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Cosa hanno da insegnarci le piante
N ella prefazione al libro di Monica Gagliano, Così parlò la pianta (2022), testo di riferimento per gli studi sulle modalità attraverso cui le piante sentono e comunicano tra di loro, Suzanne Simard, professoressa di forest ecology presso la University of British Columbia (Vancouver, Canada), annota uno spunto illuminante su cui è opportuno soffermarsi. Simard mette in relazione le recenti scoperte scientifiche sulla sensibilità e sull’intelligenza vegetale ‒ rese note da Gagliano, Stefano Mancuso, Daniel Chamovitz, Eduardo Kohn, Anthony Trewavas, ma anche Paco Calvo ed Emanuele Coccia ‒ con la saggezza degli aborigeni del Nord America, depositari dei segreti della vita delle piante e delle foreste. Prima di qualsiasi brevetto scientifico occidentale, è stato il sapere delle comunità indigene a rivelare la dimensione relazionale della vita vegetale, il profondo legame tra uomo e piante, individuando nella vita e nel comportamento delle piante quegli aspetti che oggi riscopriamo attraverso gli occhi della scienza, della filosofia e della biologia vegetale, e soprattutto mostrando la necessità di preservare l’interdipendenza tra ambiente naturale ed esseri viventi. Autrice di un importante contributo dell’ecologismo mondiale e oggi direttrice del The Mother Tree Project, Simard lavora al tentativo di ristabilire la connessione rigenerativa tra l’uomo e le foreste, cioè con la natura, in un periodo in cui i cambiamenti climatici segnano un profondo mutamento dell’ambiente naturale. Partendo dal concetto di collaborazione delle piante, Simard suggerisce di compiere una vera e propria reimmersione nel mondo vegetale e nelle sue interrelazioni. L’intelligenza e la saggezza della foresta che Simard svela nel suo libro è data dalla relazionalità e dallo scambio di informazioni che la vita sotterranea indica, e che l’autrice ha brillantemente individuato nelle reti micorriziche, sistemi fungini sotterranei che collegano gli alberi e consentono lo scambio di informazioni e sostanze nutritive. Sulla base di queste comunicazioni vegetali, la tesi centrale di Simard intende mostrare che queste reti invisibili rivelano come la cooperazione, e non la competizione, costituisca il cuore dell’evoluzione e della vita naturale. > Prima di qualsiasi brevetto scientifico occidentale, è stato il sapere delle > comunità indigene a rivelare la dimensione relazionale della vita vegetale, il > profondo legame tra uomo e piante. La tesi di Simard, tuttavia, affonda le sue radici in un sapere che supera la tradizione scientifica occidentale a cui fa riferimento. Si tratta, infatti, della saggezza indigena dei nativi americani, che aveva già individuato nella collaborazione tra corpi il sistema della natura. Se questo aspetto sfugge, in qualche modo, alla storia della cultura europea, e se questi spunti sono assenti nei curricula accademici e scolastici dei nostri Paesi, sono invece le tradizioni non europee a rivelarne l’importanza. Questo nesso è stato esplorato da Robin Wall Kimmerer nel suo: La meravigliosa trama del tutto (2022). E su questo aspetto meno diffuso tra i lettori vorrei focalizzare l’attenzione. Direttrice del Center for native peoples and the environment, Wall Kimmerer nel suo libro rivela un magnifico intreccio tra il sapere scientifico, l’insegnamento accademico che ha ricevuto come studiosa di botanica da un lato, e la saggezza indigena dei nativi americani che ha ereditato e acquisito nell’incontro con i membri della sua famiglia, mostrando come queste due vie non siano alternative ma possano coesistere e completarsi. La prima ci permette di conoscere le piante e la natura, in una precisa divisione tra classi e generi, e nello studio oggettivo di come funziona la vita delle piante. Ma agli occhi dell’autrice questo sapere riduce le piante a oggetti separati, distinti dalla vita umana, veri e propri oggetti pronti all’uso. Il rischio concreto è di ridurre coerentemente questo approccio allo sfruttamento della vita vegetale. In modo diverso, la saggezza indigena svela l’importanza della relazione degli esseri umani con la natura e le piante al fine di conoscerne la bellezza, una relazione che non si limita a un metodo di conoscenza, ma pervade tutte le nostre modalità di comprensione ‒ nel comprendere, infatti, la nostra conoscenza diventa relazione. La radice ecologica risiede nella capacità di individuare e valorizzare questa relazione, ma vi è qualcosa di più, proprio perché questa relazionalità può collegarsi alla scienza della natura. Come sottolineato da Gregory Cajete, nel libro Look to the Mountain: An Ecology of Indigenous Education (1994), questa prospettiva di conoscenza integrale deve coinvolgere le quattro modalità della nostra esistenza, il cervello, il corpo, le emozioni e lo spirito, e se l’aspetto scientifico privilegia due di queste vie va integrato a una sapienza che metta in risalto la relazione con la natura. In questo orizzonte, Wall Kimmerer colloca la riflessione sulla vita delle piante, alla luce della relazione profonda che la natura instaura tra i diversi corpi. Nella visione indigena, il mondo naturale non è una scala di esseri, nella tirannia del più forte secondo la logica individualista della separazione, ma è una democrazia di specie, quasi come se fosse una circolarità naturale. Al di là della logica dell’economia di mercato, regolata dallo sfruttamento e dalla separazione dei beni, il modello che si sviluppa a partire dalla relazione con il mondo vegetale si fonda sulla cura, sullo scambio e l’incontro, in un abbraccio che segue la logica del dono e della reciprocità: coltivare la natura o raccogliere un frutto non è, quindi, una mera appropriazione, anche se quel frutto poi verrà mangiato dal suo raccoglitore, e non lo è nella misura in cui si stabilisce una rete relazionale profonda e uno scambio mutuale, sostiene Wall Kimmerer. > Nella visione indigena, il mondo naturale non è una scala di esseri, nella > tirannia del più forte secondo la logica individualista della separazione, ma > è una democrazia di specie, quasi come se fosse una circolarità naturale. Se la scienza occidentale ha piuttosto distinto e isolato l’altro, l’autrice mostra un ulteriore intreccio con l’insegnamento delle piante, che svela come funziona l’interrelazione vitale tra i diversi corpi. La coordinazione che, per esempio, si nota tra la fruttificazione e la raccolta di frutti compiuta da alcune specie animali, denota secondo l’autrice una sincronicità che va oltre la mera relazione ambientale, e sembra piuttosto confermare l’attività comune e la capacità di dialogo tra i diversi corpi naturali. Un insegnamento che si acquisisce dalla natura, e che quindi abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ma che è stato codificato in modo efficace della sapienza tradizionale indigena. Tra gli esempi, vi è quello di un’erborista Navajo che sostiene vi siano legami duraturi tra determinate piante, così rivelando una sorta di simbiosi e di scambio comunicativo in una relazione sostenibile con l’ecosistema. Da ultimo, questo insegnamento trova conferma negli studi sulla simbiosi con i funghi – sono infatti i lavori di Simard ad aver mostrato l’importanza delle reti micorriziche nel costruire una catena di interrelazioni e reciprocità mediante cui le piante comunicano tra di loro e stabiliscono una connessione vitale fondamentale per l’intero ecosistema. Che cosa altro ci dice questo aspetto? Secondo Wall Kimmerer, la vita delle piante indica la possibilità di ripensare la natura non come oggetto da sfruttare, ma come relazione. C’è di più: l’autrice definisce questa relazione come un dono, la cui caratteristica centrale è lo scambio reciproco e l’attenzione e la cura dell’altro (di chi coltiva la pianta, ma anche della pianta stessa verso chi la abita). In tal senso, questa relazione apre implicitamente l’orizzonte a un sistema economico e sociopolitico fondato sullo scambio e sulla cooperazione, e quindi contrapposto a certe, numerose derive dell’economia di mercato e della globalizzazione, come ad esempio le pratiche di sfruttamento delle risorse naturali, che sono alla base della crisi ecologica attuale. In alternativa a queste relazioni negative tra uomo e ambiente, sviluppatesi nella cultura occidentale, Wall Kimmerer riporta una serie di storie della tradizione orale indigena americana, al fine di mostrare le possibilità di una relazione positiva con l’ambiente, che non è utile solo a preservare la natura ma serve, in qualche modo, anche agli esseri umani: la ricerca della felicità, per esempio, trova la propria realizzazione in una relazione sostenibile con l’ecosistema naturale, in una reciprocità ultima che l’autrice ha sperimentato raccogliendo fagioli. A tutt’altra latitudine, un percorso analogo si ritrova nella cultura indiana ed emerge nel lavoro di Sumana Roy, Come sono diventata un albero. Una canzone d’amore (2022). Anche in questo caso, non si tratta di una semplice relazione affettuosa con le piante, ed è ben più che l’abbandono della propria condizione umana e ben più che un rapporto ristretto all’uso delle piante come abbellimento casalingo. Le piante non si rivelano semplicemente come altro rispetto agli esseri umani, ma mostrano un’alternativa che non è privazione. Come in altri casi, Roy combina la frustrazione per la caoticità della vita umana con l’incontro con l’alternativa delle piante, il cui silenzio è il suono della resistenza e dell’economicità, cioè di una ribellione, di un’attività, non di una mera passività. Il mondo vegetale, infatti, non è un mero ricettore, non un mero oggetto, ma un attore nel mondo. > Se è vero che le analogie tra piante e animali, e la metamorfosi del corpo > umano in pianta hanno popolato la cultura occidentale fin dalle origini, > Sumana Roy segue una linea più profonda e radicale, in cui la pianta non è un > essere umano dimezzato, ma rivela una superiorità vitale importante. Come nel caso di Wall Kimmerer, Roy combina l’esperienza personale alla propria tradizione culturale, unendo filosofia, storia letteraria e botanica. Partendo dalla filosofia di Deleuze e Guattari, Roy si immerge nella prospettiva di diventare una pianta, traslando le proprie esperienze e adattandole al mondo vegetale. Così, l’autrice non vede solamente la vita delle piante attraverso le lenti umane, ma mostra il tentativo di trasformare il proprio sguardo e le proprie relazioni accordandole al sistema vegetale. Fuor di metafora, l’autrice intende cambiare tutti gli aspetti della sua vita, adeguandosi a quello che è lo stile delle piante, di cui ricostruisce le caratteristiche nel corso del libro e, in tal senso, intende diventare pianta. Questo percorso si sviluppa dall’elaborazione di un modo nuovo di guardare la natura vivente: se è vero che le analogie tra piante e animali, l’immedesimazione e la metamorfosi del corpo umano in pianta hanno popolato la cultura occidentale fin dalle origini ‒ si pensi all’opera di Orazio o ad Apuleio, alla pena dell’inferno dantesco, o alla dendolatria, la venerazione degli alberi che emerge nella pervasività della metafora arborea, ma anche all’albero della vita (l’albero Tuba del Corano, il Yggdrasil della tradizione normanna, l’albero Mahabodhi, e l’albero della vita di Klimt, per nominare alcuni casi) ‒ Roy segue una linea più profonda e radicale, in cui la pianta non è un essere umano dimezzato, ma rivela una superiorità vitale importante. Diversamente da ogni tentativo di antropomorfizzare la natura, Roy percorre un percorso di ascesa alla condizione vegetale, riconoscendo alle piante le capacità fondamentali di resistenza, parsimonia e armonia con l’ambiente naturale. Per esempio, si suggerisce di abbandonare la temporalità degli orologi per seguire il tempo ciclico e lento dell’albero – definito tree time – immedesimandosi in una dimensione alternativa in cui ripensare i ritmi della vita e rimodellandola secondo un sistema diverso. In questo senso, il libro non mostra solamente una modalità di acquisire serenità muovendosi all’interno di un bosco o su una collina, lontano dal caos cittadino, ma una possibilità di rigenerazione profonda. Roy, infatti, non intende distruggere sé stessa né perdersi nella foresta, ma vuole ridare a sé quella parte vegetale che ha perduto ‒ e che in un qualche modo tutti noi abbiamo perduto ‒ cioè liberare la vita della foresta secondo l’insegnamento della tradizione indiana. Non si intende perdersi nella foresta in un ritorno alle origini, che pure appartiene a una certa tradizione occidentale, ma è un vero e proprio rigenerarsi. Allo stesso tempo, non è solo amore per le piante, per l’albero di fronte a casa o per il fiore sulla tavola, è lo sforzo di andare alla sorgente (o, opportunamente, alla radice) della vita stessa. > Sumana Roy non ricerca una via per trasformare le piante in esseri umani, ma > una via per vegetalizzare l’uomo, un percorso al cui culmine c’è lo > svuotamento di ogni violenza dell’umano e la possibilità di realizzare una > società diversa. Nel corso del libro, i numerosi riferimenti letterari rivelano la ricchezza della sapienza indiana in questo ambito, dai lavori di Rabindranath Tagore, le cui poesie celebrano la relazione tra uomini e piante, così come il percorso a ritroso verso la natura o verso la foresta, al lavoro del botanico Jagaish Chandra Bose, che ha studiato i movimenti automatici e la crescita delle piante, rischiarando le ombre sulla vita segreta delle piante. In Tagore, infatti, la conversione dell’essere umano in pianta rivela una fluidità tra specie, mentre Bose esalta la spontaneità della vita vegetale. La stessa fluidità e spontaneità emerge dalla riflessione di Roy sulle funzioni umane trasposte nella vita vegetale, dall’esperienza sessuale al matrimonio con un albero, attraverso l’immagine del matrimonio nel regno delle piante di Kahlil Gibran o nel poema di A.K. Ramanujan. La complessità del comportamento delle piante rende plausibile l’esistenza di un linguaggio vegetale che non sia antropomorfizzato, e al tempo stesso rivela la possibilità di acquisire le dinamiche vegetali per ordinare certi estremi della vita umana. In tal senso, Roy non ricerca una via per trasformare le piante in esseri umani, ma una via per vegetalizzare l’uomo, un percorso al cui culmine c’è lo svuotamento di ogni violenza dell’umano e la possibilità di realizzare una società diversa, fondata sull’assunto per cui la vita delle piante favorisce e supporta la vita di tutti, fuori da ogni conflitto, in una mutualità e collettività che deve necessariamente farci riconsiderare l’ordine della natura. Questo è l’insegnamento che Roy intende portare a compimento, nel percorso di “trasformazione” in albero. A tutti gli effetti, è la via di Buddha, la cui vita spirituale è inestricabilmente legata alla venerazione dell’albero. Sulla scia di questa lunga e ricca tradizione, il libro è un tentativo di vivere la vita degli alberi: adeguando i propri desideri ai bisogni naturali, vivendo il tempo delle piante, rigettando velocità, eccessi, caos e confusione, indicando una via per cambiare sé stessi e la propria società. In conclusione, le opere di Wall Kimmerer e di Roy, pur nate in contesti culturali distanti, convergono nel riconoscere un valore paradigmatico alla vita delle piante per dare voce e contenuto a un nuovo umanesimo. Non si tratta di un ritorno nostalgico alla natura, alla Rousseau, per intenderci, ma di una rigenerazione, che parte dalla vita vegetale e dalla conoscenza scientifica del comportamento delle piante. Infatti, le scoperte preziose della scienza occidentale, che oggi rivela l’importanza e la complessità della vita e del comportamento vegetale, rischiano di essere confinate agli interessi degli studiosi e possono apparire distanti dalla vita quotidiana. Integrare queste scoperte con la saggezza delle tradizioni non europee ne rivela l’importanza e mostra un modo diverso di vivere la relazione con la natura. Seguendo la reciprocità e mutualità delle piante, non si tratta di perdere la nostra umanità, ma al contrario di portarla a compimento, aprendo a quegli aspetti che caratterizzano la vita vegetale e che permettono di realizzare una società più giusta e sostenibile, adatta alle sfide del futuro. L'articolo Cosa hanno da insegnarci le piante proviene da Il Tascabile.
