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N ella prefazione al libro di Monica Gagliano, Così parlò la pianta (2022),
testo di riferimento per gli studi sulle modalità attraverso cui le piante
sentono e comunicano tra di loro, Suzanne Simard, professoressa di forest
ecology presso la University of British Columbia (Vancouver, Canada), annota uno
spunto illuminante su cui è opportuno soffermarsi. Simard mette in relazione le
recenti scoperte scientifiche sulla sensibilità e sull’intelligenza vegetale ‒
rese note da Gagliano, Stefano Mancuso, Daniel Chamovitz, Eduardo Kohn, Anthony
Trewavas, ma anche Paco Calvo ed Emanuele Coccia ‒ con la saggezza degli
aborigeni del Nord America, depositari dei segreti della vita delle piante e
delle foreste. Prima di qualsiasi brevetto scientifico occidentale, è stato il
sapere delle comunità indigene a rivelare la dimensione relazionale della vita
vegetale, il profondo legame tra uomo e piante, individuando nella vita e nel
comportamento delle piante quegli aspetti che oggi riscopriamo attraverso gli
occhi della scienza, della filosofia e della biologia vegetale, e soprattutto
mostrando la necessità di preservare l’interdipendenza tra ambiente naturale ed
esseri viventi.
Autrice di un importante contributo dell’ecologismo mondiale e oggi direttrice
del The Mother Tree Project, Simard lavora al tentativo di ristabilire la
connessione rigenerativa tra l’uomo e le foreste, cioè con la natura, in un
periodo in cui i cambiamenti climatici segnano un profondo mutamento
dell’ambiente naturale. Partendo dal concetto di collaborazione delle piante,
Simard suggerisce di compiere una vera e propria reimmersione nel mondo vegetale
e nelle sue interrelazioni. L’intelligenza e la saggezza della foresta che
Simard svela nel suo libro è data dalla relazionalità e dallo scambio di
informazioni che la vita sotterranea indica, e che l’autrice ha brillantemente
individuato nelle reti micorriziche, sistemi fungini sotterranei che collegano
gli alberi e consentono lo scambio di informazioni e sostanze nutritive. Sulla
base di queste comunicazioni vegetali, la tesi centrale di Simard intende
mostrare che queste reti invisibili rivelano come la cooperazione, e non la
competizione, costituisca il cuore dell’evoluzione e della vita naturale.
> Prima di qualsiasi brevetto scientifico occidentale, è stato il sapere delle
> comunità indigene a rivelare la dimensione relazionale della vita vegetale, il
> profondo legame tra uomo e piante.
La tesi di Simard, tuttavia, affonda le sue radici in un sapere che supera la
tradizione scientifica occidentale a cui fa riferimento. Si tratta, infatti,
della saggezza indigena dei nativi americani, che aveva già individuato nella
collaborazione tra corpi il sistema della natura. Se questo aspetto sfugge, in
qualche modo, alla storia della cultura europea, e se questi spunti sono assenti
nei curricula accademici e scolastici dei nostri Paesi, sono invece le
tradizioni non europee a rivelarne l’importanza. Questo nesso è stato esplorato
da Robin Wall Kimmerer nel suo: La meravigliosa trama del tutto (2022). E su
questo aspetto meno diffuso tra i lettori vorrei focalizzare l’attenzione.
Direttrice del Center for native peoples and the environment, Wall Kimmerer nel
suo libro rivela un magnifico intreccio tra il sapere scientifico,
l’insegnamento accademico che ha ricevuto come studiosa di botanica da un lato,
e la saggezza indigena dei nativi americani che ha ereditato e acquisito
nell’incontro con i membri della sua famiglia, mostrando come queste due vie non
siano alternative ma possano coesistere e completarsi. La prima ci permette di
conoscere le piante e la natura, in una precisa divisione tra classi e generi, e
nello studio oggettivo di come funziona la vita delle piante. Ma agli occhi
dell’autrice questo sapere riduce le piante a oggetti separati, distinti dalla
vita umana, veri e propri oggetti pronti all’uso. Il rischio concreto è di
ridurre coerentemente questo approccio allo sfruttamento della vita vegetale.
In modo diverso, la saggezza indigena svela l’importanza della relazione degli
esseri umani con la natura e le piante al fine di conoscerne la bellezza, una
relazione che non si limita a un metodo di conoscenza, ma pervade tutte le
nostre modalità di comprensione ‒ nel comprendere, infatti, la nostra conoscenza
diventa relazione. La radice ecologica risiede nella capacità di individuare e
valorizzare questa relazione, ma vi è qualcosa di più, proprio perché questa
relazionalità può collegarsi alla scienza della natura. Come sottolineato da
Gregory Cajete, nel libro Look to the Mountain: An Ecology of Indigenous
Education (1994), questa prospettiva di conoscenza integrale deve coinvolgere le
quattro modalità della nostra esistenza, il cervello, il corpo, le emozioni e lo
spirito, e se l’aspetto scientifico privilegia due di queste vie va integrato a
una sapienza che metta in risalto la relazione con la natura.
In questo orizzonte, Wall Kimmerer colloca la riflessione sulla vita delle
piante, alla luce della relazione profonda che la natura instaura tra i diversi
corpi. Nella visione indigena, il mondo naturale non è una scala di esseri,
nella tirannia del più forte secondo la logica individualista della separazione,
ma è una democrazia di specie, quasi come se fosse una circolarità naturale. Al
di là della logica dell’economia di mercato, regolata dallo sfruttamento e dalla
separazione dei beni, il modello che si sviluppa a partire dalla relazione con
il mondo vegetale si fonda sulla cura, sullo scambio e l’incontro, in un
abbraccio che segue la logica del dono e della reciprocità: coltivare la natura
o raccogliere un frutto non è, quindi, una mera appropriazione, anche se quel
frutto poi verrà mangiato dal suo raccoglitore, e non lo è nella misura in cui
si stabilisce una rete relazionale profonda e uno scambio mutuale, sostiene Wall
Kimmerer.
> Nella visione indigena, il mondo naturale non è una scala di esseri, nella
> tirannia del più forte secondo la logica individualista della separazione, ma
> è una democrazia di specie, quasi come se fosse una circolarità naturale.
Se la scienza occidentale ha piuttosto distinto e isolato l’altro, l’autrice
mostra un ulteriore intreccio con l’insegnamento delle piante, che svela come
funziona l’interrelazione vitale tra i diversi corpi. La coordinazione che, per
esempio, si nota tra la fruttificazione e la raccolta di frutti compiuta da
alcune specie animali, denota secondo l’autrice una sincronicità che va oltre la
mera relazione ambientale, e sembra piuttosto confermare l’attività comune e la
capacità di dialogo tra i diversi corpi naturali. Un insegnamento che si
acquisisce dalla natura, e che quindi abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ma
che è stato codificato in modo efficace della sapienza tradizionale indigena.
Tra gli esempi, vi è quello di un’erborista Navajo che sostiene vi siano legami
duraturi tra determinate piante, così rivelando una sorta di simbiosi e di
scambio comunicativo in una relazione sostenibile con l’ecosistema. Da ultimo,
questo insegnamento trova conferma negli studi sulla simbiosi con i funghi –
sono infatti i lavori di Simard ad aver mostrato l’importanza delle reti
micorriziche nel costruire una catena di interrelazioni e reciprocità mediante
cui le piante comunicano tra di loro e stabiliscono una connessione vitale
fondamentale per l’intero ecosistema.
Che cosa altro ci dice questo aspetto? Secondo Wall Kimmerer, la vita delle
piante indica la possibilità di ripensare la natura non come oggetto da
sfruttare, ma come relazione. C’è di più: l’autrice definisce questa relazione
come un dono, la cui caratteristica centrale è lo scambio reciproco e
l’attenzione e la cura dell’altro (di chi coltiva la pianta, ma anche della
pianta stessa verso chi la abita). In tal senso, questa relazione apre
implicitamente l’orizzonte a un sistema economico e sociopolitico fondato sullo
scambio e sulla cooperazione, e quindi contrapposto a certe, numerose derive
dell’economia di mercato e della globalizzazione, come ad esempio le pratiche di
sfruttamento delle risorse naturali, che sono alla base della crisi ecologica
attuale. In alternativa a queste relazioni negative tra uomo e ambiente,
sviluppatesi nella cultura occidentale, Wall Kimmerer riporta una serie di
storie della tradizione orale indigena americana, al fine di mostrare le
possibilità di una relazione positiva con l’ambiente, che non è utile solo a
preservare la natura ma serve, in qualche modo, anche agli esseri umani: la
ricerca della felicità, per esempio, trova la propria realizzazione in una
relazione sostenibile con l’ecosistema naturale, in una reciprocità ultima che
l’autrice ha sperimentato raccogliendo fagioli.
A tutt’altra latitudine, un percorso analogo si ritrova nella cultura indiana ed
emerge nel lavoro di Sumana Roy, Come sono diventata un albero. Una canzone
d’amore (2022). Anche in questo caso, non si tratta di una semplice relazione
affettuosa con le piante, ed è ben più che l’abbandono della propria condizione
umana e ben più che un rapporto ristretto all’uso delle piante come abbellimento
casalingo. Le piante non si rivelano semplicemente come altro rispetto agli
esseri umani, ma mostrano un’alternativa che non è privazione. Come in altri
casi, Roy combina la frustrazione per la caoticità della vita umana con
l’incontro con l’alternativa delle piante, il cui silenzio è il suono della
resistenza e dell’economicità, cioè di una ribellione, di un’attività, non di
una mera passività. Il mondo vegetale, infatti, non è un mero ricettore, non un
mero oggetto, ma un attore nel mondo.
> Se è vero che le analogie tra piante e animali, e la metamorfosi del corpo
> umano in pianta hanno popolato la cultura occidentale fin dalle origini,
> Sumana Roy segue una linea più profonda e radicale, in cui la pianta non è un
> essere umano dimezzato, ma rivela una superiorità vitale importante.
Come nel caso di Wall Kimmerer, Roy combina l’esperienza personale alla propria
tradizione culturale, unendo filosofia, storia letteraria e botanica. Partendo
dalla filosofia di Deleuze e Guattari, Roy si immerge nella prospettiva di
diventare una pianta, traslando le proprie esperienze e adattandole al mondo
vegetale. Così, l’autrice non vede solamente la vita delle piante attraverso le
lenti umane, ma mostra il tentativo di trasformare il proprio sguardo e le
proprie relazioni accordandole al sistema vegetale. Fuor di metafora, l’autrice
intende cambiare tutti gli aspetti della sua vita, adeguandosi a quello che è lo
stile delle piante, di cui ricostruisce le caratteristiche nel corso del libro
e, in tal senso, intende diventare pianta.
Questo percorso si sviluppa dall’elaborazione di un modo nuovo di guardare la
natura vivente: se è vero che le analogie tra piante e animali,
l’immedesimazione e la metamorfosi del corpo umano in pianta hanno popolato la
cultura occidentale fin dalle origini ‒ si pensi all’opera di Orazio o ad
Apuleio, alla pena dell’inferno dantesco, o alla dendolatria, la venerazione
degli alberi che emerge nella pervasività della metafora arborea, ma anche
all’albero della vita (l’albero Tuba del Corano, il Yggdrasil della tradizione
normanna, l’albero Mahabodhi, e l’albero della vita di Klimt, per nominare
alcuni casi) ‒ Roy segue una linea più profonda e radicale, in cui la pianta non
è un essere umano dimezzato, ma rivela una superiorità vitale importante.
Diversamente da ogni tentativo di antropomorfizzare la natura, Roy percorre un
percorso di ascesa alla condizione vegetale, riconoscendo alle piante le
capacità fondamentali di resistenza, parsimonia e armonia con l’ambiente
naturale. Per esempio, si suggerisce di abbandonare la temporalità degli orologi
per seguire il tempo ciclico e lento dell’albero – definito tree time –
immedesimandosi in una dimensione alternativa in cui ripensare i ritmi della
vita e rimodellandola secondo un sistema diverso.
In questo senso, il libro non mostra solamente una modalità di acquisire
serenità muovendosi all’interno di un bosco o su una collina, lontano dal caos
cittadino, ma una possibilità di rigenerazione profonda. Roy, infatti, non
intende distruggere sé stessa né perdersi nella foresta, ma vuole ridare a sé
quella parte vegetale che ha perduto ‒ e che in un qualche modo tutti noi
abbiamo perduto ‒ cioè liberare la vita della foresta secondo l’insegnamento
della tradizione indiana. Non si intende perdersi nella foresta in un ritorno
alle origini, che pure appartiene a una certa tradizione occidentale, ma è un
vero e proprio rigenerarsi. Allo stesso tempo, non è solo amore per le piante,
per l’albero di fronte a casa o per il fiore sulla tavola, è lo sforzo di andare
alla sorgente (o, opportunamente, alla radice) della vita stessa.
> Sumana Roy non ricerca una via per trasformare le piante in esseri umani, ma
> una via per vegetalizzare l’uomo, un percorso al cui culmine c’è lo
> svuotamento di ogni violenza dell’umano e la possibilità di realizzare una
> società diversa.
