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“Sussidiaria di Hamas”. Gli Stati Uniti valutano di contrassegnare l’Unrwa come “organizzazione terrorista”
L’amministrazione Trump conferma quanto evidenziato in passato: non si fida dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per il sostegno ai rifugiati palestinesi in Medio Oriente creata nel 1949, e medita di contrassegnarla – o di individuare in modo specifico alcuni suoi funzionari – come organizzazione terrorista per le sue infiltrazioni da parte di Hamas, a sua volta così designata dal 1997. Che questa dicussione sia in una fase avanzata lo hanno confermato due fonti all’agenzia Reuters. Il punto di snodo è il massacro del 7 ottobre 2023 eseguito dai miliziani che ha provocato 1.200 morti e la cattura di centinaia di ostaggi, nella maggior parte dei casi civili. Israele alla fine di gennaio 2024 ha presentato un rapporto con il quale indica una dozzina di dipendenti dell’Unrwa come fiancheggiatori degli stragisti, sostenendo che sette di loro hanno partecipato all’assalto in territorio israeliano, e due hanno avuto un ruolo nei rapimenti degli ostaggi. Il dossier contiene anche la documentazione filmata del rapimento del corpo di Jonathan Samerano, nel kibbutz Be’eri, e la testimonianza di uno degli ostaggi rilasciato alla fine del novembre 2023, che ha raccontato di essere stato tenuto nell’abitazione di un dipendente dell’Unrwa. Inoltre, un ufficiale di Hamas dislocato in Libano e ucciso da Israele lo scorso settembre, risultava impiegato nell’Unrwa. Lo Stato ebraico ha denunciato l’utilizzo da parte di Hamas di scuole, strutture e veicoli dell’organizzazione delle Nazioni Unite per nascondere miliziani, e scorte di munizioni. Diversi Paesi occidentali hanno congelato i fondi indirizzati all’Unrwa e l’Onu il 5 agosto 2024 ha presentato la sua indagine su 19 impiegati, che ha portato al licenziamento di nove dipendenti; ma, nel complesso, le Nazioni Unite hanno continuato a sostenere l’Unrwa, che opera, oltre che nella Striscia di Gaza, anche in Cisgiordania, Libano, Siria e Giordania. Gli Stati Uniti sono stati tra quei Paesi che hanno sospeso i finanziamenti da gennaio 2024 e da quel momento la presa di posizione della Casa Bianca è stata netta. Washington ha emanato un ordine esecutivo in cui afferma che “l’Unrwa sarebbe infiltrata da membri di gruppi da tempo designati dal Segretario di Stato come organizzazioni terroristiche straniere e che suoi dipendenti sarebbero stati coinvolti nell’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023”. In aprile la Corte internazionale di giustizia ha chiesto a Israele di collaborare con l’organizzazione delle Nazioni Unite, ma l’amministrazione Trump ha nuovamente sostenuto il parere negativo dello Stato ebraico, Israele, affermando che non aveva alcun obbligo di collaborare con l’agenzia e che aveva “ampie ragioni per mettere in dubbio l’imparzialità dell’Unrwa”. Si arriva così in ottobre, quando il Segretario di Stato, Marco Rubio ha accusato l’agenzia di essere diventata una “sussidiaria di Hamas”. Come gli Stati Uniti intendano procedere – se colpire l’intera agenzia o alcuni funzionari – non è chiaro. La designazione di “organizzazione terroristica”, utilizzata per gruppi che uccidono civili, come nei casi di Al Qaeda, Hamas, e Isis, potrebbe essere convertita in un provvedimento del Dipartimento di Stato e altre agenzie federali, mirato a congelare i beni o vietare spostamenti a funzionari Unrwa. L’agenzia delle Nazioni Unite non è l’unica a finire nel mirino di Trump. Ieri la sua amministrazione ha sollecitato la Corte penale internazionale (Cpi) a modificare il suo statuto per garantire che non indaghi sul presidente repubblicano e i suoi collaboratori, interrompere le indagini sui leader israeliani in merito al conflitto nella Striscia di Gaza dopo il 7 ottobre e porre fine a una precedente inchiesta sui militari americani per le loro azioni in Afghanistan. Come ha riportato Reuters, se la Corte non darà seguito a queste tre richieste, Washington potrebbe penalizzare funzionari della Cpi e sanzionare la corte stessa. L'articolo “Sussidiaria di Hamas”. Gli Stati Uniti valutano di contrassegnare l’Unrwa come “organizzazione terrorista” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’Onu: “Sono le persone più vulnerabili a pagare il prezzo delle crisi globali. Servono 47 miliardi di fondi”