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Natura contronatura. Estetica Ecoqueer di Dario Alì e Vincenzo Grasso
“U na variante naturale del comportamento sessuale umano”: così molti concepiscono oggi l’omosessualità. […] Tuttavia in questo senso sono parimenti ‘naturali’: la pedofilia, la violenza sessuale, l’omicidio, ecc. Pro Vita & Famiglia Onlus, 2015 Così si apre uno degli articoli più emblematici della retorica anti-LGBTQIA+ contemporanea. Un testo che, con linguaggio fintamente pacato ma ideologicamente feroce, costruisce un castello di nessi logici malfermi per sostenere che l’omosessualità, benché osservabile nella natura in più di 1500 specie, sarebbe in realtà contronatura dal punto di vista morale. Ma cos’è la natura e cosa significa essere contronatura? La domanda è antica, ma la risposta tutt’altro che fissa. È da questa ferita semantica e filosofica che si muove il libro Natura contronatura. Estetica ecoqueer (2025) di Dario Alì e Vincenzo Grasso: un saggio radicale e lucido che non si limita a difendere le identità queer dalle accuse di “innaturalità”, ma ribalta interamente il tavolo. La natura che invocano i Pro Vita è tutt’altro che neutra. È una costruzione ideologica: pura, eterosessuale, bianca e fertile. Nel popolare game show italiano Ciao Darwin, il gioco prevede l’ingresso della figura a di “Madre natura”, con la discesa scenica della scalinata accompagnata dall’Adiemus di Karl Jenkins: la modella scelta era sempre donna, magra, in bikini e soprattutto senza parola. Ed è così che abbiamo rappresentato la natura per secoli: muta, desiderabile, docile. Nel libro viene citata la natura secondo Merchant ovvero repressiva, priva di ironia o ambiguità. Alì e Grasso ripercorrono i nuovi poteri simbolici e ritrovano proprio “nel Medioevo la trasformazione del concetto di Natura, che viene investita di un nuovo potere: diventa la fonte delle leggi morali, giuridiche, sociali. Il rapporto tra quello che è naturale e un ordine pre-esistente e divino si rafforza e consolida e con esso l’idea che esista un solo modo ‘giusto’ di esistere e vivere”. Gli esempi di rappresentazioni di trucidazioni, lapidazioni e violenza, nel corso della storia dell’arte sono molteplici e Alì e Grasso sottolineano come servissero “a perpetuare l’oppressione attraverso l’arte, legittimando la violenza simbolica e fisica nei confronti di chi veniva percepito come l’altro” . > Nel Medioevo la natura diventa la fonte delle leggi morali, giuridiche, > sociali. Il rapporto tra quello che è naturale e un ordine preesistente e > divino si consolida, e con esso l’idea che esista un solo modo “giusto” di > esistere. Questa riflessione sull’uso simbolico dell’arte apre a una domanda più profonda: come si costruisce l’idea di normalità? Da dove nasce l’ossessione culturale per un “ordine” che separa corpi accettabili da corpi abietti, desideri legittimi da desideri proibiti? È a partire da questa ossessione che prende forma la visione estetica e politica della natura che il saggio va a smontare. > Gli esseri umani, infatti, dimostrano una predisposizione profonda a cercare e > riconoscere dei pattern di ordine nel mondo naturale. Tali ordini forniscono > modelli concreti e tangibili per concettualizzare ordini astratti, inclusi > quelli morali e sociali. In altre parole, la natura serve da vasto repertorio > di metafore e analogie attraverso le quali rappresentiamo e diamo senso a idee > complesse di organizzazione e struttura. In quest’ottica, ciò che esiste in > natura non solo descrive il mondo, ma prescrive anche come il mondo umano > dovrebbe essere”. La natura quindi non solo descrive il mondo ma lo plasma. Ma se viene smontata pezzo per pezzo l’idea di una natura “pura”, preesistente, dominante e normativa, allora non resta che aprire uno spazio per un altro processo, uno spazio puramente immaginativo. Se la natura è sempre stata un costrutto storico e dettato dalla cultura dominante, allora la contronatura può diventare un campo di possibilità estetico-politiche, un atto di immaginazione e resistenza. E qui il libro si fa esplosivo. Un esempio illuminante offerto da Alì e Grasso riguarda il discorso anti-tossico nell’ambientalismo: l’idea che l’inquinamento chimico alteri un ordine “naturale”. Giovanna Di Chiro (2010) osserva come questa ansia ambientale contemporanea si intrecci con paure culturali profonde, come quelle legate alla mascolinità. “‘Nuotare negli estrogeni’ è una delle immagini ricorrenti nei media scientifici popolari per spiegare l’instabilità pan-specie della mascolinità, come se l’identità maschile fosse in pericolo per contaminazione”. Il corpo “naturale” viene così difeso come maschio, cis, fertile. Il resto è visto come contaminazione, devianza, contronatura. Nel 1994, sulla rivista accademica UnderCurrents, Shauna M. O’Donnell scriveva “Una politica della natura non può più essere un’articolazione del privilegio prescrittivo o descrittivo bianco, maschile ed eterosessuale”. Già allora gli studenti e le studentesse della York University of Toronto, Canada, si accorgevano delle intersezioni tra politiche ambientali e teorie queer. Iniziò così, trent’anni fa, un’esplorazione dello spazio queer in natura, o quella che viene definita contronatura, una svolta che appare come epocale. > Se la natura è sempre stata un costrutto storico e dettato dalla cultura > dominante, allora la contronatura può diventare un campo di possibilità > estetico-politiche, un atto di immaginazione e resistenza. Questo scarto tra norma e corpo vissuto attraversa anche l’arte visiva contemporanea. Alì e Grasso propongono nel saggio un’idea di contronatura attraverso esempi di arte ecoqueer capace di scardinare le narrazioni problematiche che riducono il vivente a norma, gerarchia, purezza. Così la contronatura diventa non solo un atto estetico e un gesto critico ma una vera e propria possibilità culturale. Tra gli esempi più evocativi c’è Paradise Camp, l’opera dell’artista indigena queer Yuki Kihara e curata da Natalie King che mette in discussione i paesaggi, la natura e la visione di Gauguin e del suo celebre dipinto del 1897 Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?. Nell’opera di Kihara vengono rappresentate in maniera autentica le identità fa’afafine di Samoa, un vero e proprio terzo genere. Queste identità sono sempre state rappresentate in maniera errata dallo sguardo colonizzatore ed eteronormativo di Gauguin perché piegate a un’unica visione binaria dominante. O maschio o femmina. Le opere di Yuki Kihara attuano una vera e propria ribellione dell’ecologia queer, che mostra una natura differente: “L’estetica eteronormativa prescrive come ‘naturali’ corpi fondati sulla coincidenza tra sesso biologico e genere, negando loro ogni possibilità di piacere svincolato dal telos riproduttivo e imponendo l’ideale di corpi progettati per non fallire”. Ma il lavoro dell’arte ecoqueer non è solo decostruire una visione imposta, è anche percorrere nuove strade. Gli esempi proposti da Alì e Grasso mostrano le rappresentazioni artistiche dell’animale, del mostro e del non umano come rivendicazione di nuove soggettività. Da TRANSGENESIS (2021) di Agnes Questionmark che esplora il superamento non solo dei generi ma anche della stessa umanità, creando una vera e propria nuova specie umano-cefalopode, fino alle tre serie Green Porno, Seduce Me e Mammas di 38 cortometraggi di Isabella Rossellini che con la sua ironia, matericità e attorialità mostra la vita sessuale e i comportamenti riproduttivi delle varie specie. Nel capitolo dal titolo “Altri mostri”. Alì e Grasso svolgono un lavoro di fino mostrando mostri, mutanti, corpi trans*, ibridi, chimere: gli attori della nuova alleanza ecologica che partono dal discorso-manifesto di Paul B. Preciado, mettendo in discussione il dualismo natura-cultura. Scrive Preciado in Sono un mostro che vi parla (2021): “È da questa posizione di malato mentale a cui mi relegate che mi rivolgo a voi, in quanto scimmia-umano di una nuova era. Sono il mostro che vi parla. Il mostro che avete costruito con i vostri discorsi e le vostre pratiche”. Questa dichiarazione, poetica e politica, denuncia la recente storia di patologizzazione per le persone trans*. Infatti solo nel 2018 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha rimosso  la disforia di genere dalla categoria dei disturbi mentali, inserendola in una nuova classificazione, nell’ambito della salute sessuale, come “incongruenza di genere”. In Italia, il 28 luglio 2025 ha marcato il decennale dell’obbligo alla sterilizzazione chirurgica delle persone trans* imposto dai tribunali. Per ottenere la rettificazione anagrafica e la possibilità di procedere alle terapie di affermazione di genere, si doveva attraversare un rigido processo binario patologizzante, fatto di giudici, sterilizzazioni forzate e un anno obbligatorio di psichiatria. Una violenza che non è solo privata, ma sistemica, come sottolinea anche Preciado: vieni riconosciuto come persona non appena assumi e introietti i codici del maschile dominante. Questa però è una reiterazione della stessa gabbia simbolica del quadro di Gauguin. Una scelta binaria. O maschio o femmina. > Solo nel 2018 l’OMS ha rimosso la disforia di genere dalla categoria dei > disturbi mentali, inserendola in una nuova classificazione, nell’ambito della > salute sessuale, come “incongruenza di genere”. Ma l’identità trans* non vive in queste logiche binarie eteronormative, per questo, come sottolineano Alì e Grasso, accogliere la mostruosità significa accettare la natura dissidente e in continua metamorfosi del proprio corpo trans*. “Il corpo transessuale è un corpo innaturale” aggiunge nel 1994 Susan Stryker in My Words to Victor Frankesnstein above the Village of Chamounix “È il prodotto della scienza medica. È un costrutto tecnologico […] Sento un’affinità in quanto donna transessuale con il mostro descritto di Frankenstein di Mary Shelley. Come il mostro, anche io sono molto spesso percepita come non pienamente umana a causa delle modalità della mie incarnazione […] E come il mostro rivolgo [la mia rabbia] contro le condizioni nelle quali devo lottare per poter esistere”. Così lo spazio della contronatura è quello dove ciò che viene escluso dal “naturale” può finalmente prendere voce, amare, esistere. Ci sono narrazioni che si muovono dentro queste coordinate, che mettono al centro corpi queer e trans* non come trauma ma come possibilità, come felicità, come geografie affettive capaci di immaginare altri mondi. Come creare quindi un immaginario altro? Scardinando ciò che viene chiamato “normale”, restituendo spazio a ciò che è stato rimosso, marginalizzato e silenziato. Raccontare un paesaggio diverso, fatto di corpi desideranti, non normalizzati, non regolati dalla paura, è forse uno dei gesti più radicali attuati da Alì e Grasso per rispondere a chi invoca ancora oggi “la natura” come confine e condanna. La contronatura è la possibilità di immaginare altri mondi, altre ecologie, altri desideri. È un atto necessario in questo contesto politico, e in fondo, è anche una delle prerogative del lavoro culturale. L'articolo Natura contronatura. Estetica Ecoqueer di Dario Alì e Vincenzo Grasso proviene da Il Tascabile.
