica, gli obiettori sono tacciati di essere dei traditori, in un Paese in cui
l’esercito è un pilastro portante (e visibile) della società, e il servizio
militare associato a un dovere morale. Venerdì i due attivisti di Mesarvot
saranno al circolo Arci Angelo Mai per un’ultima conferenza, accompagnata dalla
proiezione del film Innocence di Guy Davidi (regista noto per il documentario
Five broken cameras): “Non lo abbiamo visto neanche noi, ne parleremo”, spiega
Ido, intervistato a margine di un incontro al Senato della Repubblica a Roma,
ospitato da Alleanza verdi sinistra con, tra gli altri, Nicola Fratoianni e
Luisa Morgantini.
Il film Innocence è stato lanciato alla Mostra di Venezia nel 2022, ma in
Israele praticamente non è stato distribuito. È una critica frontale della
militarizzazione della società israeliana, e solleva il tema dei suicidi tra i
soldati e degli effetti devastanti del disturbo post traumatico da stress, una
sorta di tabù per la politica israeliana, soprattutto per la maggioranza che
sostiene Benjamin Netanyahu. In un contesto in cui il racconto pubblico di
sh’khol (il lutto per i figli caduti) nel dibattito pubblico prende
esclusivamente le forme della commemorazione patriottica dell’eroismo dei
caduti.
Davanti al pubblico internazionale, Ella e Ido non vogliono portare soltanto la
loro testimonianza. Cercano piuttosto di suscitare un ribaltamento di
prospettiva: non limitarsi ad ascoltare quella fetta minoritaria di israeliani
critici con le politiche più violente portate avanti contro i palestinesi, non
aspettare che Mesarvot diventi un’organizzazione di massa prima di agire, ma
piuttosto prendersela con i leader, pretendere la massima pressione sul governo
Netanyahu da parte della comunità internazionale, per il rispetto del diritto
internazionale. “Quello che facciamo non sarà mai sufficiente”, confessa Ella.
“Non illudiamoci che le politiche del governo israeliano cambieranno per via di
un cambio di mentalità degli israeliani. Se tante persone oggi giustificano il
genocidio è perché queste politiche sono reali, se la comunità internazionale si
adoperasse per fermarle, per renderle illegali e impossibili, allora vedrete che
anche la maggioranza silenziosa cambierà idea”.
L'articolo “Noi, obiettori israeliani, ci rifiutiamo di entrare in un esercito
accusato di crimini di guerra. La comunità internazionale fermi Netanyahu”
proviene da Il Fatto Quotidiano.
La “pace” tra Thailandia e Cambogia che Donald Trump rivendica tra i successi
della propria amministrazione rischia di andare definitivamente in frantumi.
Dopo gli scontri di lunedì, sono cominciate le evacuazioni di massa di cittadini
thailandesi residenti nelle regioni di confine. “Oltre 400 mila persone sono
state trasferite nei rifugi – ha noto è il ministero della Difesa di Bangkok-. I
civili sono stati fatti evacuare in maniera massiccia a causa di quella che
abbiamo valutato come una minaccia imminente per la loro sicurezza”. Phnom Penh,
da parte sua, ha affermato che “101.229 persone sono state evacuate in rifugi
sicuri e presso le case dei parenti in cinque province”.
I due paesi si accusano a vicenda di attaccare i civili nelle aree a ridosso
della frontiera. Martedì sera, il ministero della Difesa della Cambogia ha
dichiarato che da lunedì sono state uccise 9 persone e 20 sono rimaste
gravemente ferite, mentre funzionari thailandesi hanno affermato che 4 soldati
hanno perso la vita e 68 sono rimasti feriti.
Questa mattina, ha affermato l’esercito di Bangkok, le forze cambogiane hanno
lanciato razzi BM-21 nei pressi dell’ospedale Phanom Dong Rak, nel distretto di
Surin, costringendo i pazienti e il personale a evacuare. Inoltre droni, razzi
BM-21 e carri armati sono stati utilizzati in altri punti di confine, tra cui il
contestato tempio di Preah Vihear.