Tom Fletcher, Sottosegretario Generale Onu per gli Affari Umanitari e Coordinatore degli Aiuti d’Emergenza lancia il Global Humanitarian Overview 2025 in cui si sottolinea che “ il mondo è in fiamme” e per spegnerle non bastano più proclami di buona volontá, ma servono più fondi per aiutare le centinaia di milioni di persone che si trovano a vivere nelle tante aree di crisi sparse in tutto il pianeta. La realtà, a detta del Sottosegretario, e dell’evidenza, è, di conseguenza, un intricato groviglio di crisi diverse che si alimentano a vicenda. Insomma una policrisi a livello globale. “E sono le persone più vulnerabili del mondo a pagarne il prezzo. Abbiamo a che fare con l’impatto di conflitti, conflitti multipli e crisi di più lunga durata e di più intensa ferocia. Abbiamo a che fare anche con gli impatti della crisi climatica. E sorvolando il Ciad la scorsa settimana, ho potuto constatare di persona come le popolazioni già esposte alla povertà siano ora esposte anche a inondazioni e siccità. In terzo luogo, stiamo affrontando anche l’impatto della crescente disuguaglianza”. Questa combinazione – conflitto, clima e disuguaglianza – crea la tempesta perfetta dentro cui ci troviamo. Nel rapporto dell’Ocha vengono analizzati tre dati: Il primo numero è 305 milioni. Si tratta del numero di persone in grave difficoltà che l’agenzia ritiene abbiano bisogno di aiuto nel prossimo anno. Il secondo: 47 miliardi ovvero i fondi che è necessario raccogliere e il terzo è 190 milioni, il numero di persone da raggiungere con gli aiuti entro la fine dell’anno. “Credo che dobbiamo reimpostare il nostro rapporto con chi ha più bisogno sul pianeta. Credo che sia necessario un aumento della solidarietà globale, ed è per questo che mi vergogno di questi numeri che, come comunità mondiale, come comunità internazionale, abbiamo lasciato salire a questo livello. Ed è per questo che, francamente, ho paura – e voi in questa sala lo sapete molto meglio di me – di tornare l’anno prossimo su questa poltrona a dire le stesse cose, ma con numeri leggermente più grandi. E questo mi riempie davvero di paura, perché dietro ognuno di questi numeri c’è un individuo, una persona”, ha affermato in modo accorato Fletcher. Ma c’è anche speranza, spiega il neo Sottosegretario Generale e ERC (Coordinatore degli Aiuti d’Emergenza): “ Speranza perché nell’ultimo anno abbiamo sostenuto 116 milioni di persone”. Una cifra grande ma piccola per la mole miliardaria di bisognosi. E la speranza, o l’illusione, il Sottosegretario dice di averla appena provata grazie alle persone che ha incontrato in Sudan nel corso della sua prima visita di ruolo nel luogo della più grande crisi umanitaria del mondo. “Persone come Mama Nour, di cui ho visitato il centro, che aiuta donne che hanno subito più volte le più orribili violenze sessuali e che pensano che il mondo le abbia dimenticate” Il messaggio di questa gente, riportato a noi da Fletcher è: “Non arrendetevi con noi perché abbiamo ancora speranza”. Ma la loro attesa, per non appassire, deve tradursi in aiuti concreti. La loro speranza deve essere basata su numeri e su progetti. Non può essere puro idealismo e velleità. “Questa è la nostra stella polare per il prossimo anno. Questa sarà la guida del nostro lavoro, non solo come sistema umanitario, ma come movimento umanitario, come comunità umanitaria. Perché questo lavoro è troppo grande perché la famiglia delle Nazioni Unite possa affrontarlo da sola: abbiamo bisogno di una coalizione più ampia che ci aiuti a rispondere a chi ne ha più bisogno”, si legge al termine del rapporto. L'articolo L’Onu: “Sono le persone più vulnerabili a pagare il prezzo delle crisi globali. Servono 47 miliardi di fondi” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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“In Nigeria i cristiani sono presi di mira. Le chiese sono state bruciate, famiglie sono state distrutte”: Nicki Minaj all’Onu sostiene le accuse del presidente Trump