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Il lato oscuro della conservazione
F ulmini di pelo grigio corrono nelle aree verdi del Nord Italia e non disdegnano un premio in cibo, preso direttamente da mani umane, mentre vengono immortalati per l’immancabile video o fotografia per i social media. Sono gli scoiattoli grigi (Sciurus carolinensis): a un occhio poco attento ambasciatori della natura in zone urbanizzate, nella realtà una minaccia per i nostri ecosistemi arrivata dagli Stati Uniti. Dal 1948, anno in cui alcuni esemplari giunsero in Piemonte, questa specie ha dato filo da torcere allo scoiattolo comune (Sciurus vulgaris), a cui ruba le scorte di cibo per l’inverno e che può contagiare con il poxvirus, di cui è portatore sano. La popolazione degli scoiattoli grigi nei decenni è cresciuta fino a diventare una minaccia reale per la sopravvivenza dei cugini europei. Nel 1997 l’Istituto nazionale per la fauna selvatica ‒ l’attuale ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ‒ avviò un progetto sperimentale per l’eradicazione della specie aliena invasiva, ma l’iniziativa fu ostacolata da alcuni cittadini e associazioni e venne sospesa in seguito a un’azione giudiziaria. Questa storia, che si concluse con l’assoluzione degli scienziati coinvolti nel progetto e nella prosecuzione del programma di eradicazione, è emblematica di uno degli aspetti più critici della conservazione della natura: la scelta tra la vita di una specie invece che un’altra, la salvezza di alcuni e la morte per altri. Tutto per il bene della biodiversità. Quell’attrito tra etica ambientale ed etica animale Per biodiversità si intende ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi; include la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi, ma può essere più semplicemente descritta come la ricchezza della vita sulla Terra: le miriadi di esseri viventi che la abitano, il loro patrimonio genetico, i complessi ecosistemi che essi costituiscono. È la rete pulsante costituita dalle specie e dalle loro relazioni e interazioni, in grado di fornire cibo, acqua potabile, aria pulita e tutto ciò che definiamo servizi ecosistemici. Nel momento in cui una specie viene meno o una relazione s’incrina, il meccanismo può incepparsi e le conseguenze possono essere molto gravi e propagarsi su più livelli, da quello sanitario a quello economico, passando per la sicurezza alimentare. > Inserirsi negli ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di > evoluzione comporta dei costi, uno di questi è dover scegliere di sacrificare > una specie per risparmiarne un’altra. Proteggere la biodiversità è cruciale per la nostra sopravvivenza e per quella del pianeta per come lo conosciamo, ma i dati a nostra disposizione non dipingono un quadro roseo. Nel 2019, il rapporto dell’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) ha evidenziato che oltre un milione di piante e animali rischieranno l’estinzione nei prossimi decenni a causa dell’attività umana. La sesta estinzione di massa a cui stiamo assistendo scatena in noi indignazione, paura, l’urgenza di attivarsi per fermare una catastrofe di cui ci sentiamo (e siamo) i colpevoli. Inserirsi negli ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di evoluzione comporta, però, dei costi e uno di questi è proprio dover scegliere di sacrificare una specie per risparmiarne un’altra, di fare soffrire degli individui, degli esseri senzienti, per salvaguardare degli ecosistemi che noi stessi abbiamo messo in pericolo. È l’attrito tra etica ambientale ed etica animale di cui parla Simone Pollo, docente di filosofia morale dell’Università di Roma La Sapienza ed esperto di etica del vivente, nel suo libro Umani e animali: questioni di etica (2016). La stessa forza muscolare con cui abbiamo esercitato il nostro dominio su qualsiasi risorsa naturale, ora la impieghiamo per la tutela della fauna selvatica. La lezione di Charles Darwin che ci ricollocava al nostro posto, animali tra gli animali, non è stata assimilata e ci rapportiamo al resto della biosfera con il solito ben radicato antropocentrismo. Pollo scrive: > L’anti-antropocentrismo che emerge dalla trasformazione darwiniana implica, > piuttosto, una revisione del punto di vista dal quale le nostre risposte > morali sono espresse e un ridimensionamento delle loro stesse richieste. Nel > caso specifico qui in esame la pretesa di intervenire nelle vite degli animali > selvatici in modo così intrusivo appare come una mossa problematica, nella > misura in cui incarna una “dissonanza” con la reale collocazione degli esseri > umani sulla Terra. La comprensione di questa posizione appare più > efficacemente soddisfatta da un diverso atteggiamento nei confronti degli > animali selvatici. A questi ultimi dovremmo garantire il rispetto verso la loro libertà, l’indipendenza e la possibilità di prosperare. Le politiche di conservazione della natura, però, sono il risultato di un equilibrio tra istanze antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per i servizi che assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore assoluto, intrinseco, a ciò che ci circonda. Sono il risultato di calcoli in cui la vita di individui animali, che di quella diversità sono artefici e attori, è solo una delle infinite variabili di cui tenere conto. Specie da salvare a qualsiasi costo Il conflitto tra individui e specie emerge spesso nella salvaguardia della natura. In alcuni casi è particolarmente evidente, come nella conservazione ex situ. È una strategia adottata per tutelare specie rare e gravemente minacciate, il cui stato in natura è talmente critico da non garantirne la sopravvivenza nei loro habitat (in situ), oppure perché gli ecosistemi in cui vivono sono ormai così degradati da rendere incerto il loro futuro. Quindi, esemplari delle specie in pericolo sono tenuti e fatti riprodurre in cattività: sono una scialuppa di salvataggio, una scorta di animali da reintrodurre nel caso in cui le popolazioni in situ non riuscissero a sopravvivere. > Le politiche di conservazione della natura sono il risultato di un equilibrio > tra istanze antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per > i servizi che assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore > assoluto, intrinseco, a ciò che ci circonda. La reintroduzione di individui che non hanno mai vissuto nel proprio habitat richiede ingenti sforzi e risorse e il successo non è mai garantito. Improbabile, però, non significa impossibile. Un esempio è quello del condor della California (Gymnogyps californianus). Nel 1967 il condor della California fu classificato come specie in pericolo di estinzione: il calo drastico della popolazione osservato nel Ventesimo secolo era dovuto al bracconaggio, all’avvelenamento da piombo e al danneggiamento dell’habitat di questo animale. Non si esclude che anch’esso fosse una delle vittime del DDT sul suolo americano. Nel 1983, il US Fish and Wildlife Service ‒ l’agenzia governativa degli Stati Uniti che si occupa della gestione e conservazione della fauna selvatica, della pesca e degli habitat naturali ‒ avviò un programma di riproduzione in cattività, in collaborazione con lo zoo di Los Angeles e il San Diego Wild Animal Park a cui si unirono altre istituzioni. Nel frattempo, in natura, le popolazioni di condor continuarono a diminuire fino a quando, nel 1985, rimasero solo nove esemplari selvatici alla mercé delle stesse cause che, nel corso del tempo, avevano minacciato questa specie. Le autorità decisero di catturare i condor rimasti e introdurre anche loro nel programma di riproduzione in cattività. Era il 1987 e per quattro anni nessun condor della California volò nei cieli statunitensi. Era un progetto ambizioso: la riproduzione era solo una parte di un percorso che richiedeva anche una riabilitazione comportamentale degli esemplari nati in cattività. Una specie non è definita unicamente dai propri geni, ma anche da cultura e da sistemi sociali, quando presenti. Qualcuno avrebbe dovuto insegnare ai condor a evitare i pericoli, umani compresi, a cercare cibo in un ambiente per loro sconosciuto e a riacquisire tutti quei comportamenti che si imparano dalla vita in natura, seguendo l’esempio dei propri genitori e conspecifici. Gli sforzi di scienziate e scienziati non furono vani: secondo i dati della IUCN (International Union for the Conservation of Nature), la popolazione è aumentata fino ad arrivare a 223 uccelli nell’agosto 2003, di cui 138 in cattività e 85 reintrodotti in California e nel nord dell’Arizona. La riproduzione in natura è ripresa nel 2002 e ora avviene in tutte le sottopopolazioni selvatiche della California, dell’area tra Arizona e Utah e della Baja California, in Messico. Attualmente la popolazione selvatica conta 93 individui maturi ed è in aumento. Quello dei condor della California non è l’unico esempio di reintroduzione riuscita. Un altro caso è quello del gorilla di pianura occidentale (Gorilla gorilla gorilla) in Congo e Gabon, avviata nel 1996 dalla Fondazione Aspinall. > Nonostante gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità > collezionistiche per cedere il posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed > educazione, dobbiamo essere consapevoli che sacrifichiamo degli esseri > senzienti, molti dei quali non conosceranno mai la libertà. Dietro queste storie di successo, ci sono milioni di animali in cattività per cui non esiste un lieto fine, neanche in termini di generazioni future. Nonostante strutture come gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità collezionistiche e l’atmosfera da wunderkammer dei secoli passati per cedere il posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed educazione, dobbiamo essere consapevoli che sacrifichiamo degli esseri senzienti, molti dei quali non conosceranno mai la libertà. Giocare a fare Gesù Negli ultimi anni si sono affermate strategie persino più radicali per salvare specie a rischio di estinzione. Lo scorso aprile è rimbalzata tra le testate nazionali e internazionali e sui social media la notizia della de-estinzione dell’enocione (Aenocyon dirus), specie scomparsa circa 10.000 anni fa, a opera del gruppo di ricerca dell’azienda statunitense Colossal Biosciences. La presunta “resurrezione” è stata decisamente ridimensionata nei giorni successivi e analizzata per capirne i reali risvolti conservazionistici, economici, etologici ed etici. Se la nascita di quei cuccioli di metalupo ‒ per l’esattezza lupi grigi il cui genoma è stato sottoposto a venti modifiche per fare assumere loro alcune delle caratteristiche dell’antico animale ‒ è da considerarsi tristemente poco più di una trovata pubblicitaria, la Colossal Biosciences è in realtà coinvolta nell’impresa disperata di salvare il rinoceronte bianco settentrionale (Ceratotherium simum cottoni). Questa sottospecie del rinoceronte bianco è stata vittima del