Secondo l’esercito di Phnom Penh, invece, la Thailandia ha utilizzato fuoco di
artiglieria e droni per lanciare attacchi nella provincia di Pursat, sparando
anche colpi di mortaio contro residenze civili nella provincia di Battambang .
Alcuni caccia F-16 thailandesi, poi, sarebbero entrati nello spazio aereo
cambogiano e hanno sganciato bombe vicino alle aree civili.
Dall’altra parte dell’oceano, Trump ha dichiarato di voler salvare il cessate il
fuoco raggiunto a luglio. “Mi dispiace dirlo, questa è una guerra tra Cambogia e
Thailandia, è iniziata oggi e domani dovrò fare una telefonata – ha detto ieri
il capo della Casa Bianca in un comizio in Pennsylvania -. Chi altri potrebbe
dire che farò una telefonata e fermerò una guerra tra due paesi molto potenti,
Thailandia e Cambogia?”. Se dalla Thailandia sembra esserci più scetticismo
sulla mediazione di negoziati, un importante consigliere del primo ministro
cambogiano ha dichiarato a Reuters che il suo paese è “pronto a parlare in
qualsiasi momento”.
L'articolo Thailandia-Cambogia, oltre 500mila evacuati dopo gli scontri al
confine. Trump: “Farò una telefonata per fermare la guerra” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
“Se nominiamo un mercante d’armi, un uomo che ha lavorato nel mercato delle
armi, a fare il ministro della Difesa, il rischio è che succeda quello che Trump
dice con onestà, visto che chiama il Pentagono il ministero della Guerra e non
più della Difesa”. Sono le parole pronunciate a Otto e mezzo (La7) da Tomaso
Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, che esprime una
critica acerrima sulla proposta di “leva volontaria” annunciata da Guido
Crosetto.
L’idea del ministro è nota: istituire un servizio militare su base opzionale,
rivolto solo a chi sceglie di partecipare, con l’obiettivo di creare una riserva
ausiliaria dello Stato da schierare in caso di crisi — guerre ibride,
cyber-attacchi, calamità naturali, emergenze. Il modello guarda alla Francia e
alla Germania; i numeri in discussione prevedono una partenza con almeno 10mila
volontari, per salire a 30-35mila nel medio periodo e potenzialmente a 50mila
entro il 2035. Anche la durata sarebbe flessibile, inferiore all’anno, e
potrebbe includere figure civili con competenze tecniche avanzate.
Ma per Montanari la questione va oltre gli aspetti organizzativi: “Credo che
questo governo, e non solo il nostro, stiano facendo di tutto per preparare
l’opinione pubblica l’idea che la guerra è normale e che è inevitabile. Questo è
un enorme errore che rischia di portarci alla guerra davvero. La nostra
Costituzione dice che l’Italia ripudia la guerra, e non è un discorso per anime
belle, chi l’ha scritto sapeva perfettamente che la guerra fa parte della vita,
l’avevano fatta la guerra. Io – continua – temo che uno dei problemi è che la
classe politica di oggi la guerra non l’ha fatta, non sa che cos’è. Erasmo da
Rotterdam diceva “Dulce bellum inexpertis”, cioè la guerra sembra dolce a chi
non sa che cos’è. E la nostra Costituzione ci dice di investire denaro,
comunicazione, diplomazia, per estirpare l’idea che la guerra possa essere la
soluzione”.
La critica si intreccia con le ultime mosse dell’industria della difesa.
Leonardo, il grande gruppo italiano dell’aerospazio, ha presentato in questi
giorni un nuovo sistema antimissile battezzato “Cupola di Michelangelo”, o
Michelangelo Dome: un apparato integrato che richiama simbolicamente la cupola
michelangiolesca di San Pietro e tecnicamente l’Iron Dome israeliano.
Montanari commenta: “La Leonardo chiama il nostro sistema di difesa che
bisognerà costruire la cupola di Michelangelo, la Leonardo che fa la cupola di
Michelangelo. Da storico dell’arte ho un senso di nausea“.