La rapper Nicki Minaj è intervenuta martedì 18 novembre a un evento delle Nazioni Unite organizzato dagli Stati Uniti per mettere in luce la “minaccia mortale” per i cristiani in Nigeria. Il presidente Donald Trump ha affermato che il cristianesimo si trova ad affrontare una “minaccia esistenziale” nella nazione dell’Africa occidentale e ha chiesto al Pentagono di iniziare a prepararsi per una possibile azione militare. Esperti e residenti affermano che alcuni attacchi prendono di mira i cristiani, ma la maggior parte sottolinea che nella diffusa violenza che affligge da tempo la Nigeria, tutti sono potenziali vittime, indipendentemente dal background o dal credo. La Minaj ha ringraziato Trump per aver chiesto un’azione urgente per “fermare la violenza contro coloro che vogliono semplicemente esercitare il loro diritto naturale alla libertà di religione o di credo”. E ancora “per difendere i cristiani in Nigeria, combattere l’estremismo e porre fine alla violenza contro coloro che vogliono semplicemente esercitare il loro diritto naturale alla libertà di religione o di credo”. La rapper è intervenuta a un panel della missione statunitense alle Nazioni Unite, insieme all’ambasciatore statunitense Mike Waltz e ad alcuni leader religiosi. L’evento è avvenuto dopo che la Minaj aveva risposto al post sui social media di Trump sulla Nigeria all’inizio di questo mese, affermando: “Nessun gruppo dovrebbe mai essere perseguitato per aver praticato la propria religione”. In un post di domenica su X, Papa Leone XIV ha affermato che “i cristiani subiscono discriminazioni e persecuzioni in varie parti del mondo, indicando la Nigeria e altri paesi come Bangladesh, Mozambico e Sudan”. Presentando la Minaj, Waltz ha detto: “Sale su questo palcoscenico mondiale non come una celebrità, ma come testimone per mettere in luce la Chiesa perseguitata della Nigeria ai suoi milioni di follower sui social media”. Affermando di essere “molto nervosa” all’idea di parlare davanti al panel, la Minaj ha promesso di continuare a battersi “di fronte all’ingiustizia per chiunque, ovunque, venga perseguitato per le proprie convinzioni. Purtroppo, questo problema non è solo un problema crescente in Nigeria, ma anche in molti altri paesi del mondo”. Infine la Minaj ha affermato di voler chiarire che proteggere i cristiani in Nigeria non significa schierarsi o dividere le persone. “Si tratta di unire le persone – ha detto -. La Nigeria è una nazione meravigliosa con profonde tradizioni religiose che non vedo l’ora di scoprire”. La star del rap ha fatto un riferimento alla musica nel suo discorso, dicendo che l’ha portata in giro per il mondo e ha visto come le persone ovunque si rianimano quando ascoltano una canzone. Per poi concludere: “Libertà religiosa significa che tutti cantiamo la nostra fede, indipendentemente da chi siamo, dove viviamo e in cosa crediamo”. Applausi convinti al congresso per l’artista. L'articolo “In Nigeria i cristiani sono presi di mira. Le chiese sono state bruciate, famiglie sono state distrutte”: Nicki Minaj all’Onu sostiene le accuse del presidente Trump proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Quali sono le città più popolose al mondo? Tokyo nella top 3, ecco la classifica completa dell’Onu
La città più popolosa al mondo? Giacarta, poi seguono Dacca e Tokyo. Questo afferma il rapporto World Urbanization Prospects 2025: Summary Results, pubblicato di recente dal Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite. In linea generale le città, ovvero quello che il rapporto definisce “un ambiente tipicamente urbano”, ospitano il 45% della popolazione globale ovvero 8,2 miliardi di persone. Dal 1950 il numero di persone che vivono nelle città è più che raddoppiato e guardando in prospettiva le stime degli esperti dicono che due terzi della crescita demografica globale sarà nelle città. Il dato più interessante rimane però quello della classifica delle megalopoli, le aree urbane con almeno 10 milioni di abitanti. Nel 1975 le megalopoli erano 8, oggi 33, di cui 19 sono solo in Asia. Infatti la città più popolosa sul pianeta Terra risulta Giacarta, in Indonesia, con quasi 42 milioni di residenti. Al secondo posto c’è Dacca, in Bangladesh, con quasi 40 milioni e terza Tokyo (Giappone) con 33 milioni. Tra le prime dieci megalopoli la prima non asiatica è Il Cairo (Egitto). Mentre fanalino di coda – per modo di dire – al 100esimo posto delle megalopoli c’è Jeddah, in Arabia Saudita, con 4,284 milioni di abitanti. Dulcis in fundo: entro il 2050, dicono ancora gli esperti, è probabile che le megalopoli saliranno a 37 con l’inserimento di città come Addis Abeba (Etiopia), Dar es Salaam (Tanzania), Hajipur (India) e Kuala Lumpur (Malesia) pronte a varcare la fatidica soglia dei 10 milioni di abitanti. L'articolo Quali sono le città più popolose al mondo? Tokyo nella top 3, ecco la classifica completa dell’Onu proviene da Il Fatto Quotidiano.
