Più chiarezza su categorie, nomi da utilizzare, soglie d’investimento. Una bella
spruzzata di semplificazione, che va tanto di moda a Bruxelles ed è (molto)
apprezzata dagli operatori. Ma, si sa, il diavolo sta nei dettagli, per cui è
probabilmente sui settori da escludere – senza se e senza ma, come chiedono in
molti – che si vedrà se nel trilogo si riuscirà a mantenere la barra dritta. In
estrema sintesi sono questi i punti salienti della proposta di revisione della
Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr) appena presentata dalla
Commissione Ue. È la regolamentazione sull’informativa sulla sostenibilità per
il settore finanziario in vigore da marzo 2021. Che ha rappresentato il primo
tassello andato a regime del piano d’azione sulla finanza sostenibile varato
dalla Commissione Ue a marzo 2018. Il cammino della Sfdr non è stato esente da
problemi, perché il mercato l’ha considerata un “bollino” mentre si tratta di
un’auto-certificazione sulle caratteristiche di sostenibilità di un prodotto
finanziario. Da qui la necessità di rivederla.
Nella proposta pubblicata il 20 novembre ci sono luci e ombre. Per i prodotti
finanziari va in soffitta la precedente distinzione tra gli articolo 8 (light
green, con caratteristiche sociali o ambientali) e gli articolo 9 (dark green,
più ambiziosi, con obiettivi di sostenibilità). A sostituirla è una
classificazione in tre categorie: “transizione”, “sostenibile” e “Esg basics”,
differenziate per obiettivi d’investimento e per settori e attività economici
esclusi. Ogni prodotto dovrà garantire che almeno il 70% degli investimenti sia
allineato con gli obiettivi dichiarati e solo quelli che rientreranno in queste
categorie potranno utilizzare terminologia di tipo Esg nei nomi e nel marketing.
Viene riconosciuto per la prima volta nell’ordinamento Ue l’investimento a
impatto (all’interno delle categorie “transizione” e “sostenibile”) come pratica
distinta di finanza sostenibile, il che ha fatto esultare le organizzazioni
europee che promuovono l’impact investing come Social Impact Agenda per
l’Italia.
Di contro viene eliminata la definizione di investimento sostenibile, che pur
farraginosa aiutava a comprendere di cosa si parla. Via anche una serie di
obblighi informativi, per alleggerire gli operatori e con la speranza di rendere
le informazioni più comprensibili a chi sceglie dove investire. Quanto alla
soglia del 70%, i prodotti “transizione” e “sostenibile” potranno by-passarla se
dimostreranno un allineamento del 15% alla tassonomia Ue sui settori e attività
considerati sostenibili (che include gas e nucleare).
Veniamo al nodo esclusioni, probabilmente il più rilevante. Tutte e tre le
categorie di prodotti devono escludere le società del tabacco, quelle che
violano standard internazionali (Onu, Ocse) e quelle coinvolte in attività
legate a armi controverse. Solo che il Parlamento Ue ha appena dato luce verde
alla proposta della Commissione di restringere il campo delle “armi vietate”,
aprendo le porte alla possibilità di investire in modo sostenibile in armi fino
a ieri bollate come “controverse”. Quanti saranno d’accordo? La Cei, ad esempio,
ha chiesto di prendere le distanze anche finanziariamente dalle aziende di
armamenti. E si sa che il ruolo degli investitori faith-based è sempre stato
centrale nella finanza sostenibile e prima ancora nella sua progenitrice, la
finanza etica.
Poi ci sono le fonti fossili. Di nuovo, tutt’e tre le categorie devono escludere
aziende legate al carbone. Ma solo i prodotti “transizione” e “sostenibile”
devono escludere anche aziende oil&gas, in particolare quelle che progettano di
espandere la produzione. Su questo si è concentrata la critica della Ong
francese Reclaim Finance, uno dei watchdog europei più inflessibili in materia.
Che nel complesso ha accolto positivamente la proposta della Commissione, ma che
insieme a oltre un centinaio di organizzazioni ed esperti aveva chiesto di
escludere da tutte le categorie le società che sviluppano nuovi progetti
fossili. Una richiesta allineata, ancora, agli investitori faith-based, che sono
i principali protagonisti – specie quelli cattolici, coordinati dal Movimento
Laudato Si’ – del movimento globale per il disinvestimento dalle fonti fossili.
Che la SFDR 2.0 abbia rimesso al centro le esclusioni è forse il suo elemento
più positivo. Del resto la finanza etica è nata così, dicendo dei “no” che
lanciano messaggi chiari al piccolo risparmiatore che vuole investire per
promuovere lo sviluppo sostenibile o affermare certi valori. E che di solito non
la prende bene se scopre che i suoi soldi vanno ad aziende che producono armi
all’uranio impoverito o trivellano a tutto spiano.
Non ci sono scadenze per raggiungere l’accordo politico sulla nuova
regolamentazione. È prevedibile che l’iter di negoziazione avrà una navigazione
agitata e prima del 2028 con ogni probabilità non cambierà nulla. Ma non bisogna
dimenticare le origini della Sfdr, che è figlia di un’altra epoca, risale a due
legislature europee fa, a ben prima della guerra in Ucraina e delle sue
conseguenze. Cioè a quando la credibilità della finanza sostenibile non era
stata ancora presa a martellate dal greenwashing dilagante, per aver in sostanza
spostato l’attenzione dai “no” ai “sì” allargando le maglie dei suoi criteri
ambientali, sociali e di governance al punto che ormai vi rientra tutto o quasi.
Se la Sfdr 2.0 si manterrà fedele all’impianto originario, per la finanza
sostenibile sarà una sorta di salutare ritorno alle origini.
L'articolo Finanza sostenibile, cosa c’è nella proposta di revisione delle
regole Ue. Il nodo delle armi controverse e delle aziende dell’oil&gas proviene
da Il Fatto Quotidiano.