U n Golem pennuto, un Muppet maligno, un arcigno bidone della spazzatura. Con
questi epiteti Jonathan C. Slaght, biologo della fauna selvatica e scrittore,
cerca di descrivere il gufo pescatore di Blakiston tra le pagine del libro I
gufi dei ghiacci orientali (2024), pubblicato in italiano da Iperborea nella
traduzione di Luca Fusari. Occorre, però, non farsi ingannare dal tono
sprezzante di queste brevi descrizioni perché, già dalle prime righe, si
comprende l’attrazione dell’autore per questo rapace elusivo e si percorrono i
suoi passi nei gelidi e inospitali paesaggi del Territorio del Litorale,
nell’Estremo Oriente russo, nel tentativo di conoscere e proteggere questo
animale così raro.
Il primo a descrivere il gufo pescatore, dopo un incontro in Giappone, fu il
naturalista ed esploratore inglese Thomas Blakiston (1832-1891), da cui la
specie (Ketupa blakistoni) prende il nome. Vladimir Arsen’ev (1872-1930),
esploratore e scrittore, fu invece tra i primi russi ad addentrarsi nel
paesaggio del Litorale, illustrandone flora, fauna e abitanti. Lo statunitense
Jonathan C. Slaght visita quelle terre lontane poco più che adolescente e vi fa
ritorno prima come studente universitario e, in seguito, nei Peace Corps: tre
anni in cui si avvicina agli ornitologi russi e al loro lavoro.
> «Del gufo pescatore avevo sentito parlare pressoché subito dopo aver scoperto
> il Litorale. Per me era come un pensiero bellissimo che non riuscivo ad
> articolare. Scatenava lo stesso desiderio ammaliante di un luogo che hai
> sempre voluto esplorare, ma di cui a conti fatti non sai molto».
Durante un’escursione, circa un secolo dopo le esplorazioni di Blakiston e
Arsen’ev, l’autore riesce a fotografare un esemplare del rapace, per la prima
volta così a sud. Le foto finiscono nelle mani del biologo Sergej Surmač,
ornitologo di Vladivostok e unica persona in tutta la regione a occuparsi del
gufo pescatore. Da quell’incontro alla progettazione di un dottorato di ricerca
sul gufo il passo è breve. L’obiettivo è realizzare un piano di conservazione
per questa specie in un’area naturale quasi incontaminata, quella della Russia
dell’estremo orientale dei primi anni 2000, minacciata da attività come il
disboscamento, la costruzione di strade e il bracconaggio.
> Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della sua squadra
> dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma: quella del gufo pescatore
> è una presenza che, da principio, possiamo avvertire solo attraverso segni e
> indizi.
La pianificazione di Slaght, messa a punto proprio con l’aiuto di Surmač,
mentore e collega che lo accompagnerà lungo diverse tappe della ricerca, è
serrata e piuttosto ambiziosa considerando l’oggetto di studio, ossia un
predatore estremamente sfuggente con ben due metri di apertura alare. Il
programma è complesso: prima è necessario identificare la popolazione di gufi
pescatori, quindi bisogna ricostruire areali e comportamenti attraverso la
raccolta ed elaborazione di dati ottenuti dall’osservazione e da
radiotrasmittenti e GPS applicati sul dorso di alcuni esemplari che, ovviamente,
dovranno essere temporaneamente catturati senza esporli al minimo rischio. «Dopo
soli tre mesi il mio progetto quinquennale mi sembrava già un viaggio
affascinante, che lambiva i confini della civiltà umana alla scoperta di un gufo
difficile da decifrare».
Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della squadra che
supporta il suo lavoro dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma:
quella del gufo pescatore è una presenza che, da principio, si può avvertire
solo attraverso segni e indizi, come la caratteristica forma a K delle impronte
delle zampe sulla neve, la presenza di nidi, borre ‒ il rigurgito di cibo non
digerito dall’animale ‒ e ascoltando in silenzio il duetto canoro delle coppie
di uccelli in lontananza. Con il trascorrere delle settimane, dei mesi e degli
anni, questa entità quasi ectoplasmica acquisisce un corpo. I primi avvistamenti
sono delle epifanie:
> Quando fummo a poche centinaia di metri dall’affluente, al crepuscolo,
> qualcosa di massiccio saltò giù da un albero. Nonostante la penombra la sua
> sagoma si stagliava sulla superficie ghiacciata del fiume vicino alle rupi,
> davanti alla foce dell’affluente. Avevo già visto altri gufi nell’ombra e ne
> riconobbi subito uno, ma questo era più grande. Era un gufo pescatore. Mi
> accorsi che stavo trattenendo il fiato per la sorpresa.
