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Il lato oscuro della conservazione
F ulmini di pelo grigio corrono nelle aree verdi del Nord Italia e non disdegnano un premio in cibo, preso direttamente da mani umane, mentre vengono immortalati per l’immancabile video o fotografia per i social media. Sono gli scoiattoli grigi (Sciurus carolinensis): a un occhio poco attento ambasciatori della natura in zone urbanizzate, nella realtà una minaccia per i nostri ecosistemi arrivata dagli Stati Uniti. Dal 1948, anno in cui alcuni esemplari giunsero in Piemonte, questa specie ha dato filo da torcere allo scoiattolo comune (Sciurus vulgaris), a cui ruba le scorte di cibo per l’inverno e che può contagiare con il poxvirus, di cui è portatore sano. La popolazione degli scoiattoli grigi nei decenni è cresciuta fino a diventare una minaccia reale per la sopravvivenza dei cugini europei. Nel 1997 l’Istituto nazionale per la fauna selvatica ‒ l’attuale ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ‒ avviò un progetto sperimentale per l’eradicazione della specie aliena invasiva, ma l’iniziativa fu ostacolata da alcuni cittadini e associazioni e venne sospesa in seguito a un’azione giudiziaria. Questa storia, che si concluse con l’assoluzione degli scienziati coinvolti nel progetto e nella prosecuzione del programma di eradicazione, è emblematica di uno degli aspetti più critici della conservazione della natura: la scelta tra la vita di una specie invece che un’altra, la salvezza di alcuni e la morte per altri. Tutto per il bene della biodiversità. Quell’attrito tra etica ambientale ed etica animale Per biodiversità si intende ogni tipo di variabilità tra gli organismi viventi; include la diversità entro specie, tra specie e tra ecosistemi, ma può essere più semplicemente descritta come la ricchezza della vita sulla Terra: le miriadi di esseri viventi che la abitano, il loro patrimonio genetico, i complessi ecosistemi che essi costituiscono. È la rete pulsante costituita dalle specie e dalle loro relazioni e interazioni, in grado di fornire cibo, acqua potabile, aria pulita e tutto ciò che definiamo servizi ecosistemici. Nel momento in cui una specie viene meno o una relazione s’incrina, il meccanismo può incepparsi e le conseguenze possono essere molto gravi e propagarsi su più livelli, da quello sanitario a quello economico, passando per la sicurezza alimentare. > Inserirsi negli ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di > evoluzione comporta dei costi, uno di questi è dover scegliere di sacrificare > una specie per risparmiarne un’altra. Proteggere la biodiversità è cruciale per la nostra sopravvivenza e per quella del pianeta per come lo conosciamo, ma i dati a nostra disposizione non dipingono un quadro roseo. Nel 2019, il rapporto dell’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) ha evidenziato che oltre un milione di piante e animali rischieranno l’estinzione nei prossimi decenni a causa dell’attività umana. La sesta estinzione di massa a cui stiamo assistendo scatena in noi indignazione, paura, l’urgenza di attivarsi per fermare una catastrofe di cui ci sentiamo (e siamo) i colpevoli. Inserirsi negli ingranaggi oliati da centinaia di migliaia di anni di evoluzione comporta, però, dei costi e uno di questi è proprio dover scegliere di sacrificare una specie per risparmiarne un’altra, di fare soffrire degli individui, degli esseri senzienti, per salvaguardare degli ecosistemi che noi stessi abbiamo messo in pericolo. È l’attrito tra etica ambientale ed etica animale di cui parla Simone Pollo, docente di filosofia morale dell’Università di Roma La Sapienza ed esperto di etica del vivente, nel suo libro Umani e animali: questioni di etica (2016). La stessa forza muscolare con cui abbiamo esercitato il nostro dominio su qualsiasi risorsa naturale, ora la impieghiamo per la tutela della fauna selvatica. La lezione di