Lilli Gruber ricorda che, secondo Crosetto, il nuovo sistema richiederà
investimenti per 4,4 miliardi di euro nei prossimi anni. Il rettore rilancia:
“Intanto vorrei capire se il Papa, proprietario della cupola di Michelangelo, di
San Pietro, che ha parlato di una pace disarmata e disarmante, sia proprio
contento di quest’uso. Però tutto questo ci dice qualcosa: il generale di De
Gregori dice che la guerra è bella anche se fa male. Il messaggio che ci mandano
è questo: dobbiamo militarizzarci. Ha detto anche che l’università deve far
parte di un sistema che prepara la guerra. No, l’università prepara la pace.”
Montanari mette in dubbio anche l’efficacia della leva volontaria come strumento
di difesa nelle guerre ibride: “Ora, il punto è questo: cosa veramente vogliamo?
La deterrenza militare serve se siamo disposti a farla la guerra. E chi la farà
la guerra? L’ammiraglio Cavo Dragone dice che possiamo scagliare degli attacchi
preventivi, cioè il responsabile della struttura militare della Nato: degli
attacchi preventivi che però si possono considerare difensivi.
E conclude: “Anche questo vorrei capire: se è la guerra ibrida, ci servono
10.000 soldati di leva, che non avranno nessun ruolo nella difesa cibernetica
evidentemente? Cioè, c’è in realtà da un punto di vista culturale il tentativo
di far passare l’idea che la guerra non abbia alternative. Ma quando succede
questo, alla fine la guerra si fa davvero, la storia dice questo.”
L'articolo Montanari a La7: “La leva volontaria prepara l’opinione pubblica
all’idea che la guerra sia normale” proviene da Il Fatto Quotidiano.
La crisi geopolitica innescata dalla guerra, arrivata quasi al quarto anno,
della Russia contro l’Ucraina ha scatenato una corsa europea al riarmo che sta
compromettendo le relazioni anche tra membri della Nato, seppur da sempre in
rapporti difficili. È il caso della Grecia e Turchia. Funzionari turchi hanno
dichiarato che, pur essendo fermamente impegnata a trasformare il Mar Egeo in
una zona di pace e stabilità, la Turchia neutralizzerà risolutamente qualsiasi
minaccia, in risposta ai recenti commenti del ministro della Difesa greco, Nikos
Dendias, sui piani di Atene di schierare missili sulle isole dell’Egeo. “Tutti
gli sviluppi nella nostre regioni, comprese le attività militari della vicina
Grecia, vengono monitorati con attenzione. Come sottolineiamo costantemente, la
nostra priorità principale è la pace e la stabilità della nostra regione,
incluso il Mar Egeo. Ci assumiamo le nostre responsabilità di conseguenza e ci
aspettiamo dalla Grecia che persegua lo stesso approccio costruttivo”, hanno
dichiarato ai giornalisti fonti del ministero della Difesa turco il 4 dicembre.
Le osservazioni del ministero hanno fatto seguito alla dichiarazione di Dendias
su una nuova dottrina di difesa greca che include l’armamento delle isole
dell’Egeo con missili a guida di precisione, forniti principalmente da Israele.
La nuova dottrina greca viene considerata ostile dalla Turchia, che sta
rafforzando le proprie capacità difensive e di deterrenza in una regione densa
di conflitti armati. Il Mar Nero su cui si affacciano la Turchia, l’Ucraina e la
Russia, dopo l’annessione unilaterale della Crimea, è oggi uno dei luoghi dove
già si scontrano gli interessi non solo di questi paesi.
Le fonti hanno descritto le dichiarazioni come esagerate, irrealistiche e
fantasiose, senza altro scopo se non quello di danneggiare il clima positivo
basato su un accordo tra i leader dei due Paesi, il presidente Recep Tayyip
Erdogan e il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis. “Le Forze Armate turche
non rappresentano una minaccia per nessuno. Hanno, tuttavia, la forza e la
determinazione per eliminare qualsiasi minaccia che possa essere diretta contro
il nostro paese. Tutti i tentativi di prendere di mira la Turchia sono falliti
in passato e sono destinati a fallire in futuro”, hanno aggiunto le stesse
fonti.