Nel corso del libro, i numerosi riferimenti letterari rivelano la ricchezza
della sapienza indiana in questo ambito, dai lavori di Rabindranath Tagore, le
cui poesie celebrano la relazione tra uomini e piante, così come il percorso a
ritroso verso la natura o verso la foresta, al lavoro del botanico Jagaish
Chandra Bose, che ha studiato i movimenti automatici e la crescita delle piante,
rischiarando le ombre sulla vita segreta delle piante. In Tagore, infatti, la
conversione dell’essere umano in pianta rivela una fluidità tra specie, mentre
Bose esalta la spontaneità della vita vegetale. La stessa fluidità e spontaneità
emerge dalla riflessione di Roy sulle funzioni umane trasposte nella vita
vegetale, dall’esperienza sessuale al matrimonio con un albero, attraverso
l’immagine del matrimonio nel regno delle piante di Kahlil Gibran o nel poema di
A.K. Ramanujan. La complessità del comportamento delle piante rende plausibile
l’esistenza di un linguaggio vegetale che non sia antropomorfizzato, e al tempo
stesso rivela la possibilità di acquisire le dinamiche vegetali per ordinare
certi estremi della vita umana.
In tal senso, Roy non ricerca una via per trasformare le piante in esseri umani,
ma una via per vegetalizzare l’uomo, un percorso al cui culmine c’è lo
svuotamento di ogni violenza dell’umano e la possibilità di realizzare una
società diversa, fondata sull’assunto per cui la vita delle piante favorisce e
supporta la vita di tutti, fuori da ogni conflitto, in una mutualità e
collettività che deve necessariamente farci riconsiderare l’ordine della natura.
Questo è l’insegnamento che Roy intende portare a compimento, nel percorso di
“trasformazione” in albero. A tutti gli effetti, è la via di Buddha, la cui vita
spirituale è inestricabilmente legata alla venerazione dell’albero. Sulla scia
di questa lunga e ricca tradizione, il libro è un tentativo di vivere la vita
degli alberi: adeguando i propri desideri ai bisogni naturali, vivendo il tempo
delle piante, rigettando velocità, eccessi, caos e confusione, indicando una via
per cambiare sé stessi e la propria società.
In conclusione, le opere di Wall Kimmerer e di Roy, pur nate in contesti
culturali distanti, convergono nel riconoscere un valore paradigmatico alla vita
delle piante per dare voce e contenuto a un nuovo umanesimo. Non si tratta di un
ritorno nostalgico alla natura, alla Rousseau, per intenderci, ma di una
rigenerazione, che parte dalla vita vegetale e dalla conoscenza scientifica del
comportamento delle piante. Infatti, le scoperte preziose della scienza
occidentale, che oggi rivela l’importanza e la complessità della vita e del
comportamento vegetale, rischiano di essere confinate agli interessi degli
studiosi e possono apparire distanti dalla vita quotidiana. Integrare queste
scoperte con la saggezza delle tradizioni non europee ne rivela l’importanza e
mostra un modo diverso di vivere la relazione con la natura. Seguendo la
reciprocità e mutualità delle piante, non si tratta di perdere la nostra
umanità, ma al contrario di portarla a compimento, aprendo a quegli aspetti che
caratterizzano la vita vegetale e che permettono di realizzare una società più
giusta e sostenibile, adatta alle sfide del futuro.
L'articolo Cosa hanno da insegnarci le piante proviene da Il Tascabile.
“U na variante naturale del comportamento sessuale umano”: così molti
concepiscono oggi l’omosessualità. […] Tuttavia in questo senso sono parimenti
‘naturali’: la pedofilia, la violenza sessuale, l’omicidio, ecc.
Pro Vita & Famiglia Onlus, 2015
Così si apre uno degli articoli più emblematici della retorica anti-LGBTQIA+
contemporanea. Un testo che, con linguaggio fintamente pacato ma ideologicamente
feroce, costruisce un castello di nessi logici malfermi per sostenere che
l’omosessualità, benché osservabile nella natura in più di 1500 specie, sarebbe
in realtà contronatura dal punto di vista morale.
Ma cos’è la natura e cosa significa essere contronatura? La domanda è antica, ma
la risposta tutt’altro che fissa. È da questa ferita semantica e filosofica che
si muove il libro Natura contronatura. Estetica ecoqueer (2025) di Dario Alì e
Vincenzo Grasso: un saggio radicale e lucido che non si limita a difendere le
identità queer dalle accuse di “innaturalità”, ma ribalta interamente il tavolo.
La natura che invocano i Pro Vita è tutt’altro che neutra. È una costruzione
ideologica: pura, eterosessuale, bianca e fertile.
Nel popolare game show italiano Ciao Darwin, il gioco prevede l’ingresso della
figura a di “Madre natura”, con la discesa scenica della scalinata accompagnata
dall’Adiemus di Karl Jenkins: la modella scelta era sempre donna, magra, in
bikini e soprattutto senza parola. Ed è così che abbiamo rappresentato la natura
per secoli: muta, desiderabile, docile. Nel libro viene citata la natura secondo
Merchant ovvero repressiva, priva di ironia o ambiguità. Alì e Grasso
ripercorrono i nuovi poteri simbolici e ritrovano proprio “nel Medioevo la
trasformazione del concetto di Natura, che viene investita di un nuovo potere:
diventa la fonte delle leggi morali, giuridiche, sociali. Il rapporto tra quello
che è naturale e un ordine pre-esistente e divino si rafforza e consolida e con
esso l’idea che esista un solo modo ‘giusto’ di esistere e vivere”. Gli esempi
di rappresentazioni di trucidazioni, lapidazioni e violenza, nel corso della
storia dell’arte sono molteplici e Alì e Grasso sottolineano come servissero “a
perpetuare l’oppressione attraverso l’arte, legittimando la violenza simbolica e
fisica nei confronti di chi veniva percepito come l’altro” .
> Nel Medioevo la natura diventa la fonte delle leggi morali, giuridiche,
> sociali. Il rapporto tra quello che è naturale e un ordine preesistente e
> divino si consolida, e con esso l’idea che esista un solo modo “giusto” di
> esistere.
Questa riflessione sull’uso simbolico dell’arte apre a una domanda più profonda:
come si costruisce l’idea di normalità? Da dove nasce l’ossessione culturale per
un “ordine” che separa corpi accettabili da corpi abietti, desideri legittimi da
desideri proibiti? È a partire da questa ossessione che prende forma la visione
estetica e politica della natura che il saggio va a smontare.
> Gli esseri umani, infatti, dimostrano una predisposizione profonda a cercare e
> riconoscere dei pattern di ordine nel mondo naturale. Tali ordini forniscono
> modelli concreti e tangibili per concettualizzare ordini astratti, inclusi
> quelli morali e sociali. In altre parole, la natura serve da vasto repertorio
> di metafore e analogie attraverso le quali rappresentiamo e diamo senso a idee
> complesse di organizzazione e struttura. In quest’ottica, ciò che esiste in
> natura non solo descrive il mondo, ma prescrive anche come il mondo umano
> dovrebbe essere”.
La natura quindi non solo descrive il mondo ma lo plasma. Ma se viene smontata
pezzo per pezzo l’idea di una natura “pura”, preesistente, dominante e
normativa, allora non resta che aprire uno spazio per un altro processo, uno
spazio puramente immaginativo. Se la natura è sempre stata un costrutto storico
e dettato dalla cultura dominante, allora la contronatura può diventare un campo
di possibilità estetico-politiche, un atto di immaginazione e resistenza. E qui
il libro si fa esplosivo. Un esempio illuminante offerto da Alì e Grasso
riguarda il discorso anti-tossico nell’ambientalismo: l’idea che l’inquinamento
chimico alteri un ordine “naturale”. Giovanna Di Chiro (2010) osserva come
questa ansia ambientale contemporanea si intrecci con paure culturali profonde,
come quelle legate alla mascolinità. “‘Nuotare negli estrogeni’ è una delle
immagini ricorrenti nei media scientifici popolari per spiegare l’instabilità
pan-specie della mascolinità, come se l’identità maschile fosse in pericolo per
contaminazione”. Il corpo “naturale” viene così difeso come maschio, cis,
fertile. Il resto è visto come contaminazione, devianza, contronatura.
Nel 1994, sulla rivista accademica UnderCurrents, Shauna M. O’Donnell scriveva
“Una politica della natura non può più essere un’articolazione del privilegio
prescrittivo o descrittivo bianco, maschile ed eterosessuale”. Già allora gli
studenti e le studentesse della York University of Toronto, Canada, si
accorgevano delle intersezioni tra politiche ambientali e teorie queer. Iniziò
così, trent’anni fa, un’esplorazione dello spazio queer in natura, o quella che
viene definita contronatura, una svolta che appare come epocale.
> Se la natura è sempre stata un costrutto storico e dettato dalla cultura
> dominante, allora la contronatura può diventare un campo di possibilità
> estetico-politiche, un atto di immaginazione e resistenza.
Questo scarto tra norma e corpo vissuto attraversa anche l’arte visiva
contemporanea. Alì e Grasso propongono nel saggio un’idea di contronatura
attraverso esempi di arte ecoqueer capace di scardinare le narrazioni
problematiche che riducono il vivente a norma, gerarchia, purezza. Così la
contronatura diventa non solo un atto estetico e un gesto critico ma una vera e
propria possibilità culturale. Tra gli esempi più evocativi c’è Paradise Camp,
l’opera dell’artista indigena queer Yuki Kihara e curata da Natalie King che
mette in discussione i paesaggi, la natura e la visione di Gauguin e del suo
celebre dipinto del 1897 Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?. Nell’opera
di Kihara vengono rappresentate in maniera autentica le identità fa’afafine di
Samoa, un vero e proprio terzo genere. Queste identità sono sempre state
rappresentate in maniera errata dallo sguardo colonizzatore ed eteronormativo di
Gauguin perché piegate a un’unica visione binaria dominante. O maschio o
femmina. Le opere di Yuki Kihara attuano una vera e propria ribellione
dell’ecologia queer, che mostra una natura differente: “L’estetica
eteronormativa prescrive come ‘naturali’ corpi fondati sulla coincidenza tra
sesso biologico e genere, negando loro ogni possibilità di piacere svincolato
dal telos riproduttivo e imponendo l’ideale di corpi progettati per non
fallire”.
Ma il lavoro dell’arte ecoqueer non è solo decostruire una visione imposta, è
anche percorrere nuove strade. Gli esempi proposti da Alì e Grasso mostrano le
rappresentazioni artistiche dell’animale, del mostro e del non umano come
rivendicazione di nuove soggettività. Da TRANSGENESIS (2021) di Agnes
Questionmark che esplora il superamento non solo dei generi ma anche della
stessa umanità, creando una vera e propria nuova specie umano-cefalopode, fino
alle tre serie Green Porno, Seduce Me e Mammas di 38 cortometraggi di Isabella
Rossellini che con la sua ironia, matericità e attorialità mostra la vita
sessuale e i comportamenti riproduttivi delle varie specie.
Nel capitolo dal titolo “Altri mostri”. Alì e Grasso svolgono un lavoro di fino
mostrando mostri, mutanti, corpi trans*, ibridi, chimere: gli attori della nuova
alleanza ecologica che partono dal discorso-manifesto di Paul B. Preciado,
mettendo in discussione il dualismo natura-cultura. Scrive Preciado in Sono un
mostro che vi parla (2021): “È da questa posizione di malato mentale a cui mi
relegate che mi rivolgo a voi, in quanto scimmia-umano di una nuova era. Sono il
mostro che vi parla. Il mostro che avete costruito con i vostri discorsi e le
vostre pratiche”. Questa dichiarazione, poetica e politica, denuncia la recente
storia di patologizzazione per le persone trans*. Infatti solo nel 2018 l’OMS
(Organizzazione Mondiale della Sanità) ha rimosso la disforia di genere dalla
categoria dei disturbi mentali, inserendola in una nuova classificazione,
nell’ambito della salute sessuale, come “incongruenza di genere”. In Italia, il
28 luglio 2025 ha marcato il decennale dell’obbligo alla sterilizzazione
chirurgica delle persone trans* imposto dai tribunali. Per ottenere la
rettificazione anagrafica e la possibilità di procedere alle terapie di
affermazione di genere, si doveva attraversare un rigido processo binario
patologizzante, fatto di giudici, sterilizzazioni forzate e un anno obbligatorio
di psichiatria. Una violenza che non è solo privata, ma sistemica, come
sottolinea anche Preciado: vieni riconosciuto come persona non appena assumi e
introietti i codici del maschile dominante. Questa però è una reiterazione della
stessa gabbia simbolica del quadro di Gauguin. Una scelta binaria. O maschio o
femmina.
> Solo nel 2018 l’OMS ha rimosso la disforia di genere dalla categoria dei
> disturbi mentali, inserendola in una nuova classificazione, nell’ambito della
> salute sessuale, come “incongruenza di genere”.
Ma l’identità trans* non vive in queste logiche binarie eteronormative, per
questo, come sottolineano Alì e Grasso, accogliere la mostruosità significa
accettare la natura dissidente e in continua metamorfosi del proprio corpo
trans*. “Il corpo transessuale è un corpo innaturale” aggiunge nel 1994 Susan
Stryker in My Words to Victor Frankesnstein above the Village of Chamounix “È il
prodotto della scienza medica. È un costrutto tecnologico […] Sento un’affinità
in quanto donna transessuale con il mostro descritto di Frankenstein di Mary
Shelley. Come il mostro, anche io sono molto spesso percepita come non
pienamente umana a causa delle modalità della mie incarnazione […] E come il
mostro rivolgo [la mia rabbia] contro le condizioni nelle quali devo lottare per
poter esistere”.