Charles Darwin che ci ricollocava al nostro posto, animali tra gli animali, non è stata assimilata e ci rapportiamo al resto della biosfera con il solito ben radicato antropocentrismo. Pollo scrive: > L’anti-antropocentrismo che emerge dalla trasformazione darwiniana implica, > piuttosto, una revisione del punto di vista dal quale le nostre risposte > morali sono espresse e un ridimensionamento delle loro stesse richieste. Nel > caso specifico qui in esame la pretesa di intervenire nelle vite degli animali > selvatici in modo così intrusivo appare come una mossa problematica, nella > misura in cui incarna una “dissonanza” con la reale collocazione degli esseri > umani sulla Terra. La comprensione di questa posizione appare più > efficacemente soddisfatta da un diverso atteggiamento nei confronti degli > animali selvatici. A questi ultimi dovremmo garantire il rispetto verso la loro libertà, l’indipendenza e la possibilità di prosperare. Le politiche di conservazione della natura, però, sono il risultato di un equilibrio tra istanze antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per i servizi che assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore assoluto, intrinseco, a ciò che ci circonda. Sono il risultato di calcoli in cui la vita di individui animali, che di quella diversità sono artefici e attori, è solo una delle infinite variabili di cui tenere conto. Specie da salvare a qualsiasi costo Il conflitto tra individui e specie emerge spesso nella salvaguardia della natura. In alcuni casi è particolarmente evidente, come nella conservazione ex situ. È una strategia adottata per tutelare specie rare e gravemente minacciate, il cui stato in natura è talmente critico da non garantirne la sopravvivenza nei loro habitat (in situ), oppure perché gli ecosistemi in cui vivono sono ormai così degradati da rendere incerto il loro futuro. Quindi, esemplari delle specie in pericolo sono tenuti e fatti riprodurre in cattività: sono una scialuppa di salvataggio, una scorta di animali da reintrodurre nel caso in cui le popolazioni in situ non riuscissero a sopravvivere. > Le politiche di conservazione della natura sono il risultato di un equilibrio > tra istanze antropocentriche, che desiderano salvaguardare la biodiversità per > i servizi che assicura, e antiantropocentriche, che riconoscono un valore > assoluto, intrinseco, a ciò che ci circonda. La reintroduzione di individui che non hanno mai vissuto nel proprio habitat richiede ingenti sforzi e risorse e il successo non è mai garantito. Improbabile, però, non significa impossibile. Un esempio è quello del condor della California (Gymnogyps californianus). Nel 1967 il condor della California fu classificato come specie in pericolo di estinzione: il calo drastico della popolazione osservato nel Ventesimo secolo era dovuto al bracconaggio, all’avvelenamento da piombo e al danneggiamento dell’habitat di questo animale. Non si esclude che anch’esso fosse una delle vittime del DDT sul suolo americano. Nel 1983, il US Fish and Wildlife Service ‒ l’agenzia governativa degli Stati Uniti che si occupa della gestione e conservazione della fauna selvatica, della pesca e degli habitat naturali ‒ avviò un programma di riproduzione in cattività, in collaborazione con lo zoo di Los Angeles e il San Diego Wild Animal Park a cui si unirono altre istituzioni. Nel frattempo, in natura, le popolazioni di condor continuarono a diminuire fino a quando, nel 1985, rimasero solo nove esemplari selvatici alla mercé delle stesse cause che, nel corso del tempo, avevano minacciato questa specie. Le autorità decisero di catturare i condor rimasti e introdurre anche loro nel programma di riproduzione in cattività. Era il 1987 e per quattro anni nessun condor della California volò nei cieli statunitensi. Era un progetto ambizioso: la riproduzione era solo una parte di un percorso che richiedeva anche una riabilitazione