bracconaggio e delle guerre civili che tormentano la Repubblica Democratica del Congo e il Sud del Sudan. Secondo le informazioni riportate dall’IUCN, non sono stati avvistati rinoceronti vivi dal 2006 e si ritiene siano probabilmente estinti nella Repubblica Democratica del Congo. L’ultima speranza di non perdere per sempre questo tassello di biodiversità è rappresentata da due femmine, Najin e Fatu, madre e figlia, trasferite nel 2009 dallo zoo di Dvůr Králové in Repubblica Ceca, in cui erano nate, alla riserva di Ol Pejeta, in Kenya. A loro si unirono Sudan, un maschio che era il padre di Najin e il nonno di Fatu, e Suni, il fratellastro di Fatu e Najin (quindi gli esemplari erano tra loro consanguinei) per incoraggiarne la riproduzione in un ambiente quanto più simile a quello d’origine di questi mammiferi. Il trasferimento non portò i risultati sperati: dal 2009 al 2013 ci furono diversi tentativi falliti di accoppiamento con Sudan, Suni e alcuni rinoceronti bianchi meridionali. Suni morì nel 2013 e Sudan nel 2018. Venuto meno il supporto degli esemplari maschi, il consorzio di cui fa parte anche Colossal Biosciences, sta procedendo con ulteriori prove mediante fecondazione in vitro ‒ usando lo sperma congelato dei due rinoceronti defunti ‒ e maternità surrogata. Sono interventi invasivi e non esenti da rischi per la salute anche negli animali non umani. Non possiamo sapere come andrà a finire, se la sofferenza causata a Najin e Fatu dagli spostamenti e dalle procedure mediche a cui sono state sottoposte servirà a non far scomparire la specie a cui appartengono. Stiamo giocando a “fare Dio”? Forse sarebbe meglio dire “giocare a fare Gesù”, con un riferimento esplicito alla resurrezione, come si racconta accadde a Lazzaro. Almeno così suggeriscono Bjørn Myskja e Mickey Gjerris, autori dello studio “Playing Jesus to Save Species: A Virtue Ethics Approach to Biotech De-Extinction Projects”, pubblicato su Journal of Agricultural and Environmental Ethics nell’aprile 2025. I due studiosi, attraverso l’esame del valore delle specie, delle responsabilità morali e del ruolo umano nelle estinzioni, si rivolgono all’etica della virtù per un nuovo approccio nei confronti della conservazione o del ripristino delle specie. L’etica della virtù si concentra sulle virtù e sul carattere morale delle persone, a differenza della deontologia, che si basa su regole e doveri, e del consequenzialismo, che valuta le azioni in base alle loro conseguenze. In particolare, riguardo al conflitto tra specie e individui, gli studiosi dichiarano nel testo: > Sebbene la de-estinzione possa ripristinare una specie, non può essere > realizzata senza il coinvolgimento di singoli animali, il cui benessere deve > essere considerato nelle decisioni etiche. A seconda delle procedure > impiegate, preoccupazioni come il benessere fisico e psicologico, la > conoscenza delle esigenze tipiche degli animali e la sensibilità alle > preferenze individuali devono guidare le nostre azioni. Virtù come la > compassione e la cura sono centrali in queste decisioni. Nel mondo in cui viviamo, l’essere umano ha creato situazioni che non possono essere risolte con soluzioni perfette e per le quali siamo costretti ad adottare scelte di compromesso. Davanti a questa prospettiva, la stima del rapporto costi/benefici, che scaturisce dal confronto tra il benessere di individui e la salvezza di una specie, dovrebbe soppesare molteplici fattori tra cui i dati scientifici, ma anche, ad esempio, le percezioni culturali. Queste dovrebbero essere le premesse per una riflessione continua e lucida sul nostro stile di vita, che ha portato a diminuire le opportunità di prosperare per gli esemplari di alcune specie. Myskja e Gjerris dichiarano nell’articolo: “In tali riflessioni, le risposte generali ci portano solo in parte verso una soluzione, che deve sempre essere particolare e contestualizzata”. Di conservazione si può anche morire Ipotesi di soluzioni particolari e contestualizzate sono quelle riportate in un’altra pubblicazione, comparsa su Science il 15 maggio scorso, intitolata “Deliberate extinction by genome modification: An ethical challenge. What circumstances might justify deliberate, full extinction of a species?” Per mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è una strategia di conservazione. Il gruppo di autrici e autori composto da scienziati appartenenti a differenti ambiti, tra cui bioeticisti, biologi della conservazione, ecologi ed esperti di scienze sociali, ha esaminato la possibilità di adoperare l’ingegneria genetica per estinguere localmente o globalmente tre particolari specie: la mosca del Nuovo Mondo (Cochliomyia hominivorax), la zanzara Anopheles gambiae, vettore della malaria, e le specie di roditori invasive come il topo domestico (Mus musculus) e i ratti (Rattus rattus e Rattus norvegicus). > Per mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un > ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è > una strategia di conservazione. Secondo l’analisi svolta, l’estinzione completa e deliberata potrebbe essere accettabile solo in casi estremamente rari, dopo la valutazione di fattori come le sofferenze causate ad animali umani o non umani dalla specie in esame, il suo impatto ecologico, l’efficacia delle strategie genomiche rispetto ai metodi tradizionali, il rischio di conseguenze indesiderate come l’estinzione involontaria della specie, la pericolosità della specie per la salute pubblica (compresa la sicurezza alimentare), il valore intrinseco della specie e i benefici ambientali che eventualmente esercita. Emerge anche l’importanza del coinvolgimento delle comunità locali e delle parti interessate nel processo decisionale, per assicurarsi che il problema sia esaminato da diverse prospettive, con un’adeguata rappresentanza di coloro che ne sono maggiormente colpiti. Dallo studio risulterebbe che solo la mosca del Nuovo Mondo, un parassita letale per l’essere umano e gli animali selvatici e d’allevamento, sarebbe eleggibile per l’eradicazione totale, mentre per Anopheles gambiae si dovrebbero dirottare le attenzioni direttamente sul plasmodio della malaria, e per topi e ratti ‒ da sempre vettori di malattie e causa di gravi danni alle scorte alimentari, alla fauna selvatica e agli ecosistemi ‒ sarebbe preferibile l’eliminazione solo a livello locale, concentrandosi su tecniche che agiscano in un intervallo di tempo limitato o si possano applicare su specifiche sottopopolazioni. Di modifiche genetiche (e strategie di conservazione), dunque, si può anche morire. Le basi di questa discussione potrebbero essere una guida per gli interventi che riguardano altre specie, proprio come lo scoiattolo grigio in Italia. Sempre grazie ai dati raccolti dall’IPBES, sappiamo che le specie aliene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni di cui siamo venuti a conoscenza: si stima che poco più di 200 tra queste abbiano causato oltre 1.200 estinzioni locali di specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di malattie o distruzione dei loro habitat. Ne conseguono anche danni per Homo sapiens, come scrive Piero Genovesi, responsabile ISPRA della conservazione della fauna e del monitoraggio della biodiversità, e tra i massimi esperti mondiali di specie aliene, nel suo libro Specie aliene. Quali sono, perché temerle e come possiamo fermarle (2024). Genovesi spiega che il passo dalla questione ecologica a quella sociale è molto breve. Le invasioni biologiche, infatti, possono avere conseguenze gravi anche per le persone, colpendo in particolare le comunità più vulnerabili e arrivando a minacciare anche la salute. Purtroppo, questa molteplicità di effetti negativi non è un’eccezione, ma una caratteristica frequente di molte invasioni biologiche, che spesso esercitano impatti su diversi ambiti, dalle attività economiche alle infrastrutture, fino a influenzare le economie locali e nazionali. > Le specie aliene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni locali di > specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di > malattie o distruzione dei loro habitat. Il caso dello scoiattolo grigio ha fatto emergere in Italia il conflitto tra specie e individui. Per una parte dell’opinione pubblica è stato difficile accettare che venissero eliminati quegli animali con cui avevano un contatto diretto, un sentimento amplificato dal loro aspetto simpatico, dalla loro socievolezza e dalla mancanza di consapevolezza dei danni che stavano arrecando. Le nuove tecnologie genomiche, che riducono al minimo la sofferenza degli animali durante le operazioni di eradicazione, insieme a un dialogo aperto che consideri sia la scienza sia l’etica, potrebbero rappresentare il futuro della tutela della biodiversità. Tuttavia, decisioni di questo tipo saranno sempre accompagnate da un profondo dilemma morale. Il residuo morale Inquinamento, distruzione di habitat, sfruttamento dei suoli, emissioni di gas serra, bracconaggio, disboscamento, cementificazione, commercio illegale di animali: queste sono solo alcune delle attività su cui avremmo dovuto e dovremmo agire per evitare un’imponente perdita di biodiversità e ridurre il rischio di estinzione di molte specie. Ci sono poi strategie più invasive, che evidenziano come Homo sapiens continui a esercitare il suo impatto sul pianeta e su tutti i suoi abitanti, anche se per salvare, curare, ripristinare. Non solo il dominio, anche la custodia può trasformarsi in una forma di controllo che imponiamo agli altri esseri viventi. È vero: abbiamo a disposizione conoscenze e strumenti per farlo nel migliore modo possibile, cercando di assicurare maggiore benessere per gli esemplari oggetto dei programmi di conservazione e di eradicazione. Resta il fatto che sosteniamo di voler far prosperare le specie, ma soprassediamo sul valore degli individui. A questo proposito, la giornalista Emma Marris, nel suo libro Anime Selvagge. La rigogliosa libertà del mondo non umano (2022) ci invita a fare i conti con il residuo morale, definito come l’insieme delle esigenze morali che rimangono insoddisfatte in situazioni che presentano un dilemma, come quelle descritte. Salvare lo scoiattolo comune europeo significa condannare a morte lo scoiattolo grigio, i tentativi per evitare l’estinzione del rinoceronte bianco settentrionale comportano rischi e forme di stress negli esemplari coinvolti nel progetto di salvaguardia della specie. Le scelte che adottiamo ci costringono a pagare dei costi etici inevitabili. “Non esiste un unico lieto fine per la vita sulla Terra, così come non esiste una formula semplice per agire eticamente in un mondo umanizzato”, scrive Marris: “Dobbiamo fare il meglio che possiamo con molteplici valori incommensurabili, e poi convivere con le scelte che abbiamo fatto, le specie non salvate, il dolore che abbiamo causato”. L'articolo Il lato oscuro della conservazione proviene da Il Tascabile.