Così lo spazio della contronatura è quello dove ciò che viene escluso dal
“naturale” può finalmente prendere voce, amare, esistere. Ci sono narrazioni che
si muovono dentro queste coordinate, che mettono al centro corpi queer e trans*
non come trauma ma come possibilità, come felicità, come geografie affettive
capaci di immaginare altri mondi.
Come creare quindi un immaginario altro? Scardinando ciò che viene chiamato
“normale”, restituendo spazio a ciò che è stato rimosso, marginalizzato e
silenziato. Raccontare un paesaggio diverso, fatto di corpi desideranti, non
normalizzati, non regolati dalla paura, è forse uno dei gesti più radicali
attuati da Alì e Grasso per rispondere a chi invoca ancora oggi “la natura” come
confine e condanna.
La contronatura è la possibilità di immaginare altri mondi, altre ecologie,
altri desideri. È un atto necessario in questo contesto politico, e in fondo, è
anche una delle prerogative del lavoro culturale.
L'articolo Natura contronatura. Estetica Ecoqueer di Dario Alì e Vincenzo Grasso
proviene da Il Tascabile.
F ulmini di pelo grigio corrono nelle aree verdi del Nord Italia e non
disdegnano un premio in cibo, preso direttamente da mani umane, mentre vengono
immortalati per l’immancabile video o fotografia per i social media. Sono gli
scoiattoli grigi (Sciurus carolinensis): a un occhio poco attento ambasciatori
della natura in zone urbanizzate, nella realtà una minaccia per i nostri
ecosistemi arrivata dagli Stati Uniti. Dal 1948, anno in cui alcuni esemplari
giunsero in Piemonte, questa specie ha dato filo da torcere allo scoiattolo
comune (Sciurus vulgaris), a cui ruba le scorte di cibo per l’inverno e che può
contagiare con il poxvirus, di cui è portatore sano. La popolazione degli
scoiattoli grigi nei decenni è cresciuta fino a diventare una minaccia reale per
la sopravvivenza dei cugini europei. Nel 1997 l’Istituto nazionale per la fauna
selvatica ‒ l’attuale ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca
Ambientale) ‒ avviò un progetto sperimentale per l’eradicazione della specie
aliena invasiva, ma l’iniziativa fu ostacolata da alcuni cittadini e
associazioni e venne sospesa in seguito a un’azione giudiziaria. Questa storia,
che si concluse con l’assoluzione degli scienziati coinvolti nel progetto e
nella prosecuzione del programma di eradicazione, è emblematica di uno degli
aspetti più critici della conservazione della natura: la scelta tra la vita di
una specie invece che un’altra, la salvezza di alcuni e la morte per altri.
Tutto per il bene della biodiversità.
Quell’attrito tra etica ambientale ed etica animale
Per biodiversità si intende ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi;
include la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi, ma può essere
più semplicemente descritta come la ricchezza della vita sulla Terra: le miriadi
di esseri viventi che la abitano, il loro patrimonio genetico, i complessi
ecosistemi che essi costituiscono. È la rete pulsante costituita dalle specie e
dalle loro relazioni e interazioni, in grado di fornire cibo, acqua potabile,
aria pulita e tutto ciò che definiamo servizi ecosistemici. Nel momento in cui
una specie viene meno o una relazione s’incrina, il meccanismo può incepparsi e
le conseguenze possono essere molto gravi e propagarsi su più livelli, da quello
sanitario a quello economico, passando per la sicurezza alimentare.
> Inserirsi negli ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di
> evoluzione comporta dei costi, uno di questi è dover scegliere di sacrificare
> una specie per risparmiarne un’altra.
Proteggere la biodiversità è cruciale per la nostra sopravvivenza e per quella
del pianeta per come lo conosciamo, ma i dati a nostra disposizione non
dipingono un quadro roseo. Nel 2019, il rapporto dell’IPBES (Intergovernmental
Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) ha evidenziato
che oltre un milione di piante e animali rischieranno l’estinzione nei prossimi
decenni a causa dell’attività umana. La sesta estinzione di massa a cui stiamo
assistendo scatena in noi indignazione, paura, l’urgenza di attivarsi per
fermare una catastrofe di cui ci sentiamo (e siamo) i colpevoli. Inserirsi negli
ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di evoluzione comporta, però,
dei costi e uno di questi è proprio dover scegliere di sacrificare una specie
per risparmiarne un’altra, di fare soffrire degli individui, degli esseri
senzienti, per salvaguardare degli ecosistemi che noi stessi abbiamo messo in
pericolo.
È l’attrito tra etica ambientale ed etica animale di cui parla Simone Pollo,
docente di filosofia morale dell’Università di Roma La Sapienza ed esperto di
etica del vivente, nel suo libro Umani e animali: questioni di etica (2016). La
stessa forza muscolare con cui abbiamo esercitato il nostro dominio su qualsiasi
risorsa naturale, ora la impieghiamo per la tutela della fauna selvatica. La
lezione di Charles Darwin che ci ricollocava al nostro posto, animali tra gli
animali, non è stata assimilata e ci rapportiamo al resto della biosfera con il
solito ben radicato antropocentrismo. Pollo scrive:
> L’anti-antropocentrismo che emerge dalla trasformazione darwiniana implica,
> piuttosto, una revisione del punto di vista dal quale le nostre risposte
> morali sono espresse e un ridimensionamento delle loro stesse richieste. Nel
> caso specifico qui in esame la pretesa di intervenire nelle vite degli animali
> selvatici in modo così intrusivo appare come una mossa problematica, nella
> misura in cui incarna una “dissonanza” con la reale collocazione degli esseri
> umani sulla Terra. La comprensione di questa posizione appare più
> efficacemente soddisfatta da un diverso atteggiamento nei confronti degli
> animali selvatici.
A questi ultimi dovremmo garantire il rispetto verso la loro libertà,
l’indipendenza e la possibilità di prosperare. Le politiche di conservazione
della natura, però, sono il risultato di un equilibrio tra istanze
antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per i servizi che
assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore assoluto,
intrinseco, a ciò che ci circonda. Sono il risultato di calcoli in cui la vita
di individui animali, che di quella diversità sono artefici e attori, è solo una
delle infinite variabili di cui tenere conto.
Specie da salvare a qualsiasi costo
Il conflitto tra individui e specie emerge spesso nella salvaguardia della
natura. In alcuni casi è particolarmente evidente, come nella conservazione ex
situ. È una strategia adottata per tutelare specie rare e gravemente minacciate,
il cui stato in natura è talmente critico da non garantirne la sopravvivenza nei
loro habitat (in situ), oppure perché gli ecosistemi in cui vivono sono ormai
così degradati da rendere incerto il loro futuro. Quindi, esemplari delle specie
in pericolo sono tenuti e fatti riprodurre in cattività: sono una scialuppa di
salvataggio, una scorta di animali da reintrodurre nel caso in cui le
popolazioni in situ non riuscissero a sopravvivere.
> Le politiche di conservazione della natura sono il risultato di un equilibrio
> tra istanze antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per
> i servizi che assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore
> assoluto, intrinseco, a ciò che ci circonda.
La reintroduzione di individui che non hanno mai vissuto nel proprio habitat
richiede ingenti sforzi e risorse e il successo non è mai garantito.
Improbabile, però, non significa impossibile. Un esempio è quello del condor
della California (Gymnogyps californianus). Nel 1967 il condor della California
fu classificato come specie in pericolo di estinzione: il calo drastico della
popolazione osservato nel Ventesimo secolo era dovuto al bracconaggio,
all’avvelenamento da piombo e al danneggiamento dell’habitat di questo animale.
Non si esclude che anch’esso fosse una delle vittime del DDT sul suolo
americano. Nel 1983, il US Fish and Wildlife Service ‒ l’agenzia governativa
degli Stati Uniti che si occupa della gestione e conservazione della fauna
selvatica, della pesca e degli habitat naturali ‒ avviò un programma di
riproduzione in cattività, in collaborazione con lo zoo di Los Angeles e il San
Diego Wild Animal Park a cui si unirono altre istituzioni. Nel frattempo, in
natura, le popolazioni di condor continuarono a diminuire fino a quando, nel
1985, rimasero solo nove esemplari selvatici alla mercé delle stesse cause che,
nel corso del tempo, avevano minacciato questa specie. Le autorità decisero di
catturare i condor rimasti e introdurre anche loro nel programma di riproduzione
in cattività. Era il 1987 e per quattro anni nessun condor della California volò
nei cieli statunitensi.
Era un progetto ambizioso: la riproduzione era solo una parte di un percorso che
richiedeva anche una riabilitazione comportamentale degli esemplari nati in
cattività. Una specie non è definita unicamente dai propri geni, ma anche da
cultura e da sistemi sociali, quando presenti. Qualcuno avrebbe dovuto insegnare
ai condor a evitare i pericoli, umani compresi, a cercare cibo in un ambiente
per loro sconosciuto e a riacquisire tutti quei comportamenti che si imparano
dalla vita in natura, seguendo l’esempio dei propri genitori e conspecifici. Gli
sforzi di scienziate e scienziati non furono vani: secondo i dati della IUCN
(International Union for the Conservation of Nature), la popolazione è aumentata
fino ad arrivare a 223 uccelli nell’agosto 2003, di cui 138 in cattività e 85
reintrodotti in California e nel nord dell’Arizona. La riproduzione in natura è
ripresa nel 2002 e ora avviene in tutte le sottopopolazioni selvatiche della
California, dell’area tra Arizona e Utah e della Baja California, in Messico.
Attualmente la popolazione selvatica conta 93 individui maturi ed è in aumento.
Quello dei condor della California non è l’unico esempio di reintroduzione
riuscita. Un altro caso è quello del gorilla di pianura occidentale (Gorilla
gorilla gorilla) in Congo e Gabon, avviata nel 1996 dalla Fondazione Aspinall.
> Nonostante gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità
> collezionistiche per cedere il posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed
> educazione, dobbiamo essere consapevoli che sacrifichiamo degli esseri
> senzienti, molti dei quali non conosceranno mai la libertà.
Dietro queste storie di successo, ci sono milioni di animali in cattività per
cui non esiste un lieto fine, neanche in termini di generazioni future.
Nonostante strutture come gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità
collezionistiche e l’atmosfera da wunderkammer dei secoli passati per cedere il
posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed educazione, dobbiamo essere
consapevoli che sacrifichiamo degli esseri senzienti, molti dei quali non
conosceranno mai la libertà.
Giocare a fare Gesù
Negli ultimi anni si sono affermate strategie persino più radicali per salvare
specie a rischio di estinzione. Lo scorso aprile è rimbalzata tra le testate
nazionali e internazionali e sui social media la notizia della de-estinzione
dell’enocione (Aenocyon dirus), specie scomparsa circa 10.000 anni fa, a opera
del gruppo di ricerca dell’azienda statunitense Colossal Biosciences. La
presunta “resurrezione” è stata decisamente ridimensionata nei giorni successivi
e analizzata per capirne i reali risvolti conservazionistici, economici,
etologici ed etici.
Se la nascita di quei cuccioli di metalupo ‒ per l’esattezza lupi grigi il cui
genoma è stato sottoposto a venti modifiche per fare assumere loro alcune delle
caratteristiche dell’antico animale ‒ è da considerarsi tristemente poco più di
una trovata pubblicitaria, la Colossal Biosciences è in realtà coinvolta
nell’impresa disperata di salvare il rinoceronte bianco settentrionale
(Ceratotherium simum cottoni). Questa sottospecie del rinoceronte bianco è stata
vittima del bracconaggio e delle guerre civili che tormentano la Repubblica
Democratica del Congo e il Sud del Sudan. Secondo le informazioni riportate
dall’IUCN, non sono stati avvistati rinoceronti vivi dal 2006 e si ritiene siano
probabilmente estinti nella Repubblica Democratica del Congo. L’ultima speranza
di non perdere per sempre questo tassello di biodiversità è rappresentata da due
femmine, Najin e Fatu, madre e figlia, trasferite nel 2009 dallo zoo di Dvůr
Králové in Repubblica Ceca, in cui erano nate, alla riserva di Ol Pejeta, in
Kenya. A loro si unirono Sudan, un maschio che era il padre di Najin e il nonno
di Fatu, e Suni, il fratellastro di Fatu e Najin (quindi gli esemplari erano tra
loro consanguinei) per incoraggiarne la riproduzione in un ambiente quanto più
simile a quello d’origine di questi mammiferi. Il trasferimento non portò i
risultati sperati: dal 2009 al 2013 ci furono diversi tentativi falliti di
accoppiamento con Sudan, Suni e alcuni rinoceronti bianchi meridionali. Suni
morì nel 2013 e Sudan nel 2018. Venuto meno il supporto degli esemplari maschi,
il consorzio di cui fa parte anche Colossal Biosciences, sta procedendo con
ulteriori prove mediante fecondazione in vitro ‒ usando lo sperma congelato dei
due rinoceronti defunti ‒ e maternità surrogata. Sono interventi invasivi e non
esenti da rischi per la salute anche negli animali non umani. Non possiamo
sapere come andrà a finire, se la sofferenza causata a Najin e Fatu dagli
spostamenti e dalle procedure mediche a cui sono state sottoposte servirà a non
far scomparire la specie a cui appartengono.