comportamentale degli esemplari nati in cattività. Una specie non è definita unicamente dai propri geni, ma anche da cultura e da sistemi sociali, quando presenti. Qualcuno avrebbe dovuto insegnare ai condor a evitare i pericoli, umani compresi, a cercare cibo in un ambiente per loro sconosciuto e a riacquisire tutti quei comportamenti che si imparano dalla vita in natura, seguendo l’esempio dei propri genitori e conspecifici. Gli sforzi di scienziate e scienziati non furono vani: secondo i dati della IUCN (International Union for the Conservation of Nature), la popolazione è aumentata fino ad arrivare a 223 uccelli nell’agosto 2003, di cui 138 in cattività e 85 reintrodotti in California e nel nord dell’Arizona. La riproduzione in natura è ripresa nel 2002 e ora avviene in tutte le sottopopolazioni selvatiche della California, dell’area tra Arizona e Utah e della Baja California, in Messico. Attualmente la popolazione selvatica conta 93 individui maturi ed è in aumento. Quello dei condor della California non è l’unico esempio di reintroduzione riuscita. Un altro caso è quello del gorilla di pianura occidentale (Gorilla gorilla gorilla) in Congo e Gabon, avviata nel 1996 dalla Fondazione Aspinall. > Nonostante gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità > collezionistiche per cedere il posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed > educazione, dobbiamo essere consapevoli che sacrifichiamo degli esseri > senzienti, molti dei quali non conosceranno mai la libertà. Dietro queste storie di successo, ci sono milioni di animali in cattività per cui non esiste un lieto fine, neanche in termini di generazioni future. Nonostante strutture come gli zoo abbiano abbandonato in buona parte le finalità collezionistiche e l’atmosfera da wunderkammer dei secoli passati per cedere il posto a obiettivi di conservazione, ricerca ed educazione, dobbiamo essere consapevoli che sacrifichiamo degli esseri senzienti, molti dei quali non conosceranno mai la libertà. Giocare a fare Gesù Negli ultimi anni si sono affermate strategie persino più radicali per salvare specie a rischio di estinzione. Lo scorso aprile è rimbalzata tra le testate nazionali e internazionali e sui social media la notizia della de-estinzione dell’enocione (Aenocyon dirus), specie scomparsa circa 10.000 anni fa, a opera del gruppo di ricerca dell’azienda statunitense Colossal Biosciences. La presunta “resurrezione” è stata decisamente ridimensionata nei giorni successivi e analizzata per capirne i reali risvolti conservazionistici, economici, etologici ed etici. Se la nascita di quei cuccioli di metalupo ‒ per l’esattezza lupi grigi il cui genoma è stato sottoposto a venti modifiche per fare assumere loro alcune delle caratteristiche dell’antico animale ‒ è da considerarsi tristemente poco più di una trovata pubblicitaria, la Colossal Biosciences è in realtà coinvolta nell’impresa disperata di salvare il rinoceronte bianco settentrionale (Ceratotherium simum cottoni). Questa sottospecie del rinoceronte bianco è stata vittima del bracconaggio e delle guerre civili che tormentano la Repubblica Democratica del Congo e il Sud del Sudan. Secondo le informazioni riportate dall’IUCN, non sono stati avvistati rinoceronti vivi dal 2006 e si ritiene siano probabilmente estinti nella Repubblica Democratica del Congo. L’ultima speranza di non perdere per sempre questo tassello di biodiversità è rappresentata da due femmine, Najin e Fatu, madre e figlia, trasferite nel 2009 dallo zoo di Dvůr Králové in Repubblica Ceca, in cui erano nate, alla riserva di Ol Pejeta, in Kenya. A loro si unirono Sudan, un maschio che era il padre di Najin e il nonno di Fatu, e Suni, il fratellastro di Fatu e Najin (quindi gli esemplari erano tra loro consanguinei) per incoraggiarne la riproduzione in un ambiente quanto più simile a quello d’origine di questi mammiferi. Il trasferimento non portò