Leggi su Sky TG24 l’articolo Tempesta geomagnetica, torna l’aurora boreale in Italia. Dove e quando vederla
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A chi è capitato di imbattersi almeno una volta nella dottrina buddhista e nel
concetto di vuoto, non sarà sfuggita l’ironia dello spendere così tante parole
intorno al vuoto e al nulla. Un maestro zen certo ne riderebbe. Lo stesso
paradosso aleggia nella mostra fotografica di Guido Guidi Da un’altra parte alla
galleria 10 Corso Como curata da Alessandro Rabottini. Il paradosso che ha
spinto Guidi a indugiare su luoghi che in fondo non sembrano meritare di essere
presi sul serio, perché non rimandano a nulla. È difficile capire come sia stato
possibile fotografare il nulla per tutta la vita. E la prospettiva di leggere la
pratica di Guido Guidi come quella di un maestro zen si fa sempre più
convincente, mentre i suoi paesaggi irrilevanti si inseguono: finestre murate,
cartelloni pubblicitari sfondati, l’angolo di una strada qualsiasi, un pezzo di
plastica risputato dalla marea accanto all’ombra di chi lo fotografa. Sono spazi
vuoti, vuoti fecondi, luoghi insignificanti, perché l’insignificante è quello
che gli interessa.
È vero che le didascalie raccontano di luoghi con nomi veri, Ronta, Gorizia,
Venzone, Roncisvalle, Cesena, Cervia e altri, ma l’impressione è che potrebbero
essere ovunque, ma anche da nessuna parte. Guidi crea un nuovo concetto di
spazialità, privata di ogni specificità territoriale, che rende ogni luogo
assolutamente indeterminato. È qui, nell’approccio decostruttivista alla
rappresentazione dello spazio, che è possibile rintracciare una metodologia zen.
Nel desiderio di non volere sostituire una vecchia rappresentazione della realtà
con una inedita ma, in maniera assai più radicale, di liberarsi dalla tendenza a
concettualizzare la realtà, e del rischio conseguente di confondere la nostra
rappresentazione per la realtà stessa.
Da un’altra parte raccoglie una settantina di fotografie realizzate tra i primi
anni Settanta e il 2023, presentate secondo una sofisticata scelta curatoriale
che enfatizza le tangenze poetiche e formali tra le fotografie, al di là
dell’ordine cronologico e della logica della serie. Ogni parete presenta una
piccola famiglia di fotografie, spesso raccolte in forma di dittico o trittico,
che costruiscono narrazioni ellittiche, sospese. Tra le più esemplari in questo
senso citerei le cinque fotografie del muro dello studio di Guidi a Ronta
durante un’ecclissi di sole. Ronta, 11.08.1999 è una sequenza che visualizza
cinque momenti del parziale oscuramento del disco solare, visto attraverso
l’ombra proiettata dagli alberi sul muro. Vediamo, come in una serie di
fotogrammi, il sole, al picco del suo oscuramento, penetrare tra le gli alberi
disegnando sul muro tante piccole falci di luce, vediamo le lingue di luce farsi
più grandi, e occupare via via parti più ampie di muro. L’ultimo fotogramma
tradisce l’aspettativa di vedere un’ulteriore mutazione, si tratta di una
versione in bianco e nero della fotografia vicina a colori, una prova
dell’attitudine a fotografare la stessa cosa in due momenti contigui, a
registrare due scarti minimi che restituiscano sostanza al tempo.
> Guidi crea un nuovo concetto di spazialità, privata di ogni specificità
> territoriale, che rende ogni luogo assolutamente indeterminato. È qui,
> nell’approccio decostruttivista alla rappresentazione dello spazio, che è
> possibile rintracciare una metodologia zen.
Diventa chiaro che Guidi non cerca la costante ma il suo contrario. Il suo è un
lavoro sulle minime differenze, aperto al divenire, mai assertivo, né nelle
intenzioni, né nella formalizzazione. Può succedere che il sole in cielo cambi
posizione (Chatillon, 15 settembre 1982), che il riflesso di una finestra sul
muro perda i suoi contorni fino a scomparire (Ruffio, 4 dicembre 1977), e che
l’ombra di un albero cammini sul muro che ha davanti (Spagna, 1981). La
successione rende chiaramente il rapporto di Guidi con l’immagine, con la sua
materialità, restituita attraverso la quarta dimensione, quella temporale. E in
questo vivere l’immanenza ritrovo ancora una volta un atteggiamento zen.
Nell’armonia tra la rapidità del gesto, con un’estetica da istantanea, e uno
sguardo lungo e meditato sulle cose, spesso mediato dall’uso del banco ottico.
Si può dire che Guidi abbia un rapporto riflessivo con l’immagine che sta
producendo, e che si tratti di momenti rubati, ma mai di scatti rubati.