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Quando la letteratura salva i territori
H aworth, cittadina del West Yorkshire ai piedi dei Monti Pennini, ha un’altitudine media di 234 metri. La via principale sale ripidissima verso la brughiera, tanto che le vecchie case edificate ai lati possono mostrare una facciata di soli due piani e al tempo stesso nasconderne sul retro anche cinque o sei, assecondando la discesa della collina a picco verso la vallata. In cima alla Main Street, davanti a un vecchio cimitero, si trova la canonica dove Charlotte, Emily e Anne Brontë vissero le loro brevi vite e scrissero opere immortali ispirate dal vento dell’ovest, che batte le brughiere tra Yorkshire e Lancashire con velocità medie di oltre 19,3 chilometri orari nelle stagioni fredde, arrivando fino a 22,4 nel mese di gennaio. “Wuthering” di Wuthering Heights (1847) significa proprio “un vento che soffia molto forte”: ed ecco che già nel titolo del suo romanzo Emily Brontë lega strettamente una storia di passione, vendetta e amore universale alla particolare natura della terra in cui è vissuta. «E vedremo se un albero non crescerà storto come un altro con lo stesso vento a piegarlo» (capitolo 17) è la sfida che Heathcliff lancia alle nuove generazioni di Cime Tempestose, utilizzando il vento come metafora di sé stesso. Di fatto, Heathcliff si è formato nell’immaginazione di Emily quale incarnazione delle rigide condizioni atmosferiche che lo hanno modellato e che si riflettono nella sua indole violenta e nelle sue trascinanti emozioni. Anche le storie di Charlotte e Anne e del fratello Branwell sono intimamente connesse alla brughiera che le ha generate: per questo visitare Haworth significa immergersi nella vita della famiglia Brontë. Uno dei modi per raggiungere la cittadina è prendere a Keighley il treno a vapore di una linea privata che trasferisce subito nell’aura dell’epoca. La canonica è oggi sede del Brontë Parsonage Museum, che ricrea l’atmosfera spartana della vecchia dimora famigliare e che da solo richiama 85.000 visitatori ogni anno. Chiunque si rechi in visita a Haworth non potrà fare a meno di notare come l’amore per la famiglia Brontë e per la sua eredità letteraria abbia contribuito alla conservazione del villaggio: dall’acciottolato di Main Street alle numerose botteghe dall’aspetto quanto più possibile vicino all’originale, come il negozio dove le tre sorelle si procuravano il materiale per scrivere. Un amore che si spinge fino a contemplare anche l’ambiente naturale circostante: dalla Brontë Waterfall, dove i giovani scrittori erano soliti scortare gli amici o ritirarsi in silenzio, fino a Top Withens e Ponden Hall, ritenute rispettivamente l’ispirazione per Cime Tempestose e Thrushcross Grange nel romanzo di Emily, l’intera brughiera di Haworth è un luogo di culto per i brontëani di tutto il mondo. Di più: dopo l’abbattimento dell’albero del Vallo di Adriano, i due sicomori che segnano il punto in cui si trovano le rovine di Top Withens sono forse i più amati in tutto il Regno Unito. > Chiunque si rechi in visita a Haworth non potrà fare a meno di notare come > l’amore per la famiglia Brontë e per la sua eredità letteraria abbia > contribuito alla conservazione non solo del villaggio, ma anche dell’ambiente > naturale circostante. Proprio a causa della sua ventosità Haworth è stata individuata come luogo ideale per investimenti in energia eolica. Nel corso del 2024 il proprietario di una catena di centri commerciali, in collaborazione con un’azienda saudita, ha sviluppato un piano per trasformare la brughiera nel Calerdale windfarm, progetto che prevede la costruzione di 65 turbine alte fino a 200 metri – «due terzi dell’altezza della Torre Eiffel». Secondo i sostenitori del progetto il parco eolico potrebbe generare energia sufficiente per alimentare 286.491 abitazioni e consentire così di risparmiare 426.246 tonnellate di carbone ogni anno. Di fatto, però, questi cambiamenti porterebbero a un danno devastante a livello paesaggistico e a conseguenze disastrose sotto il profilo ecologico. L’area interessata è infatti composta per il 90% circa da habitat prioritari sul territorio nazionale (torbiere, brughiere e zone umide) e ospita un’enorme varietà di fauna selvatica. Tra le voci degli oppositori si sono levate quelle di varie organizzazioni ambientali, preoccupate per la compromissione del ruolo che le torbiere hanno storicamente svolto nel mitigare le inondazioni, nonché per il rilascio del carbonio immagazzinato nel suolo. Joseph Holden, professore di geografia dell’Università di Leeds, ha spiegato come l’entità del danno supererebbe la grandezza delle singole turbine e delle loro fondamenta, giacché per ciascuna di esse si renderebbe necessario costruire una strada di accesso e interrare grossi cavi per collegarle alla rete elettrica nazionale, causando così la distruzione su larga scala della torba. Sono stati messi in luce anche i rischi per la fauna e in particolar modo per gli uccelli nidificanti, che verrebbero a perdere siti critici per la nidificazione trovandosi costretti a migrare in aree subottimali, qualora riescano a evitare collisioni fatali con le pale rotanti. Tuttavia, il peso più determinante nel blocco del progetto è forse quello che hanno avuto i membri della Royal Society of Literature e della Brontë Society, società storica che si occupa di promuovere e preservare l’eredità materiale e culturale della famiglia di scrittori, i quali hanno preso apertamente posizione dichiarando come lo sviluppo del progetto avrebbe «un impatto significativo e dannoso […] su un paesaggio di fama mondiale». Oggi la brughiera delle sorelle Brontë è diventata la settima riserva naturale nazionale (nonché prima nel West Yorkshire) della King’s Series of National Nature Reserves, piano con cui il governo britannico si è impegnato a nominare venticinque nuove riserve naturali in un periodo di cinque anni dall’incoronazione di Re Carlo III. La Bradford Pennine Gateway National Nature Reserve, questo il suo nome ufficiale, copre 1.274 ettari, di cui 738 (cioè il 58%) sono stati indicati come Site of special scientific interest (SSSI). La riserva è stata designata quale sede per studi e ricerche sul campo in collaborazione con università e college locali in vista dell’assegnazione dello status di Città della cultura per il 2025 alla città di Bradford. La creazione della Bradford Pennine Gateway, che collega otto siti naturali nell’area di Bradford e dei Pennini meridionali, segna un passo cruciale nel percorso di recupero degli ambienti naturali, non solo nello Yorkshire ma in tutto il Regno Unito, marcando un’importante vittoria della letteratura sull’economia green. Grazie alle suggestioni evocative con cui una famiglia di scrittori ha saputo animarle, le brughiere di Haworth sono diventate un patrimonio culturale protetto e tutelato, il che induce a porre una domanda interessante e ancora poco esplorata: che ruolo può avere la letteratura nella       salvaguardia di ecosistemi e territori? Educare alla conservazione ambientale con le opere letterarie Nel 1810 William Wordsworth pubblica la Guide to the lakes, in cui espone il resoconto di una salita su Scafell Pike, la montagna più alta d’Inghilterra. Il racconto è l’occasione per descrivere il Lake District, dove il poeta visse e trasse ispirazione per gran parte dei suoi lavori. In esso Wordsworth non si limita a descrivere il paesaggio, ma si concentra piuttosto sull’intento di trasmettere l’esperienza emotiva che la natura suscita in lui. Alcuni critici hanno notato come lo stile e il contenuto della Guide sembrino a loro volta ispirati a un’altra opera, Julie, ou la nouvelle Héloïse di Jean-Jacques Rousseau, ambientata nella regione delle Alpi svizzere di Vevey. Pur non contenendo una descrizione specifica del paesaggio alpino, il romanzo di Rousseau evoca infatti la bellezza naturale della regione utilizzando l’ambiente per restituire una specifica atmosfera e descrivere il rapporto intimo tra esseri umani e natura. Si crea così un doppio movimento: da un lato il resoconto di Wordsworth mostra l’impatto che la visione di Rousseau ha avuto sulla sua percezione del Lake District; dall’altro la versione di Wordsworth è destinata a influenzare il modo in cui i visitatori successivi (tra i quali Branwell Brontë) vivranno l’esperienza di scalare Scafell Pike. > Grazie al lavoro di una famiglia di scrittrici, le brughiere di Haworth sono > diventate un patrimonio culturale protetto e tutelato, il che induce a > domandarsi che ruolo possa avere la letteratura nella salvaguardia di > ecosistemi e territori. La grande quantità di opere letterarie che pone al proprio centro la natura mostra come letteratura e ambiente siano strettamente correlati, se non inseparabili. Come abbiamo visto per Wuthering Heights, la natura non è solo lo sfondo dell’azione o un elemento d’atmosfera, ma costituisce anche un aspetto fondante della trama. «Ora stai radunando i tuoi Personaggi in modo delizioso […] – 3 o 4 Famiglie in un Villaggio di Campagna è la cosa migliore per lavorarci su» scriveva Jane Austen in una lettera alla nipote Anna, intenta a pianificare la struttura di un romanzo. Che le opere letterarie siano in grado di sensibilizzare alla tutela dei territori e degli ecosistemi è la premessa alla base dell’ecoletteratura, disciplina ibrida che si pone come obiettivo quello di operare modifiche nel comportamento e nella mentalità utili a superare la crisi ambientale. Uno studio condotto nel 2023 da un gruppo di ricercatori dell’Universitas Islam Sumatera Utara, in Indonesia, su una selezione eterogena di opere a sfondo naturale osserva come queste svolgano un importante ruolo nella conservazione dell’ambiente e al tempo stesso nella formazione di una coscienza critica sull’importanza di mantenere l’integrità degli ecosistemi. Esperimenti interessanti in questo ambito esistono anche nel nostro Paese e si segnalano in particolare quelli condotti da ZEST, progetto di divulgazione letteraria fondato nel 2016 e dal 2024 attivo con una propria casa editrice. Tra le varie attività di ZEST si annovera la curatela di festival che prevedono al loro interno la presenza di panel internazionali, mostrando così una serie di punti di una geografia culturale che si possono unire. La preoccupazione per la conservazione degli ecosistemi e la consapevolezza che la letteratura possa avere un impatto significativo sulla coscienza umana del cambiamento hanno influenzato anche gli studi critici. Nel luglio 2013 il Dipartimento di inglese del St. Xavier’s College for women, in India, ha organizzato il primo seminario sull’ecocritica, con l’intento di sensibilizzare i lettori sull’urgenza del tema e sull’utilità di alcune delle aree studiate, selezionate dai relatori in collaborazione con attivisti ambientalisti. > Un recente studio condotto in Indonesia rivela come le opere a sfondo naturale > svolgano un importante ruolo nella conservazione dell’ambiente e nella > formazione di una coscienza critica sull’importanza di tutelare l’integrità > degli ecosistemi. «Lo studio della letteratura in chiave ecologica ha preso piede soprattutto negli Stati Uniti, a partire dagli anni Novanta» spiega Niccolò Scaffai, professore ordinario di letteratura italiana contemporanea, nel saggio Letteratura e ecologia (2017): > è in quel decennio, infatti, che si è affermato il cosiddetto Ecocriticism. > Più di recente, lo studio ecologico della letteratura si è diffuso anche in > Europa e in Italia, con premesse e obiettivi in parte diversi dal modello > americano. La differenza principale dipende da una diversa idea di natura e > paesaggio: nella cultura americana prevale il valore della wilderness, la > natura incontaminata e disabitata; nel contesto italiano, ambienti e paesaggi > sono determinati da una stretta relazione con la Storia. Letteratura e wilderness: il caso Big Sur Oltre 110 chilometri di scogliere a picco sull’oceano, a un’altezza compresa tra i 500 e 1.000 metri: Big Sur, sulla costa del Pacifico a sud di San Francisco, è stato mitizzato da artisti e scrittori per via della sua natura impervia e fortemente ispiratrice. Henry Miller vi si trasferì nel 1944, dopo essere sfuggito all’Europa e alla Seconda guerra mondiale e avere intrapreso un viaggio per «risalire alle fonti della natura e della cultura americana». Dal suo capanno vedeva la foresta precipitare verso le onde spumeggianti e le aquile volare sopra i canyon; di notte sentiva urlare i coyote, in «una regione dove gli estremi si toccano, dove si ha sempre un senso di stagione, di spazio, di grandiosità, di eloquente silenzio». Fino agli anni Trenta a Big Sur si arrivava soltanto a piedi o a cavallo: «Avanzare» scriveva Miller «significava lottare contro spine, rovi, liane». Per assecondare il crescente desiderio di sfuggire all’urbanizzazione e tornare alla natura, nel 1937 era stata inaugurata la celebre Highway 1, una delle strade panoramiche più iconiche del mondo. Paradossalmente, l’operazione aveva comportato lo scavo di pareti rocciose «a furia di dinamite», il riempimento di canyon e l’abbattimento di molte sequoie, oltre allo scarico di un’enorme quantità di detriti nell’oceano con conseguenze letali per la locale popolazione di abaloni. Nel suo memoriale Big Sur and the Oranges of Hieronymus Bosch (1957), Miller notò come l’apertura della strada avesse portato un numero crescente di turisti a riversarsi nella zona ed espresse il timore che il suo carattere speciale venisse rovinato. Cinque anni dopo gli fece eco Jack Kerouac, che nel suo romanzo Big Sur (1961) prese atto di come la cultura dell’autostop fosse cambiata, vedendo sfilare «un’elegante station wagon dopo l’altra». Oggi Big Sur attrae più di 4 milioni e mezzo di visitatori all’anno (stima: See Monterey), più dello Yosemite National Park. A differenza di quest’ultimo, però, non dispone delle infrastrutture adatte per gestire grandi folle e la sua struttura geologica ha risentito drammaticamente dello scavo dei monti Santa Lucia per fare spazio alla strada panoramica, attraversata dalla faglia San Gregorio-Hosgri. Le conseguenze si sono intensificate nell’ultimo decennio a causa di ripetuti incendi e dell’accelerare della crisi climatica: forti piogge seguite a mesi di siccità hanno fatto crollare a più riprese pezzi di corsia, dislocando oltre un milione di metri cubi di terra e detriti e bloccando per mesi l’accesso da sud a gran parte del Big Sur. Tuttora la strada è parzialmente chiusa e la riapertura completa viene continuamente rimandata perché la parte franata è ancora in movimento, con uno spostamento calcolato di un piede (circa 30 centimetri) al giorno. La maggior parte dei residenti non ha dubbi sul fatto che la costa si stia sgretolando in mare. La combinazione di incendi, che aumentano la suscettibilità del territorio all’erosione, e di piogge torrenziali è la ricetta perfetta per un continuo incremento delle frane. Al pari di altre destinazioni privilegiate nel mondo, Big Sur si trova dunque ad affrontare la difficile sfida di mantenere un’economia fondata sul turismo e al tempo stesso limitare l’impatto che questo ha sull’ambiente. Con simili dati la situazione si complica e ci spinge ad addentrarci in luoghi spinosi per trovare risposta alla nostra domanda. E se, come suggerisce il New York Times, fosse proprio l’amore che nutriamo per i luoghi letterari quello che li sta uccidendo? Il turismo letterario in Italia, tra Storia e strumentalizzazione In Italia si è sviluppato addirittura un sistema di Parchi letterari, organizzati attorno a uno scrittore o a una scrittrice e ai suoi luoghi di creazione, con l’idea di «ricercare e animare di suggestioni evocative i luoghi che hanno visto la presenza fisica e interpretativa di grandi letterati». Se il primo Parco letterario è stato creato in Norvegia, Giovanni Capecchi ne fa risalire l’origine nel nostro Paese alla Fondazione Ippolito Nievo, che nel 1992 ha fondato il Parco nieviano per preservare i luoghi e le vicende narrati in Le confessioni d’un italiano, con particolare attenzione per il Castello di Colloredo di Mont’Albano, parzialmente distrutto da un terremoto. > Il caso di Big Sur, un luogo invaso dal turismo anche per via del suo status > letterario, pone un interrogativo di segno opposto: e se l’amore che nutriamo > per i luoghi letterari, lungi dal tutelarli, finisse