i risultati sperati: dal 2009 al 2013 ci furono diversi tentativi falliti di accoppiamento con Sudan, Suni e alcuni rinoceronti bianchi meridionali. Suni morì nel 2013 e Sudan nel 2018. Venuto meno il supporto degli esemplari maschi, il consorzio di cui fa parte anche Colossal Biosciences, sta procedendo con ulteriori prove mediante fecondazione in vitro ‒ usando lo sperma congelato dei due rinoceronti defunti ‒ e maternità surrogata. Sono interventi invasivi e non esenti da rischi per la salute anche negli animali non umani. Non possiamo sapere come andrà a finire, se la sofferenza causata a Najin e Fatu dagli spostamenti e dalle procedure mediche a cui sono state sottoposte servirà a non far scomparire la specie a cui appartengono. Stiamo giocando a “fare Dio”? Forse sarebbe meglio dire “giocare a fare Gesù”, con un riferimento esplicito alla resurrezione, come si racconta accadde a Lazzaro. Almeno così suggeriscono Bjørn Myskja e Mickey Gjerris, autori dello studio “Playing Jesus to Save Species: A Virtue Ethics Approach to Biotech De-Extinction Projects”, pubblicato su Journal of Agricultural and Environmental Ethics nell’aprile 2025. I due studiosi, attraverso l’esame del valore delle specie, delle responsabilità morali e del ruolo umano nelle estinzioni, si rivolgono all’etica della virtù per un nuovo approccio nei confronti della conservazione o del ripristino delle specie. L’etica della virtù si concentra sulle virtù e sul carattere morale delle persone, a differenza della deontologia, che si basa su regole e doveri, e del consequenzialismo, che valuta le azioni in base alle loro conseguenze. In particolare, riguardo al conflitto tra specie e individui, gli studiosi dichiarano nel testo: > Sebbene la de-estinzione possa ripristinare una specie, non può essere > realizzata senza il coinvolgimento di singoli animali, il cui benessere deve > essere considerato nelle decisioni etiche. A seconda delle procedure > impiegate, preoccupazioni come il benessere fisico e psicologico, la > conoscenza delle esigenze tipiche degli animali e la sensibilità alle > preferenze individuali devono guidare le nostre azioni. Virtù come la > compassione e la cura sono centrali in queste decisioni. Nel mondo in cui viviamo, l’essere umano ha creato situazioni che non possono essere risolte con soluzioni perfette e per le quali siamo costretti ad adottare scelte di compromesso. Davanti a questa prospettiva, la stima del rapporto costi/benefici, che scaturisce dal confronto tra il benessere di individui e la salvezza di una specie, dovrebbe soppesare molteplici fattori tra cui i dati scientifici, ma anche, ad esempio, le percezioni culturali. Queste dovrebbero essere le premesse per una riflessione continua e lucida sul nostro stile di vita, che ha portato a diminuire le opportunità di prosperare per gli esemplari di alcune specie. Myskja e Gjerris dichiarano nell’articolo: “In tali riflessioni, le risposte generali ci portano solo in parte verso una soluzione, che deve sempre essere particolare e contestualizzata”. Di conservazione si può anche morire Ipotesi di soluzioni particolari e contestualizzate sono quelle riportate in un’altra pubblicazione, comparsa su Science il 15 maggio scorso, intitolata “Deliberate extinction by genome modification: An ethical challenge. What circumstances might justify deliberate, full extinction of a species?” Per mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è una strategia di conservazione. Il gruppo di autrici e autori composto da scienziati appartenenti a differenti ambiti, tra cui bioeticisti, biologi della conservazione, ecologi ed esperti di scienze sociali, ha esaminato la possibilità di adoperare l’ingegneria genetica per estinguere localmente o globalmente tre particolari specie: la mosca del Nuovo Mondo (Cochliomyia hominivorax), la zanzara Anopheles gambiae, vettore della malaria, e le specie di roditori