Stiamo giocando a “fare Dio”? Forse sarebbe meglio dire “giocare a fare Gesù”,
con un riferimento esplicito alla resurrezione, come si racconta accadde a
Lazzaro. Almeno così suggeriscono Bjørn Myskja e Mickey Gjerris, autori dello
studio “Playing Jesus to Save Species: A Virtue Ethics Approach to Biotech
De-Extinction Projects”, pubblicato su Journal of Agricultural and Environmental
Ethics nell’aprile 2025. I due studiosi, attraverso l’esame del valore delle
specie, delle responsabilità morali e del ruolo umano nelle estinzioni, si
rivolgono all’etica della virtù per un nuovo approccio nei confronti della
conservazione o del ripristino delle specie. L’etica della virtù si concentra
sulle virtù e sul carattere morale delle persone, a differenza della
deontologia, che si basa su regole e doveri, e del consequenzialismo, che valuta
le azioni in base alle loro conseguenze. In particolare, riguardo al conflitto
tra specie e individui, gli studiosi dichiarano nel testo:
> Sebbene la de-estinzione possa ripristinare una specie, non può essere
> realizzata senza il coinvolgimento di singoli animali, il cui benessere deve
> essere considerato nelle decisioni etiche. A seconda delle procedure
> impiegate, preoccupazioni come il benessere fisico e psicologico, la
> conoscenza delle esigenze tipiche degli animali e la sensibilità alle
> preferenze individuali devono guidare le nostre azioni. Virtù come la
> compassione e la cura sono centrali in queste decisioni.
Nel mondo in cui viviamo, l’essere umano ha creato situazioni che non possono
essere risolte con soluzioni perfette e per le quali siamo costretti ad adottare
scelte di compromesso. Davanti a questa prospettiva, la stima del rapporto
costi/benefici, che scaturisce dal confronto tra il benessere di individui e la
salvezza di una specie, dovrebbe soppesare molteplici fattori tra cui i dati
scientifici, ma anche, ad esempio, le percezioni culturali. Queste dovrebbero
essere le premesse per una riflessione continua e lucida sul nostro stile di
vita, che ha portato a diminuire le opportunità di prosperare per gli esemplari
di alcune specie. Myskja e Gjerris dichiarano nell’articolo: “In tali
riflessioni, le risposte generali ci portano solo in parte verso una soluzione,
che deve sempre essere particolare e contestualizzata”.
Di conservazione si può anche morire
Ipotesi di soluzioni particolari e contestualizzate sono quelle riportate in
un’altra pubblicazione, comparsa su Science il 15 maggio scorso, intitolata
“Deliberate extinction by genome modification: An ethical challenge. What
circumstances might justify deliberate, full extinction of a species?” Per
mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un
ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è
una strategia di conservazione. Il gruppo di autrici e autori composto da
scienziati appartenenti a differenti ambiti, tra cui bioeticisti, biologi della
conservazione, ecologi ed esperti di scienze sociali, ha esaminato la
possibilità di adoperare l’ingegneria genetica per estinguere localmente o
globalmente tre particolari specie: la mosca del Nuovo Mondo (Cochliomyia
hominivorax), la zanzara Anopheles gambiae, vettore della malaria, e le specie
di roditori invasive come il topo domestico (Mus musculus) e i ratti (Rattus
rattus e Rattus norvegicus).
> Per mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un
> ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è
> una strategia di conservazione.
Secondo l’analisi svolta, l’estinzione completa e deliberata potrebbe essere
accettabile solo in casi estremamente rari, dopo la valutazione di fattori come
le sofferenze causate ad animali umani o non umani dalla specie in esame, il suo
impatto ecologico, l’efficacia delle strategie genomiche rispetto ai metodi
tradizionali, il rischio di conseguenze indesiderate come l’estinzione
involontaria della specie, la pericolosità della specie per la salute pubblica
(compresa la sicurezza alimentare), il valore intrinseco della specie e i
benefici ambientali che eventualmente esercita. Emerge anche l’importanza del
coinvolgimento delle comunità locali e delle parti interessate nel processo
decisionale, per assicurarsi che il problema sia esaminato da diverse
prospettive, con un’adeguata rappresentanza di coloro che ne sono maggiormente
colpiti. Dallo studio risulterebbe che solo la mosca del Nuovo Mondo, un
parassita letale per l’essere umano e gli animali selvatici e d’allevamento,
sarebbe eleggibile per l’eradicazione totale, mentre per Anopheles gambiae si
dovrebbero dirottare le attenzioni direttamente sul plasmodio della malaria, e
per topi e ratti ‒ da sempre vettori di malattie e causa di gravi danni alle
scorte alimentari, alla fauna selvatica e agli ecosistemi ‒ sarebbe preferibile
l’eliminazione solo a livello locale, concentrandosi su tecniche che agiscano in
un intervallo di tempo limitato o si possano applicare su specifiche
sottopopolazioni. Di modifiche genetiche (e strategie di conservazione), dunque,
si può anche morire.
Le basi di questa discussione potrebbero essere una guida per gli interventi che
riguardano altre specie, proprio come lo scoiattolo grigio in Italia. Sempre
grazie ai dati raccolti dall’IPBES, sappiamo che le specie aliene invasive hanno
contribuito al 60% delle estinzioni di cui siamo venuti a conoscenza: si stima
che poco più di 200 tra queste abbiano causato oltre 1.200 estinzioni locali di
specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di
malattie o distruzione dei loro habitat. Ne conseguono anche danni per Homo
sapiens, come scrive Piero Genovesi, responsabile ISPRA della conservazione
della fauna e del monitoraggio della biodiversità, e tra i massimi esperti
mondiali di specie aliene, nel suo libro Specie aliene. Quali sono, perché
temerle e come possiamo fermarle (2024). Genovesi spiega che il passo dalla
questione ecologica a quella sociale è molto breve. Le invasioni biologiche,
infatti, possono avere conseguenze gravi anche per le persone, colpendo in
particolare le comunità più vulnerabili e arrivando a minacciare anche la
salute. Purtroppo, questa molteplicità di effetti negativi non è un’eccezione,
ma una caratteristica frequente di molte invasioni biologiche, che spesso
esercitano impatti su diversi ambiti, dalle attività economiche alle
infrastrutture, fino a influenzare le economie locali e nazionali.
> Le specie aliene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni locali di
> specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di
> malattie o distruzione dei loro habitat.
Il caso dello scoiattolo grigio ha fatto emergere in Italia il conflitto tra
specie e individui. Per una parte dell’opinione pubblica è stato difficile
accettare che venissero eliminati quegli animali con cui avevano un contatto
diretto, un sentimento amplificato dal loro aspetto simpatico, dalla loro
socievolezza e dalla mancanza di consapevolezza dei danni che stavano arrecando.
Le nuove tecnologie genomiche, che riducono al minimo la sofferenza degli
animali durante le operazioni di eradicazione, insieme a un dialogo aperto che
consideri sia la scienza sia l’etica, potrebbero rappresentare il futuro della
tutela della biodiversità. Tuttavia, decisioni di questo tipo saranno sempre
accompagnate da un profondo dilemma morale.
Il residuo morale
Inquinamento, distruzione di habitat, sfruttamento dei suoli, emissioni di gas
serra, bracconaggio, disboscamento, cementificazione, commercio illegale di
animali: queste sono solo alcune delle attività su cui avremmo dovuto e dovremmo
agire per evitare un’imponente perdita di biodiversità e ridurre il rischio di
estinzione di molte specie. Ci sono poi strategie più invasive, che evidenziano
come Homo sapiens continui a esercitare il suo impatto sul pianeta e su tutti i
suoi abitanti, anche se per salvare, curare, ripristinare. Non solo il dominio,
anche la custodia può trasformarsi in una forma di controllo che imponiamo agli
altri esseri viventi. È vero: abbiamo a disposizione conoscenze e strumenti per
farlo nel migliore modo possibile, cercando di assicurare maggiore benessere per
gli esemplari oggetto dei programmi di conservazione e di eradicazione. Resta il
fatto che sosteniamo di voler far prosperare le specie, ma soprassediamo sul
valore degli individui.
A questo proposito, la giornalista Emma Marris, nel suo libro Anime Selvagge. La
rigogliosa libertà del mondo non umano (2022) ci invita a fare i conti con il
residuo morale, definito come l’insieme delle esigenze morali che rimangono
insoddisfatte in situazioni che presentano un dilemma, come quelle descritte.
Salvare lo scoiattolo comune europeo significa condannare a morte lo scoiattolo
grigio, i tentativi per evitare l’estinzione del rinoceronte bianco
settentrionale comportano rischi e forme di stress negli esemplari coinvolti nel
progetto di salvaguardia della specie. Le scelte che adottiamo ci costringono a
pagare dei costi etici inevitabili. “Non esiste un unico lieto fine per la vita
sulla Terra, così come non esiste una formula semplice per agire eticamente in
un mondo umanizzato”, scrive Marris: “Dobbiamo fare il meglio che possiamo con
molteplici valori incommensurabili, e poi convivere con le scelte che abbiamo
fatto, le specie non salvate, il dolore che abbiamo causato”.
L'articolo Il lato oscuro della conservazione proviene da Il Tascabile.
H aworth, cittadina del West Yorkshire ai piedi dei Monti Pennini, ha
un’altitudine media di 234 metri. La via principale sale ripidissima verso la
brughiera, tanto che le vecchie case edificate ai lati possono mostrare una
facciata di soli due piani e al tempo stesso nasconderne sul retro anche cinque
o sei, assecondando la discesa della collina a picco verso la vallata. In cima
alla Main Street, davanti a un vecchio cimitero, si trova la canonica dove
Charlotte, Emily e Anne Brontë vissero le loro brevi vite e scrissero opere
immortali ispirate dal vento dell’ovest, che batte le brughiere tra Yorkshire e
Lancashire con velocità medie di oltre 19,3 chilometri orari nelle stagioni
fredde, arrivando fino a 22,4 nel mese di gennaio. “Wuthering” di Wuthering
Heights (1847) significa proprio “un vento che soffia molto forte”: ed ecco che
già nel titolo del suo romanzo Emily Brontë lega strettamente una storia di
passione, vendetta e amore universale alla particolare natura della terra in cui
è vissuta. «E vedremo se un albero non crescerà storto come un altro con lo
stesso vento a piegarlo» (capitolo 17) è la sfida che Heathcliff lancia alle
nuove generazioni di Cime Tempestose, utilizzando il vento come metafora di sé
stesso. Di fatto, Heathcliff si è formato nell’immaginazione di Emily quale
incarnazione delle rigide condizioni atmosferiche che lo hanno modellato e che
si riflettono nella sua indole violenta e nelle sue trascinanti emozioni.
Anche le storie di Charlotte e Anne e del fratello Branwell sono intimamente
connesse alla brughiera che le ha generate: per questo visitare Haworth
significa immergersi nella vita della famiglia Brontë. Uno dei modi per
raggiungere la cittadina è prendere a Keighley il treno a vapore di una linea
privata che trasferisce subito nell’aura dell’epoca. La canonica è oggi sede del
Brontë Parsonage Museum, che ricrea l’atmosfera spartana della vecchia dimora
famigliare e che da solo richiama 85.000 visitatori ogni anno. Chiunque si rechi
in visita a Haworth non potrà fare a meno di notare come l’amore per la famiglia
Brontë e per la sua eredità letteraria abbia contribuito alla conservazione del
villaggio: dall’acciottolato di Main Street alle numerose botteghe dall’aspetto
quanto più possibile vicino all’originale, come il negozio dove le tre sorelle
si procuravano il materiale per scrivere. Un amore che si spinge fino a
contemplare anche l’ambiente naturale circostante: dalla Brontë Waterfall, dove
i giovani scrittori erano soliti scortare gli amici o ritirarsi in silenzio,
fino a Top Withens e Ponden Hall, ritenute rispettivamente l’ispirazione
per Cime Tempestose e Thrushcross Grange nel romanzo di Emily, l’intera
brughiera di Haworth è un luogo di culto per i brontëani di tutto il mondo. Di
più: dopo l’abbattimento dell’albero del Vallo di Adriano, i due sicomori che
segnano il punto in cui si trovano le rovine di Top Withens sono forse i più
amati in tutto il Regno Unito.
> Chiunque si rechi in visita a Haworth non potrà fare a meno di notare come
> l’amore per la famiglia Brontë e per la sua eredità letteraria abbia
> contribuito alla conservazione non solo del villaggio, ma anche dell’ambiente
> naturale circostante.
Proprio a causa della sua ventosità Haworth è stata individuata come luogo
ideale per investimenti in energia eolica. Nel corso del 2024 il proprietario di
una catena di centri commerciali, in collaborazione con un’azienda saudita, ha
sviluppato un piano per trasformare la brughiera nel Calerdale windfarm,
progetto che prevede la costruzione di 65 turbine alte fino a 200 metri – «due
terzi dell’altezza della Torre Eiffel». Secondo i sostenitori del progetto il
parco eolico potrebbe generare energia sufficiente per alimentare 286.491
abitazioni e consentire così di risparmiare 426.246 tonnellate di carbone ogni
anno. Di fatto, però, questi cambiamenti porterebbero a un danno devastante a
livello paesaggistico e a conseguenze disastrose sotto il profilo ecologico.