Si percepisce il freddo che punge la pelle e attanaglia la mente, la stanchezza
di ore di cammino durante osservazioni senza risultati e l’inquietudine
alimentata dalle poche ore di sonno. Procediamo nel racconto proprio come il
biologo è andato avanti nella sua ricerca del gufo pescatore che, dopo tanti
tentativi, finalmente appare nella sua corporeità: è lì sulle rive di un corso
d’acqua, mentre ghermisce salmoni, alto poco meno di un metro, il becco adunco,
gli occhi d’oro, le penne marroni che si confondono con i rami degli alberi in
cui trova riparo e i ciuffi auricolari dritti sul capo. Un diavolo volante nelle
foreste ripariali.
> Ogni difficoltà superata dall’autore inserisce un ulteriore tassello nel
> quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con
> l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi,
> rapporti essenziali da comprendere per una conservazione efficace.
La conquista della conoscenza è lenta e disseminata di infiniti ostacoli, ma
ogni difficoltà superata dall’autore e dal suo gruppo inserisce un ulteriore
tassello nel quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con
l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi, rapporti
essenziali da comprendere per una conservazione efficace. Questa è una lezione
già nota, almeno in parte, per averla letta nelle opere di Vladimir Arsen´ev di
cui lo stesso Slaght scrive in un articolo pubblicato su Scientific American:
“Gli scritti di Arsen’ev non sono il catalogo di trionfi di un avventuriero
narcisista che ci si potrebbe aspettare dalle memorie di una spedizione; sono
invece appassionate odi alla natura selvaggia e alle genti dell’Estremo Oriente
russo”.
Il libro segue perfettamente questa traccia, con la prosa di un diario di campo
che però, nell’ultimo capitolo, perde forza narrativa per diventare più simile a
una relazione scientifica Nelle pagine precedenti, al contrario, la narrazione è
coinvolgente e immersiva al punto che il lettore rimane spiazzato dagli effetti
del susseguirsi delle stagioni, come ad esempio il tepore della primavera che
diventa mortale quando scioglie i ghiacci che ricoprono i corsi d’acqua,
trappole per mezzi di trasporto, uomini e caprioli indifesi. Si rimane
guardinghi temendo il possibile incontro con un orso o con una tigre dell’Amur
(quella che viene spesso chiamata erroneamente tigre siberiana) e nel percorrere
questo viaggio insieme all’autore, ci si sofferma a riflettere sulla
biodiversità ornitologica e ittica di un Paese così remoto. Anche la fauna umana
è multiforme e, tra bevute di vodka, turni di osservazione e pause nelle banja ‒
le saune russe ‒ si incontrano personaggi scostanti e generosi come Viktor
Čepelev, individui dall’evidente fragilità come Anatolij, con il suo passato
oscuro e la psiche cagionevole, o Andrej Katkov, ex poliziotto, esperto
paracadutista, supporto nella cattura dei gufi e applicazione dei GPS
satellitari, con il suo bisogno spasmodico di parlare.
> I gufi dei ghiacci orientali è allo stesso tempo un reportage, un saggio sulla
> conservazione, un racconto d’avventura e un romanzo di formazione.
Tra i capitoli del volume si ritrovano riferimenti alla storia e alle abitudini
delle popolazioni native Udege, popolo indigeno del sud-est della Siberia,
informazioni che si riveleranno utili per capire, ad esempio, come catturare gli
esemplari di gufo per inanellarli e dotarli di trasmittenti. Infatti, gli Udege
erano soliti cacciare i gufi pescatori in inverno, quando la temperatura scende
sotto i trenta gradi sottozero e servono altre fonti di cibo. Il metodo
adoperato da queste genti, per fare degli uccelli un pasto, si rivela un
suggerimento per progredire nello studio:
> Sergej propose di fare come gli udege, ovvero utilizzare un ceppo. Gli
> abitanti di Agzu ci avevano spiegato che gli udege cacciavano i gufi pescatori
> tagliando un ceppo d’albero e posizionandolo nell’acqua bassa con sopra una
> tagliola. I gufi, individuando nel ceppo un attraente punto di osservazione,
> vi si posavano, con conseguenze letali. A noi, naturalmente, non interessava
> mangiare i gufi ma soltanto trovarli […].
I gufi dei ghiacci orientali è un reportage, un saggio sulla conservazione, un
racconto d’avventura e un romanzo di formazione, in cui l’entusiasmo di Slaght
giovane dottorando, a seguito delle vicende raccontate, lascia il posto alla
consapevolezza del conservatore della Wildlife Conservation Society, che
continua a vigilare sul gufo pescatore di Blakiston. Alla fine di questa
avventura, si è testimoni del contatto diretto e profondo con un animale e il
suo habitat, un incontro che può cambiare completamente l’esistenza di un uomo e
accenderne la vocazione.
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