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Lo storico Kamel stronca il sì dell’Onu al piano Usa su Gaza: “È un brutto giorno per l’autodeterminazione palestinese”
“È un grande giorno per Netanyahu, Hamas e Trump, presidente-pregiudicato che presiederà il ‘Consiglio di pace’. È un brutto giorno per la sicurezza a lungo termine dello Stato di Israele, per l’autodeterminazione palestinese e più in generale anche per le tante persone perbene che ci sono nel nostro mondo”. Con questa frase icastica, Lorenzo Kamel, professore di Storia Internazionale all’Università di Torino, adjunct professor alla Luiss School of Government e finalista del premio nazionale per la divulgazione scientifica con il suo ultimo saggio Israele-Palestina in 36 risposte (Einaudi), commenta la risoluzione 2803 su Gaza, approvata il 17 novembre dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu con 13 voti favorevoli e l’astensione di Russia e Cina. Un voto che rimescola gli equilibri della regione e affida a Donald Trump il controllo della Striscia per due anni attraverso un organismo dai contorni indefiniti, il “Consiglio di Pace”, i cui membri saranno scelti direttamente dal presidente statunitense. Ospite di Effetto Giorno, su Radio24, Kamel mette in evidenza la natura “talmente vaga e talmente arbitraria” del testo, privo di riferimenti alle risoluzioni precedenti e agli accordi che negli ultimi decenni hanno definito il quadro negoziale israelo-palestinese. Nessun cenno agli Accordi di Oslo, che stabiliscono l’unità territoriale di Gaza e Cisgiordania; nessun richiamo alla risoluzione 476 del 1980, con cui il Consiglio di Sicurezza aveva ribadito che l’acquisizione di territori con la forza è inammissibile. La nuova risoluzione, osserva lo storico, “va sostanzialmente in una direzione opposta”, cristallizzando la separazione tra i due territori palestinesi e impedendo all’Autorità nazionale palestinese di avere un ruolo nella Striscia. L’orizzonte politico che ne risulta appare così indeterminato da offrire a Trump e Netanyahu la possibilità di dichiarare insufficiente “qualsiasi sforzo della controparte palestinese”, anche in una situazione ipotetica in cui i palestinesi “divenissero la Norvegia del Medio Oriente”. Kamel ricorda che i paesi arabi che hanno sostenuto la risoluzione sono guidati da “leader corrotti e ricattabili”, a cominciare da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Leader che, osserva, sanno che la loro sopravvivenza politica ed economica “passa dal piegarsi a ciò che gli viene richiesto”, e che si attendono concessioni sostanziali da parte di Trump. Le astensioni di Mosca e Pechino aprono un altro capitolo: “vedremo a breve cosa riceverà, ad esempio, la Russia in cambio del suo mancato veto”, afferma Kamel, lasciando intendere che un ritorno politico non mancherà. Alla domanda del conduttore Alessio Maurizi su come interpretare il via libera dell’ANP e il rifiuto di Hamas, la spiegazione affonda nel quadro che ha dato origine all’Autorità nazionale palestinese. L’ANP nasce dagli Accordi di Oslo del 1993-1995: ne derivano i suoi poteri, la sua legittimità, il suo finanziamento e la sua sopravvivenza amministrativa. Senza Oslo, semplicemente, non esisterebbe. Lo storico conferma questo punto: “L’Autorità nazionale palestinese è totalmente dipendente dal processo di Oslo e il suo capo, Abu Mazen, è un leader totalmente screditato e corrotto che non ha nessuna