L’area interessata è infatti composta per il 90% circa da habitat prioritari sul
territorio nazionale (torbiere, brughiere e zone umide) e ospita un’enorme
varietà di fauna selvatica.
Tra le voci degli oppositori si sono levate quelle di varie organizzazioni
ambientali, preoccupate per la compromissione del ruolo che le torbiere hanno
storicamente svolto nel mitigare le inondazioni, nonché per il rilascio del
carbonio immagazzinato nel suolo. Joseph Holden, professore di geografia
dell’Università di Leeds, ha spiegato come l’entità del danno supererebbe la
grandezza delle singole turbine e delle loro fondamenta, giacché per ciascuna di
esse si renderebbe necessario costruire una strada di accesso e interrare grossi
cavi per collegarle alla rete elettrica nazionale, causando così la distruzione
su larga scala della torba. Sono stati messi in luce anche i rischi per la fauna
e in particolar modo per gli uccelli nidificanti, che verrebbero a perdere siti
critici per la nidificazione trovandosi costretti a migrare in aree subottimali,
qualora riescano a evitare collisioni fatali con le pale rotanti. Tuttavia, il
peso più determinante nel blocco del progetto è forse quello che hanno avuto i
membri della Royal Society of Literature e della Brontë Society, società storica
che si occupa di promuovere e preservare l’eredità materiale e culturale della
famiglia di scrittori, i quali hanno preso apertamente posizione dichiarando
come lo sviluppo del progetto avrebbe «un impatto significativo e dannoso […] su
un paesaggio di fama mondiale».
Oggi la brughiera delle sorelle Brontë è diventata la settima riserva naturale
nazionale (nonché prima nel West Yorkshire) della King’s Series of National
Nature Reserves, piano con cui il governo britannico si è impegnato a nominare
venticinque nuove riserve naturali in un periodo di cinque anni
dall’incoronazione di Re Carlo III. La Bradford Pennine Gateway National Nature
Reserve, questo il suo nome ufficiale, copre 1.274 ettari, di cui 738 (cioè il
58%) sono stati indicati come Site of special scientific interest (SSSI). La
riserva è stata designata quale sede per studi e ricerche sul campo in
collaborazione con università e college locali in vista dell’assegnazione dello
status di Città della cultura per il 2025 alla città di Bradford. La creazione
della Bradford Pennine Gateway, che collega otto siti naturali nell’area di
Bradford e dei Pennini meridionali, segna un passo cruciale nel percorso di
recupero degli ambienti naturali, non solo nello Yorkshire ma in tutto il Regno
Unito, marcando un’importante vittoria della letteratura sull’economia green.
Grazie alle suggestioni evocative con cui una famiglia di scrittori ha saputo
animarle, le brughiere di Haworth sono diventate un patrimonio culturale
protetto e tutelato, il che induce a porre una domanda interessante e ancora
poco esplorata: che ruolo può avere la letteratura nella salvaguardia di
ecosistemi e territori?
Educare alla conservazione ambientale con le opere letterarie
Nel 1810 William Wordsworth pubblica la Guide to the lakes, in cui espone il
resoconto di una salita su Scafell Pike, la montagna più alta d’Inghilterra. Il
racconto è l’occasione per descrivere il Lake District, dove il poeta visse e
trasse ispirazione per gran parte dei suoi lavori. In esso Wordsworth non si
limita a descrivere il paesaggio, ma si concentra piuttosto sull’intento di
trasmettere l’esperienza emotiva che la natura suscita in lui. Alcuni critici
hanno notato come lo stile e il contenuto della Guide sembrino a loro volta
ispirati a un’altra opera, Julie, ou la nouvelle Héloïse di Jean-Jacques
Rousseau, ambientata nella regione delle Alpi svizzere di Vevey. Pur non
contenendo una descrizione specifica del paesaggio alpino, il romanzo di
Rousseau evoca infatti la bellezza naturale della regione utilizzando l’ambiente
per restituire una specifica atmosfera e descrivere il rapporto intimo tra
esseri umani e natura. Si crea così un doppio movimento: da un lato il resoconto
di Wordsworth mostra l’impatto che la visione di Rousseau ha avuto sulla sua
percezione del Lake District; dall’altro la versione di Wordsworth è destinata a
influenzare il modo in cui i visitatori successivi (tra i quali Branwell Brontë)
vivranno l’esperienza di scalare Scafell Pike.
> Grazie al lavoro di una famiglia di scrittrici, le brughiere di Haworth sono
> diventate un patrimonio culturale protetto e tutelato, il che induce a
> domandarsi che ruolo possa avere la letteratura nella salvaguardia di
> ecosistemi e territori.
La grande quantità di opere letterarie che pone al proprio centro la natura
mostra come letteratura e ambiente siano strettamente correlati, se non
inseparabili. Come abbiamo visto per Wuthering Heights, la natura non è solo lo
sfondo dell’azione o un elemento d’atmosfera, ma costituisce anche un aspetto
fondante della trama. «Ora stai radunando i tuoi Personaggi in modo delizioso
[…] – 3 o 4 Famiglie in un Villaggio di Campagna è la cosa migliore per
lavorarci su» scriveva Jane Austen in una lettera alla nipote Anna, intenta a
pianificare la struttura di un romanzo.
Che le opere letterarie siano in grado di sensibilizzare alla tutela dei
territori e degli ecosistemi è la premessa alla base dell’ecoletteratura,
disciplina ibrida che si pone come obiettivo quello di operare modifiche nel
comportamento e nella mentalità utili a superare la crisi ambientale. Uno studio
condotto nel 2023 da un gruppo di ricercatori dell’Universitas Islam Sumatera
Utara, in Indonesia, su una selezione eterogena di opere a sfondo naturale
osserva come queste svolgano un importante ruolo nella conservazione
dell’ambiente e al tempo stesso nella formazione di una coscienza critica
sull’importanza di mantenere l’integrità degli ecosistemi. Esperimenti
interessanti in questo ambito esistono anche nel nostro Paese e si segnalano in
particolare quelli condotti da ZEST, progetto di divulgazione letteraria fondato
nel 2016 e dal 2024 attivo con una propria casa editrice. Tra le varie attività
di ZEST si annovera la curatela di festival che prevedono al loro interno la
presenza di panel internazionali, mostrando così una serie di punti di una
geografia culturale che si possono unire.
La preoccupazione per la conservazione degli ecosistemi e la consapevolezza che
la letteratura possa avere un impatto significativo sulla coscienza umana del
cambiamento hanno influenzato anche gli studi critici. Nel luglio 2013 il
Dipartimento di inglese del St. Xavier’s College for women, in India, ha
organizzato il primo seminario sull’ecocritica, con l’intento di sensibilizzare
i lettori sull’urgenza del tema e sull’utilità di alcune delle aree studiate,
selezionate dai relatori in collaborazione con attivisti ambientalisti.
> Un recente studio condotto in Indonesia rivela come le opere a sfondo naturale
> svolgano un importante ruolo nella conservazione dell’ambiente e nella
> formazione di una coscienza critica sull’importanza di tutelare l’integrità
> degli ecosistemi.
«Lo studio della letteratura in chiave ecologica ha preso piede soprattutto
negli Stati Uniti, a partire dagli anni Novanta» spiega Niccolò Scaffai,
professore ordinario di letteratura italiana contemporanea, nel saggio
Letteratura e ecologia (2017):
> è in quel decennio, infatti, che si è affermato il cosiddetto Ecocriticism.
> Più di recente, lo studio ecologico della letteratura si è diffuso anche in
> Europa e in Italia, con premesse e obiettivi in parte diversi dal modello
> americano. La differenza principale dipende da una diversa idea di natura e
> paesaggio: nella cultura americana prevale il valore della wilderness, la
> natura incontaminata e disabitata; nel contesto italiano, ambienti e paesaggi
> sono determinati da una stretta relazione con la Storia.
Letteratura e wilderness: il caso Big Sur
Oltre 110 chilometri di scogliere a picco sull’oceano, a un’altezza compresa tra
i 500 e 1.000 metri: Big Sur, sulla costa del Pacifico a sud di San Francisco, è
stato mitizzato da artisti e scrittori per via della sua natura impervia e
fortemente ispiratrice. Henry Miller vi si trasferì nel 1944, dopo essere
sfuggito all’Europa e alla Seconda guerra mondiale e avere intrapreso un viaggio
per «risalire alle fonti della natura e della cultura americana». Dal suo
capanno vedeva la foresta precipitare verso le onde spumeggianti e le aquile
volare sopra i canyon; di notte sentiva urlare i coyote, in «una regione dove
gli estremi si toccano, dove si ha sempre un senso di stagione, di spazio, di
grandiosità, di eloquente silenzio». Fino agli anni Trenta a Big Sur si arrivava
soltanto a piedi o a cavallo: «Avanzare» scriveva Miller «significava lottare
contro spine, rovi, liane». Per assecondare il crescente desiderio di sfuggire
all’urbanizzazione e tornare alla natura, nel 1937 era stata inaugurata la
celebre Highway 1, una delle strade panoramiche più iconiche del mondo.
Paradossalmente, l’operazione aveva comportato lo scavo di pareti rocciose «a
furia di dinamite», il riempimento di canyon e l’abbattimento di molte sequoie,
oltre allo scarico di un’enorme quantità di detriti nell’oceano con conseguenze
letali per la locale popolazione di abaloni. Nel suo memoriale Big Sur and the
Oranges of Hieronymus Bosch (1957), Miller notò come l’apertura della strada
avesse portato un numero crescente di turisti a riversarsi nella zona ed
espresse il timore che il suo carattere speciale venisse rovinato. Cinque anni
dopo gli fece eco Jack Kerouac, che nel suo romanzo Big Sur (1961) prese atto di
come la cultura dell’autostop fosse cambiata, vedendo sfilare «un’elegante
station wagon dopo l’altra».
Oggi Big Sur attrae più di 4 milioni e mezzo di visitatori all’anno (stima: See
Monterey), più dello Yosemite National Park. A differenza di quest’ultimo, però,
non dispone delle infrastrutture adatte per gestire grandi folle e la sua
struttura geologica ha risentito drammaticamente dello scavo dei monti Santa
Lucia per fare spazio alla strada panoramica, attraversata dalla faglia San
Gregorio-Hosgri. Le conseguenze si sono intensificate nell’ultimo decennio a
causa di ripetuti incendi e dell’accelerare della crisi climatica: forti piogge
seguite a mesi di siccità hanno fatto crollare a più riprese pezzi di corsia,
dislocando oltre un milione di metri cubi di terra e detriti e bloccando per
mesi l’accesso da sud a gran parte del Big Sur. Tuttora la strada è parzialmente
chiusa e la riapertura completa viene continuamente rimandata perché la parte
franata è ancora in movimento, con uno spostamento calcolato di un piede (circa
30 centimetri) al giorno. La maggior parte dei residenti non ha dubbi sul fatto
che la costa si stia sgretolando in mare. La combinazione di incendi, che
aumentano la suscettibilità del territorio all’erosione, e di piogge torrenziali
è la ricetta perfetta per un continuo incremento delle frane. Al pari di altre
destinazioni privilegiate nel mondo, Big Sur si trova dunque ad affrontare la
difficile sfida di mantenere un’economia fondata sul turismo e al tempo stesso
limitare l’impatto che questo ha sull’ambiente.
Con simili dati la situazione si complica e ci spinge ad addentrarci in luoghi
spinosi per trovare risposta alla nostra domanda. E se, come suggerisce il New
York Times, fosse proprio l’amore che nutriamo per i luoghi letterari quello che
li sta uccidendo?
Il turismo letterario in Italia, tra Storia e strumentalizzazione
In Italia si è sviluppato addirittura un sistema di Parchi letterari,
organizzati attorno a uno scrittore o a una scrittrice e ai suoi luoghi di
creazione, con l’idea di «ricercare e animare di suggestioni evocative i luoghi
che hanno visto la presenza fisica e interpretativa di grandi letterati». Se il
primo Parco letterario è stato creato in Norvegia, Giovanni Capecchi ne fa
risalire l’origine nel nostro Paese alla Fondazione Ippolito Nievo, che nel 1992
ha fondato il Parco nieviano per preservare i luoghi e le vicende narrati in Le
confessioni d’un italiano, con particolare attenzione per il Castello di
Colloredo di Mont’Albano, parzialmente distrutto da un terremoto.
> Il caso di Big Sur, un luogo invaso dal turismo anche per via del suo status
> letterario, pone un interrogativo di segno opposto: e se l’amore che nutriamo
> per i luoghi letterari, lungi dal tutelarli, finisse per condannarli?
A differenza dei parchi “a tema letterario” (come il Parco policentrico Collodi
in Toscana) i Parchi letterari non sono circoscritti in un perimetro preciso ma
si estendono per un’ampia area geografica che aspira a corrispondere allo spazio
fisico e psichico di un autore, spesso includendo gli edifici in cui questi ha
vissuto e lavorato. I loro confini possono coincidere in parte con quelli di un
parco naturale, ma perlopiù si tratta di itinerari ideali che riuniscono diverse
attività allo scopo di promuovere il turismo locale. Sul finire degli anni
Novanta diverse decine di Parchi sono sorte su tutto il territorio nazionale
grazie alle sovvenzioni dell’Unione Europea. Alle soglie del 2000 se ne
contavano 38, con oltre 300.000 visitatori nel 2000-2001. Elena Dai Prà,
professoressa associata di geografia presso l’Università degli studi di Trento,
spiega come il quadriennio 1997-2001 rappresenti «una tappa storica» per via del
«grande fervore di progettualità che puntava sulla letteratura come chiave
inedita per la valorizzazione territoriale». Solo nel Mezzogiorno furono
presentate ben 238 proposte, anche se solo 17 riuscirono ad accedere ai
finanziamenti della Sovvenzione globale. Un vero e proprio «boom dei Parchi» a
cui è seguita una fase più difficile dopo il giugno 2001, che ha visto la
conclusione del sostegno comunitario e ha portato alla chiusura di alcuni di
essi.