invasive come il topo domestico (Mus musculus) e i ratti (Rattus rattus e Rattus norvegicus). > Per mantenere in piedi la rete di esseri viventi e relazioni che compongono un > ecosistema, in alcuni casi è necessario eliminare delle specie: anche questa è > una strategia di conservazione. Secondo l’analisi svolta, l’estinzione completa e deliberata potrebbe essere accettabile solo in casi estremamente rari, dopo la valutazione di fattori come le sofferenze causate ad animali umani o non umani dalla specie in esame, il suo impatto ecologico, l’efficacia delle strategie genomiche rispetto ai metodi tradizionali, il rischio di conseguenze indesiderate come l’estinzione involontaria della specie, la pericolosità della specie per la salute pubblica (compresa la sicurezza alimentare), il valore intrinseco della specie e i benefici ambientali che eventualmente esercita. Emerge anche l’importanza del coinvolgimento delle comunità locali e delle parti interessate nel processo decisionale, per assicurarsi che il problema sia esaminato da diverse prospettive, con un’adeguata rappresentanza di coloro che ne sono maggiormente colpiti. Dallo studio risulterebbe che solo la mosca del Nuovo Mondo, un parassita letale per l’essere umano e gli animali selvatici e d’allevamento, sarebbe eleggibile per l’eradicazione totale, mentre per Anopheles gambiae si dovrebbero dirottare le attenzioni direttamente sul plasmodio della malaria, e per topi e ratti ‒ da sempre vettori di malattie e causa di gravi danni alle scorte alimentari, alla fauna selvatica e agli ecosistemi ‒ sarebbe preferibile l’eliminazione solo a livello locale, concentrandosi su tecniche che agiscano in un intervallo di tempo limitato o si possano applicare su specifiche sottopopolazioni. Di modifiche genetiche (e strategie di conservazione), dunque, si può anche morire. Le basi di questa discussione potrebbero essere una guida per gli interventi che riguardano altre specie, proprio come lo scoiattolo grigio in Italia. Sempre grazie ai dati raccolti dall’IPBES, sappiamo che le specie aliene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni di cui siamo venuti a conoscenza: si stima che poco più di 200 tra queste abbiano causato oltre 1.200 estinzioni locali di specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di malattie o distruzione dei loro habitat. Ne conseguono anche danni per Homo sapiens, come scrive Piero Genovesi, responsabile ISPRA della conservazione della fauna e del monitoraggio della biodiversità, e tra i massimi esperti mondiali di specie aliene, nel suo libro Specie aliene. Quali sono, perché temerle e come possiamo fermarle (2024). Genovesi spiega che il passo dalla questione ecologica a quella sociale è molto breve. Le invasioni biologiche, infatti, possono avere conseguenze gravi anche per le persone, colpendo in particolare le comunità più vulnerabili e arrivando a minacciare anche la salute. Purtroppo, questa molteplicità di effetti negativi non è un’eccezione, ma una caratteristica frequente di molte invasioni biologiche, che spesso esercitano impatti su diversi ambiti, dalle attività economiche alle infrastrutture, fino a influenzare le economie locali e nazionali. > Le specie aliene invasive hanno contribuito al 60% delle estinzioni locali di > specie autoctone per predazione, competizione per le risorse, trasmissione di > malattie o distruzione dei loro habitat. Il caso dello scoiattolo grigio ha fatto emergere in Italia il conflitto tra specie e individui. Per una parte dell’opinione pubblica è stato difficile accettare che venissero eliminati quegli animali con cui avevano un contatto diretto, un sentimento amplificato dal loro aspetto simpatico, dalla loro socievolezza e dalla mancanza di consapevolezza dei danni che stavano arrecando. Le nuove tecnologie genomiche, che riducono al minimo la sofferenza degli animali durante le operazioni di eradicazione, insieme