per condannarli? A differenza dei parchi “a tema letterario” (come il Parco policentrico Collodi in Toscana) i Parchi letterari non sono circoscritti in un perimetro preciso ma si estendono per un’ampia area geografica che aspira a corrispondere allo spazio fisico e psichico di un autore, spesso includendo gli edifici in cui questi ha vissuto e lavorato. I loro confini possono coincidere in parte con quelli di un parco naturale, ma perlopiù si tratta di itinerari ideali che riuniscono diverse attività allo scopo di promuovere il turismo locale. Sul finire degli anni Novanta diverse decine di Parchi sono sorte su tutto il territorio nazionale grazie alle sovvenzioni dell’Unione Europea. Alle soglie del 2000 se ne contavano 38, con oltre 300.000 visitatori nel 2000-2001. Elena Dai Prà, professoressa associata di geografia presso l’Università degli studi di Trento, spiega come il quadriennio 1997-2001 rappresenti «una tappa storica» per via del «grande fervore di progettualità che puntava sulla letteratura come chiave inedita per la valorizzazione territoriale». Solo nel Mezzogiorno furono presentate ben 238 proposte, anche se solo 17 riuscirono ad accedere ai finanziamenti della Sovvenzione globale. Un vero e proprio «boom dei Parchi» a cui è seguita una fase più difficile dopo il giugno 2001, che ha visto la conclusione del sostegno comunitario e ha portato alla chiusura di alcuni di essi. Nonostante queste difficoltà il dispositivo dei Parchi letterari continua a funzionare e il 24 luglio 2024, a San Terenzo, nel cuore del Golfo della Spezia, è stato inaugurato il Parco letterario Percy Bysshe Shelley. Fu infatti alla Villa Magni di San Terenzo che nel 1822 Shelley decise di passare l’ultima estate della sua vita insieme alla moglie e alcuni amici: è anche per il loro passaggio che il luogo è oggi noto come Golfo dei poeti. Il percorso ideale del Parco va dal giardino di Villa Magni al Monte Rocchetta che lo sovrasta, passando per il punto panoramico noto come Pietraia da cui si può godere della vista di quel golfo dove Percy trovò la morte. Mary Shelley ne parlava come di uno scenario «di una bellezza inimmaginabile […] come se ne vedono soltanto nei paesaggi di Salvator Rosa». Chissà cosa penserebbe se sapesse che quel golfo tanto amato è oggi occupato da un vero e proprio ecomostro il cui muro di cinta preclude l’accesso al mare. Si tratta dell’Arsenale della Marina militare, inaugurato nel 1869 e progressivamente abbandonato dopo aver perso più di 10.000 lavoratori e lavoratrici nel corso di una settantina d’anni. Secondo William Domenichini, membro dell’associazione Murativivi e autore del libro Il golfo ai poeti, No Basi Blu (2023) l’Arsenale è una «discarica vista mare» e presenta «una quantità di amianto impressionante», oltre a siti contaminati, sversamenti a mare e rischi nucleari. Benché la struttura si estenda all’interno del centro storico di La Spezia, coprendo una superficie totale di 900.000 m² e sviluppando un reticolo stradale di circa 13 km, oltre a 6,5 km di banchine che circondano quasi 1.400.000 m² di specchi acquei, non c’è in vista alcun piano di recupero o di riattivazione dei tanti capannoni abbandonati. È invece in atto la procedura di adeguamento agli standard NATO avviata dal Genio della Marina nel 2022, nell’ambito del programma Basi Blu: un progetto spacciato come “green” che in realtà non ha nulla di sostenibile e che porterà a un ulteriore ampliamento delle infrastrutture portuali militari per una spesa complessiva di 354 milioni di euro. > Chissà cosa penserebbe Mary Shelley se sapesse che quel golfo tanto amato è > oggi occupato da un vero e proprio ecomostro il cui muro di cinta preclude > l’accesso al mare. Che istituzioni di salvaguardia territoriale a mezzo culturale e comparto cantieristico di natura bellica riescano a convivere nel medesimo spazio è una delle contraddizioni tipiche del nostro tempo. Domenichini spiega che «il marketing territoriale a La Spezia è debordante: basti pensare che la centrale Enel, che fino a pochi mesi fa bruciava carbone e per 60 anni ha ucciso la gente è intitolata a Eugenio Montale.» Se l’amore (per la letteratura) non basta Quello del Golfo dei poeti non è certo un caso isolato, così come non lo è Big Sur; entrambi però ci aiutano a capire come l’amore per la letteratura, da solo, non sia sufficiente a salvaguardare territori ed ecosistemi quando le forze in gioco hanno nomi come collasso climatico, economia capitalista, assetto imperialista e overtourism. Il dispositivo del Parco letterario può essere interessante ma mostra tutti i suoi limiti proprio attraverso le iniziative che promuove, che sono slegate dalla comunità, alimentate da un motore politico e prive di continuità. Già nel 2003 Dai Prà notava l’assenza di una legislazione specifica che regoli modalità di attuazione e di gestione dei Parchi, che insieme all’«utilizzo prezzolato dei marchi registrati» rischiava di far scadere un progetto nato con finalità culturale in un prodotto alla moda di stampo anglosassone. Per le stesse ragioni è difficile attuare una vera didattica letteraria e ambientale nelle scuole, se tutto dipende dagli umori del dirigente scolastico di turno; eppure, questo avrebbe una messa a terra molto più concreta, con il coinvolgimento di studenti e studentesse anche nel periodo estivo. > Quello di cui avremmo bisogno è un cambio di prospettiva radicale: una visione > nuova, in grado di rivelare la bellezza degli ecosistemi al di là del loro > potenziale di sfruttamento ai fini del profitto. «Iniziative che culminano in laboratori di scrittura, storia del paesaggio e storia locale sono capaci di mettere in moto delle energie urgenti» mi spiega il poeta e saggista Francesco Maria Terzago, per il quale si può operare un cambiamento nella coscienza collettiva promuovendo un’educazione ambientale che sensibilizzi alla conservazione degli ecosistemi e che passi anche attraverso la letteratura: «Una letteratura capace di contaminarsi e di cambiare il suo punto di vista, che abbandoni una visione di privilegio per accogliere una policromia di sistema anche grazie all’utilizzo di spazi laboratoriali all’aperto. Questo si può e si deve fare soprattutto nelle periferie decentrate, per costruire una dimensione di relazione con chi abita in quelle frazioni e ripartire dalle piccole comunità.» Quello di cui avremmo davvero bisogno, in sintesi, è una classe intellettuale meno inerte, che trovi il coraggio di uscire dalle proprie fortezze costruite attorno al privilegio, di una classe politica non asservita alle ingerenze straniere e, per tutti e tutte, di un cambio di prospettiva radicale: una visione nuova, in grado di rivelare la bellezza degli ecosistemi al di là del loro potenziale di sfruttamento ai fini del profitto, che affranchi la Storia da ogni tentativo di strumentalizzazione sia nel senso revisionistico della propaganda che in quello predatorio del marketing. Solo così potrà emergere la nuova letteratura dell’Antropocene. L'articolo Quando la letteratura salva i territori proviene da Il Tascabile.
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I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan C. Slaght
U n Golem pennuto, un Muppet maligno, un arcigno bidone della spazzatura. Con questi epiteti Jonathan C. Slaght, biologo della fauna selvatica e scrittore, cerca di descrivere il gufo pescatore di Blakiston tra le pagine del libro I gufi dei ghiacci orientali (2024), pubblicato in italiano da Iperborea nella traduzione di Luca Fusari. Occorre, però, non farsi ingannare dal tono sprezzante di queste brevi descrizioni perché, già dalle prime righe, si comprende l’attrazione dell’autore per questo rapace elusivo e si percorrono i suoi passi nei gelidi e inospitali paesaggi del Territorio del Litorale, nell’Estremo Oriente russo, nel tentativo di conoscere e proteggere questo animale così raro. Il primo a descrivere il gufo pescatore, dopo un incontro in Giappone, fu il naturalista ed esploratore inglese Thomas Blakiston (1832-1891), da cui la specie (Ketupa blakistoni) prende il nome. Vladimir Arsen’ev (1872-1930), esploratore e scrittore, fu invece tra i primi russi ad addentrarsi nel paesaggio del Litorale, illustrandone flora, fauna e abitanti. Lo statunitense Jonathan C. Slaght visita quelle terre lontane poco più che adolescente e vi fa ritorno prima come studente universitario e, in seguito, nei Peace Corps: tre anni in cui si avvicina agli ornitologi russi e al loro lavoro. > «Del gufo pescatore avevo sentito parlare pressoché subito dopo aver scoperto > il Litorale. Per me era come un pensiero bellissimo che non riuscivo ad > articolare. Scatenava lo stesso desiderio ammaliante di un luogo che hai > sempre voluto esplorare, ma di cui a conti fatti non sai molto». Durante un’escursione, circa un secolo dopo le esplorazioni di Blakiston e Arsen’ev, l’autore riesce a fotografare un esemplare del rapace, per la prima volta così a sud. Le foto finiscono nelle mani del biologo Sergej Surmač, ornitologo di Vladivostok e unica persona in tutta la regione a occuparsi del gufo pescatore. Da quell’incontro alla progettazione di un dottorato di ricerca sul gufo il passo è breve. L’obiettivo è realizzare un piano di conservazione per questa specie in un’area naturale quasi incontaminata, quella della Russia dell’estremo orientale dei primi anni 2000, minacciata da attività come il disboscamento, la costruzione di strade e il bracconaggio. > Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della sua squadra > dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma: quella del gufo pescatore > è una presenza che, da principio, possiamo avvertire solo attraverso segni e > indizi. La pianificazione di Slaght, messa a punto proprio con l’aiuto di Surmač, mentore e collega che lo accompagnerà lungo diverse tappe della ricerca, è serrata e piuttosto ambiziosa considerando l’oggetto di studio, ossia un predatore estremamente sfuggente con ben due metri di apertura alare. Il programma è complesso: prima è necessario identificare la popolazione di gufi pescatori, quindi bisogna ricostruire areali e comportamenti attraverso la raccolta ed elaborazione di dati ottenuti dall’osservazione e da radiotrasmittenti e GPS applicati sul dorso di alcuni esemplari che, ovviamente, dovranno essere temporaneamente catturati senza esporli al minimo rischio. «Dopo soli tre mesi il mio progetto quinquennale mi sembrava già un viaggio affascinante, che lambiva i confini della civiltà umana alla scoperta di un gufo difficile da decifrare». Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della squadra che supporta il suo lavoro dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma: quella del gufo pescatore è una presenza che, da principio, si può avvertire solo attraverso segni e indizi, come la caratteristica forma a K delle impronte delle zampe sulla neve, la presenza di nidi, borre ‒  il rigurgito di cibo non digerito dall’animale ‒ e ascoltando in silenzio il duetto canoro delle coppie di uccelli in lontananza. Con il trascorrere delle settimane, dei mesi e degli anni, questa entità quasi ectoplasmica acquisisce un corpo. I primi avvistamenti sono delle epifanie: > Quando fummo a poche centinaia di metri dall’affluente, al crepuscolo, > qualcosa di massiccio saltò giù da un albero. Nonostante la penombra la sua > sagoma si stagliava sulla superficie ghiacciata del fiume vicino alle rupi, > davanti alla foce dell’affluente. Avevo già visto altri gufi nell’ombra e ne > riconobbi subito uno, ma questo era più grande. Era un gufo pescatore. Mi > accorsi che stavo trattenendo il fiato per la sorpresa. Si percepisce il freddo che punge la pelle e attanaglia la mente, la stanchezza di ore di cammino durante osservazioni senza risultati e l’inquietudine alimentata dalle poche ore di sonno. Procediamo nel racconto proprio come il biologo è andato avanti nella sua ricerca del gufo pescatore che, dopo tanti tentativi, finalmente appare nella sua corporeità: è lì sulle rive di un corso d’acqua, mentre ghermisce salmoni, alto poco meno di un metro, il becco adunco, gli occhi d’oro, le penne marroni che si confondono con i rami degli alberi in cui trova riparo e i ciuffi auricolari dritti sul capo. Un diavolo volante nelle foreste ripariali. > Ogni difficoltà superata dall’autore inserisce un ulteriore tassello nel > quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con > l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi, > rapporti essenziali da comprendere per una conservazione efficace. La conquista della conoscenza è lenta e disseminata di infiniti ostacoli, ma ogni difficoltà superata dall’autore e dal suo gruppo inserisce un ulteriore tassello nel quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi, rapporti essenziali da comprendere per una conservazione efficace. Questa è una lezione già nota, almeno in parte, per averla letta nelle opere di Vladimir Arsen´ev di cui lo stesso Slaght scrive in un articolo pubblicato su Scientific American: “Gli scritti di Arsen’ev non sono il catalogo di trionfi di un avventuriero narcisista che ci si potrebbe aspettare dalle memorie di una spedizione; sono invece appassionate odi alla natura selvaggia e alle genti dell’Estremo Oriente russo”. Il libro segue perfettamente questa traccia, con la prosa di un diario di campo che però, nell’ultimo capitolo, perde forza narrativa per diventare più simile a una relazione scientifica Nelle pagine precedenti, al contrario, la narrazione è coinvolgente e immersiva al punto che il lettore rimane spiazzato dagli effetti del susseguirsi delle stagioni, come ad esempio il tepore della primavera che diventa mortale quando scioglie i ghiacci che ricoprono i corsi d’acqua, trappole per mezzi di trasporto, uomini e caprioli indifesi. Si rimane guardinghi temendo il possibile incontro con un orso o con una tigre dell’Amur (quella che viene spesso chiamata erroneamente tigre siberiana) e nel percorrere questo viaggio insieme all’autore, ci si sofferma a riflettere sulla biodiversità ornitologica e ittica di un Paese così remoto. Anche la fauna umana è multiforme e, tra bevute di vodka, turni di osservazione e pause nelle banja ‒ le saune russe ‒ si incontrano personaggi scostanti e generosi come Viktor Čepelev,  individui dall’evidente fragilità come Anatolij, con il suo passato oscuro e la psiche cagionevole, o Andrej Katkov, ex poliziotto, esperto paracadutista, supporto nella cattura dei gufi e applicazione dei GPS satellitari, con il suo bisogno spasmodico di parlare. > I gufi dei ghiacci orientali è allo stesso tempo un reportage, un saggio sulla > conservazione, un racconto d’avventura e un romanzo di formazione. Tra i capitoli del volume si ritrovano riferimenti alla storia e alle abitudini delle popolazioni native Udege, popolo indigeno del sud-est della Siberia, informazioni che si riveleranno utili per capire, ad esempio, come catturare gli esemplari di gufo per inanellarli e dotarli di trasmittenti. Infatti, gli Udege erano soliti cacciare i gufi pescatori in inverno, quando la temperatura scende sotto i trenta gradi sottozero e servono altre fonti di cibo. Il metodo adoperato da queste genti, per fare degli uccelli un pasto, si rivela un suggerimento per progredire nello studio: > Sergej propose di fare come gli udege, ovvero utilizzare un ceppo. Gli > abitanti di Agzu ci avevano spiegato che gli udege cacciavano i gufi pescatori > tagliando un ceppo d’albero e posizionandolo nell’acqua bassa con sopra una > tagliola. I gufi, individuando nel ceppo un attraente punto di osservazione, > vi si posavano, con conseguenze letali. A noi, naturalmente, non interessava > mangiare i gufi ma soltanto trovarli […]. I gufi dei ghiacci orientali è un reportage, un saggio sulla conservazione, un racconto d’avventura e un romanzo di formazione, in cui l’entusiasmo di Slaght giovane dottorando, a seguito delle vicende raccontate, lascia il posto alla consapevolezza del conservatore della Wildlife Conservation Society, che continua a vigilare sul gufo pescatore di Blakiston. Alla fine di questa avventura, si è testimoni del contatto diretto e profondo con un animale e il suo habitat, un incontro che può cambiare completamente l’esistenza di un uomo e accenderne la vocazione. L'articolo I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan C. Slaght proviene da Il Tascabile.