Nonostante queste difficoltà il dispositivo dei Parchi letterari continua a
funzionare e il 24 luglio 2024, a San Terenzo, nel cuore del Golfo della Spezia,
è stato inaugurato il Parco letterario Percy Bysshe Shelley. Fu infatti alla
Villa Magni di San Terenzo che nel 1822 Shelley decise di passare l’ultima
estate della sua vita insieme alla moglie e alcuni amici: è anche per il loro
passaggio che il luogo è oggi noto come Golfo dei poeti. Il percorso ideale del
Parco va dal giardino di Villa Magni al Monte Rocchetta che lo sovrasta,
passando per il punto panoramico noto come Pietraia da cui si può godere della
vista di quel golfo dove Percy trovò la morte. Mary Shelley ne parlava come di
uno scenario «di una bellezza inimmaginabile […] come se ne vedono soltanto nei
paesaggi di Salvator Rosa». Chissà cosa penserebbe se sapesse che quel golfo
tanto amato è oggi occupato da un vero e proprio ecomostro il cui muro di cinta
preclude l’accesso al mare. Si tratta dell’Arsenale della Marina militare,
inaugurato nel 1869 e progressivamente abbandonato dopo aver perso più di 10.000
lavoratori e lavoratrici nel corso di una settantina d’anni. Secondo William
Domenichini, membro dell’associazione Murativivi e autore del libro Il golfo ai
poeti, No Basi Blu (2023) l’Arsenale è una «discarica vista mare» e presenta
«una quantità di amianto impressionante», oltre a siti contaminati, sversamenti
a mare e rischi nucleari. Benché la struttura si estenda all’interno del centro
storico di La Spezia, coprendo una superficie totale di 900.000 m² e sviluppando
un reticolo stradale di circa 13 km, oltre a 6,5 km di banchine che circondano
quasi 1.400.000 m² di specchi acquei, non c’è in vista alcun piano di recupero o
di riattivazione dei tanti capannoni abbandonati. È invece in atto la procedura
di adeguamento agli standard NATO avviata dal Genio della Marina nel 2022,
nell’ambito del programma Basi Blu: un progetto spacciato come “green” che in
realtà non ha nulla di sostenibile e che porterà a un ulteriore ampliamento
delle infrastrutture portuali militari per una spesa complessiva di 354 milioni
di euro.
> Chissà cosa penserebbe Mary Shelley se sapesse che quel golfo tanto amato è
> oggi occupato da un vero e proprio ecomostro il cui muro di cinta preclude
> l’accesso al mare.
Che istituzioni di salvaguardia territoriale a mezzo culturale e comparto
cantieristico di natura bellica riescano a convivere nel medesimo spazio è una
delle contraddizioni tipiche del nostro tempo. Domenichini spiega che «il
marketing territoriale a La Spezia è debordante: basti pensare che la centrale
Enel, che fino a pochi mesi fa bruciava carbone e per 60 anni ha ucciso la gente
è intitolata a Eugenio Montale.»
Se l’amore (per la letteratura) non basta
Quello del Golfo dei poeti non è certo un caso isolato, così come non lo è Big
Sur; entrambi però ci aiutano a capire come l’amore per la letteratura, da solo,
non sia sufficiente a salvaguardare territori ed ecosistemi quando le forze in
gioco hanno nomi come collasso climatico, economia capitalista, assetto
imperialista e overtourism. Il dispositivo del Parco letterario può essere
interessante ma mostra tutti i suoi limiti proprio attraverso le iniziative che
promuove, che sono slegate dalla comunità, alimentate da un motore politico e
prive di continuità. Già nel 2003 Dai Prà notava l’assenza di una legislazione
specifica che regoli modalità di attuazione e di gestione dei Parchi, che
insieme all’«utilizzo prezzolato dei marchi registrati» rischiava di far scadere
un progetto nato con finalità culturale in un prodotto alla moda di stampo
anglosassone. Per le stesse ragioni è difficile attuare una vera didattica
letteraria e ambientale nelle scuole, se tutto dipende dagli umori del dirigente
scolastico di turno; eppure, questo avrebbe una messa a terra molto più
concreta, con il coinvolgimento di studenti e studentesse anche nel periodo
estivo.
> Quello di cui avremmo bisogno è un cambio di prospettiva radicale: una visione
> nuova, in grado di rivelare la bellezza degli ecosistemi al di là del loro
> potenziale di sfruttamento ai fini del profitto.
«Iniziative che culminano in laboratori di scrittura, storia del paesaggio e
storia locale sono capaci di mettere in moto delle energie urgenti» mi spiega il
poeta e saggista Francesco Maria Terzago, per il quale si può operare un
cambiamento nella coscienza collettiva promuovendo un’educazione ambientale che
sensibilizzi alla conservazione degli ecosistemi e che passi anche attraverso la
letteratura: «Una letteratura capace di contaminarsi e di cambiare il suo punto
di vista, che abbandoni una visione di privilegio per accogliere una policromia
di sistema anche grazie all’utilizzo di spazi laboratoriali all’aperto. Questo
si può e si deve fare soprattutto nelle periferie decentrate, per costruire una
dimensione di relazione con chi abita in quelle frazioni e ripartire dalle
piccole comunità.»
Quello di cui avremmo davvero bisogno, in sintesi, è una classe intellettuale
meno inerte, che trovi il coraggio di uscire dalle proprie fortezze costruite
attorno al privilegio, di una classe politica non asservita alle ingerenze
straniere e, per tutti e tutte, di un cambio di prospettiva radicale: una
visione nuova, in grado di rivelare la bellezza degli ecosistemi al di là del
loro potenziale di sfruttamento ai fini del profitto, che affranchi la Storia da
ogni tentativo di strumentalizzazione sia nel senso revisionistico della
propaganda che in quello predatorio del marketing. Solo così potrà emergere la
nuova letteratura dell’Antropocene.
L'articolo Quando la letteratura salva i territori proviene da Il Tascabile.
U n Golem pennuto, un Muppet maligno, un arcigno bidone della spazzatura. Con
questi epiteti Jonathan C. Slaght, biologo della fauna selvatica e scrittore,
cerca di descrivere il gufo pescatore di Blakiston tra le pagine del libro I
gufi dei ghiacci orientali (2024), pubblicato in italiano da Iperborea nella
traduzione di Luca Fusari. Occorre, però, non farsi ingannare dal tono
sprezzante di queste brevi descrizioni perché, già dalle prime righe, si
comprende l’attrazione dell’autore per questo rapace elusivo e si percorrono i
suoi passi nei gelidi e inospitali paesaggi del Territorio del Litorale,
nell’Estremo Oriente russo, nel tentativo di conoscere e proteggere questo
animale così raro.
Il primo a descrivere il gufo pescatore, dopo un incontro in Giappone, fu il
naturalista ed esploratore inglese Thomas Blakiston (1832-1891), da cui la
specie (Ketupa blakistoni) prende il nome. Vladimir Arsen’ev (1872-1930),
esploratore e scrittore, fu invece tra i primi russi ad addentrarsi nel
paesaggio del Litorale, illustrandone flora, fauna e abitanti. Lo statunitense
Jonathan C. Slaght visita quelle terre lontane poco più che adolescente e vi fa
ritorno prima come studente universitario e, in seguito, nei Peace Corps: tre
anni in cui si avvicina agli ornitologi russi e al loro lavoro.
> «Del gufo pescatore avevo sentito parlare pressoché subito dopo aver scoperto
> il Litorale. Per me era come un pensiero bellissimo che non riuscivo ad
> articolare. Scatenava lo stesso desiderio ammaliante di un luogo che hai
> sempre voluto esplorare, ma di cui a conti fatti non sai molto».
Durante un’escursione, circa un secolo dopo le esplorazioni di Blakiston e
Arsen’ev, l’autore riesce a fotografare un esemplare del rapace, per la prima
volta così a sud. Le foto finiscono nelle mani del biologo Sergej Surmač,
ornitologo di Vladivostok e unica persona in tutta la regione a occuparsi del
gufo pescatore. Da quell’incontro alla progettazione di un dottorato di ricerca
sul gufo il passo è breve. L’obiettivo è realizzare un piano di conservazione
per questa specie in un’area naturale quasi incontaminata, quella della Russia
dell’estremo orientale dei primi anni 2000, minacciata da attività come il
disboscamento, la costruzione di strade e il bracconaggio.
> Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della sua squadra
> dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma: quella del gufo pescatore
> è una presenza che, da principio, possiamo avvertire solo attraverso segni e
> indizi.
La pianificazione di Slaght, messa a punto proprio con l’aiuto di Surmač,
mentore e collega che lo accompagnerà lungo diverse tappe della ricerca, è
serrata e piuttosto ambiziosa considerando l’oggetto di studio, ossia un
predatore estremamente sfuggente con ben due metri di apertura alare. Il
programma è complesso: prima è necessario identificare la popolazione di gufi
pescatori, quindi bisogna ricostruire areali e comportamenti attraverso la
raccolta ed elaborazione di dati ottenuti dall’osservazione e da
radiotrasmittenti e GPS applicati sul dorso di alcuni esemplari che, ovviamente,
dovranno essere temporaneamente catturati senza esporli al minimo rischio. «Dopo
soli tre mesi il mio progetto quinquennale mi sembrava già un viaggio
affascinante, che lambiva i confini della civiltà umana alla scoperta di un gufo
difficile da decifrare».
Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della squadra che
supporta il suo lavoro dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma:
quella del gufo pescatore è una presenza che, da principio, si può avvertire
solo attraverso segni e indizi, come la caratteristica forma a K delle impronte
delle zampe sulla neve, la presenza di nidi, borre ‒ il rigurgito di cibo non
digerito dall’animale ‒ e ascoltando in silenzio il duetto canoro delle coppie
di uccelli in lontananza. Con il trascorrere delle settimane, dei mesi e degli
anni, questa entità quasi ectoplasmica acquisisce un corpo. I primi avvistamenti
sono delle epifanie:
> Quando fummo a poche centinaia di metri dall’affluente, al crepuscolo,
> qualcosa di massiccio saltò giù da un albero. Nonostante la penombra la sua
> sagoma si stagliava sulla superficie ghiacciata del fiume vicino alle rupi,
> davanti alla foce dell’affluente. Avevo già visto altri gufi nell’ombra e ne
> riconobbi subito uno, ma questo era più grande. Era un gufo pescatore. Mi
> accorsi che stavo trattenendo il fiato per la sorpresa.
Si percepisce il freddo che punge la pelle e attanaglia la mente, la stanchezza
di ore di cammino durante osservazioni senza risultati e l’inquietudine
alimentata dalle poche ore di sonno. Procediamo nel racconto proprio come il
biologo è andato avanti nella sua ricerca del gufo pescatore che, dopo tanti
tentativi, finalmente appare nella sua corporeità: è lì sulle rive di un corso
d’acqua, mentre ghermisce salmoni, alto poco meno di un metro, il becco adunco,
gli occhi d’oro, le penne marroni che si confondono con i rami degli alberi in
cui trova riparo e i ciuffi auricolari dritti sul capo. Un diavolo volante nelle
foreste ripariali.
> Ogni difficoltà superata dall’autore inserisce un ulteriore tassello nel
> quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con
> l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi,
> rapporti essenziali da comprendere per una conservazione efficace.
La conquista della conoscenza è lenta e disseminata di infiniti ostacoli, ma
ogni difficoltà superata dall’autore e dal suo gruppo inserisce un ulteriore
tassello nel quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con
l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi, rapporti
essenziali da comprendere per una conservazione efficace. Questa è una lezione
già nota, almeno in parte, per averla letta nelle opere di Vladimir Arsen´ev di
cui lo stesso Slaght scrive in un articolo pubblicato su Scientific American:
“Gli scritti di Arsen’ev non sono il catalogo di trionfi di un avventuriero
narcisista che ci si potrebbe aspettare dalle memorie di una spedizione; sono
invece appassionate odi alla natura selvaggia e alle genti dell’Estremo Oriente
russo”.
Il libro segue perfettamente questa traccia, con la prosa di un diario di campo
che però, nell’ultimo capitolo, perde forza narrativa per diventare più simile a
una relazione scientifica Nelle pagine precedenti, al contrario, la narrazione è
coinvolgente e immersiva al punto che il lettore rimane spiazzato dagli effetti
del susseguirsi delle stagioni, come ad esempio il tepore della primavera che
diventa mortale quando scioglie i ghiacci che ricoprono i corsi d’acqua,
trappole per mezzi di trasporto, uomini e caprioli indifesi. Si rimane
guardinghi temendo il possibile incontro con un orso o con una tigre dell’Amur
(quella che viene spesso chiamata erroneamente tigre siberiana) e nel percorrere
questo viaggio insieme all’autore, ci si sofferma a riflettere sulla
biodiversità ornitologica e ittica di un Paese così remoto. Anche la fauna umana
è multiforme e, tra bevute di vodka, turni di osservazione e pause nelle banja ‒
le saune russe ‒ si incontrano personaggi scostanti e generosi come Viktor
Čepelev, individui dall’evidente fragilità come Anatolij, con il suo passato
oscuro e la psiche cagionevole, o Andrej Katkov, ex poliziotto, esperto
paracadutista, supporto nella cattura dei gufi e applicazione dei GPS
satellitari, con il suo bisogno spasmodico di parlare.