a un dialogo aperto che consideri sia la scienza sia l’etica, potrebbero rappresentare il futuro della tutela della biodiversità. Tuttavia, decisioni di questo tipo saranno sempre accompagnate da un profondo dilemma morale. Il residuo morale Inquinamento, distruzione di habitat, sfruttamento dei suoli, emissioni di gas serra, bracconaggio, disboscamento, cementificazione, commercio illegale di animali: queste sono solo alcune delle attività su cui avremmo dovuto e dovremmo agire per evitare un’imponente perdita di biodiversità e ridurre il rischio di estinzione di molte specie. Ci sono poi strategie più invasive, che evidenziano come Homo sapiens continui a esercitare il suo impatto sul pianeta e su tutti i suoi abitanti, anche se per salvare, curare, ripristinare. Non solo il dominio, anche la custodia può trasformarsi in una forma di controllo che imponiamo agli altri esseri viventi. È vero: abbiamo a disposizione conoscenze e strumenti per farlo nel migliore modo possibile, cercando di assicurare maggiore benessere per gli esemplari oggetto dei programmi di conservazione e di eradicazione. Resta il fatto che sosteniamo di voler far prosperare le specie, ma soprassediamo sul valore degli individui. A questo proposito, la giornalista Emma Marris, nel suo libro Anime Selvagge. La rigogliosa libertà del mondo non umano (2022) ci invita a fare i conti con il residuo morale, definito come l’insieme delle esigenze morali che rimangono insoddisfatte in situazioni che presentano un dilemma, come quelle descritte. Salvare lo scoiattolo comune europeo significa condannare a morte lo scoiattolo grigio, i tentativi per evitare l’estinzione del rinoceronte bianco settentrionale comportano rischi e forme di stress negli esemplari coinvolti nel progetto di salvaguardia della specie. Le scelte che adottiamo ci costringono a pagare dei costi etici inevitabili. “Non esiste un unico lieto fine per la vita sulla Terra, così come non esiste una formula semplice per agire eticamente in un mondo umanizzato”, scrive Marris: “Dobbiamo fare il meglio che possiamo con molteplici valori incommensurabili, e poi convivere con le scelte che abbiamo fatto, le specie non salvate, il dolore che abbiamo causato”. L'articolo Il lato oscuro della conservazione proviene da Il Tascabile.
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I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan C. Slaght
U n Golem pennuto, un Muppet maligno, un arcigno bidone della spazzatura. Con questi epiteti Jonathan C. Slaght, biologo della fauna selvatica e scrittore, cerca di descrivere il gufo pescatore di Blakiston tra le pagine del libro I gufi dei ghiacci orientali (2024), pubblicato in italiano da Iperborea nella traduzione di Luca Fusari. Occorre, però, non farsi ingannare dal tono sprezzante di queste brevi descrizioni perché, già dalle prime righe, si comprende l’attrazione dell’autore per questo rapace elusivo e si percorrono i suoi passi nei gelidi e inospitali paesaggi del Territorio del Litorale, nell’Estremo Oriente russo, nel tentativo di conoscere e proteggere questo animale così raro. Il primo a descrivere il gufo pescatore, dopo un incontro in Giappone, fu il naturalista ed esploratore inglese Thomas Blakiston (1832-1891), da cui la specie (Ketupa blakistoni) prende il nome. Vladimir Arsen’ev (1872-1930), esploratore e scrittore, fu invece tra i primi russi ad addentrarsi nel paesaggio del Litorale, illustrandone flora, fauna e abitanti. Lo statunitense Jonathan C. Slaght visita quelle terre lontane poco più che adolescente e vi fa ritorno prima come studente universitario e, in seguito, nei Peace Corps: tre anni in cui si avvicina agli ornitologi russi e al loro lavoro. > «Del gufo pescatore avevo sentito parlare pressoché subito dopo aver scoperto > il Litorale. Per me era come un pensiero bellissimo che non riuscivo ad > articolare. Scatenava lo stesso desiderio