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Acque sovrane, di guerra e propaganda
L a geopolitica dell’acqua oggi ha di certo meno visibilità rispetto alla corsa all’intelligenza artificiale o alla competizione tecnologica globale, ma resta un nervo scoperto nelle dinamiche di potere contemporanee. Ce lo ricordano le recenti tensioni tra India e Pakistan: dopo un attentato, Nuova Delhi ha sospeso il Trattato delle acque dell’Indo, minacciando di ridurre del 25% il flusso verso il Pakistan. In un’area dove l’agricoltura dipende in larga parte da quei fiumi condivisi, l’acqua torna a essere leva di pressione e possibile miccia di conflitto. A rendere ancora più instabile il quadro è l’impatto della crisi climatica, che accentua la vulnerabilità delle risorse idriche in tutto il mondo. L’aumento delle temperature, l’alterazione dei regimi delle piogge e la maggiore frequenza di eventi estremi compromettono la disponibilità e la prevedibilità dell’acqua, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e migrazioni. Anche regioni un tempo considerate relativamente sicure stanno affrontando scenari di scarsità. Negli Stati Uniti, nel 2023, sette Stati del sud-ovest hanno siglato un accordo per ridurre i prelievi dal fiume Colorado, evitando il collasso di metropoli come Los Angeles e Phoenix. Ma la portata del fiume continua a calare, ponendo interrogativi sempre più urgenti sulla sostenibilità di lungo periodo. > La crisi climatica sta accentuando la vulnerabilità delle risorse idriche in > tutto il mondo, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e > migrazioni. Sempre negli Stati Uniti, l’acqua è oggi al centro di dispute ben più grottesche. Nell’aprile 2025, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per annullare i limiti ambientali sulla pressione delle docce, lamentando che le regolazioni volute da Obama e Biden non gli consentivano di lavarsi bene i capelli. A inizio del suo secondo mandato e in un modo decisamente più preoccupante, rispolverando nostalgie imperiali, Trump ha evocato pubblicamente la necessità di “riprendere” il controllo del Canale di Panama, denunciando le tariffe panamensi come ingiuste e ventilando persino l’ipotesi di un’azione militare. In Africa, intanto, la Grand Ethiopian renaissance dam (GERD) continua a essere motivo di scontro diplomatico tra Etiopia, Egitto e Sudan, preoccupati per il controllo delle acque del Nilo Azzurro. Il progetto, ormai pienamente operativo, è destinato a ridisegnare i rapporti di forza nel Corno d’Africa. Il secolo delle acque forzate Queste dinamiche contemporanee trovano radici profonde nel modo in cui, durante il Novecento, si è concepita l’idrosfera: come spazio da dominare, modellare e sfruttare a fini economici, politici e simbolici. Winston Churchill, fermandosi nel 1908 a osservare il Nilo presso il lago Vittoria, scrisse che “una simile leva per controllare le forze naturali dell’Africa che nessuno impugna, può soltanto intrigare e stimolare l’immaginazione”. Negli anni successivi, la costruzione di dighe e sistemi idraulici divenne una pratica globale: Stati Uniti, Unione Sovietica, India e Cina investirono massicciamente in progetti di deviazione dei fiumi e costruzione di bacini, vedendo in essi strumenti di modernizzazione e legittimazione politica. Le dighe non solo fornivano irrigazione ed energia elettrica, esprimevano anche la capacità eroica dello Stato di dominare la natura per il bene collettivo. Due casi emblematici mostrano il costo di questa visione: in India, l’Inghilterra coloniale sfruttò l’Indo per consolidare il proprio dominio agricolo, mentre in Asia centrale l’Unione Sovietica progettò imponenti sistemi irrigui per sostenere la monocultura del cotone. L’ambizione sovietica portò alla ben nota vicenda del prosciugamento del lago d’Aral, con conseguenze disastrose: desertificazione, salinizzazione dei suoli, crollo dell’attività ittica, crisi sanitaria ed economica. > Prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita > nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in > invasi. Negli anni Duemila tornò a circolare ‒ in forma speculativa e mai ufficialmente stipulata in accordi ‒ l’ipotesi di rilanciare un antico progetto sovietico: deviare parte delle acque dei grandi fiumi siberiani verso la Cina nord-occidentale. Si parlava di piegare l’Irtyš, l’Ob, forse persino l’Enisej verso sud-est, oltre la frontiera, fino alle regioni del Xinjiang e del Gansu ‒ terre assetate, industrializzate, in piena espansione. Un canale artificiale lungo oltre mille chilometri: una ferita nella taiga da coprire con una promessa di prosperità. L’idea, più volte evocata da funzionari russi e cinesi, fu rilanciata nel 2002 dal sindaco di Mosca Yuri Luzhkov e rientrava, almeno idealmente, nelle prospettive di cooperazione idrica tra i due Paesi. Nulla di nuovo, in fondo: già negli anni Sessanta l’Unione Sovietica aveva concepito piani dettagliati per rovesciare il corso dei fiumi artici e trasferire enormi volumi d’acqua verso sud, con l’obiettivo di irrigare le steppe dell’Asia centrale e sostenere la produzione agricola. Ma il progetto ‒ noto come Northern river reversal ‒ venne abbandonato nel 1986, sotto le pressioni del mondo scientifico, per l’impatto ambientale potenzialmente devastante. Quel progetto mai realizzato, ma ciclicamente evocato, è forse il più recente fantasma di una lunga ossessione imperiale, moderna, nazionalista che nell’ex Unione Sovietica si è manifestata in modo particolarmente imponente: l’acqua come vettore di potere, oggetto di controllo tecnico e politico. Ma prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in invasi. C’è un caso, all’apparenza periferico, che racconta meglio di altri questa tensione. In un altopiano del Caucaso meridionale, un lago è stato trasformato in strumento di modernizzazione forzata, banco di prova per ingegneri, politici e ideologi. Una microstoria che rivela l’ambizione ‒ tipicamente novecentesca ‒ di rifare la geografia, riscrivere l’ecologia, disciplinare il paesaggio. Storia di un equilibrio fragile Arrivando dal Nord dell’Armenia, lungo le strade che scendono dal Parco nazionale di Dilijan ‒ detto anche Piccola Svizzera d’Armenia per i suoi paesaggi montuosi, le foreste dense e le sorgenti minerali curative – il lago di Sevan apre il paesaggio seguendo l’estensione del grande altopiano che lo contiene. L’altitudine si abbassa di poco, ma la vegetazione dirada e poi scompare, gli spazi si allargano. Con oltre mille chilometri quadrati a quasi duemila metri sul livello del mare, Sevan è la principale riserva d’acqua dolce del Caucaso meridionale e uno degli spazi simbolici più importanti dell’Armenia. > La storia del lago Sevan mostra come anche un bacino apparentemente periferico > possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni statali > e progetti di disciplinamento territoriale. Le sue rive sono abitate sin dall’antichità: ce lo dicono i ritrovamenti archeologici, come quelli di Lchashen, dove è stato rinvenuto il celebre carro dell’età del bronzo, o il cimitero medievale di Noraduz, con le tradizionali khachkar, le croci di pietra, conservate e tuttora prodotte in loco da piccoli laboratori artigiani. Croci di pietra, Sevan, 2024; fot. Giulio Burroni. Nonostante le pressioni ambientali e la crescita edilizia, Sevan è ancora oggi meta di turismo interno, frequentata per le spiagge, le escursioni in barca, la pesca, i monasteri sulle rive. Il più noto si trova su quella che un tempo era un’isola ‒ Sevanavank ‒ e che oggi è una penisola. Non è un dettaglio paesaggistico: è la traccia visibile di un abbassamento artificiale iniziato negli anni Trenta, quando il livello del lago venne ridotto per scopi irrigui ed energetici. Già negli anni Venti, l’ingegnere armeno Soukias Manasserian aveva proposto di abbassare Sevan di 45 metri per ridurre l’evaporazione e usare l’acqua a fini produttivi. La proposta, ripresa con entusiasmo nel Primo piano quinquennale, portò nel 1933 all’avvio della costruzione di un tunnel lungo quasi 40 chilometri, destinato a convogliare l’acqua verso sud, lungo il fiume Hrazdan. Completato nel 1949, il tunnel diede avvio al progressivo svuotamento del lago. Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, il livello si abbassò di quasi venti metri, con una perdita di volume stimata attorno al 40%. Le conseguenze furono gravi: perdita di biodiversità, prosciugamento delle coste, salinizzazione del suolo, alterazione del microclima. Alcuni scienziati armeni sollevarono l’allarme già negli anni Sessanta, ma le loro voci rimasero marginali. Solo nel 1978 si autorizzò la costruzione di un tunnel di reintegro (Arpa-Sevan), completato nel 1981. Un secondo tunnel, il Vorotan-Sevan, entrò in funzione nel 2004. > L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi > significava piegare la natura alla volontà dello Stato. Il lago ha recuperato alcuni metri, ma resta ecologicamente fragile, oggi minacciato da eutrofizzazione, inquinamento e gestione politica incerta. La sua storia, poco nota fuori dal Caucaso, mostra come anche un bacino apparentemente periferico possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni statali e progetti di disciplinamento territoriale. Una microstoria che racconta, in scala ridotta, le stesse logiche che hanno condotto al prosciugamento del lago d’Aral. Deviare fiumi, nutrire anime Sevan fu, in un certo senso, un prototipo. A partire dagli anni Cinquanta, la pianificazione sovietica riprodusse lo stesso schema in Asia Centrale, deviando i fiumi Amu Darya e Syr Darya per l’irrigazione intensiva del cotone: nacque così il ben noto disastro del Lago d’Aral, che in pochi decenni si ritirò lasciando dietro di sé deserti salati e relitti navali. Negli anni Ottanta fu la volta del Kara-Bogaz, golfo poco profondo del Mar Caspio, chiuso artificialmente e trasformato in un bacino sterile. L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi significava piegare la natura alla volontà dello Stato. Come spiega Frank Westerman nel suo reportage e saggio del 2020 Ingegneri di anime l’Unione Sovietica mise in scena una titanica alleanza tra ingegneri e scrittori, impegnati nella costruzione di un nuovo spazio fisico e ideologico. La tesi di Westerman è che il concetto di “dispotismo idraulico”, formulato da Karl Wittfogel, trovi la sua massima espressione in Unione Sovietica: lo Stato totalitario si legittima attraverso il controllo delle acque, imponendo su di esse una centralità politica, simbolica e produttiva che trascende la razionalità ecologica. > Oltre all’Unione Sovietica, anche i regimi autoritari europei del primo > Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica. La fede sovietica nella trasformazione della natura affonda le radici nel modernismo industriale. Lenin sintetizzava l’essenza del comunismo come “potere sovietico più elettrificazione del Paese”. Stalin ne radicalizzò la visione: fiumi da deviare, laghi da prosciugare, dighe da costruire. La tecnica, asservita al piano quinquennale, diventava quindi narrazione, epopea, mito. Nel cuore di questo racconto si collocano gli scrittori del realismo socialista. Alla cena organizzata da Maksim Gor´kij nel 1932, Stalin proclamò: > I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono > di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di > quella dei carri armati… Qui qualcuno ha osservato che gli scrittori non > possono restarsene zitti e fermi, che devono conoscere la vita del loro Paese. > L’uomo è trasformato dalla vita, e voi dovete aiutarlo nella trasformazione > della sua anima. La produzione di anime umane è importante. E per questo > brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime. Nasce