> I gufi dei ghiacci orientali è allo stesso tempo un reportage, un saggio sulla
> conservazione, un racconto d’avventura e un romanzo di formazione.
Tra i capitoli del volume si ritrovano riferimenti alla storia e alle abitudini
delle popolazioni native Udege, popolo indigeno del sud-est della Siberia,
informazioni che si riveleranno utili per capire, ad esempio, come catturare gli
esemplari di gufo per inanellarli e dotarli di trasmittenti. Infatti, gli Udege
erano soliti cacciare i gufi pescatori in inverno, quando la temperatura scende
sotto i trenta gradi sottozero e servono altre fonti di cibo. Il metodo
adoperato da queste genti, per fare degli uccelli un pasto, si rivela un
suggerimento per progredire nello studio:
> Sergej propose di fare come gli udege, ovvero utilizzare un ceppo. Gli
> abitanti di Agzu ci avevano spiegato che gli udege cacciavano i gufi pescatori
> tagliando un ceppo d’albero e posizionandolo nell’acqua bassa con sopra una
> tagliola. I gufi, individuando nel ceppo un attraente punto di osservazione,
> vi si posavano, con conseguenze letali. A noi, naturalmente, non interessava
> mangiare i gufi ma soltanto trovarli […].
I gufi dei ghiacci orientali è un reportage, un saggio sulla conservazione, un
racconto d’avventura e un romanzo di formazione, in cui l’entusiasmo di Slaght
giovane dottorando, a seguito delle vicende raccontate, lascia il posto alla
consapevolezza del conservatore della Wildlife Conservation Society, che
continua a vigilare sul gufo pescatore di Blakiston. Alla fine di questa
avventura, si è testimoni del contatto diretto e profondo con un animale e il
suo habitat, un incontro che può cambiare completamente l’esistenza di un uomo e
accenderne la vocazione.
L'articolo I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan C. Slaght proviene da Il
Tascabile.
L a geopolitica dell’acqua oggi ha di certo meno visibilità rispetto alla corsa
all’intelligenza artificiale o alla competizione tecnologica globale, ma resta
un nervo scoperto nelle dinamiche di potere contemporanee. Ce lo ricordano le
recenti tensioni tra India e Pakistan: dopo un attentato, Nuova Delhi ha sospeso
il Trattato delle acque dell’Indo, minacciando di ridurre del 25% il flusso
verso il Pakistan. In un’area dove l’agricoltura dipende in larga parte da quei
fiumi condivisi, l’acqua torna a essere leva di pressione e possibile miccia di
conflitto.
A rendere ancora più instabile il quadro è l’impatto della crisi climatica, che
accentua la vulnerabilità delle risorse idriche in tutto il mondo. L’aumento
delle temperature, l’alterazione dei regimi delle piogge e la maggiore frequenza
di eventi estremi compromettono la disponibilità e la prevedibilità dell’acqua,
con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e migrazioni. Anche regioni
un tempo considerate relativamente sicure stanno affrontando scenari di
scarsità.
Negli Stati Uniti, nel 2023, sette Stati del sud-ovest hanno siglato un accordo
per ridurre i prelievi dal fiume Colorado, evitando il collasso di metropoli
come Los Angeles e Phoenix. Ma la portata del fiume continua a calare, ponendo
interrogativi sempre più urgenti sulla sostenibilità di lungo periodo.
> La crisi climatica sta accentuando la vulnerabilità delle risorse idriche in
> tutto il mondo, con effetti a catena su agricoltura, energia, salute e
> migrazioni.
Sempre negli Stati Uniti, l’acqua è oggi al centro di dispute ben più
grottesche. Nell’aprile 2025, Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per
annullare i limiti ambientali sulla pressione delle docce, lamentando che le
regolazioni volute da Obama e Biden non gli consentivano di lavarsi bene i
capelli. A inizio del suo secondo mandato e in un modo decisamente più
preoccupante, rispolverando nostalgie imperiali, Trump ha evocato pubblicamente
la necessità di “riprendere” il controllo del Canale di Panama, denunciando le
tariffe panamensi come ingiuste e ventilando persino l’ipotesi di un’azione
militare.
In Africa, intanto, la Grand Ethiopian renaissance dam (GERD) continua a essere
motivo di scontro diplomatico tra Etiopia, Egitto e Sudan, preoccupati per il
controllo delle acque del Nilo Azzurro. Il progetto, ormai pienamente operativo,
è destinato a ridisegnare i rapporti di forza nel Corno d’Africa.
Il secolo delle acque forzate
Queste dinamiche contemporanee trovano radici profonde nel modo in cui, durante
il Novecento, si è concepita l’idrosfera: come spazio da dominare, modellare e
sfruttare a fini economici, politici e simbolici. Winston Churchill, fermandosi
nel 1908 a osservare il Nilo presso il lago Vittoria, scrisse che “una simile
leva per controllare le forze naturali dell’Africa che nessuno impugna, può
soltanto intrigare e stimolare l’immaginazione”. Negli anni successivi, la
costruzione di dighe e sistemi idraulici divenne una pratica globale: Stati
Uniti, Unione Sovietica, India e Cina investirono massicciamente in progetti di
deviazione dei fiumi e costruzione di bacini, vedendo in essi strumenti di
modernizzazione e legittimazione politica. Le dighe non solo fornivano
irrigazione ed energia elettrica, esprimevano anche la capacità eroica dello
Stato di dominare la natura per il bene collettivo.
Due casi emblematici mostrano il costo di questa visione: in India,
l’Inghilterra coloniale sfruttò l’Indo per consolidare il proprio dominio
agricolo, mentre in Asia centrale l’Unione Sovietica progettò imponenti sistemi
irrigui per sostenere la monocultura del cotone. L’ambizione sovietica portò
alla ben nota vicenda del prosciugamento del lago d’Aral, con conseguenze
disastrose: desertificazione, salinizzazione dei suoli, crollo dell’attività
ittica, crisi sanitaria ed economica.
> Prima di farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita
> nel piccolo: argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in
> invasi.
Negli anni Duemila tornò a circolare ‒ in forma speculativa e mai ufficialmente
stipulata in accordi ‒ l’ipotesi di rilanciare un antico progetto sovietico:
deviare parte delle acque dei grandi fiumi siberiani verso la Cina
nord-occidentale. Si parlava di piegare l’Irtyš, l’Ob, forse persino l’Enisej
verso sud-est, oltre la frontiera, fino alle regioni del Xinjiang e del Gansu ‒
terre assetate, industrializzate, in piena espansione. Un canale artificiale
lungo oltre mille chilometri: una ferita nella taiga da coprire con una promessa
di prosperità. L’idea, più volte evocata da funzionari russi e cinesi, fu
rilanciata nel 2002 dal sindaco di Mosca Yuri Luzhkov e rientrava, almeno
idealmente, nelle prospettive di cooperazione idrica tra i due Paesi.
Nulla di nuovo, in fondo: già negli anni Sessanta l’Unione Sovietica aveva
concepito piani dettagliati per rovesciare il corso dei fiumi artici e
trasferire enormi volumi d’acqua verso sud, con l’obiettivo di irrigare le
steppe dell’Asia centrale e sostenere la produzione agricola. Ma il progetto ‒
noto come Northern river reversal ‒ venne abbandonato nel 1986, sotto le
pressioni del mondo scientifico, per l’impatto ambientale potenzialmente
devastante.
Quel progetto mai realizzato, ma ciclicamente evocato, è forse il più recente
fantasma di una lunga ossessione imperiale, moderna, nazionalista che nell’ex
Unione Sovietica si è manifestata in modo particolarmente imponente: l’acqua
come vettore di potere, oggetto di controllo tecnico e politico. Ma prima di
farsi geopolitica, ogni visione di dominio sulla natura si esercita nel piccolo:
argini da spostare, bacini da svuotare, fiumi da conchiudere in invasi.
C’è un caso, all’apparenza periferico, che racconta meglio di altri questa
tensione. In un altopiano del Caucaso meridionale, un lago è stato trasformato
in strumento di modernizzazione forzata, banco di prova per ingegneri, politici
e ideologi. Una microstoria che rivela l’ambizione ‒ tipicamente novecentesca ‒
di rifare la geografia, riscrivere l’ecologia, disciplinare il paesaggio.
Storia di un equilibrio fragile
Arrivando dal Nord dell’Armenia, lungo le strade che scendono dal Parco
nazionale di Dilijan ‒ detto anche Piccola Svizzera d’Armenia per i suoi
paesaggi montuosi, le foreste dense e le sorgenti minerali curative – il lago di
Sevan apre il paesaggio seguendo l’estensione del grande altopiano che lo
contiene. L’altitudine si abbassa di poco, ma la vegetazione dirada e poi
scompare, gli spazi si allargano. Con oltre mille chilometri quadrati a quasi
duemila metri sul livello del mare, Sevan è la principale riserva d’acqua dolce
del Caucaso meridionale e uno degli spazi simbolici più importanti dell’Armenia.
> La storia del lago Sevan mostra come anche un bacino apparentemente periferico
> possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni statali
> e progetti di disciplinamento territoriale.
Le sue rive sono abitate sin dall’antichità: ce lo dicono i ritrovamenti
archeologici, come quelli di Lchashen, dove è stato rinvenuto il celebre carro
dell’età del bronzo, o il cimitero medievale di Noraduz, con le tradizionali
khachkar, le croci di pietra, conservate e tuttora prodotte in loco da piccoli
laboratori artigiani.
Croci di pietra, Sevan, 2024; fot. Giulio Burroni.
Nonostante le pressioni ambientali e la crescita edilizia, Sevan è ancora oggi
meta di turismo interno, frequentata per le spiagge, le escursioni in barca, la
pesca, i monasteri sulle rive. Il più noto si trova su quella che un tempo era
un’isola ‒ Sevanavank ‒ e che oggi è una penisola. Non è un dettaglio
paesaggistico: è la traccia visibile di un abbassamento artificiale iniziato
negli anni Trenta, quando il livello del lago venne ridotto per scopi irrigui ed
energetici.
Già negli anni Venti, l’ingegnere armeno Soukias Manasserian aveva proposto di
abbassare Sevan di 45 metri per ridurre l’evaporazione e usare l’acqua a fini
produttivi. La proposta, ripresa con entusiasmo nel Primo piano quinquennale,
portò nel 1933 all’avvio della costruzione di un tunnel lungo quasi 40
chilometri, destinato a convogliare l’acqua verso sud, lungo il fiume Hrazdan.
Completato nel 1949, il tunnel diede avvio al progressivo svuotamento del lago.
Tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, il livello si abbassò di quasi venti
metri, con una perdita di volume stimata attorno al 40%. Le conseguenze furono
gravi: perdita di biodiversità, prosciugamento delle coste, salinizzazione del
suolo, alterazione del microclima. Alcuni scienziati armeni sollevarono
l’allarme già negli anni Sessanta, ma le loro voci rimasero marginali. Solo nel
1978 si autorizzò la costruzione di un tunnel di reintegro (Arpa-Sevan),
completato nel 1981. Un secondo tunnel, il Vorotan-Sevan, entrò in funzione nel
2004.
> L’URSS rese l’acqua un agente politico e simbolico: controllare i fiumi
> significava piegare la natura alla volontà dello Stato.
Il lago ha recuperato alcuni metri, ma resta ecologicamente fragile, oggi
minacciato da eutrofizzazione, inquinamento e gestione politica incerta. La sua
storia, poco nota fuori dal Caucaso, mostra come anche un bacino apparentemente
periferico possa diventare banco di prova per ideologie tecnocratiche, ambizioni
statali e progetti di disciplinamento territoriale. Una microstoria che
racconta, in scala ridotta, le stesse logiche che hanno condotto al
prosciugamento del lago d’Aral.
Deviare fiumi, nutrire anime
Sevan fu, in un certo senso, un prototipo. A partire dagli anni Cinquanta, la
pianificazione sovietica riprodusse lo stesso schema in Asia Centrale, deviando
i fiumi Amu Darya e Syr Darya per l’irrigazione intensiva del cotone: nacque
così il ben noto disastro del Lago d’Aral, che in pochi decenni si ritirò
lasciando dietro di sé deserti salati e relitti navali. Negli anni Ottanta fu la
volta del Kara-Bogaz, golfo poco profondo del Mar Caspio, chiuso artificialmente
e trasformato in un bacino sterile. L’URSS rese l’acqua un agente politico e
simbolico: controllare i fiumi significava piegare la natura alla volontà dello
Stato.
Come spiega Frank Westerman nel suo reportage e saggio del 2020 Ingegneri di
anime l’Unione Sovietica mise in scena una titanica alleanza tra ingegneri e
scrittori, impegnati nella costruzione di un nuovo spazio fisico e ideologico.