ammaliante di un luogo che hai > sempre voluto esplorare, ma di cui a conti fatti non sai molto». Durante un’escursione, circa un secolo dopo le esplorazioni di Blakiston e Arsen’ev, l’autore riesce a fotografare un esemplare del rapace, per la prima volta così a sud. Le foto finiscono nelle mani del biologo Sergej Surmač, ornitologo di Vladivostok e unica persona in tutta la regione a occuparsi del gufo pescatore. Da quell’incontro alla progettazione di un dottorato di ricerca sul gufo il passo è breve. L’obiettivo è realizzare un piano di conservazione per questa specie in un’area naturale quasi incontaminata, quella della Russia dell’estremo orientale dei primi anni 2000, minacciata da attività come il disboscamento, la costruzione di strade e il bracconaggio. > Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della sua squadra > dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma: quella del gufo pescatore > è una presenza che, da principio, possiamo avvertire solo attraverso segni e > indizi. La pianificazione di Slaght, messa a punto proprio con l’aiuto di Surmač, mentore e collega che lo accompagnerà lungo diverse tappe della ricerca, è serrata e piuttosto ambiziosa considerando l’oggetto di studio, ossia un predatore estremamente sfuggente con ben due metri di apertura alare. Il programma è complesso: prima è necessario identificare la popolazione di gufi pescatori, quindi bisogna ricostruire areali e comportamenti attraverso la raccolta ed elaborazione di dati ottenuti dall’osservazione e da radiotrasmittenti e GPS applicati sul dorso di alcuni esemplari che, ovviamente, dovranno essere temporaneamente catturati senza esporli al minimo rischio. «Dopo soli tre mesi il mio progetto quinquennale mi sembrava già un viaggio affascinante, che lambiva i confini della civiltà umana alla scoperta di un gufo difficile da decifrare». Seguire tra le pagine i primi passi di Jonathan C. Slaght e della squadra che supporta il suo lavoro dà l’impressione di essere a caccia di un fantasma: quella del gufo pescatore è una presenza che, da principio, si può avvertire solo attraverso segni e indizi, come la caratteristica forma a K delle impronte delle zampe sulla neve, la presenza di nidi, borre ‒  il rigurgito di cibo non digerito dall’animale ‒ e ascoltando in silenzio il duetto canoro delle coppie di uccelli in lontananza. Con il trascorrere delle settimane, dei mesi e degli anni, questa entità quasi ectoplasmica acquisisce un corpo. I primi avvistamenti sono delle epifanie: > Quando fummo a poche centinaia di metri dall’affluente, al crepuscolo, > qualcosa di massiccio saltò giù da un albero. Nonostante la penombra la sua > sagoma si stagliava sulla superficie ghiacciata del fiume vicino alle rupi, > davanti alla foce dell’affluente. Avevo già visto altri gufi nell’ombra e ne > riconobbi subito uno, ma questo era più grande. Era un gufo pescatore. Mi > accorsi che stavo trattenendo il fiato per la sorpresa. Si percepisce il freddo che punge la pelle e attanaglia la mente, la stanchezza di ore di cammino durante osservazioni senza risultati e l’inquietudine alimentata dalle poche ore di sonno. Procediamo nel racconto proprio come il biologo è andato avanti nella sua ricerca del gufo pescatore che, dopo tanti tentativi, finalmente appare nella sua corporeità: è lì sulle rive di un corso d’acqua, mentre ghermisce salmoni, alto poco meno di un metro, il becco adunco, gli occhi d’oro, le penne marroni che si confondono con i rami degli alberi in cui trova riparo e i ciuffi auricolari dritti sul capo. Un diavolo volante nelle foreste ripariali. > Ogni difficoltà superata dall’autore inserisce un ulteriore tassello nel > quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con > l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi, > rapporti essenziali da comprendere per una conservazione efficace. La conquista della conoscenza è lenta e