Dendias, noto per le sue dichiarazioni incalzanti sulla Turchia fin dai tempi in
cui era ministro degli Esteri, in un discorso a margine di una conferenza
intitolata “Grecia in una prospettiva globale”, ha sostenuto che la Turchia
rappresenta la più grande minaccia per la Grecia e che sono necessarie misure
militari concrete per contrastarla. Ha affermato che, nell’ambito di una nuova
dottrina, la Grecia continuerà i suoi ambiziosi sforzi in materia di armamenti e
schiererà missili in molte isole greche, a costo di violare il diritto
internazionale. “L’Egeo non sarà protetto solo dalla Marina, bensì,
principalmente, da sistemi missilistici mobili dispiegati su centinaia, se non
migliaia, di isole. Sigilleremo il Mar Egeo dalla terraferma. Questo libererà
anche le operazioni navali dalla limitazione a questo stretto braccio di mare”,
ha affermato.
Erdogan e Mitsotakis nel 2023 avevano firmato la cosiddetta Dichiarazione di
Atene incentrata sulla volontà di mantenere buoni rapporti tra Turchia e Grecia
ed evitare passi che creerebbero nuove tensioni nell’Egeo e nel Mediterraneo.
Nel frattempo, la Turchia ha convocato alti diplomatici ucraini e russi presso
il ministero degli Esteri dopo i recenti attacchi alle petroliere che navigavano
nel Mar Nero. Anche se gli attacchi sono avvenuti in acque internazionali, sulla
base della Convenzione di Montreux del 1936, la Turchia ha piena sovranità e
responsabilità sugli Stretti (Bosforo e Dardanelli), potendo controllare il
passaggio delle navi da guerra in tempo di guerra, pur garantendo la libera
circolazione delle navi civili e mercantili in tempo di pace, rendendola un
attore chiave nella geopolitica regionale.
Secondo le informazioni ottenute dall’agenzia Anadolu, funzionari turchi hanno
espresso all’ambasciatore ucraino Nariman Celal e all’incaricato d’affari russo
Aleksei Ivanov la preoccupazione di Ankara. Il portavoce del ministero degli
Esteri turco, Öncu Keçeli, ha dichiarato in un post su X che gli attacchi alle
navi Kairos e Virat sono avvenuti all’interno della zona economica esclusiva
della Turchia e hanno rappresentato gravi rischi per la navigazione, la vita, la
proprietà e la sicurezza ambientale nella regione. “Ankara sta conducendo
colloqui con le parti interessate per impedire l’estensione della guerra contro
l’Ucraina attraverso il Mar Nero e per proteggere gli interessi economici della
Turchia”, ha aggiunto Keçeli.
Allo stesso tempo, la Turchia sta portando avanti le proprie attività
nell’ambito del Black Sea Mine Countermeasures Task Group (MCM Black Sea), una
missione co-fondata con Romania e Bulgaria.
L'articolo Mar Egeo, sale la tensione tra Grecia e Turchia. Il ministro degli
Esteri di Ankara: “Neutralizzeremo qualsiasi minaccia” proviene da Il Fatto
Quotidiano.
Ha raccontato la sua storia e il suo percorso migratorio insieme ad Alessandro
Baldini, nel libro Dalla terra del dio serpente al C.A.R.A Milano. Kalid Abaker
è arrivato in Italia dal Sudan nel 2017 e oggi vive a Vigevano con la moglie e
una figlia di quattro anni. Laureato in statistica, ha 37 anni, lavora e studia
Data Science all’Università Bicocca di Milano.
Dal Sudan, dove era impiegato con l’Unicef, è dovuto fuggire per motivi
politici, perché perseguitato dal regime. Il primo viaggio, nel 2013, è finito
in un carcere libico, da dove è fuggito, dopo quattro mesi, per tornare di nuovo
nel suo Paese. Dopo aver lavorato lì due anni ha provato di nuovo, sempre
passando per la Libia e poi con un barcone fino in Italia.