La tesi di Westerman è che il concetto di “dispotismo idraulico”, formulato da
Karl Wittfogel, trovi la sua massima espressione in Unione Sovietica: lo Stato
totalitario si legittima attraverso il controllo delle acque, imponendo su di
esse una centralità politica, simbolica e produttiva che trascende la
razionalità ecologica.
> Oltre all’Unione Sovietica, anche i regimi autoritari europei del primo
> Novecento investirono sul paesaggio come strumento di legittimazione politica.
La fede sovietica nella trasformazione della natura affonda le radici nel
modernismo industriale. Lenin sintetizzava l’essenza del comunismo come “potere
sovietico più elettrificazione del Paese”. Stalin ne radicalizzò la visione:
fiumi da deviare, laghi da prosciugare, dighe da costruire. La tecnica,
asservita al piano quinquennale, diventava quindi narrazione, epopea, mito. Nel
cuore di questo racconto si collocano gli scrittori del realismo socialista.
Alla cena organizzata da Maksim Gor´kij nel 1932, Stalin proclamò:
> I nostri carri armati non valgono niente se le anime che devono guidarli sono
> di argilla. Per questo dico: la produzione delle anime è più importante di
> quella dei carri armati… Qui qualcuno ha osservato che gli scrittori non
> possono restarsene zitti e fermi, che devono conoscere la vita del loro Paese.
> L’uomo è trasformato dalla vita, e voi dovete aiutarlo nella trasformazione
> della sua anima. La produzione di anime umane è importante. E per questo
> brindo a voi scrittori, perché siete ingegneri di anime.
Nasce così la letteratura idraulica: un sottogenere del romanzo sovietico calato
dall’alto del regime (e sempre sottoposto ai raggi X della Glavlit, la Direzione
generale per gli affari della letteratura e dell’editoria) che esalta l’opera
pubblica come fondamento della nuova civiltà socialista e che funzionerà, da qui
in avanti, come un dispositivo ideologico per mascherare le contraddizioni della
modernità. Una su tutte: la realizzazione di queste opere fu davvero possibile
solo grazie allo sfruttamento della manodopera di milioni di condannati ai
lavori forzati.
Terraformare l’Europa
L’idea che la trasformazione dell’ambiente potesse diventare una leva narrativa
e simbolica non fu esclusiva dell’Unione Sovietica. Anche i regimi autoritari
europei del primo Novecento investirono sul paesaggio come strumento di
legittimazione politica: agire sulla natura significava dimostrare ordine,
efficienza, potere. In Italia, il fascismo fece della bonifica integrale uno dei
suoi principali dispositivi simbolici. Nonostante la portata di questi
interventi fosse in realtà marginale, la redenzione delle paludi malariche, la
trasformazione dell’Agro Pontino in insediamenti agricoli moderni e l’epopea dei
pionieri della terra nuova divennero elementi centrali della propaganda.
Cinegiornali, plastici, architetture monumentali e retoriche del lavoro
contribuirono a costruire l’immagine di una natura domata e redenta, conferma
tangibile della capacità del regime di instaurare un ordine anche ambientale.
> Anche nel fascismo la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un
> disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi.
Frank Snowden, storico dell’Università di Yale, ha mostrato nel suo libro La
conquista della malaria (2008) come questa modernizzazione comportò un costo
umano elevatissimo: sradicamento di comunità rurali, imposizione di nuovi
modelli di vita e aumento della mortalità tra i lavoratori delle opere di
risanamento. Ma la politica ambientale del fascismo non si limitò alla pianura:
anche in montagna, il regime promosse una vasta opera di elettrificazione
alpina, costruendo dighe e bacini idroelettrici dalla Valtellina alla Val
d’Aosta. La montagna domata, l’acqua incanalata e sublimata in energia,
diventavano metafore dell’autarchia e dell’identità nazionale. Anche qui, come
nella bonifica, la trasformazione fisica del paesaggio si accompagnava a un
disegno bio-politico: disciplinare l’ambiente per disciplinare i corpi.
Il nazionalsocialismo tedesco portò questo paradigma a un’estremizzazione
ideologica. La dottrina Blut und Boden (sangue e suolo), elaborata dal ministro
Richard Walther Darré, legava l’identità razziale alla terra, sostenendo che la
sopravvivenza dell’ariano dipendesse dalla sua connessione ancestrale con il
territorio tedesco. L’organizzazione del Reichsarbeitsdienst mobilitava migliaia
di giovani in lavori pubblici, trasformando il paesaggio in un rituale
collettivo di disciplina e appartenenza.
In entrambi i casi, l’ambiente trasformato diventava un set politico e
pedagogico, costruito attraverso propaganda, architettura e narrazione. L’acqua
‒ bonificata, deviata, trattenuta ‒ fu uno degli elementi privilegiati di queste
operazioni ideologiche.
Dispotismo idraulico e modernità socialista
Il fascismo, il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico agirono, con gradi
e strumenti diversi, all’interno di uno stesso orizzonte modernista: l’idea che
la tecnica potesse dominare la natura, ordinarla, piegarla a fini produttivi,
simbolici e politici. Anche il fascismo terraformò su larga scala, non solo
nelle aree di bonifica ma anche attraverso la grande opera di elettrificazione
delle Alpi, che comportò la costruzione di dighe, serbatoi artificiali, canali
forzati e centrali idroelettriche. L’acqua montana venne incanalata e messa al
lavoro per produrre energia, autosufficienza e immaginario patriottico.
L’intervento non fu solo simbolico, ma modificò concretamente gli equilibri
ambientali delle valli alpine e ne riscrisse la geografia.
> Il fascismo spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio, ma
> nessuno ha trasformato i suoi paesaggi su scala così vasta e in tempi così
> rapidi come l’Unione Sovietica.
La differenza rispetto al caso sovietico sta, forse, meno in una
contrapposizione di intenti e più in una diversa magnitudo e organizzazione del
progetto. Il fascismo mise in scena la potenza trasformativa della tecnica, ma
spesso restò legato a una visione spettacolare del paesaggio: la natura, pur
disciplinata, continuava a funzionare come sfondo identitario e risorsa
simbolica. L’URSS, invece, si spinse verso una visione più sistemica, in cui la
natura ‒ e l’acqua in particolare ‒ veniva trattata come componente pienamente
integrata nel meccanismo della produzione pianificata. Non solo da domare, ma da
rimodellare funzionalmente. Come sottolinea John R. McNeill nella sua storia
ambientale del Ventesimo secolo, nessun altro Stato ha trasformato i suoi
paesaggi su scala così vasta e in tempi così rapidi come l’Unione Sovietica,
animata da una miscela di ideologia, urgenza industriale e fede tecnocratica.
Il concetto di “dispotismo idraulico” di Wittfogel voleva descrivere forme
antiche di potere che fondavano la loro autorità sul controllo delle risorse
idriche. Ma fu proprio nell’Unione Sovietica, secondo Westerman, che quel
modello trovò un’espressione moderna, tecnologicamente aggiornata e
ideologicamente giustificata. Il dominio sull’acqua genera inevitabilmente
centralizzazione politica, burocrazia espansiva e gerarchie verticali:
condizioni che trovano piena corrispondenza nell’organizzazione dell’economia
pianificata sovietica, sostiene Westerman.
A differenza dei regimi autoritari coevi in Europa, il socialismo reale non si
limitò a rappresentare la natura come spazio da redimere: tentò di
riorganizzarla integralmente secondo principi razionali e quantitativi su
larghissima scala. L’acqua veniva misurata, deviata, redistribuita; i bacini,
svuotati o riempiti a seconda delle esigenze della produzione agricola e
industriale. Questa visione trovò la sua massima espressione nei piani idraulici
dell’Asia centrale: milioni di ettari irrigati, chilometri di canali,
prosciugamenti artificiali.
> L’Unione Sovietica ha completamente snaturato il nucleo ecologico del pensiero
> marxista, che nei tardi scritti di Marx si stava orientando verso un’analisi
> della cosiddetta “frattura metabolica” tra società e natura.
Il filosofo giapponese Kohei Saito ha sviluppato una critica radicale al modello
estrattivista capitalistico, rileggendo Marx da una prospettiva ecologica: ma,
sebbene in misura largamente minoritaria, nel suo Capitale nell’Antropocene
(2024) Saito non tralascia di sostenere che l’Unione Sovietica ha completamente
snaturato il nucleo ecologico del pensiero marxista, che nei tardi scritti di
Marx si stava orientando verso un’analisi della cosiddetta “frattura metabolica”
tra società e natura. Per Marx, questa frattura ‒ causata dall’estrazione
intensiva di risorse e dalla disconnessione tra produzione e riproduzione
ecologica ‒ non era sanabile con il semplice superamento del capitalismo di
mercato. Occorreva ristabilire un equilibrio tra i cicli della natura e le forme
sociali. Il socialismo sovietico, invece, adottò un paradigma iperproduttivista,
trasferendo le logiche del dominio ambientale dalla proprietà privata alla
pianificazione centralizzata. La natura venne trattata come un deposito da
svuotare, un ostacolo da regolare, una risorsa da calcolare. Seguendo Saito,
quindi, la pianificazione sovietica non solo non colmò la frattura metabolica:
la istituzionalizzò, trasformandola in uno squilibrio strutturale tra l’apparato
statale e l’ambiente. L’acqua, da fattore di equilibrio, divenne leva di
controllo.
Decisamente più radicale la lettura ormai datata di Murray Feshbach e Alfred
Friendly Jr. nel loro libro Ecocide in the USSR: Health and Nature Under Siege ‒
opera che a ridosso del crollo del 1992 segnò l’opinione pubblica occidentale
con toni volutamente drammatici e generalizzanti: l’Unione Sovietica avrebbe
trasformato l’intero continente eurasiatico in una zona di sacrificio
ambientale, compromettendo irrimediabilmente ecosistemi, risorse idriche e
salute pubblica, in nome della produzione e della segretezza di Stato. Secondo
gli autori, l’ecocidio non era un incidente del sistema sovietico, ma una sua
componente strutturale, favorita dall’opacità del potere e dalla logica
pianificatrice che vedeva la natura solo come materia da sfruttare.
In questo quadro, il lago Sevan può essere considerato un laboratorio
preliminare, un esperimento su scala minore rispetto alle trasformazioni
idrauliche realizzate in Asia Centrale, ma già pienamente paradigmatico. La
deviazione del suo corso naturale, l’abbassamento controllato del livello, la
trasformazione di un’isola in penisola, l’alterazione degli equilibri ecologici
ed economici locali: tutto anticipava, per logica e metodo, quanto sarebbe
accaduto vent’anni dopo con il disastro del lago d’Aral.
La Casa degli scrittori di Sevan, 2024, fot. Giulio Burroni. Costruita negli
anni Trenta in stile modernista, sorge su una penisola rocciosa del lago Sevan.
Progettata come residenza estiva per l’élite letteraria sovietica, univa rigore
funzionale e slancio avanguardista. Oggi, semidiroccata, ospita un ostello
estivo e attira visitatori curiosi della sua storia.
L’acqua è ancora infrastruttura del potere
Oggi il controllo delle acque non è più dominio esclusivo dei regimi autoritari.
Anche nelle democrazie neoliberali, l’acqua è al centro di nuovi conflitti: come
risorsa scarsa, come leva geopolitica, come strumento di influenza economica.
Durante l’amministrazione Trump, il paradigma si è aggiornato: dal rilancio
delle grandi opere idrauliche alla sistematica deregulation ambientale, dalla
riduzione dei vincoli federali sulle risorse idriche al disimpegno dai trattati
sul clima e sulla cooperazione transfrontaliera. Il linguaggio si è fatto più
pragmatico, orientato al mercato, epurato della grammatica della sostenibilità.
> Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire
> alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da
> governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare.
Nella riconfigurazione attuale dei rapporti tra natura e politica, l’acqua
continua a essere un’infrastruttura strategica, al pari di un gasdotto o di una
piattaforma logistica. Il caso del Canale di Panama, con la sua gestione contesa
e le periodiche crisi idriche che ne minacciano l’operatività, dimostra quanto
la disponibilità e il controllo dell’acqua siano tornati a essere nodi centrali
nelle reti globali del potere. Allo stesso modo, la sospensione del Trattato
delle acque dell’Indo da parte dell’India dopo l’attentato del 2025 ci dice come
il flusso idrico possa essere impiegato come strumento di pressione
internazionale, mettendo a rischio la sicurezza alimentare e sociale del vicino
Pakistan.
Anche nei contesti formalmente democratici, dunque, l’acqua tende a sfuggire
alla logica del bene comune, per ricadere in quella del comando: un flusso da
governare, un volume da misurare, un’infrastruttura da monetizzare. I progetti
mai realizzati di deviazione dei fiumi siberiani non sono oggi interessanti per
la loro fattibilità, ma per la logica che incarnano: la tentazione ricorrente di
piegare l’idrosfera a un disegno politico, economico, ideologico.
Da questo punto di vista, la vicenda del lago Sevan ‒ apparentemente marginale
nella geografia dei grandi bacini ‒ si rivela paradigmatica. Lontana dalle
megalopoli e dalle rotte globali, eppure profondamente inserita nella storia del
dominio tecnico sulla natura, racconta con chiarezza come il controllo
dell’acqua sia sempre anche controllo del territorio, dei corpi, dei futuri
possibili. È in questi spazi periferici che si manifesta con maggiore nitidezza
la persistenza ‒ e l’adattabilità ‒ del potere idraulico.
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