aderenza con la società palestinese, dunque non ha alternativa se non quella appunto di piegarsi totalmente a quello che gli viene richiesto”. Scaturisce così la sintesi politica del professore: il voto rappresenta “un grande giorno per Netanyahu”, che ottiene un margine di manovra e una via d’uscita anche in caso di ripresa della guerra; “un giorno importante anche per Hamas”, che vede consolidarsi il proprio potere nella parte di Gaza rimasta sotto controllo palestinese; “un grande giorno per Trump”, destinato a presiedere il Consiglio di pace nonostante la condanna inflitta dalla giustizia americana. Al contrario, è “un brutto giorno per ciò che resta di Gaza”, divisa e privata della sua terra coltivabile, “un brutto giorno per la sicurezza a lungo termine dello Stato di Israele”, “un brutto giorno per l’autodeterminazione palestinese” e “un brutto giorno” per chi ha a cuore la causa palestinese. Sul futuro, Kamel intravede uno scenario che richiama quello della Cisgiordania dopo il 1967: un’occupazione “temporanea, fra virgolette”, destinata a protrarsi nel tempo. “Oltre il 50%, il 53% della Striscia di Gaza è occupato dalle autorità israeliane”, spiega, e si tratta della parte più fertile e agricola. La zona sabbiosa e meno produttiva rimane ai palestinesi. Il professore lega questo quadro alle dinamiche in Cisgiordania, definite dagli Accordi di Oslo II del 1995. Le aree A e B, frammentate in 165 isole amministrative, rappresentano poco più del 40% del territorio e resterebbero sotto controllo palestinese; l’area C, il restante 60%, è la porzione strategica: risorse idriche, terra fertile, spazio per gli insediamenti. Se figure come Bezalel Smotrich continueranno a guidare la linea del governo israeliano, avverte Kamel, si tenterà di “smuovere il più possibile e di espellere la popolazione palestinese dall’area C”. Il risultato sarebbe una mappa in cui i palestinesi mantengono soltanto le aree A e B della Cisgiordania e la parte sabbiosa costiera di Gaza, mentre la porzione vitale dal punto di vista agricolo, idrico e strategico rimane sotto controllo israeliano. L'articolo Lo storico Kamel stronca il sì dell’Onu al piano Usa su Gaza: “È un brutto giorno per l’autodeterminazione palestinese” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’Onu vota a favore del piano di Trump per Gaza. Waltz: “Risoluzione storica. Inizio di un nuovo corso per il Medio oriente”
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato a favore del piano di pace di Donald Trump per Gaza, che include in particolare il dispiegamento di una forza internazionale, sotto la pressione degli Stati Uniti, che hanno messo in guardia dal rischio di una nuova guerra. Tredici membri hanno votato a favore del testo, che l’ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite Mike Waltz ha descritto come “storico e costruttivo”. Russia e Cina si sono astenute. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha elogiato l’appoggio del Consiglio al suo proposto definendolo “Consiglio per la Pace“, affermando al pubblico durante un discorso a Washington che l’organismo, che a suo dire includera’ lui stesso e i leader di “nazioni molto importanti e rispettate”, rappresenta “una delle cose più importanti che le Nazioni Unite faranno mai”. L'articolo L’Onu vota a favore del piano di Trump per Gaza. Waltz: “Risoluzione storica. Inizio di un nuovo corso per il Medio oriente” proviene da Il Fatto Quotidiano.