disseminata di infiniti ostacoli, ma ogni difficoltà superata dall’autore e dal suo gruppo inserisce un ulteriore tassello nel quadro generale dell’ecosistema del gufo, ne mappa le relazioni con l’ambiente, gli altri animali e gli umani con cui condivide gli spazi, rapporti essenziali da comprendere per una conservazione efficace. Questa è una lezione già nota, almeno in parte, per averla letta nelle opere di Vladimir Arsen´ev di cui lo stesso Slaght scrive in un articolo pubblicato su Scientific American: “Gli scritti di Arsen’ev non sono il catalogo di trionfi di un avventuriero narcisista che ci si potrebbe aspettare dalle memorie di una spedizione; sono invece appassionate odi alla natura selvaggia e alle genti dell’Estremo Oriente russo”. Il libro segue perfettamente questa traccia, con la prosa di un diario di campo che però, nell’ultimo capitolo, perde forza narrativa per diventare più simile a una relazione scientifica Nelle pagine precedenti, al contrario, la narrazione è coinvolgente e immersiva al punto che il lettore rimane spiazzato dagli effetti del susseguirsi delle stagioni, come ad esempio il tepore della primavera che diventa mortale quando scioglie i ghiacci che ricoprono i corsi d’acqua, trappole per mezzi di trasporto, uomini e caprioli indifesi. Si rimane guardinghi temendo il possibile incontro con un orso o con una tigre dell’Amur (quella che viene spesso chiamata erroneamente tigre siberiana) e nel percorrere questo viaggio insieme all’autore, ci si sofferma a riflettere sulla biodiversità ornitologica e ittica di un Paese così remoto. Anche la fauna umana è multiforme e, tra bevute di vodka, turni di osservazione e pause nelle banja ‒ le saune russe ‒ si incontrano personaggi scostanti e generosi come Viktor Čepelev,  individui dall’evidente fragilità come Anatolij, con il suo passato oscuro e la psiche cagionevole, o Andrej Katkov, ex poliziotto, esperto paracadutista, supporto nella cattura dei gufi e applicazione dei GPS satellitari, con il suo bisogno spasmodico di parlare. > I gufi dei ghiacci orientali è allo stesso tempo un reportage, un saggio sulla > conservazione, un racconto d’avventura e un romanzo di formazione. Tra i capitoli del volume si ritrovano riferimenti alla storia e alle abitudini delle popolazioni native Udege, popolo indigeno del sud-est della Siberia, informazioni che si riveleranno utili per capire, ad esempio, come catturare gli esemplari di gufo per inanellarli e dotarli di trasmittenti. Infatti, gli Udege erano soliti cacciare i gufi pescatori in inverno, quando la temperatura scende sotto i trenta gradi sottozero e servono altre fonti di cibo. Il metodo adoperato da queste genti, per fare degli uccelli un pasto, si rivela un suggerimento per progredire nello studio: > Sergej propose di fare come gli udege, ovvero utilizzare un ceppo. Gli > abitanti di Agzu ci avevano spiegato che gli udege cacciavano i gufi pescatori > tagliando un ceppo d’albero e posizionandolo nell’acqua bassa con sopra una > tagliola. I gufi, individuando nel ceppo un attraente punto di osservazione, > vi si posavano, con conseguenze letali. A noi, naturalmente, non interessava > mangiare i gufi ma soltanto trovarli […]. I gufi dei ghiacci orientali è un reportage, un saggio sulla conservazione, un racconto d’avventura e un romanzo di formazione, in cui l’entusiasmo di Slaght giovane dottorando, a seguito delle vicende raccontate, lascia il posto alla consapevolezza del conservatore della Wildlife Conservation Society, che continua a vigilare sul gufo pescatore di Blakiston. Alla fine di questa avventura, si è testimoni del contatto diretto e profondo con un animale e il suo habitat, un incontro che può cambiare completamente l’esistenza di un uomo e accenderne la vocazione. L'articolo I gufi dei ghiacci orientali di Jonathan C. Slaght proviene da Il Tascabile.
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