Oggi, oltre a lavorare e studiare, Kalid Abaker è direttore per l’Italia di
Support Survivors of African War, un’evoluzione del progetto “Support survivors
of Sudan War”, dedita al supporto dei sopravvissuti delle guerre africane, con
il progetto Sudan come obiettivo primario e punto di partenza.
Il progetto è concreto e mira a supportare sul territorio africano e in
particolare sudanese rifugiati, donne e bambini. “Mettersi in contatto con le
persone in Sudan è difficile”, spiega Kalid Abaker, “ma noi dobbiamo fisicamente
sostenere le persone sfollate dalle loro case. E lo facciamo, ad esempio,
mandando un container di aiuti umanitari, che includono materiali scolastici,
beni e medicine. Su questo fronte ci hanno aiutato alcune associazioni, come
Mediterranea e il Banco farmaceutico di Milano. Vogliamo raggiungere le persone
che vivono nei campi, che sono fuggite per andare nei campi rifugiati di
Abougoudam e Adaré nella città di Abashè, dove ci sono più di quattro milioni di
persone. Non solo. Stiamo realizzando un ulteriore progetto più grande, basato
sempre sullo studio della situazione di coloro vivono nei campi profughi e che
partirà a gennaio, sempre un aiuto direttamente sul posto. Grazie a Mediterranea
e Rescue Team”.
L’associazione assorbe tante energie: Kalid Abaker lavora fino alle sedici, poi
dopo quell’orario si dedica a tutti gli aspetti organizzativi. “Siamo un
centinaio di volontari”, spiega, “la maggior parte sudanesi, ma ci sono anche
italiani. Inoltre, sono anche segretario del Coordinamento italiano delle
Diaspore per la Cooperazione Internazionale (CIDCI) creato due anni fa. Noi come
associazione abbiamo aderito al Coordinamento in Lombardia”.
Occuparsi di guerra in Sudan non è facile. L’attenzione pubblica, infatti, è
soprattutto focalizzata su Gaza. “Sì, è così e infatti questo tema lo abbiamo
sempre portato avanti. Abbiamo sofferto moltissimo per la guerra del Sudan,
anche perché non ne parla nessuno. Per questo quando abbiamo iniziato abbiamo
subito pensato di fare una cosa di advocacy, parlando di ‘guerra silenziosa’.
Sono andato in giro per l’Italia a fare conferenze e incontri, ma anche in
Francia e in Germania. Il problema è che si tratta di una guerra civile, non è
una guerra di aggressione, non c’è un attacco da un’altra nazione, non è come
l’Ucraina o la Striscia di Gaza, ma c’è lo stesso dolore, anche se la soluzione
dovrebbe essere interna. Noi non chiediamo di intervenire, ma di non ignorare la
sofferenza che è uguale anche se la guerra è civile. Piano piano per fortuna
siamo riusciti a dare questa visione alla maggior parte degli italiani, si sa
cosa sta accadendo, grazie anche alle associazioni che ci hanno aiutato”.
L’idea di Kalid Abaker e di “Support Survivors of African War” è quella di far
diventare il loro progetto un progetto pilota, “che possa poi aiutare Paesi
africani con caratteristiche simili al Sudan in cui ci siano profughi: Egitto,
Etiopia, e anche per il Congo stiamo cercando di capire come trattare, anche lì
dobbiamo cercare di provare qualche strategia per aiutare i congolesi. Quello
che vogliamo è avere una visione, questa è la cosa più importante, anche per
coinvolgere le persone della diaspora nell’associazione, perché non dimentichino
il loro Paesi di origine. Il Sudan non si conosce, Gaza sì, anche perché la
situazione di conflitto c’è da tanti anni. Noi”, conclude Kalid Abaker,
“cerchiamo di lavorare su questo doppio fronte. Aiuto materiale, concreto. E
advocacy, perché tutti possano conoscere la situazione nel mio, nostro Paese”.
L'articolo Kalid Abaker e la guerra silenziosa in Sudan: “Con Support Survivors
of African War portiamo aiuti dove i riflettori sono spenti” proviene da Il
Fatto Quotidiano.