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L’Onu approva il piano Usa per Gaza grazie all’astensione di Russia e Cina: governo transitorio in vista di uno Stato palestinese
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato ieri sera intorno alle 23 il piano statunitense per Gaza. Prevede una forza internazionale di stabilizzazione per garantire la sicurezza e – sulla carta – il disarmo di Hamas, aprendo alla nascita di uno Stato palestinese indipendente. La Russia, che aveva presentato una risoluzione concorrente, si è astenuta insieme alla Cina nel voto conclusosi con 13 voti a favore e nessuno contrario. Gli Stati Uniti e altri paesi speravano che Mosca non avrebbe usato il suo diritto di veto nell’organo più potente delle Nazioni Unite per bloccare l’adozione della risoluzione. Il voto è stato un passo cruciale per il fragile cessate il fuoco e per gli sforzi volti a delineare il futuro di Gaza dopo due anni di guerra tra Israele e Hamas. In un comunicato rilanciato dall’agenzia Wafa, l’Autorità palestinese di Mahmoud Abbas ha sottolineato la necessità che la risoluzione venga attuata “immediatamente sul terreno” allo scopo di garantire “il ritorno alla normalità” e la protezione della “nostra popolazione nella Striscia di Gaza”, facilitando la ricostruzione e “bloccando il processo di indebolimento della soluzione dei due stati”. GOVERNO TRANSITORIO IN VISTA DELLO STATO PALESTINESE Il testo – modificato più volte durante i delicati negoziati tra i Quindici – autorizza la formazione di un “board of peace”: un organo di governo transitorio fino al 31 dicembre 2027, presieduto da Trump, in attesa della riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese. Con una rinnovata leadership politica e la ricostruzione del territorio a buon punto, “potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la sovranità palestinese”. A premere per il rapido passaggio della risoluzione sono stati gli Usa, l’Autorità Palestinese, oltre ai paesi arabo-musulmani più importanti: Qatar, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Indonesia, Pakistan, Giordania e Turchia. L’ambasciatore americano all’Onu Mike Waltz ha definito “storica” la risoluzione Usa adottata dal Consiglio di Sicurezza, salutando “l’opportunità di porre fine a decenni di spargimento di sangue e rendere realtà una pace duratura”. Con il sì alla risoluzione, può iniziare la fase due del piano di pace, quella più difficile, dopo la tregua: ovvero lo scambio dei prigionieri e il parziale ritiro dell’Idf dalla Striscia. L’ASTENSIONE DI RUSSIA E CINA Sul voto pesava l’incognita del possibile veto della Cina e della Russia. Mosca nei giorni scorsi aveva presentato una bozza alternativa che non menzionava la smilitarizzazione di Gaza, si opponeva alla permanenza di Israele oltre la linea gialla, non citava il Board of Peace per l’amministrazione transitoria dell’enclave (presieduto dallo stesso Trump) e affidava al segretario generale dell’Onu il compito di valutare le “opzioni per il dispiegamento della Forza internazionale di stabilizzazione” (togliendole così a Washington). Ma dopo il via libera alla risoluzione Usa, manifestato dall’Anp e ai dai Paesi arabi, per Mosca e Pechino sarebbe stato difficile giustificare il voto contrario. Per facilitare il voto di Mosca e Pechino, la bozza di risoluzione era stata rinegoziata. Il testo afferma che gli Stati membri del Consiglio di Sicurezza possono partecipare al cosiddetto Board of Peace. Per la forza internazionale di stabilizzazione, formata da Paesi prevalentemente musulmani, resta confermato il compito di garantire un processo di smilitarizzazione di Gaza, incluso il disarmo e la distruzione delle infrastrutture militari di Hamas. HAMAS E ISRAELE CONTRARI ALLA RISOLUZIONE ONU Un gruppo ombrello di fazioni palestinesi guidate da Hamas aveva pubblicato domenica una dichiarazione contro la risoluzione, bocciandola come un passo pericoloso verso l’imposizione di una tutela straniera. Respinta qualsiasi clausola relativa al disarmo di Gaza o che leda “il diritto del popolo palestinese alla resistenza”. “La risoluzione impone un meccanismo di tutela internazionale sulla Striscia di Gaza, che il nostro popolo e le sue fazioni rifiutano”, afferma il gruppo islamista in una lunga dichiarazione su Telegram. “Assegnare alla forza internazionale compiti e ruoli all’interno della Striscia di Gaza, tra cui il disarmo della resistenza, la priva della sua neutralità e la trasforma in una parte del conflitto a favore dell’occupazione” israeliana, prosegue la dichiarazione. “Qualsiasi forza internazionale, se istituita, deve essere dispiegata solo ai confini per separare le forze, monitorare il cessate il fuoco e deve essere sotto la piena supervisione delle Nazioni Unite”, conclude. Dal canto suo il premier Benjamin Netanyahu, sotto pressione dai ministri di destra del suo governo, aveva ribadito il no di Israele a uno Stato palestinese promettendo di smilitarizzare Gaza “con le buone o con le cattive”. L'articolo L’Onu approva il piano Usa per Gaza grazie all’astensione di Russia e Cina: governo transitorio in vista di uno Stato palestinese proviene da Il Fatto Quotidiano.
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