così la letteratura idraulica: un sottogenere del romanzo sovietico calato dall’alto del regime (e sempre sottoposto ai raggi X della Glavlit, la Direzione generale per gli affari della letteratura e dell’editoria) che esalta l’opera pubblica come fondamento della nuova civiltà socialista e che funzionerà, da qui in avanti, come un dispositivo ideologico per mascherare le contraddizioni della modernità. Una su tutte: la realizzazione di queste opere fu davvero possibile solo grazie allo sfruttamento della manodopera di milioni di condannati ai lavori forzati. Terraformare l’Europa L’idea che la trasformazione dell’ambiente potesse diventare una leva narrativa e simbolica non fu esclusiva dell’Unione Sovietica. Anche i regimi autoritari europei del primo Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica: agire sulla natura significava dimostrare ordine, efficienza, potere. In Italia, il fascismo fece della bonifica integrale uno dei suoi principali dispositivi simbolici. Nonostante la portata di questi interventi fosse in realtà marginale, la redenzione delle paludi malariche, la trasformazione dell’Agro Pontino in insediamenti agricoli moderni e l’epopea dei pionieri della terra nuova divennero elementi centrali della propaganda. Cinegiornali, plastici, architetture monumentali e retoriche del lavoro contribuirono a costruire l’immagine di una natura domata e redenta, conferma tangibile della capacità del regime di instaurare un ordine anche ambientale. > Anche nel fascismo la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un > disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi. Frank Snowden, storico dell’Università di Yale, ha mostrato nel suo libro La conquista della malaria (2008) come questa modernizzazione comportò un costo umano elevatissimo: sradicamento di comunità rurali, imposizione di nuovi modelli di vita e aumento della mortalità tra i lavoratori delle opere di risanamento. Ma la politica ambientale del fascismo non si limitò alla pianura: anche in montagna, il regime promosse una vasta opera di elettrificazione alpina, costruendo dighe e bacini idroelettrici dalla Valtellina alla Val d’Aosta. La montagna domata, l’acqua incanalata e sublimata in energia, diventavano metafore dell’autarchia e dell’identità nazionale. Anche qui, come nella bonifica, la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi. Il nazionalsocialismo tedesco portò questo paradigma a un’estremizzazione ideologica. La dottrina Blut und Boden (sangue e suolo), elaborata dal ministro Richard Walther Darré, legava l’identità razziale alla terra, sostenendo che la sopravvivenza dell’ariano dipendesse dalla sua connessione ancestrale con il territorio tedesco. L’organizzazione del Reichsarbeitsdienst mobilitava migliaia di giovani in lavori pubblici, trasformando il paesaggio in un rituale collettivo di disciplina e appartenenza. In entrambi i casi, l’ambiente trasformato diventava un set politico e pedagogico, costruito attraverso propaganda, architettura e narrazione. L’acqua ‒ bonificata, deviata, trattenuta ‒ fu uno degli elementi privilegiati di queste operazioni ideologiche. Dispotismo idraulico e modernità socialista Il fascismo, il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico agirono, con gradi e strumenti diversi, all’interno di uno stesso orizzonte modernista: l’idea che la tecnica potesse dominare la natura, ordinarla, piegarla a fini produttivi, simbolici e politici. Anche il fascismo terraformò su larga scala, non solo nelle aree di bonifica ma anche attraverso la grande opera di elettrificazione delle Alpi, che comportò la costruzione di dighe, serbatoi artificiali, canali forzati e centrali idroelettriche. L’acqua montana venne incanalata e messa al lavoro per produrre energia, autosufficienza e immaginario patriottico. L’intervento non fu solo simbolico, ma modificò concretamente gli equilibri ambientali delle valli alpine e ne riscrisse la geografia. > Il fascismo spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio, ma > nessuno ha trasformato i suoi paesaggi su scala così vasta e in tempi così > rapidi come l’Unione Sovietica. La differenza rispetto al caso sovietico sta, forse, meno in una contrapposizione di intenti e più in una diversa magnitudo e organizzazione del progetto. Il fascismo mise in scena la potenza trasformativa della tecnica, ma spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio: la natura, pur disciplinata, continuava a funzionare come sfondo identitario e risorsa simbolica. L’URSS, invece, si spinse verso una visione più sistemica, in cui la natura ‒ e l’acqua in particolare ‒ veniva trattata come componente pienamente integrata nel meccanismo della produzione pianificata. Non solo da domare, ma da rimodellare funzionalmente. Come sottolinea John R. McNeill nella sua storia ambientale del Ventesimo secolo, nessun altro Stato ha trasformato i suoi paesaggi su scala così vasta e in tempi così rapidi come l’Unione Sovietica, animata da una miscela di ideologia, urgenza industriale e fede tecnocratica. Il concetto di “dispotismo idraulico” di Wittfogel voleva descrivere forme antiche di potere che fondavano la loro autorità sul controllo delle risorse idriche. Ma fu proprio nell’Unione Sovietica, secondo Westerman, che quel modello trovò un’espressione moderna, tecnologicamente aggiornata e ideologicamente giustificata. Il dominio sull’acqua genera inevitabilmente centralizzazione politica, burocrazia espansiva e gerarchie verticali: condizioni che trovano piena corrispondenza nell’organizzazione dell’economia pianificata sovietica, sostiene Westerman. A differenza dei regimi autoritari coevi in Europa, il socialismo reale non si limitò a rappresentare la natura come spazio da redimere: tentò di riorganizzarla integralmente secondo principi razionali e quantitativi su larghissima scala. L’acqua veniva misurata, deviata, redistribuita; i bacini, svuotati o riempiti a seconda delle esigenze della produzione agricola e industriale. Questa visione trovò la sua massima espressione nei piani idraulici dell’Asia centrale: milioni di ettari irrigati, chilometri di canali, prosciugamenti artificiali. > L’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero > marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un’analisi > della cosiddetta “frattura metabolica” tra società e natura. Il filosofo giapponese Kohei Saito ha sviluppato una critica radicale al modello estrattivista capitalistico, rileggendo Marx da una prospettiva ecologica: ma, sebbene in misura largamente minoritaria, nel suo Capitale nell’Antropocene (2024) Saito non tralascia di sostenere che l’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un’analisi della cosiddetta “frattura metabolica” tra società e natura. Per Marx, questa frattura ‒ causata dall’estrazione intensiva di risorse e dalla disconnessione tra produzione e riproduzione ecologica ‒ non era sanabile con il semplice superamento del capitalismo di mercato. Occorreva ristabilire un equilibrio tra i cicli della natura e le forme sociali. Il socialismo sovietico, invece, adottò un paradigma iperproduttivista, trasferendo le logiche del dominio ambientale dalla proprietà privata alla pianificazione centralizzata. La natura venne trattata come un deposito da svuotare, un ostacolo da regolare, una risorsa da calcolare. Seguendo Saito, quindi, la pianificazione sovietica non solo non colmò la frattura metabolica: la istituzionalizzò, trasformandola in uno squilibrio strutturale tra l’apparato statale e l’ambiente. L’acqua, da fattore di equilibrio, divenne leva di controllo. Decisamente più radicale la lettura ormai datata di Murray Feshbach e Alfred Friendly Jr. nel loro libro Ecocide in the USSR: Health and Nature Under Siege ‒ opera che a ridosso del crollo del 1992 segnò l’opinione pubblica occidentale con toni volutamente drammatici e generalizzanti: l’Unione Sovietica avrebbe trasformato l’intero continente eurasiatico in una zona di sacrificio ambientale, compromettendo irrimediabilmente ecosistemi, risorse idriche e salute pubblica, in nome della produzione e della segretezza di Stato. Secondo gli autori, l’ecocidio non era un incidente del sistema sovietico, ma una sua componente strutturale, favorita dall’opacità del potere e dalla logica pianificatrice che vedeva la natura solo come materia da sfruttare. In questo quadro, il lago Sevan può essere considerato un laboratorio preliminare, un esperimento su scala minore rispetto alle trasformazioni idrauliche realizzate in Asia Centrale, ma già pienamente paradigmatico. La deviazione del suo corso naturale, l’abbassamento controllato del livello, la trasformazione di un’isola in penisola, l’alterazione degli equilibri ecologici ed economici locali: tutto anticipava, per logica e metodo, quanto sarebbe accaduto vent’anni dopo con il disastro del lago d’Aral. La Casa degli scrittori di Sevan, 2024, fot. Giulio Burroni. Costruita negli anni Trenta in stile modernista, sorge su una penisola rocciosa del lago Sevan. Progettata come residenza estiva per l’élite letteraria sovietica, univa rigore funzionale e slancio avanguardista. Oggi, semidiroccata, ospita un ostello estivo e attira visitatori curiosi della sua storia. L’acqua è ancora infrastruttura del potere Oggi il controllo delle acque non è più dominio esclusivo dei regimi autoritari. Anche nelle democrazie neoliberali, l’acqua è al centro di nuovi conflitti: come risorsa scarsa, come leva geopolitica, come strumento di influenza economica. Durante l’amministrazione Trump, il paradigma si è aggiornato: dal rilancio delle grandi opere idrauliche alla sistematica deregulation ambientale, dalla riduzione dei vincoli federali sulle risorse idriche al disimpegno dai trattati sul clima e sulla cooperazione transfrontaliera. Il linguaggio si è fatto più pragmatico, orientato al mercato, epurato della grammatica della sostenibilità. > Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire > alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da > governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare. Nella riconfigurazione attuale dei rapporti tra natura e politica, l’acqua continua a essere un’infrastruttura strategica, al pari di un gasdotto o di una piattaforma logistica. Il caso del Canale di Panama, con la sua gestione contesa e le periodiche crisi idriche che ne minacciano l’operatività, dimostra quanto la disponibilità e il controllo dell’acqua siano tornati a essere nodi centrali nelle reti globali del potere. Allo stesso modo, la sospensione del Trattato delle acque dell’Indo da parte dell’India dopo l’attentato del 2025 ci dice come il flusso idrico possa essere impiegato come strumento di pressione internazionale, mettendo a rischio la sicurezza alimentare e sociale del vicino Pakistan. Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare. I progetti mai realizzati di deviazione dei fiumi siberiani non sono oggi interessanti per la loro fattibilità, ma per la logica che incarnano: la tentazione ricorrente di piegare l’idrosfera a un disegno politico, economico, ideologico. Da questo punto di vista, la vicenda del lago Sevan ‒ apparentemente marginale nella geografia dei grandi bacini ‒ si rivela paradigmatica. Lontana dalle megalopoli e dalle rotte globali, eppure profondamente inserita nella storia del dominio tecnico sulla natura, racconta con chiarezza come il controllo dell’acqua sia sempre anche controllo del territorio, dei corpi, dei futuri possibili. È in questi spazi periferici che si manifesta con maggiore nitidezza la persistenza ‒ e l’adattabilità ‒ del potere idraulico. L'articolo Acque sovrane, di guerra e propaganda proviene da Il Tascabile.
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