Negli stessi giorni in cui il Parlamento europeo votava prima (26 novembre) per
respingere le modifiche al piano di riarmo dei paesi Ue, ammettendo in esso
anche le cosiddette “armi controverse”, ossia le bombe all’uranio impoverito, al
fosforo bianco, i killer robot ed altri simili ordigni di sterminio e dopo (27
novembre), a larghissima maggioranza, per respingere il “piano di pace” di Trump
perché “la pace non può essere raggiunta cedendo all’aggressore, bensì fornendo
un sostegno risoluto e costante all’Ucraina e dissuadendo in maniera adeguata la
Russia dal ripetere tale aggressione in futuro”, in quegli stessi giorni e sugli
stessi temi Edgar Morin – 104 anni lo scorso luglio – scriveva alcune note,
pubblicate in Italia su il manifesto e ytali. (28 novembre). Meritano essere
citate, per segnare la pericolosa distanza tra chi ha lo sguardo lungo, lucido e
libero e gli attuali decisori europei, insieme a gran parte dei media.
“È con stupore – scrive Morin – che una parte degli umani considera il corso
catastrofico degli eventi, mentre un’altra parte vi contribuisce con
incoscienza. (…) La visione unilaterale dei media ignora che l’Ucraina è stata
una posta in gioco fra l’impero americano e l’impero russo. Prima di Trump, gli
Usa avevano satellizzato economicamente, tecnologicamente e militarmente
l’Ucraina, la quale sarebbe stata una pistola puntata alla frontiera russa, se
fosse passata sotto il controllo della Nato. I nostri media non soltanto
sottolineano l’imperialismo russo, ma immaginano che questo potrebbe invadere
l’Europa, laddove è peraltro incapace di annettere l’Ucraina in tre anni di
guerra. (…) Invece che spingere i due nemici a negoziare, e a stabilire un
compromesso sulle basi che ho appena menzionato [qui fa riferimento alle
proposte del libro Di guerra in guerra del 2023, nda], gli europei
contribuiscono alla escalation. (…) Infine noi dobbiamo cercare di pensare la
policrisi dell’umanità nelle sue complessità e nei suoi orrori, e dovremmo agire
nelle incertezze, ma con l’intenzione di salvare l’umanità dalla
autodistruzione”.
Invece, nei giorni precedenti (21 novembre) il Capo di Stato maggiore francese,
generale Fabien Mandon, parlando all’assemblea del Sindaci francesi (merito dei
militari è il parlare chiaro) aveva detto che devono preparare le rispettive
città a “perdere i figli in guerra” ed anche “a soffrire economicamente perché
la priorità deve essere la produzione militare”: solo così ci si prepara al
prossimo conflitto armato con la Russia, che il documento strategico nazionale
francese prevede tra il 2027 e il 2030. Per questo una settimana dopo (27
novembre) Macron ha annunciato che dalla prossima estate partirà per i giovani
francesi il servizio militare di leva, inizialmente su base volontaria, che
sostituisce il Servizio Universale Nazionale che poteva essere anche civile.
Per non essere da meno, anche il ministro italiano della difesa Crosetto ha
annunciato il disegno di legge per istituire, con un ossimoro, una “leva
militare volontaria” anche nel nostro paese, similmente a quanto sta avvenendo
in Francia e in Germania (dove è già previsto che possa diventare obbligatoria),
per reclutare almeno altri 10.000 giovani italiani come forza di riserva, in
aggiunta ai 170.000 militari già nelle Forze Armate. Naturalmente, come
evidenziato dalla recente ricerca del Censis, gli italiani sono fortemente
contrari sia alla prospettiva di coinvolgimento bellico del nostro Paese, per
questo nessuno evoca il ripristino tout court della leva militare obbligatoria,
al momento sospesa, che non sarebbe pagante in termini di consenso elettorale.
Però è evidente che, in tutta Europa, la direzione è quella di reclutare nuova
massa per la guerra, ossia “carne da cannone” per l’”attacco preventivo” alla
Russia che sta preparando la Nato, come esplicitato dal generale
Cavo Dragone, presidente del Comitato militare dell’Alleanza atlantica. Al quale
bisogna rispondere con la storica formula: “Non un un soldo, né un soldato per
la guerra”.