E può succedere ancora che un elemento imprevisto cambi l’assetto dell’immagine,
che una macchina corra dentro l’inquadratura (Cesena, 1980) o che dei bambini la
lascino rapidamente (Cogliate, 1995). Guidi accoglie l’errore, lo ingoia, e
resta fedele alla verità come gli si manifesta. Un esercizio del vero che viene
confermato dall’uso, nella maggior parte dei casi, della stampa a contatto, che
prevede che il negativo non venga ingrandito in fase di stampa. Il formato
piccolo traduce quindi questa corrispondenza tra la dimensione della stampa e
quella dei negativi su pellicola. E l’effetto è quello di una grande presenza
della sua fotografia. La prima implicazione del formato è quella di verità, dal
momento che nessuna informazione contenuta nel negativo va perduta, la seconda è
una forma di intimità con la fotografia, che invita ad andare vicino, ad avere
un rapporto fisico con essa dettato dal formato più intimo.
> Una fotografia semplice nel contenuto ma enigmatica nel significato, con
> un’idea di viaggio attraverso i luoghi e le immagini che viene liberato dalla
> ricerca dello straordinario, dello spettacolare, del folkloristico, spesso
> estetizzato ed esotizzato.
Può succedere anche che elementi mondani diventino, con grande naturalezza,
parte della fotografia, generando al suo interno un equilibrio nuovo. Come in
Treviso, Piazza dei Signori 1977 dove una barra corre da parte a parte
dell’inquadratura all’altezza degli occhi di una coppia di anziani, o in
Preganziol, 1974 dove una nuvola di fumo esce da una pipa non lasciandoci
indovinare gli occhi di chi la fuma. Mi si fa sempre più chiara l’inattualità
del paesaggio di Guidi. Una fotografia semplice nel contenuto ma enigmatica nel
significato, con un’idea di viaggio attraverso i luoghi e le immagini che viene
liberato dalla ricerca dello straordinario, dello spettacolare, del
folkloristico, spesso estetizzato ed esotizzato, per rimettersi invece al
quotidiano, all’anonimo, al banale. In questo aspetto è molto viva la lezione di
Walker Evans di rifiuto di ogni gerarchia nella scelta del soggetto da
fotografare, interessandosi invece al vernacolare.
Non si può dire che Guidi sia stato il solo ad andare in questa direzione, basti
pensare alla cosiddetta scuola italiana di paesaggio il gruppo di fotografi
italiani, di cui è stato parte, che a partire dagli anni Settanta ha guardato al
paesaggio come al luogo in cui rinnovare il linguaggio della fotografia, il
luogo in cui la fotografia potesse rivolgersi a sé stessa. Nella topografia
della scuola italiana di paesaggio troviamo una contronarrazione agli stereotipi
turistici da cartolina del Touring Club Italiano e alla drammatica delle rovine
del Gran tour. Una fotografia, la loro, che riflette i cambiamenti politici e
culturali del Paese e il processo di violenta urbanizzazione del paesaggio
italiano e racconta l’Italia della provincia e dei margini, delle strade di
campagna, dei capannoni, dei manifesti pubblicitari e delle villette a schiera.
> Guidi mostra una sensibilità cruda nei confronti delle immagini, spesso aspre,
> irte, mai nostalgiche o dolci. La sua fotografia smaschera ogni falsa
> coscienza della rappresentazione paesaggistica e si limita a circoscrivere la
> realtà senza retorica e senza enfasi.
In Guidi però non c’è traccia della purezza grafica di Mario Cresci, della
nostalgia pastello di Luigi Ghirri, né dell’epos cristallino di Mimmo Jodice, né
del controllo estremo dell’immagine di Gabriele Basilico. Guidi è forse quello
che mostra una sensibilità più cruda nei confronti delle immagini, spesso aspre,
irte, mai nostalgiche o dolci. La sua fotografia smaschera ogni falsa coscienza
della rappresentazione paesaggistica e si limita a circoscrivere la realtà senza
retorica e senza enfasi. Ogni rappresentazione viene annichilita e l’esperienza
di un’immagine del mondo è non costruita, con una conseguente intensificazione
inaudita della realtà. Nel suo paesaggio la figura umana appare di rado e su di
essa non è posto nessun accento, essa è fatta degli stessi atomi, della stessa
luce, delle foglie sugli alberi e delle ombre che essi proiettano. In questo
senso è eloquente il trittico composto da Gorizia 03.2004, Fiume Savio 2007 e
Cesena 2005, la prima occupata per un terzo nella parte superiore dal dettaglio
di un volto tagliato sotto l’occhio, nella parte centrale da un muro scrostato,
in quella inferiore da un pavimento d’asfalto. La seconda mostra un ragazzo che
pesca seduto con la schiena a tre quarti, nell’atto di portarsi una mano sulla
testa, a coprirgli il volto, dall’altra parte del fiume un paesaggio verde fuori
fuoco. La terza è la fotografia di un melo, ne vediamo il tronco e solo parte di
due rami, la sua ombra proiettata obliqua indietro, dove molte mele sono già
cadute, una sola è rimasta su, la vediamo fuori fuoco, proiettare la sua ombra
nitida sul tronco.
È chiaro come Da un’altra parte insista sulla componente più concettuale del
lavoro di Guidi, e si proponga di ripercorrere più di sessant’anni di carriera
attraverso la ricerca di Guidi sulla luce e sul suo rovescio, l’ombra. Ma ciò
che si finisce per pensare mentre si esplora questa mostra è quanto ogni
fotografia sia un modo per costringere il linguaggio fotografico a un
cortocircuito interno, rinunciare a ogni pretesa intellettuale e lasciarsi
cadere nel mondo. E di questo si potrebbe anche ridere.
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