Perché questo non sia solo uno slogan da cantare nei cortei pacifisti ma diventi
azione politica, e non potendo dichiararsi formalmente obiettori di coscienza, è
necessario sottoscrivere personalmente la dichiarazione di obiezione alla
guerra, promossa dalla Campagna del Movimento Nonviolento che – mentre nella
dimensione internazionale sostiene obiettori di coscienza e disertori di tutti i
fronti delle guerre in corso (1.500.000 ucraini sono considerati “ricercati” dai
centri di reclutamento) – nella dimensione interna promuove il rifiuto
preventivo e individuale di partecipare a qualsiasi forma di preparazione della
guerra, a cominciare proprio dal rifiuto della chiamata alle armi.
E’ una campagna che risponde al compito che ci indica Morin per “salvare
l’umanità dall’autodistruzione”, ma anche alle indicazioni di un altro grande
saggio del ‘900, Norberto Bobbio, difronte alla precedente corsa agli armamenti:
“Saremo i più forti se saremo uniti, se saremo solidali almeno su un punto
essenziale: non vi è conflitto che non possa essere risolto con le armi della
ragione, specie in questo mondo in cui a causa dell’interdipendenza di tutte le
questioni internazionali, la violenza chiama violenza in una catena senza fine.
Saremo i più forti se riusciremo ad ubbidire alla voce che nasce dal profondo
del nostro animo e che ci suggerisce questo nuovo comandamento: Disarmati di
tutto il mondo, uniamoci” (Il terso assente, 1989). Per difenderci dalla guerra,
anziché nella guerra.
L'articolo Edgar Morin contro riarmo ed escalation militare: non un soldo, né un
soldato per la guerra proviene da Il Fatto Quotidiano.
La nuova riforma dell’esercito nazionale tedesco annunciata dall’esecutivo non
piace agli studenti, che venerdì scenderanno in piazza in oltre 60 città del
Paese per manifestare la loro contrarietà. Il governo del compromesso tra Spd e
Cdu ha deciso di rendere “più attraente” il servizio militare volontario,
introducendo un questionario da compilare obbligatoriamente per i 18enni di
sesso maschile e l’eventualità di attivare la coercizione obbligatoria (forse su
estrazione casuale) se non si raggiungesse l’alto numero di volontari previsto,
previo voto parlamentare. Idea che sembra essere condivisa anche dal ministro
Crosetto e dal governo francese.
“Non vogliamo finire carne da cannone” hanno fatto sapere gli studenti in un
post Instagram. I giovani si ritroveranno in più di 60 città della repubblica
federale venerdì 5 dicembre. Coinvolte (tra le altre) Berlino, Bonn, Treviri,
Norimberga, Lipsia, Dresda e Monaco. Nel sito web della piattaforma Schulstreik
gegen Wehrpflicht i ragazzi fanno riferimento al diritto di vivere in pace e
citano l’articolo 4, comma 3 della Legge fondamentale che sancisce la libertà di
coscienza e nega la costrizione contro volontà al servizio militare. La
questione più spinosa riguarda la possibilità di cambiare la legge e rendere
obbligatorio il servizio. “Se non vuoi arruolarti nella Bundeswehr, non devi
farlo, almeno non adesso” era stata la dichiarazione del ministro della difesa
tedesco Pistorius alla Zdf, apparentemente distensiva ma con un retrogusto
inquietante.
Lo sciopero è sostenuto anche da partiti di sinistra come Die Linke e Bsw. Sul
sito web dell’organizzazione si legge “Notiziari, politici o talk show, tutti
parlano o discutono su come reintrodurre la leva militare ma nessuno ci parla e
ci chiede cosa vogliamo e cosa ne pensiamo. Ma siamo noi quelli colpiti! Ecco
perchè li costringiamo ad ascoltare”.
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venerdì scioperano in più di 60 città proviene da Il Fatto Quotidiano.
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